Lega e legittima difesa, tanti tweet per nulla: solo 2 processi all’anno di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2018 Ora la battaglia si sposterà dai social al Senato, dove - a partire dal 23 ottobre - il testo coordinato delle proposte di legge sulla legittima difesa su cui la Lega fa pressing sbarcherà in aula. Prima, entro mercoledì, dovranno essere presentati gli emendamenti in commissione Giustizia: le opposizioni hanno chiesto più tempo e un dibattito approfondito su un tema tanto divisivo da spingere l’Associazione nazionale magistrati a paventare il rischio di una deriva da Far West. Mentre il clamore mediatico dell’aggressione in stile Arancia meccanica della coppia torturata per ore nella loro villa a Lanciano ha convinto Matteo Salvini e i suoi ad accelerare per incassare il provvedimento entro la fine dell’anno. Problema: montagne di carte e di tweet si esercitano attorno al nulla, visto che - dicono i dati del ministero - i casi che arrivano in Tribunale sono un paio l’anno, a volte nessuno. Andiamo con ordine. Il testo perorato dal Carroccio prevede che sussista “sempre” la proporzionalità della difesa quando si agisce per respingere l’intrusione con violenza, minaccia di uso di armi e di altri mezzi di coazione fisica; in più esclude la punibilità per eccesso di legittima difesa per chi ha agito in stato di grave turbamento. “Per fare una legge efficace e che non cada sotto la mannaia della Corte costituzionale quantomeno sarebbe necessario avere un quadro completo della situazione. E non è questo il caso alla luce dei dati che sono insufficienti e incompleti per ammissione dello stesso ministero della Giustizia”, spiega il capogruppo del Pd in commissione, Giuseppe Cucca. C’è da dargli ragione a leggere la Nota breve del Servizio studi di Palazzo Madama che rielabora i dati relativi all’applicazione della legittima difesa trasmessi dal ministero. Nel dossier si evidenzia innanzitutto che via Arenula “ha precisato di non disporre dei dati relativi ai procedimenti penali suddivisi per qualificazione giuridica del fatto registrati presso le Procure”. Quanto ai procedimenti presso i tribunali (sia sezioni dibattimentali che uffici del Gip/Gup) i dati invece esistono e i casi sono una manciata: quanto alla fase dibattimentale nel 2013 i procedimenti iscritti per “difesa legittima” (articolo 52 codice penale) sono stati cinque, nessuno nel 2014, tre nel 2015, due nel 2016. Quanto ai procedimenti per “eccesso colposo” in legittima difesa (articolo 55 c.p.) i casi sono ancora meno: due nel 2013, nessuno l’anno successivo, uno nel 2015, due nel 2016. Reddito di cittadinanza. Carcere per i furbetti: minaccia o modo di dire? di Roberto Chiodi ius101.it, 7 ottobre 2018 Ma davvero, come ha pomposamente minacciato Di Maio, “chi imbroglierà sul reddito di cittadinanza si farà sei anni di carcere”? È un modo di dire o una reale eventualità? Facciamo qualche ipotesi. Si è calcolato che i possibili pretendenti al reddito di cittadinanza saranno almeno 6.500.000 (l’Istat ne ha calcolati sei milioni e passa). Quanti di questi italiani faranno i furbetti? O prima, nel denunciare la propria situazione; o dopo, prendendo i soldi e magari avendo un’altra attività nascosta? Siamo il paese della scorciatoia, del sottobanco, del lavoro nero comodo e non denunciato. Anche volendo valutare al meglio la futura onesta di questo esercito di concittadini, stimare i contravventori all’uno per cento mi sembra un’ipotesi minima e concreta. Eccoci allora con 60.000 futuri carcerati, giusto Di Maio? Metterli in galera (si presume dopo regolari istruttorie e processi penali) significa in pratica raddoppiare il numero degli attuali detenuti! Allora: costruiamo altrettanti penitenziari di quanti ce ne sono finora? O marcia indietro e niente carcere per chi ha barato sul reddito di cittadinanza? Oppure dentro tutti questi cialtroni e fuori gli attuali detenuti? Di Maio qualche conto dovrebbe averlo fatto. E la cosa migliore sarebbe forse spiegare che la sua frase minacciosa era un modo dire, nel senso che chi sgarra ne subirà le conseguenze. Parlare di carcere era probabilmente una battuta di spirito. Anche perché ci si dimentica che controllare sei milioni di posizioni iniziali e di comportamenti futuri (frequenze ai corsi, lavoro sociale gratuito, verifica delle “spese morali”) di chi va punito, comporterà l’impiego di migliaia e migliaia di addetti, nuovi uffici, nuove regole (si pensi al problema della privacy…). Senza contare la quantità di istruttorie penali, di processi, di ricorsi. Un intasare gli uffici finanziari, contabili, giudiziari che ha dello spaventoso. Sarebbe bastato dire che chi sgarra perde per sempre il contributo di solidarietà. Evocare il carcere significa non avere assolutamente idea della situazione italiana in settori - tributario, finanziario, giudiziario e penitenziario - che sono stati giudicati più volte vicini al collasso. Polizia, nuovo rinvio delle assunzioni. Il piano segreto: tagli e trasferimenti di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 7 ottobre 2018 Le nuove assunzioni nelle forze dell’ordine, più volte annunciate dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, non arriveranno prima di due anni. E comunque soltanto se si troveranno nuove risorse. Intanto si taglia. C’è un piano del Viminale, ancora riservato, che prevede la redistribuzione degli uffici - con priorità per questure e commissariati - in tutta Italia. E mostra quante e quali riduzioni dovranno essere compiute per fare fronte alle carenze di organico. La legge Madia prevede infatti la presenza in servizio di 106 mila poliziotti, però attualmente ce ne sono appena 97 mila e senza gli “innesti” è impossibile rispettare gli impegni. Compresi quelli sugli aumenti salariali che invece non sono stati previsti nel Def, dove si parla genericamente dello stanziamento da un miliardo per i nuovi ingressi, ma senza indicare dettagli sul reperimento dei fondi. Via dal decreto i nuovi posti - Il primo annuncio è degli inizi di agosto. Il governo si impegna ad assumere ottomila persone: 1.953 poliziotti, 2.155 carabinieri, 1.125 finanzieri, 861 guardie penitenziarie, 1.300 vigili del Fuoco. Ma il ministro dell’Economia Giovanni Tria non controfirma il provvedimento per mancanza di fondi. Il 13 settembre, durante una visita a Bari, Salvini dichiara che “nel decreto sicurezza ci sara un notevole incremento della spesa e degli uomini che combattono la mafia e che gestiscono i beni confiscati alle cosche mafiose in tutta Italia”. Poi va oltre assicurando che nello stesso testo saranno comprese “le assunzioni straordinarie di 2.500 poliziotti e 1.500 vigili del fuoco perché i soldi li stiamo trovando e il bello è che li recupereremo risparmiando più di un miliardo dall’immigrazione e dall’accoglienza a sbafo”. Nel “pacchetto” controfirmato giovedì scorso dal Quirinale e pronto per l’esame del Parlamento, quella “voce” però non esiste. E dunque si procede con un nuovo annuncio durante la conferenza stampa per la presentazione del Def, quando Salvini rilancia “un piano di assunzione straordinario di diecimila donne e uomini delle forze dell’ordine”. La realtà appare però ben diversa. A Genova e Latina tagli pesanti - Proprio in queste ore i vertici del dipartimento stanno mettendo a punto la riorganizzazione delle sedi con la supervisione del sottosegretario leghista Nicola Molteni. Ma scorrendo i numeri appare evidente che i conti non quadrano. Roma, Milano e Napoli rimangono le citta “guida” con un incremento complessivo del personale pari a 1.771. Sono 809 i nuovi agenti previsti per la capitale, 456 quelli che dovranno arrivare nel capoluogo lombardo, 506 in quello della Campania. Tutto questo provocherà riduzioni pesanti altrove. Durante la campagna elettorale leghisti e i candidati della Lista “Noi con Salvini” avevano definito “irresponsabile la chiusura decisa dal governo dei posti di polizia”. Eppure a leggere le nuove tabelle sembra che sia proprio questo il destino di molte sedi, o comunque un ridimensionamento davvero forte. A Genova è stata prevista una riduzione di ben 428 persone, a Reggio Calabria si arriva a meno 224, a Latina si scende di 190, a Nuoro di 175. Tra le citta che guadagnano ci sono invece Crotone (con più 152), Catania (più 146) e Brescia (più 131). I vuoti di Stradale e Ferroviaria - Secondo i sindacati, per Stradale, Postale e Ferroviaria servirebbero almeno 500 persone. E invece ci sono sedi come quella della Stradale di Domodossola dove con 8 persone si “copre” l’area che arriva sino al valico del Sempione o alla Ferroviaria di Massa Carrara dove sono rimasti in 3. La reazione di Daniele Tissone, segretario della Silp Cgil è durissima: “Nel testo del Def trasmesso dal governo alle Camere non v’è traccia di risorse utili ad affrontare la ormai prossima scadenza contrattuale per gli oltre 470.000 operatori del Comparto sicurezza e difesa. Destinare le risorse necessarie per le migliaia di donne e di uomini in divisa dovrebbe costituire una priorità per questo governo e invece restano i tanti proclami nonché le molte pacche sulla spalle che possono anche far piacere ma sono ben altra cosa rispetto alle necessita che ha chi veste una divisa”. Molise: reinserimento detenuti, il Papa alla presentazione del progetto “Liberi nell’arte” primonumero.it, 7 ottobre 2018 Grande attesa ed emozione per la presentazione del progetto “Liberi nell’arte” che si terra oggi in Vaticano, a Roma, alla presenza di papa Francesco. L’iniziativa, volta a favorire il reinserimento dei detenuti, è stata organizzata dall’Unione Cattolica Stampa Italiana (Ucsi) del Molise presieduta da Rita D’Addona in collaborazione con Vatican News, Sky, ministero della Giustizia e Ispettorato generali dei Cappellani. Durante la cerimonia di apertura del Sinodo dei Giovani, nell’aula Paolo VI, si parlerà dell’iniziativa che si svilupperà, dal 18 al 25 ottobre, in quattro istituti penitenziari: quello minorile di Casal del Marmo (Roma), le case circondariali di Rebibbia e Regina Coeli e la casa di reclusione di Paliano nel frusinate. Hanno aderito al progetto anche lo studio dell’avvocato molisano Salvatore Di Pardo che - con la rivista Monitor - ha seguito dal punto di vista giuridico - e anche finanziato - l’istituzione di due borse di studio per giovani detenuti minorenni. Una terza borsa lavoro è stata messa a disposizione dal pastificio La Molisana. Napoli: “i baby detenuti sono figli di opportunità non date” stylo24.it, 7 ottobre 2018 Patrizia Esposito, Presidente del Tribunale per i minori di Napoli, ha parlato delle azioni del nuovo governo contro la criminalità minorile: Salvini ha condiviso le scelte coraggiose che abbiamo fatto. Dalle storie dei detenuti e dei ragazzi processati nei tribunale minorile di Napoli “emerge che spesso sono figli di opportunità che non sono state date loro e che bisogna dare, anche quando finiscono negli istituti penali minorili. Dobbiamo stimolare le loro risorse, le loro capacita di apprendimento, di emancipazione, per assicurare che questi siano momenti dolorosi ma anche di rinascita sociale e umana di questi ragazzi”. Lo ha detto il presidente del Tribunale per i Minorenni di Napoli Patrizia Esposito a margine del convegno “Strade sbagliate, vie alternative”, svolto al carcere minorile di Nisida in occasione del Concorso letterario per i detenuti “Carlo Castelli”. “Parlo di opportunità - ha detto Esposito - anche culturali e quelle nel quartiere sono fondamentali e devono intercettare un momento precedente al nostro intervento che è un momento già altamente patologico. Per questo ci aspettiamo che ci siano delle dinamiche di politica sociale che possano incentivare attività laboratoriali, risorse di tempo libero, attivita di carattere sportivo che possano intercettare i bisogni di questi ragazzi”. Il magistrato napoletano ha spiegato che “sono fiduciosa nelle azioni del nuovo governo - ha detto - e il ministro Bonafede si è già espresso in questo senso. Le politiche sociali possono avere un impulso importante da parte delle nuove forze governative, questo ce lo auguriamo perché la magistratura minorile fa il possibile ma intercetta un momento patologico, appunto. È importante che sul territorio vengano attivate le risorse. Salvini? So che ha condiviso delle scelte coraggiose che sono state fatte dal tribunale per i minorenni e mi ha fatto piacere”. “La mancanza di ascolto in età adolescenziale è uno de temi ricorrenti nei racconti dei detenuti delle carceri italiane a cui abbiamo chiesto una riflessione sulle cause che li hanno portato in carcere, in modo che la progettazione di redenzione sia più mirata”. Così Antonio Gianfico, presidente nazionale della società di San Vincenzo Dè Paoli che a Napoli, nel carcere minorile di Nisida, ha tenuto la cerimonia di premiazione dell’XI edizione del Premio Castelli. “Una mancanza di ascolto - ha spiegato Gianfico - che questi ragazzi hanno avuto in adolescenza e che li ha portati sulla strada della delinquenza, una mancanza avuta prima di tutto in famiglia, che oggi ha perso il suo modello di riferimento. C’è poi anche un ruolo dei media e della scuole da cui può arrivare un contributo per indirizzare percorsi di ascolto degli adolescenti. Emerge anche carenza di luoghi di incontro sani che possano avviare vero la legalità”. Le storie del Premio Castelli sono diventate un libro, “Alla ricerca della strada perduta” scritto da centinaia di reclusi che ogni anno partecipano con le proprie opere al concorso letterario, promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli con la collaborazione del Ministero della Giustizia ed il patrocinio di Camera e Senato. Il tema dell’undicesima edizione è stato “Un’altra strada era possibile: che cosa cambierei nella società e nella mia vita”. Sono oltre 230 gli elaborati pervenuti alla giuria. Il vincitore del premio è il racconto “La mia via”, davanti a “C’è sempre un’altra scelta” e al terzo classificato il racconto “Un fiore tra le pietre”. Termoli: lezioni per diventare volontari in carcere. “Una realtà da conoscere e capire” di Elena Berchicci primonumero.it, 7 ottobre 2018 Aiutare gli altri si può, anche in uno spazio che per alcuni sembra inaccessibile come il carcere. Serve una preparazione, utile a comprendere come poter intervenire e soprattutto come poter utilizzare al meglio le proprie capacita. L’importante è l’impegno, la forza di volontà, ma soprattutto il desiderio di mettersi a disposizione dell’altro. Per questo per il secondo anno ecco il corso di volontariato per detenuti grazie all’impegno di don Benito Giorgetta in collaborazione con l’associazione Iktus-Onlus, la Diocesi di Termoli-Larino, la pastorale carceraria e la direzione del carcere di Larino. Saranno nove incontri ai quali tutti coloro che vorranno iscriversi potranno partecipare. “Non ci sono limiti - ha spiegato nella mattina di sabato 6 ottobre don Benito Giorgetta, presidente di Iktus-Onlus affiancato dalla direttrice del carcere di Larino Rosa La Ginestra, chiunque sente di voler impegnare il suo tempo in questa attività può farlo. Nella prima edizione furono una settantina i partecipanti, al momento una ventina di professionisti mi hanno confermato la loro volontà a partecipare perché motivati a dare aiuto in forma di volontariato. Come dico sempre, fare bene benefica chi lo riceve e bonifica chi lo mette in pratica”. “Il carcere è spesso dimenticato - ha aggiunto il parroco della chiesa di San Timoteo a Termoli -, ma al suo interno vivono e abitano persone con cui si può dialogare avvicinandosi a loro, hanno un valore e l’hanno smarrito. Questo corso permette anche l’ingresso in carcere per capire e vedere, grazie alla direttrice che crede in questo progetto. Ci saranno figure diverse a relazionare, come il capo della polizia penitenziaria, o figure socio pedagogiche ed educatrici che faranno in modo che questo corso non sia solo teoria”. Questo il programma dei nove incontri che si svolgeranno nella parrocchia di San Timoteo a Termoli sempre alle 19 e vedranno la partecipazione di tanti professionisti di diversi settori che hanno messo a disposizione il loro tempo. Martedì 16 ottobre si svolgerà l’introduzione al corso a cura di Benito Giorgetta, presidente Iktus, a seguire poi “Educare in carcere è possibile, come concorrere a questa finalità”, a cura del funzionario delle professionalità giuridico-pedagogiche del carcere di Larino, la dottoressa Brigida Finelli. Secondo incontro poi martedì 23 ottobre con le lezioni dal titolo “Adempimenti. Comportamenti, regole e stile di vita” a cura del commissario coordinatore del carcere di Larino, Francesco Maiorano. Martedì 30 ottobre si parlerà di “Valore e necessita del volontariato. Finalita” a cura del direttore del carcere di Larino, la dottoressa Rosa La Ginestra. Martedì 6 novembre si continuerà con il quarto incontro per parlare di “La vita religiosa nel carcere esigenze e possibilità” a cura del Cappellano del carcere di Larino, don Marco Colonna, mentre martedì 13 novembre il quinto incontro sarà dedicato a “Il buon Samaritano (Lc 10,29-37)”, “Volontariato come amore per il prossimo. Motivi ed orientamenti” con il vescovo della Diocesi di Termoli - Larino, Monsignor Gianfranco De Luca. Martedì 20 novembre nel sesto incontro si parlerà di “Approccio con il detenuto: aspetti psicologici e comportamentali” a cura della psicologa volontaria del carcere di Larino (relazioni d’aiuto), la dottoressa Elvira Pellegrino. Martedì 27 novembre il settimo incontro sarà dedicato a “Esperienza: da detenuto a responsabile di comunità” a cura di Franco Di Nucci della “Comunità Papa Giovanni XXIII” di don Oreste Benzi. Gli appuntamenti di dicembre si apriranno martedì 4 con l’ottavo incontro dal titolo “Racconto esperienza di volontariato detenuto”, a cura di Francesco Frasca, detenuto nel carcere di Larino. Martedì 11 dicembre poi nono incontro con la proiezione di un film con attori detenuti ed ex detenuti a cui seguirà un dibattito a cura della dottoressa Marisa Lombardi, psicologa della casa famiglia “Iktus Lucia e Bernardo Bertolino”. Dopo le nove lezioni, il corso proseguirà martedì 18 dicembre con la visita guidata nel carcere di Larino con tutti i partecipanti alle 10, domenica 23 dicembre alle 9,30 si svolgerà la celebrazione della messa nel carcere di Larino con la partecipazione dei detenuti, mentre per l’ultimo incontro - quello di domenica 30 dicembre - nella parrocchia di San Timoteo ci sarà la messa domenicale e la consegna degli attestati di “Volontario del Carcere” e alle 13 il pranzo nella Casa Famiglia “Iktus Lucia e Bernardo Bertolino”. “La forza di volontà è da sempre riconosciuta nei decreti e il corso di volontariato è una attività di grande valenza anche per i detenuti. L’attività con la casa famiglia Iktus ormai è ben rodata con grandi disponibilità. Alla fine del corso individueremo le varie attitudini dei partecipanti e in base a quelle le spenderemo nei vari settori all’interno del carcere”, ha concluso la dottoressa La Ginestra. Milano: il pittore Casentini porta i suoi colori all’interno di San Vittore cittadellaspezia.com, 7 ottobre 2018 Il pittore nato alla Spezia ha realizzato un’opera permanente nel corridoio del primo raggio del carcere milanese: “Fare una cosa simile alla Spezia? Ne sarei contento”. Il suo stile, fatto di accostamenti di cromatici mozzafiato, non poteva trovare tela migliore. Il pittore spezzino Marco Casentini ha portato una “botta” di colore all’interno del grigiore del primo raggio del carcere milanese di San Vittore, con un’opera permanente realizzata insieme ai detenuti. L’artista che ha esposto al Museum of Art and History a Lancaster in California, all’Università Bocconi di Milano, alla Reggia di Caserta e che ha recentemente abbellito anche l’ingresso del Park Centrostazione della Spezia, ha accolto di buon grado la proposta di Sikkens, marchio leader nella produzione di vernici e sponsor dell’iniziativa. Il progetto per San Vittore ha avuto per obiettivo la riqualificazione del corridoio del primo raggio, passaggio obbligatorio verso l’area detentiva, un ambiente grigio e anonimo che ora grazie all’opera di Casentini è diventato un’area di passaggio colorata e più a misura d’uomo per tutte le persone che vivono e lavorano nella casa circondariale: prigionieri, poliziotti, avvocati, giudici, psicologi e ospiti vari. L’esecuzione del lavoro ha coinvolto anche alcuni detenuti che hanno potuto così migliorare l’ambiente in cui vivono e cimentarsi in una vera e propria attività creativa. Casentini, che ha anche esposto alcuni quadri in una parte del corridoio, ha tracciato le linee, imprimendo così il suo marchio all’opera, mentre i detenuti hanno steso il colore, potendo anche dare libero sfogo alla loro creatività in una parte del corridoio, dove con turchese e panna hanno realizzato un’opera al cento per cento loro. “La pena detentiva - ha dichiarato Casentini - viene associata anche con la privazione del colore, io con quest’opera ho voluto ridare a chi frequenta questo luogo di sofferenza, un momento di ritorno alla realtà, un angolo del carcere dove il colore prevale su tutto. E ho gia ricevuto i ringraziamenti da parte di numerose persone che vivono questo luogo, che in quel tratto del primo raggio oggi non si sentono più all’interno di un carcere”. Un’esperienza unica per l’artista spezzino, che a CDS confida: “Se me lo chiedessero sarei contento di realizzare qualcosa di simile anche a Villa Andreini”. Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale ha spiegato perché iniziative come queste possono aiutare i detenuti a pensare al carcere in modo diverso: “C’è l’incontro con la citta e con la comunità esterna con cui si possono fare delle cose insieme per migliorare e per lavorare insieme sul carcere. C’è l’attività che ha coinvolto i detenuti e che in qualche modo li ha resi protagonisti di qualcosa che rimane. C’è il colore che è un modo diverso per intendere il carcere. Entrando qui dentro ho pensato che fosse una trasgressione perché siamo completamente fuori da quelli che sono i parametri e gli stereotipi del carcere. Penso che questo sia estremamente importante perché può aiutare i processi di cambiamento. Vedere qualcosa di diverso aiuta a pensare e a vedere le cose in modo diverso”. “Il ruolo dell’azienda in questo progetto è stato non solo fornire le pitture e i colori per realizzare il progetto nel primo raggio ma è stato anche quello di fare formazione per i detenuti che si sono affiancati alla nostra assistenza tecnica per la pitturazione dei muri”, ha dichiarato Roberto Meregalli, direttore marketing di Akzo Nobel Coatings, proprietaria del marchio Sikkens. “Confronti”. Il carcere al centro del numero monografico nev.it, 7 ottobre 2018 Il mensile di religioni - politica - società dedica il numero monografico annuale al tema della cura spirituale nelle carceri. “Uscire fuori - Carceri e fedi”: questo è il titolo dello speciale della rivista Confronti. La riflessione sul tema del pluralismo religioso e la cura spirituale in carcere, alla quale hanno contribuito differenti voci, segue il progetto “Carceri e fedi: un dialogo interreligioso è possibile”, finanziato dai fondi Otto per mille dell’Unione delle chiese evangeliche battiste d’Italia (Ucebi), e portato avanti da Confronti con l’Ucebi, l’Associazione Spondé, la Chiesa battista di Civitavecchia e l’Associazione Antigone. Giovanni Arcidiacono, presidente dell’Ucebi, nell’editoriale scrive che “le carceri, come gli ospedali e tutti i luoghi di ‘cura, devono tenere conto del pluralismo religioso, della liberta di coscienza, della liberta di credere e non credere”. Claudio Paravati, direttore di Confronti, pone l’attenzione sulla varietà di voci delle tradizioni religiose che hanno partecipato al volume con l’intenzione di “consegnare un piccolo scrigno plurale di riflessioni, analisi, proposte e testimonianze”. Il numero monografico si presenta diviso in quattro sezioni: I codici religiosi; Le tradizioni religiose; Il carcere; Le buone pratiche e affronta temi quali il perdono nella tradizione ebraica, il peccato originale, la colpa, la pena, il perdono, il castigo nella Bibbia, i numeri del carcere all’epoca della post-verità, i cristiani di fronte alla pena di morte. Hanno scritto per Confronti: Ariel Di Porto, Eric Noffke, Shahrzad Houshmand Zadeh, Sundari Devi, Vittorio Trani, Ottavio Di Grazia, Paolo Gonzaga, Renato Fileno, Luigi Sandri, Maria Grazia Sacchi, Brunetto Salvarani, Ilaria Valenzi, Alessio Scandurra, Claudio Paterniti Martello, Maria Pia Giuffrida, Salvatore Piromalli, Luca Zevi, Mauro Palma, l’Associazione Acat Italia, Fulvio Ferrario, Goffredo Fofi, Brunetto Salvarani, Odoardo Semellini, Stefania Polo, Marisa Iannucci, Tiziana Bartolini, Daniela Milani, Francesca de Carolis. Migranti, la beffa dei rientri. Salvini sfida il Colle su Riace di Valentina Errante Il Messaggero, 7 ottobre 2018 Da Francia e Germania dovranno tornare in Italia oltre 60mila profughi. Sessantamila in tutto. Sono i cosiddetti “Dublinati”: i migranti sbarcati in Italia che sono riusciti a superare i confini, hanno raggiunto la Francia e la Germania, ma anche altri stati dell’Unione, e nel nostro Paese devono tornare. Nell’era Salvini, al di la delle minacce del ministro dell’Interno all’Europa, le cose non sono cambiate. Con una differenza: mentre prima i profughi arrivavano alla spicciolata, adesso ce li rimandano indietro con voli charter. Quaranta al mese da Berlino e venti ogni trenta giorni da Parigi. È un’applicazione del Trattato di Dublino e proprio sulla questione dei cosiddetti movimenti secondari si era discusso a lungo nel vertice di Vienna dello scorso settembre, quando Matteo Salvini aveva preteso un accordo, mai firmato, con l’omologo tedesco Horst Seehofer, che prevedesse il saldo zero, tra il numero di migranti “restituiti” e quello dei profughi presi in carico dalla Germania dopo gli sbarchi, ma intanto la riammissione non può essere fermata. Sempre sul tema migranti Salvini, stizzito per la manifestazione di piazza in favore di Mimmo Lucano, il sindaco di Riace arrestato alcuni giorni fa, torna a fare polemiche e tira in ballo il presidente della Repubblica e l’Anm: “Qualche migliaio di persone di sinistra (tra cui Laura Boldrini) ha manifestato solidarieta al sindaco di Riace, finito ai domiciliari con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Quando scoppiò il caso Diciotti, l’Anm difese il pm tuonando “basta interferenze”, mentre Mattarella ricordò che “nessuno è al di sopra della legge”. Ora diranno le stesse cose?”. Sono almeno 40mila i profughi arrivati in Italia che, dal 2015, hanno superato il confine del Brennero e sono finiti in Germania. In base al Trattato di Dublino, che prevede la presa in carico dei richiedenti asilo nel paese di primo approdo, devono essere restituiti all’Italia. Una procedura complessa perché le domande nominative devono essere controllate e accettate dal Dipartimento immigrazione e Liberta civili del Viminale. Alcuni hanno non sono mai stati registrati all’arrivo, ma le autorita tedesche sono riuscite a dimostrare che effettivamente lo sbarco era avvenuto sulle nostre coste e che successivamente i profughi erano riusciti a superare il confine, altri, invece, sono anche stati identificati negli hotspot e poi si sono allontanati facendo perdere le loro tracce. Il primo charter diretto a Roma è previsto per il prossimo 11 ottobre. I numeri francesi sono più bassi, ma la situazione è identica. E anche Parigi, che conta gia una cifra considerevole di “dublinati” da restituirci, adesso, utilizza i charter. La quota francese è più bassa: 20mila persone in tutto. Un aereo è gia atterrato nei giorni scorsi. Gli altri cinquemila si trovano in altri stati dell’Unione, come l’Olanda e l’Austria, che hanno più volte sollevato il problema. La questione dell’attraversamento dei confini da parte dei migranti ha sempre suscitato forti polemiche, tanto da portare, periodicamente Germania e Francia a blindare le frontiere. L’ostilità vero il migrante e il decreto al limite di Ennio Fortuna Il Gazzettino, 7 ottobre 2018 Sinceramente non mi sentirei di qualificare come inguaribilmente incostituzionale il cosiddetto decreto sulla sicurezza di cui il ministro dell’interno Salvini va tanto fiero, senza farne mistero. L’Italia sarà più sicura da ora in poi, spiega l’esponente leghista, in casa propria il padrone ha il pieno diritto di controllare il comportamento degli ospiti, tanto più se si tratta di persone presenti che nessuno ha invitato. Questo non è certo un argomento decisivo, perché il nostro paese si è data una Costituzione ed è tenuto a rispettarla nei confronti di ogni interessato, cittadino o straniero. Il punto a favore del provvedimento mi sembra un altro: anche altri paesi hanno adottato misure più o meno simili, e bene o male convivono con loro, anche se a volte a fatica. Il problema del nostro decreto è che nessun paese d’Europa, almeno per quanto mi consta, ha adottato contemporaneamente tante misure nei confronti dei migranti, al punto che la cifra media che ne risulta rispecchia un dato inconfutabile che del resto lo stesso Salvini si guarda bene dal contestare: il migrante è una persona pericolosa che può compromettere la sicurezza del paese e pertanto va sorvegliato e, se del caso, reso inoffensivo. Per questo se prese una ad una, le misure preventive e punitive possono anche essere compatibili con il dettato costituzionale, diventa assai difficile accettarle tutte insieme. Ne deriva che il migrante può essere costretto nei centri di permanenza addirittura per 180 giorni: certo non è detenzione vera e propria, perfino Salvini avrebbe avuto perplessita, ma somiglia molto alla carcerazione preventiva ovviamente senza alcun controllo giurisdizionale. Il migrante è pericoloso per definizione, e l’intervento del giudice è e resta previsto solo per le limitazioni di liberta del cittadino. Un altro problema è posto dalle concessioni e revoche della cittadinanza. Si è cittadini o non lo si è indipendentemente dal luogo di residenza: ma anche qui lo stesso codice penale in vigore prevede l’espulsione dello straniero in caso di condanna (definitiva) a più di due anni. Salvini, a quanto si apprende, voleva anticipare l’espulsione in caso di condanna per terrorismo alla sentenza di primo grado e poi a quella di secondo, ma è stato convinto a recedere, ferma rimanendo però la revoca della cittadinanza se gia concessa. Certo, una decisione simile desta molte perplessita, ma il lato peggiore e meno accettabile è stato eliminato. Analogamente si è fatto per la revoca del permesso di soggiorno. In definitiva non dubito che la Corte Costituzionale sara chiamata a verificare la compatibilita delle norme con le disposizioni fondamentali, ma anche se il decreto dovesse salvarsi in tutto o in parte, mi sembra incontestabile che il problema di fondo del provvedimento sia l’ostilita preconcetta e del tutto ingiustificata nei confronti dei tanti che vengono in Europa, sbarcando in Italia, in Grecia o in Spagna, solo per sfuggire alle guerre, alla fame e alla miseria. Il punto vero è proprio qui: il migrante non viene in Italia da nemico, ma da persona che ha bisogno di tutto. Trattarlo in via pregiudiziale come potenziale nemico e quindi sottoporlo a norme preventive e punitive ingiustificate a me sembra contrario non solo alle regole dell’amicizia ma alle stesse linee portanti della Costituzione, anche se prese ad una ad una le norme potrebbero forse sopravvivere. E infatti non può essere un caso che il Presidente Mattarella abbia firmato, dando il via libera al provvedimento, ma contemporaneamente abbia raccomandato al governo la stretta, scrupolosa osservanza delle disposizioni costituzionali, in pratica riconoscendo che le misure sono proprio al limite delle linee portanti della legge fondamentale. Stati Uniti. Inferno e riscatto nel braccio della morte italiastarmagazine.it, 7 ottobre 2018 In California un uomo libero dopo 25 anni a San Quentin, i giudici non avevano valutato le perizie mediche. Per uccidere i condannati Fentanyl e gas azoto. Di nuovo assassini a un passo dall’esecuzione. Libero dopo 25 anni nel braccio della morte: le prove non erano sufficienti. Poi un detenuto condannato a morte ucciso da un altro condannato alla pena capitale. E infine nei sistemi di esecuzione entrano il Fentanyl e l’ossigeno. È momento “caldo” e delicato, quello che stanno passando le carceri di massima sicurezza americane. Rilasciato dopo 25 anni - Il californiano Vincente Benavides è stato rilasciato dalla prigione di Stato di San Quentin, dopo che la Corte Suprema della California ha ribaltato la sua condanna per omicidio e stupro. I pubblici ministeri locali hanno annunciato che non faranno ricorso. Lasciando la prigione giovedì, il 68enne Benavides ha ovviamente confidato ai giornalisti di essere “molto felice”. Era stato condannato a morte nel ‘93 per lo stupro e l’omicidio della figlia della sua compagna. Era in casa con lei, quando la bambina si sarebbe allontanata: la ritrovò in gravi condizioni, la portò in ospedale ma la piccola morì una settimana dopo per gravissime lesioni ai genitali. Eppure le indagini erano state condotte a senso unico, perché la documentazione medica escludeva che la morte fosse stata provocata da un’aggressione sessuale. Benavides è la quarta persona liberata dal braccio della morte della California dal 1980, e la 162esima negli Stati Uniti dal 1973, secondo il “Death Penalty Information Centre”. Gas azoto per uccidere - Lo stato dell’Oklahoma ha annunciato che utilizzera gas azoto per l’esecuzione di prigionieri, mentre altri Stati cercano di trovare alternative per il blocco dei produttori di farmaci letali da somministrare per iniezione. Lo stato del Midwest sarebbe stato il primo negli Stati Uniti ad utilizzare la procedura, per la quale il protocollo deve ancora essere stabilito. La decisione è arrivata dopo che un certo numero di produttori di farmaci ha impedito ai loro prodotti di essere utilizzati in iniezioni letali. L’azoto è un gas inodore e insapore che costituisce circa il 78% dell’aria che gli esseri umani respirano, ma causa la morte quando inalato senza ossigeno. Annunciando il piano mercoledì, il procuratore generale dell’Oklahoma Mike Hunter ha definito la procedura dei gas azotati “efficace, semplice da somministrare e facile da ottenere. Le esecuzioni sono l’applicazione più profonda del potere statale - ha detto - credo nella giustizia per le vittime e le loro famiglie, e nella pena capitale per punire coloro che commettono questi crimini”. L’Oklahoma ha adottato la procedura come metodo alternativo nel 2015, ma non l’ha usata perché manca tutt’oggi un un protocollo di utilizzo. Ci sono polemiche: l’American Veterinary Medical Association ha ritenuto il processo con azoto “inappropriato” per l’eutanasia dei mammiferi e ha detto che ci sarebbero voluti più di sette minuti per provocare la morte di un maiale di 30 kg. “Questo metodo non è mai stato usato prima ed è sperimentale”, ha detto il dottor Dale Baich al Washington Post: “Oklahoma ci chiede ancora una volta di fidarci di una nuova procedura per le esecuzioni. Ma come possiamo fidarci quando la storia recente dello stato rivela una lunga scia di disattenzioni e di errori nelle esecuzioni?”. L’Oklahoma ha sospeso le esecuzioni capitali nel 2015, dopo che un detenuto si era contorto sul letto per 20 minuti prima che la sua esecuzione fosse annullata. L’anno successivo, i funzionari avevano usato la droga sbagliata in un’altra esecuzione. Il primo detenuto ucciso con il fentanyl - Carey Dean Moore è il primo detenuto nel braccio della morte ucciso con il Fentanyl. È accaduto in Nebraska. Le aziende farmaceutiche stanno cercando di impedire che vengano usati i loro prodotti per non danneggiare l’immagine del marchio. Carey Dean Moore era in carcere dal 1980, quando fu condannato alla pena di morte per due omicidi di primo grado. Non ha presentato ricorso contro il metodo previsto per la sua esecuzione. Nei processi che contestano l’uso dei suoi farmaci, l’azienda farmaceutica tedesca “Fresenius Kabi” ha dichiarato di non prendere posizione sulla pena capitale, ma ritiene comunque che l’uso del suo prodotto nelle esecuzioni potrebbe danneggiare “la reputazione, la buona fede e le relazioni commerciali”. Il Fentanyl è stato al centro del suo ruolo nell’attuale crisi americana degli oppioidi, che negli ultimi cinque anni ha portato a un aumento massiccio delle morti per overdose. Il Fentanil è 50 volte più forte dell’eroina ed è stato portato illegalmente nelle strade degli Stati Uniti mentre gli americani combattono con le dipendenze da oppioidi con tassi di crescita esponenziali, in parte a causa dell’alto livello di prescrizioni di farmaci da medici compiacenti. Secondo i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, le overdose fatali hanno ucciso in Nebraska più di 150 persone solo l’anno scorso: lo Stato non ha voluto rivelare pubblicamente il nome del fornitore ufficiale di Fentanil, ma l’azienda tedesca ha “motivi per credere” che i suoi farmaci siano utilizzati nei bracci della morte. Morte violenta nel braccio della morte - Il detenuto Jonathan Fajardo, 30 anni, è stato pugnalato al petto e al collo con un’arma rudimentale nel cortile ricreativo di San Quentin, ha precisato il portavoce del dipartimento di correzione Terry Thornton, dopo le prime notizie confuse. L’assassino è Luis Rodriguez, 34 anni. Tutti e due erano stati condannati a morte e attendevano l’esecuzione. È la prima volta dopo 20 anni che accade un episodio del genere nelle carceri Usa: “È un caso molto insolito”, ha detto Amy Smith, professore associato della San Francisco State University, che studia la pena capitale e l’impatto psicologico del braccio della morte. Ogni detenuto nel braccio della morte vive in una cella singola, ma gli è permesso di riunirsi in piccoli gruppi nel cortile, dove Fajardo è stato ucciso. “Le persone che sono in attesa della morte generano i livelli più bassi di violenza in prigione”. Fajardo era in attesa di esecuzione per due capi d’accusa di omicidio nella contea di Los Angeles, e doveva scontare anche sette ergastoli. Faceva parte di una gang latina che uccise una ragazza nera di 14 anni per motivi razziali. Fu inoltre condannato per aver ucciso un uomo, sospettato di esser un collaboratore della polizia. Rodriguez era in attesa di esecuzione per due capi d’accusa di omicidio. I media locali lo hanno identificato come membro di una banda latina condannato per aver ucciso due uomini di una gang rivale. Era gia stato sospettato di un altro omicidio che lo aveva portato all’ergastolo. Nessuno è stato giustiziato in California dal 2006, anche se nel 2016 gli elettori hanno sostenuto una variazione per accelerare l’iter della pena capitale. Molti detenuti condannati in California - il più grande braccio della morte della nazione - sono morti per cause naturali o per suicidio da quando la pena capitale è stata ripristinata nel 1978. La marcia afghana per la pace: “Basta guerra permanente” di Emanuele Giordana Il Manifesto, 7 ottobre 2018 I marciatori per la pace afghani che hanno ormai percorso mille chilometri a piedi da Lashkargah a Kabul e poi sino a Mazar-e-Sharif, hanno inviato un messaggio ai loro omologhi italiani. La loro marcia, autorganizzata e accolta con favore nei territori attraversati, chiede il cessate il fuoco immediato alle parti in conflitto e che il destino degli afghani sia lasciato nelle mani degli afghani. Il cuore del messaggio dice: Il processo di ricostruzione e sviluppo economico sono bloccati ed è ricominciata l`emigrazione e la fuga degli afgani dal nostro Paese. La coltivazione dell`oppio è cresciuta sotto un governo debole e corrotto che non ha nessun sostegno dalla popolazione e in questo modo i talebani hanno potuto crescere e conquistare villaggi e distretti. Poi è arrivato anche l`Isis che ha dato una scusa all`Occidente per rimanere in Afghanistan. Alcuni vogliono che l`Afghanistan diventi un campo di battaglia permanente e senza futuro come la Siria. Tutto ciò per giustificare la loro presenza. Noi afghani siamo stanchi e non possiamo più sopportare il peso della guerra. Non ce la facciamo più. Chiediamo a tutti gli italiani e agli europei di aiutarci e mettere sotto pressione Nato e americani che non devono permettere la riorganizzazione della guerriglia e devono lasciare a noi come esseri umani il diritto di vivere in pace e avere un governo che sia scelto solo dagli afgani altrimenti questa situazione continuerà. E continuerà a coinvolgere anche tutti voi occidentali. Il messaggio è stato affidato all’associazione “Afgana”, erede della “Rete Afgana” - soggetto informale nato nella società civile italiana nel 2007 - ed è un fondamentale contributo dal basso al processo di pace che in Afghanistan continua ad arenarsi mentre il Paese sta per celebrare 40 anni di guerra ininterrotta. Dovrebbe non solo essere di stimolo per i marciatori della Perugia Assisi ma anche per la diplomazia internazionale oltreché per governo e guerriglia. Far tacere le armi innanzi tutto. Poi si discutera. Il messaggio è anche l’occasione per tener viva la memoria di un conflitto sul quale i riflettori della cronaca si sono attenuati ma che ogni anno continua a mietere sempre più vittime civili. Facendo proprio il messaggio che i “marciatori a piedi nudi” afgani hanno rivolto alla Perugia Assisi, Afgana chiede una revisione della politica italiana in Afghanistan, l’inizio e un calendario del ritiro delle nostre truppe come segnale inequivocabile che l’Italia è favorevole, non solo a parole, al processo negoziale inter-afgano. Il che non deve impedirci di lavorare in sede multilaterale per sostenere la popolazione civile, la tutela dei diritti umani, il diritto alla salute, all’istruzione e al lavoro di donne e uomini. Afgana chiede inoltre la riconversione della spesa militare nel Paese (185.343.173 mln nel 2018) in un aumento della cooperazione civile (nel 2018 di soli 20 milioni) nel quadro di ciò che chiede la Perugia Assisi: una revisione della strategia delle “missioni di pace” all’estero e l’impegno per un rafforzamento delle operazioni di interposizione sotto la bandiera dell’Onu. Il Camerun al voto in un clima di violenza e paura di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 ottobre 2018 Oggi oltre sei milioni di camerunensi dovrebbero eleggeranno il presidente per i prossimi sette anni, molto probabilmente confermando quello uscente, Paul Biya. Il condizionale è d’obbligo perché non si sa come andranno le cose nella regione anglofona del paese, sconvolta dalla violenza e nella quale due giorni prima delle elezioni non vi era alcun segno che le elezioni potessero aver luogo. Amnesty International ha registrato oltre 360 episodi di violenza dall’inizio della crisi verso la fine dell’ottobre 2016. Più di 400 persone sono state uccise l’anno scorso, mentre la violenza ha portato a spostamenti interni di oltre 240.000 persone nelle regioni del nord-ovest e del sud-ovest del Camerun, in aggiunta a circa 25.000 fuggite in Nigeria. Tutte si trovano in un disperato bisogno di assistenza umanitaria. Come gia scritto in questo blog, le forze di sicurezza hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani, come l’uso non necessario della forza durante manifestazioni pacifiche e perquisizioni, che hanno portato ad arresti arbitrari, uccisioni illegali e decine di villaggi incendiati. Anche i gruppi armati separatisti - via via dotatisi di armi sempre più sofisticate - sono stati responsabili di atti di violenza come uccisioni di membri delle forze di sicurezza e di civili, rapimenti di funzionari statali, studenti e insegnanti e distruzione di edifici scolastici, di stazioni della gendarmeria e della polizia e di veicoli militari. La situazione è profondamente instabile anche nel nord del paese. Dall’inizio dell’anno, Amnesty International ha registrato oltre 90 episodi di violenza che hanno coinvolto il gruppo armato Boko haram, da anni infiltratosi dalla Nigeria nell’estremo nord del Camerun, con almeno 123 vittime civili. Nel 2017 c’erano stati 111 episodi di violenza legati a Boko Haram - 41 dei quali attentati suicidi con esplosivi - con oltre 200 civili uccisi. In risposta agli attacchi di Boko haram, le forze di sicurezza camerunensi hanno saccheggiato i villaggi nella regione settentrionale, distruggendo case, uccidendo civili e arrestando arbitrariamente migliaia di persone, spesso sulla base di prove scarse o nulle. La situazione umanitaria è desolante, con oltre 230.000 sfollati interni. Nell’estremo nord sono presenti anche circa 98.000 rifugiati nigeriani. Pakistan. Vita o morte per Asia Bibi, fissata per l’8 ottobre l’udienza decisiva di Paolo Affatato La Stampa, 7 ottobre 2018 La Corte Suprema del Pakistan esamina il ricorso degli avvocati della donna cristiana condannata a morte per blasfemia. Lei in carcere prega e chiede la vicinanza del Papa. Il grande giorno è arrivato. È il giorno decisivo per la vita o la morte di Asia Bibi. Lunedì 8 ottobre 2018, alle 13 ora locale (le 10 del mattino ora italiana), la Corte Suprema del Pakistan esamina il ricorso, giunto al terzo e ultimo grado di giudizio, presentato dagli avvocati della donna cristiana condannata a morte per blasfemia e in carcere da quasi un decennio. Si tratta di un processo-lampo: secondo la procedura penale del Pakistan, a questo punto tutto si svolgerà in un’unica udienza, in cui i giudici ascolteranno le posizioni della difesa e dell’accusa (rappresentata dal Pubblico ministero) e valuteranno se confermare o annullare la sentenza di pena capitale. Il pronunciamento dovrebbe essere emesso lo stesso giorno e, per la pubblicazione, si dovrà attendere ancora due o tre giorni. “Nel giro di una settimana, dunque, Asia potrebbe essere libera. Speriamo e preghiamo”, nota Joseph Nadeem, tutore della famiglia della donna, e presidente della Renaissance Education Foundation che da Lahore copre le spese legali del processo e si occupa del sostentamento della sua famiglia. Come conferma il documento emesso dalla Cancelleria del Supremo Tribunale di Islamabad e visionato da Vatican Insider, sarà uno speciale collegio giudicante, creato per l’occasione, ad ascoltare le argomentazioni dell’avvocato musulmano Saiful Malook, legale di Asia Bibi, e a decidere sulla sorte della donna. Secondo Nadeem, le speranze sono fondate. Il collegio, composto da tre alti magistrati - come anticipato da Vatican Insider nel luglio scorso - è presieduto dal presidente della Corte suprema del Pakistan, Mian Saqib Nisar che, a garanzia di imparzialita e trasparenza, ha avocato a sé il caso di Asia Bibi, per sottrarlo a ogni rischio di strumentalizzazione politica e religiosa. Il fine dichiarato - in un approccio da sempre condiviso dai legali della donna cristiana - è, infatti, quello di tenere il processo nell’alveo di un normale caso di ordine giuridico, spogliandolo da qualsiasi valenza simbolica o religiosa. Questo permettera di esaminare con serenita e rigore le prove presentate e le argomentazioni degli avvocati e di emettere un verdetto che sia unicamente frutto della convinzione maturata in sede processuale, generata da elementi fattuali. Sia in primo che in secondo grado, infatti, la vicenda giudiziaria che ha portato in carcere la contadina cristiana del Punjab è stata pesantemente condizionata da elementi esterni che l’hanno del tutto falsata. Il processo davanti al tribunale di Nakhana Shahib, che a novembre del 2010 decretò la prima condanna a morte, fu evidentemente viziato da false accuse, costruite ad arte per punire la donna che aveva osato ribellarsi ad una discriminazione di cui era stata vittima, perpetrata dalle sue compagne di lavoro agricolo nei campi. Le donne l’avevano accusata di aver contaminato, in quanto cristiana, la fonte d’acqua da cui tutte si stavano abbeverando. Alla reazione stizzita di Asia - un affronto imperdonabile - erano andate a cercare manforte dall’imam locale, che architettò e portò a termine il piano di un’accusa per blasfemia: una facile scorciatoia da usare per liberarsi di avversari in dissidi privati. L’imam ha sporto denuncia e testimoniato in tribunale su un evento in cui - assurdita logica e giuridica - non era in alcun modo coinvolto di persona, affermando che Asia aveva offeso il nome del profeta Maometto. Sarebbe stato facile, a quel punto, per i giudici smascherare il complotto, dato che l’imam non aveva mai ascoltato le parole di Asia e la sua testimonianza era palesemente falsa. Ma il tribunale scelse la via più comoda e, per non indispettire i gruppi musulmani locali, preferì dichiararla colpevole. La vita di Asia da quel giorno cambiò e una innocente subì la condanna a morte secondo l’articolo 295 comma C del Codice Penale del Pakistan, ovvero per il reato di blasfemia verso il profeta Maometto. Il suo caso divenne noto e i cristiani in Pakistan iniziarono una campagna in sua difesa, che culminò con un appello pubblico di Benedetto XVI per il suo rilascio. Intanto fu presentato il ricorso davanti all’Alta Corte di Lahore, capitale del Punjab, contro quella ingiusta sentenza, ma il caso di Asia Bibi gia risultava “scottante” e pochi mesi dopo, in quel fatidico 2011, fu per sempre legato a due omicidi eccellenti di personaggi di alto calibro, che si erano schierati pubblicamente in suo favore: a perdere la vita per mano terrorista furono prima il musulmano Salman Taseer, governatore del Punjab, e poi il cattolico Shahbaz Bhatti, ministro federale per le minoranze religiose. A quel punto nessun magistrato volle assumersi la responsabilita di giudicare Asia Bibi e una serie di rinvii, per i motivi più disparati, caratterizzarono il processo a Lahore, mentre i tempi di detenzione si allungavano sensibilmente e la donna veniva trasferita dalla prigione di Sheikhupura al carcere femminile di Multan, per garantirle maggiore sicurezza. Bisognera attendere l’ottobre 2014 perché un giudice accetti di deliberare sul caso di Asia ma, mentre si diffondevano perfino voci di minacce verso i magistrati, l’Alta Corte conferma la sentenza di primo grado, ritenendo credibili le testimonianze presentate contro la donna. La pena viene però sospesa, in attesa del pronunciamento del terzo e ultimo grado di giudizio, la Corte Suprema. “Stiamo lavorando sodo e porteremo argomenti convincenti. Confidiamo nel rispetto dello stato di diritto e nell’imparzialita dei giudici. Siamo fiduciosi per l’esito del processo”, rileva l’avvocato Saiful Malook che, anch’egli scortato, presenziera all’udienza dell’8 ottobre a Islamabad. Intanto proprio pochi giorni fa Joseph Nadeem e il marito di Asia, Ashiq Masih, le hanno fatto visita in carcere, trovandola “forte nel corpo e nello spirito”, come riferiscono. “Asia è una donna di profonda fede e vive questo tempo immersa nella preghiera, con grande serenita spirituale. Sa di essere una figlia amata di Dio e confida nel Signore, che potra donarle la salvezza”, osserva Nadeem. “In questo momento decisivo per la sua vita, chiede la preghiera di tutti i cristiani del mondo e quella speciale di Papa Francesco, che gia le ha mandato una benedizione e un Rosario, che Asia usa ogni giorno, animata da sentimenti di perdono verso i suoi persecutori”, conclude. Se anche la Corte Suprema dovesse confermare la condanna, non resterebbe che chiedere un provvedimento di clemenza al presidente del Pakistan.