Disagi mentali per il 70% dei detenuti. Donne le più colpite da malattie infettive di Filomena Fotia quotidianosanita.it, 6 ottobre 2018 Urge un piano vaccinale e un osservatorio nazionale. Questi i dati presentati nel corso del XIX Congresso Nazionale Simspe, Agorà Penitenziaria 2018, organizzato insieme alla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali - Simit, in corso a Roma. Oltre il 50% dei detenuti ha meno di 40 anni e un detenuto su tre è straniero. Per quanto riguarda il genere, le donne sono circa il 4% della popolazione carceraria. Si contano anche circa 60 bambini, che hanno da pochi mesi a sei anni. Secondo i più recenti dati forniti dall’amministrazione penitenziaria, ogni anno all’interno dei 190 istituti penitenziari italiani transitano tra i 100mila e i 105mila detenuti. I dati ufficiali del Ministero della Giustizia indicano che oltre il 50% dei soggetti ha meno di quarant’anni e che un detenuto su tre è straniero. Per quanto riguarda il genere, le donne sono circa il 4% della popolazione carceraria. I reati più perseguiti da loro sono quelli contro il patrimonio, contro la persona e in materia di stupefacenti. Ma sono molto frequenti anche i reati di prostituzione. Si contano anche circa 60 bambini, che hanno da pochi mesi a sei anni, figli di madri che hanno subito un arresto o una condanna. È in corso a Roma, sino a stasera, presso l’Hotel dei Congressi all’Eur, il XIX Congresso Nazionale Simspe, Agorà Penitenziaria 2018, organizzato insieme alla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali - Simit. Circa 200 i partecipanti, provenienti da tutta Italia. Tra i principali topics in programma, la vaccinazione delle persone detenute, integrazione e tutela delle fragilità sanitarie e sociali in carcere, il dolore e la salute mentale in ambito penitenziario, micro-eradicazione di HCV in sezioni detentive, esperienze di gestione dei detenuti migranti. Il problema del disagio mentale. “Numeri importanti” sottolineano una forte precarità anche da un punto di vista psicologico: si stima che due detenuti su tre, secondo dati Simspe, soffrono di qualche disagio di tipo mentale. “Per disagio mentale - spiega Luciano Lucania, Presidente Simspe Onlus - intendiamo quella sofferenza sia psicologica che clinico-psichiatrica. Sono numeri importanti, con percentuali molto elevate: si stima che riguardi il 60/70% dei detenuti. Tali disturbi rendono questa popolazione a rischio per fenomeni di autolesionismo e di auto-soppressione. Se, infatti, la cura delle malattie infettive è legata a una diagnosi e a una conseguente terapia, per quelle mentali occorre non soltanto un approccio clinico e farmacologico, ma anche psicologico e di sistema, sociale e territoriale, che non guardi solo la situazione nelle carceri, ma anche quella esterna”. Donne e giovani. “Da recenti studi internazionali - spiega Sergio Babudieri, Presidente del Congresso nonché Direttore Scientifico Simpse Onlus - emerge che le donne detenute presentano percentuali di malattia superiori rispetto agli uomini anche ristretti. È ad esempio dimostrato che se HIV è 10 volte superiore negli uomini detenuti rispetto alla popolazione generale, per le donne lo è di 16 volte, mentre per Hcv non disponiamo di numeri accertati ma la tendenza sembra la stessa. Una “élite in negativo” in cui si concentrano non solo malattie infettive, ma anche psichiatriche, cardio-respiratorie, metaboliche e anche degenerative. Eppure, in ragione dei numeri contenuti, occorrerebbe un piccolo sforzo per garantire a loro, e agli eventuali minori, ottimi risultati”. Poi aggiunge: “Ma, data l’età media della popolazione totale, si potrebbe raggiungere uno stato di salute nettamente superiore per tutti”. Vaccini. Tra gli ospiti del Congresso Nazionale, ci sarà anche Giovanni Rezza, Direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, con cui si cercherà di capire come agire sulla popolazione malata e quali strumenti sarebbe opportuno usare. “I responsabili dell’assistenza sanitaria in carcere sono i sistemi sanitari regionali - spiega Babudieri - A loro spetterebbe il compito di creare un ponte tra i medici delle carceri e i medici dell’igiene e della prevenzione territoriale. Il responsabile di ogni struttura penitenziaria dovrebbe correlarsi con i responsabili della Sanità Pubblica per la realizzazione di un programma di vaccinazione totale. In questo modo tutte le persone detenute saranno sotto controllo, garantendo non solo la loro sicurezza, ma anche quella di chi starà loro accanto, dentro e fuori le strutture penitenziarie”. L’appello alle istituzioni e ai politici. L’urgenza è sotto gli occhi di tutti, ma c’è una generale tendenza a demandare le proprie responsabilità, a danno non solo dei malati, ma anche di quelli ancora sani. “Non è mai stato fatto un registro nazionale per nessuna patologia, non c’è mai stato un coordinamento nazionale - afferma Babudieri. Ovviamente non è interesse del Ministero della Giustizia, mentre quello della Salute ha demandato ai sistemi sanitari regionali. Manca un coordinamento: è da anni che la nostra Società ha proposto di affidare all’Istituto Superiore di Sanità la gestione di un Osservatorio Nazionale per la Tutela Della Salute in Carcere che coordini tutti gli osservatori regionali già costituiti, ma questa nostra richiesta è stata costantemente disattesa”. Non solo carcere: la giustizia può essere anche riparativa, con la mediazione penale di Maria Rosaria Mandiello Il Denaro, 6 ottobre 2018 “L’uomo non è il suo reato e il carcere non è l’unico modo per scontare la pena”, sussurra qualche prete che concilia la fede ed il reato, avvicinando i modi spicci al silenzio sornione dei barbarici. Anzi in alcuni casi il carcere potrebbe addirittura non rispondere in modo adeguato alle indicazioni del dettato costituzionale: tra coloro che vivono l’espiazione della pena solo con la misura detentiva tendono a ricadere nella recidiva, i dati parlano del 70%. In un sistema penale perfetto ma controverso, si fa largo il tema della “giustizia riparativa”, nel frattempo molte cooperative lavorano ogni giorno per l’accoglienza dei familiari detenuti, organizza i permessi premio dei detenuti, gli inserimenti lavorativi di ex detenuti presso aziende agricole e commerciali, con la formula delle borse lavoro e della messa alla prova. Una società di tentazioni, che condanna chi vi cade. La giustizia riparativa è una tesi indigeribile per chi alla tentazione ha saputo resistere. C’è un lungo percorso da fare e servono gli strumenti idonei. Occorre provvedere alla formazione dei mediatori, che hanno un ruolo fondamentale quando si parla di mediazione penale, non sempre facile. Si trovano di fronte a persone che devono recuperare integralmente la loro vita e hanno bisogno di accompagnatori professionalmente preparati. Solo se si investe in questo processo innovativo, penale, processuale e culturale, c’è la possibilità di facilitare l’incontro tra la vittima e il reo. La giustizia riparativa, su cui c’è grande fermento, è un cammino in salita e troppo spesso frainteso dalla società. La convinzione errata è che la giustizia riparativa serva a convincere il magistrato di sorveglianza ad essere di manica larga nell’attribuzione dei permessi. È tutta un’altra cosa, un percorso lungo e laborioso, doloroso, che porta il detenuto a rimettersi in discussione e che ha bisogno della disponibilità della vittima o della famiglia della vittima, ma non condiziona il decorso della pena. Una prima applicazione di giustizia riparativa si è avuta tra le famiglie delle vittime ed i terroristi degli anni di piombo. Le famiglie avvertivano una sensazione di insufficienza, nonostante la condanna inflitta ai terroristi. In quel caso fu applicata una “giustizia orizzontale” che è quella di reggere lo sguardo dell’altro, di chi sta di fronte e lasciarsi interrogare. Attraverso un mediatore il reo deve “riparare” ciò che ha rotto: lo chiede l’Europa e anche la legge italiana. Un modello che cresce attraverso la riflessione, la pratica e soprattutto il dialogo con gli operatori di giustizia ed i Procuratori della Repubblica. La riparazione è un modello duro e occorre che le parti lo scelgano volontariamente. La mediazione non è negoziazione e l’utilizzo di misure alternative aiuterebbe la macchina della giustizia a diminuire i tempi dei processi e a umanizzare la riabilitazione durante l’espiazione della pena. La “giustizia riparativa” è innanzitutto un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigenze della giustizia “retributiva” - incentrata sul rapporto tra il reato e la pena - e la giustizia “riabilitativa” - più attenta al recupero del detenuto. Riannodare i fili spezzati con l’atto criminoso non è semplice né scontato, anche se è provato che la società ci guadagnerebbe, se è vero che scontare la pena con misure alternative abbatte la recidiva al 5%. Il crimine, dal punto di vista della giustizia riparativa, viene visto anche come qualcosa che provoca la rottura di aspettative e legami sociali, e per questo ci si può attivare per tentare di ricomporre questa frattura. Non solo aspetti culturali e sociali che sono poi la vera sfida affinché si possa guardare e accettare la giustizia riparativa, ma ci sono aspetti normativi, giuridici, aspetti professionali intrinsechi, così ne ho voluto parlare con l’avvocato penalista ed assistente presso la cattedra di diritto penale all’Università degli Studi di Salerno, Stanislao Sessa, a cui ho posto delle domande per capire meglio e dal piglio giurisprudenziale la mediazione penale. In questi giorni è al vaglio della Commissione Giustizia lo schema del decreto recante le disposizioni in materia di giustizia riparativa e mediazione reo-vittima. Ci vuole illustrare in cosa consiste e come dovrebbe svolgersi la mediazione in ambito penale? “Anzitutto vi è da rimarcare che, sostanzialmente, la commissione di un reato apre un conflitto - purtroppo spesse volte insanabile - tra l’autore e la persona offesa, comportando una lacerazione di legami sociali che spesso richiede di vagliare istanze non delegabili di riparazione e di responsabilizzazione, essenziali ai fini di una corretta tutela del patto sociale. La peculiarità di questo processo riparativo e responsabilizzante, consiste nel contatto diretto (o anche indiretto) tra vittima ed autore del reato, prendendo in considerazione gli aspetti comunicativi e relazionali tra le parti e affrontando, se del caso, le conseguenze civili del reato in termini riparativi. Ovviamente per avviare e svolgere una proficua mediazione penale, è necessario il consenso delle parti al fine di far evolvere la loro interazione conflittuale verso un accordo soddisfacente per entrambe. Si è - nel caso della mediazione - in presenza di una forma di Giustizia che definirei “atipica”, in quanto non avente il consueto carattere retributivo che, per sua natura, assume quale oggetto dell’azione giudiziaria il reato e quale finalità l’accertamento della colpevolezza e la giusta punizione del reo con la garanzia, per quest’ultimo, dell’applicazione di una pena proporzionata alla gravità del reato. Siamo, a contrario, dinanzi ad una forma di Giustizia riparativa, totalmente antitetica rispetto a quella “ordinaria”, in grado di offrire al reo la possibilità di porre rimedio al danno cagionato alla vittima e favorirne la reintegrazione, nella comunità, attraverso un processo in cui l’obiettivo primario sarà la ricostruzione del legame sociale, prima face compromesso dalle conseguenze dannose derivanti dal reato. Dunque, la Giustizia riparativa ha come oggetto i danni provocati alla vittima, in quanto diretta conseguenza del reato, ed ha come obiettivo l’eliminazione di tali conseguenze attraverso l’attività riparatrice intrapresa dall’autore del reato. All’interno di tale modello, particolare valore assumono le parti - reo e vittima, mentre un ruolo centrale ed operativo sarà assunto da una figura terza ed imparziale: il Mediatore”. La giustizia riparativa richiama il ruolo di varie figure professionali, come si inserisce il ruolo del legale, ed invece, quali competenze e capacità dovrebbe avere un Mediatore penale? “Per riallacciarmi compiutamente a quanto testé affermato, più che la centralità della figura dell’Avvocato - che, essenzialmente, assume il ruolo di portavoce delle istanze di una parte privata - rimarcherei e sposterei il focus sul binomio Giudice-Mediatore. Infatti, su invito del Giudice, le parti potranno avvalersi dell’operato di un Mediatore-Conciliatore professionista che le guiderà verso una soluzione condivisa della controversia. Dunque non sarà più una sentenza a decidere il giudizio - come avviene nell’odierna realtà processuale - ma saranno le parti, con l’ausilio del Mediatore a raggiungere un’intesa, senza subire gli strascichi di una decisione giudiziale, di talché affidarsi ad un programma di mediazione penale significa diventare artefici dell’andamento del proprio processo. In questi casi, come detto, centralità assoluta riveste la figura del Mediatore, nella misura in cui deve assumere una posizione decisamente neutrale ed equidistante dalle parti in causa. Il suo ruolo è quello di facilitare la comunicazione e garantire il rispetto reciproco, senza imporsi in alcuna decisione che vittima e reo assumono congiuntamente e disgiuntamente, in piena autonomia e con l’assistenza del Mediatore. Particolare attenzione dovrà essere dedicata alla formazione dei Mediatori penali, ovvero coloro che realizzano i programmi di giustizia riparativa. Dovrà trattarsi, quindi, di figure professionali, particolarmente qualificate per esercitare il ruolo, in possesso di almeno una laurea universitaria triennale in vari settori e materie disparate (ad esempio quelle giuridiche, pedagogiche, psicologiche o socio-umanistiche) ovvero iscritti a un ordine o un albo professionale con specifica esperienza in relazione alle predette materie”. Crede che possa risultare utile ed efficace alla giustizia penale la figura di un Mediatore? “Ritengo sia ancora prematuro poter rispondere in maniera esaustiva a questo quesito. In via preliminare posso affermare, però, che il linguaggio del Giudice è essenzialmente quello di chi deve decidere quando il conflitto non può essere sanato, poiché egli decide ed ha l’ultima parola, sulla scorta del dettato normativo. Invece, al contrario, la mediazione, per essere tale, deve parlare un altro linguaggio, quello “del potrebbe essere diversamente”, che non è certo il linguaggio del Giudice. Dunque il linguaggio del Mediatore - che è quello della “possibilità alternativa” - è lontano oltre che da quello del Giudice anche da quello dell’Avvocato poiché, rispettivamente, l’uno è “chi deve decidere”, l’altro “chi deve difendere e rappresentare”. Pertanto, quando come molto spesso accade il Giudice o l’Avvocato s’improvvisano mediatori, se non acuiscono ulteriormente i sentimenti negativi provocati dall’evento reato, riescono ad ottenere un “effimero falso accordo” dettato e finalizzato alla convenienza, giacché collegata a una determinata situazione. Penso anche, però, che la notoria “litigiosità” degli italiani possa in qualche modo minare la buona riuscita ed il buon andamento dell’istituto, atteso che sia quantomeno una strada in salita, anche effettuando un raffronto, non proprio esaltante, con la mediazione in ambito civile. Ed infatti proprio in ambito civile, il processo di mediazione (sotto forma di tentativo di conciliazione obbligatoria, esperito presso l’organo di conciliazione istituito presso ogni Consiglio dell’Ordine) ha fallito le aspettative, nella misura in cui un numero ristrettissimo di procedimenti termina in questa fase, per così dire preliminare”. Mi permetta, nonostante lavori nell’ambito sociale e creda nel reinserimento del reo, faccio un po’ fatica - ed ipotizzo anche l’opinione pubblica - ad immaginare che in vicende complesse e delicate, dove essenzialmente si ha “sete” di giustizia, vi possa essere un “incontro” tra il reo e la persona offesa. Dal Suo osservatorio, in questi casi come si può innestare il fenomeno della mediazione? “Sicuramente la mediazione penale - che contempla programmi tra vittime e autori di reato - va al di là della negoziazione e della conciliazione. Nella mediazione penale, dove l’asimmetria delle parti costituisce un fattore specifico, lo scopo è quello di far avvicinare ciò che di regola è considerato inavvicinabile, ossia la vittima e il reo, e di accogliere ciò che non trova accoglienza nella nostra società, ossia la sofferenza e il disordine. In questo ambito nacque e si perfezionò il “metodo” della “mediazione umanistica” della sociologa J. Morineau, che consente ai protagonisti di comprendere lo svolgersi degli eventi, la loro responsabilità e scoprire la propria capacità di cambiare atteggiamento. Tale trasformazione avviene quando viene toccata la parte più elevata dell’uomo, quella spirituale. La mediazione penale è, dunque, un percorso di incontro, confronto e dialogo tra il reo e la vittima del reato, per permettere il passaggio dalla violenza al riconoscimento della sofferenza, dal disordine alla costruzione di un nuovo ordine. Quale procedura, volontaria, informale e flessibile, permette, ove possibile, di evitare la pena e, in certi casi, anche il processo “cercando di superare la logica del castigo”. In conclusione, vedo con favore tale novella legislativa, nel convincimento che trattasi di ulteriore tentativo di ridurre il malcontento delle vittime dei reati nei confronti di una giustizia lenta ed inadeguata a rispondere, in tempi civili, alla richiesta di giustizia, che troppo spesso s’infrange contro lo scoglio della prescrizione. Si è voluto così decongestionare il carico di lavoro gravante sugli uffici giudiziari penali, nei reati ove vi siano dei danni risarcibili, creando un canale che dia ad entrambe le parti contrapposte un beneficio: al reo indiscutibili benefici che dovrà “guadagnare” risarcendo il danno arrecato con la commissione del reato”. Premio Castelli, per mostrare che “un’altra strada è possibile” di Gigliola Alfaro agensir.it, 6 ottobre 2018 Il concorso letterario destinato ai detenuti delle carceri italiane promosso dalla Società di San Vincenzo de Paoli, con la collaborazione del Ministero della Giustizia e il patrocinio di Camera e Senato. L’intento, spiega il presidente nazionale, Antonio Gianfico, è anche “sensibilizzare la società ai temi della giustizia penale, a quelli del complicato rapporto tra le esigenze penitenziarie e le garanzie di dignità, le opportunità di riscatto che vanno sempre e comunque riconosciute alle persone private della libertà personale”. Venerdì 5 ottobre la cerimonia di assegnazione dei premi si è tenuta a Napoli, presso l’Istituto penale per minorenni di Nisida. Tornare indietro non è possibile, ma cambiare sì. Quante volte tutti noi, andando a ripercorrere il nostro passato, con gli occhi e la consapevolezza del presente, vorremmo non aver fatto certe scelte che hanno condizionato la nostra vita. Parte da questa riflessione il tema dell’11ª edizione del Premio “Carlo Castelli” per la solidarietà “Un’altra strada era possibile: che cosa cambierei nella società e nella mia vita”. Il Premio Castelli è un concorso letterario destinato ai detenuti delle carceri italiane promosso dalla Società di San Vincenzo de Paoli, con la collaborazione del Ministero della Giustizia e il patrocinio di Camera e Senato. La cerimonia di assegnazione dei premi si è tenuta a Napoli, venerdì 5 ottobre, presso l’Istituto penale per minorenni di Nisida. Ad essa è seguito un convegno dal titolo: “Strade sbagliate, vie alternative”, con la presenza, tra gli altri, di Luigi Accattoli, Maria Rita Parsi, Laura Nota, Ettore Cannavera. Attenzione ai detenuti. “La Società di San Vincenzo De Paoli - spiega il suo presidente nazionale, Antonio Gianfico, attraverso il premio, testimonia pubblicamente da undici anni la sua attenzione al mondo del carcere e la vicinanza alle persone detenute, che da sempre conforta e aiuta con i suoi volontari. E lo fa anche per sensibilizzare la società ai temi della giustizia penale, a quelli del complicato rapporto tra le esigenze penitenziarie e le garanzie di dignità, le opportunità di riscatto che vanno sempre e comunque riconosciute alle persone private della libertà personale”. Da quest’anno il Premio Castelli promuove un nuovo filone di riflessioni: “Invita il detenuto a riconoscere le cause e i comportamenti che lo hanno condotto in carcere. Si parla spesso, giustamente, di prevenzione, perché la devianza e il crimine non nascono dal nulla e non devono essere una scelta obbligata, o addirittura subita, quando giovani vite ne sono coinvolte”. Secondo Gianfico, “le considerazioni degli autori di questi racconti ci aiutano a individuare nuove vie di prevenzione, o semplicemente ci spingono a rafforzare quelle già conosciute e praticate dalle agenzie educative disponibili nella nostra società (famiglia, scuola, parrocchia, media…), ma che necessitano di un impulso importante dalle istituzioni pubbliche, ancora troppo orientate a perseguire la sicurezza nella repressione e nel contrappeso retributivo della pena”. Tre premiati. I partecipanti all’11esima edizione del Premio Castelli, sono stati 123. Tra gli elaborati pervenuti alla giuria, presieduta dal giornalista Luigi Accattoli, da molti istituti penitenziari di tutt’Italia, tre sono stati premiati e dieci segnalati. Insieme sono stati raccolti nell’antologia: “Alla ricerca della strada perduta”. La formula del concorso si basa sulla solidarietà nella condivisione dei premi, che vengono suddivisi tra il vincitore e una buona causa nel sociale - ad esempio la destinazione di materiale e sussidi didattici a una scuola di un Paese povero, per permettere a chi ha sbagliato nella vita di riscattarsi offrendo un contributo alla società. Fiammella di legalità. “Anch’io che sono stato un trafficante, uno dei peggiori, ho l’impressione di racchiudere una fiammella di legalità”. Lo scrive nel racconto che gli è valso il primo posto Massimiliano Avesani, che definisce quelli nella sua situazione “persone, passatemi il termine, diversamente oneste, capaci di riconoscere e condannare i reati altrui, ma non i propri”. Avesani, invece, ha trovato la sua “via” per comprendere la bruttura del suo reato, parlando con i propri figli: “Perché raccomandavo ai miei figli di non drogarsi, quando ho speculato sulla vendita di quei prodotti? Cosa hanno i figli degli altri meno dei miei? Già, signori, a volte, per trovare la propria via, basta un colloquio e un briciolo di onestà intellettuale”. “Ciò che mi preoccupa da quel giorno non è più la data di rilascio - ammette Massimiliano -, bensì il sapere chi sarò quel giorno e se sarò degno di affrontare lo sguardo dei miei figli e quello dei genitori di tutti gli altri”. Tempo per pentirsi. “La detenzione mi ha regalato tanto tempo durante la giornata, tempo vuoto da ogni impegno, dalle amicizie, dagli interessi, tempo che ho utilizzato per riflettere; dopo tanti anni trascorsi in un vortice sempre più veloce di emozioni, all’improvviso non avevo più nulla da fare, se non aspettare il corso della giustizia, e così, il tempo mi ha aiutato”, ammette Fabio “occhi belli”, che si è aggiudicato il secondo premio. “Ho preso coscienza, ho capito quanto indietro ero rimasto nel costruirmi una mia vita; rendermi conto di aver gettato anni della mia esistenza nella spazzatura, in qualche modo mi ha spaventato e mi ha dato la voglia di cambiare”, aggiunge. Per il giovane “sarebbe necessario aumentare il più possibile le opportunità formative dei giovani e trovare uno sbocco lavorativo concreto, aumentare i centri di aggregazione, spingere i giovani ad avvicinarsi a uno sport in modo da tenerli impegnati e impartirgli dei giusti valori. Bisognerebbe soprattutto attenzionare le zone delle città più disagiate, aumentare i servizi, diminuirne la dispersione scolastica, far capire a ogni singola persona che non è abbandonata a se stessa”. Il vero dolore. “Un fiore tra le pietre” di Ali ha ottenuto il terzo premio. Il titolo è tratto dall’ultima riga che riassume in metafora la decisione di mettersi all’opera per “cambiare qualcosa” in una vita ancora giovane, ma che ha già sperimentato ogni smarrimento fino al tentato suicidio: “Butterò la mia paura come un anello nel mare per non ritrovarla mai più, oggi è nato un fiore in mezzo alle pietre”, sostiene il ragazzo, che guardandosi allo specchio ha capito di avere iniziato il viaggio di ritorno dalla perdizione: “Stavo piangendo per i miei errori e questa era la prima volta in cui il mio dolore era vero”. Il Sinodo in carcere di Vittoria Terenzi Città Nuova, 6 ottobre 2018 “Liberi nell’arte” è l’iniziativa, pensata per i carcerati in occasione del Sinodo 2018, che è stata presentata il 1° ottobre presso la Sala Marconi di Palazzo Pio a Roma. Un progetto che ha l’obiettivo di investire e scommettere sui giovani nelle carceri, cercando di favorire la cultura del reinserimento e dell’integrazione sociale attraverso l’arte. È stato ispirato dalle parole pronunciate da papa Francesco durante l’incontro con i detenuti della Casa circondariale di Isernia, il 5 luglio del 2014: “Tutti sappiamo che quando l’acqua sta ferma marcisce. C’è un detto in spagnolo che dice: “L’acqua ferma è la prima a corrompersi”. Non stare fermi. Dobbiamo camminare, fare un passo ogni giorno, con l’aiuto del Signore”. Se la finalità di un Sinodo dedicato ai giovani è quella di ascoltarli e tentare di comprendere i loro desideri, tale progetto consente di guardare a tutto tondo il mondo giovanile, cercando di dare voce alle speranze dei detenuti. “Con il Sinodo, la Chiesa vuole interrogarsi su cosa i detenuti chiedono alla comunità ecclesiale”, ha detto nel corso della conferenza stampa don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri. “Una Chiesa in uscita deve entrare nelle carceri” e il Sinodo “è anche per chi è fuori dal recinto della Chiesa ed è alla ricerca del vero volto di Dio”. Promosso dal mondo della stampa cattolica - Ucsi Molise - in collaborazione con Vatican News, Sky Arte, ministero della Giustizia e Ispettorato generale dei Cappellani, “Liberi nell’arte” coinvolgerà i detenuti delle quattro strutture carcerarie del Lazio - I.P.M. Casal del Marmo, Casa circondariale femminile di Rebibbia, Casa circondariale di Regina Coeli, Casa di reclusione di Paliano. A partire dal 6 ottobre, sono previsti quattro momenti artistici. Si inizierà con l’Istituto penale per minorenni Casal del Marmo, con un collegamento dall’Aula Paolo VI in occasione dell’incontro dei giovani con i padri sinodali alla presenza del papa. Il 18 ottobre, nel carcere femminile di Rebibbia, sarà proiettato, in collaborazione con Sky, il film “Michelangelo Infinito” con la partecipazione dell’attore Enrico Lo Verso e del direttore artistico Cosetta Lagani. Il 19 ottobre a Casal del Marmo si terrà la presentazione dello show “Giudizio universale, Michelangelo and the secrets of the Sistine Chapel”, mentre il 20 la casa circondariale “Regina Coeli” ospiterà lo spettacolo delle DIV4S - Italian Sopranos, condotto da Lorena Bianchetti. Infine, il 25 ottobre presso la casa di reclusione di Paliano, sarà proiettato “Caravaggio l’anima e il sangue” alla presenza di Emanuele Marigliano, interprete del film, del direttore artistico Lagani e del regista Jesus Garces Lambert. “Liberi nell’arte” prevede anche l’istituzione di tre borse lavoro e due borse di studio finalizzate al reinserimento dei detenuti. Si tratta, ha sottolineato don Grimaldi, “di un messaggio forte a coloro che hanno la possibilità di fare una scelta coraggiosa perché non abbiano paura di investire su questi giovani” che “portano in sé dei sogni che vorrebbero realizzare e hanno bisogno di qualcuno che scommetta su di loro, che sono fasce deboli”. E rivolto al mondo dell’imprenditoria e dell’economia invita “ad avere il coraggio di investire su chi, per svariati motivi, ha sbagliato ed è in carcere”. Nel corso della conferenza stampa, Alfonso Cauteruccio, della Segreteria generale del Sinodo, ha ricordato: “La popolazione carceraria è una sfida per la Chiesa di oggi: non poteva mancare al Sinodo la voce di questi sofferenti”. “Portare l’arte all’interno delle carceri permette di far arrivare la voce della comunità ecclesiale, attraverso la comunicazione universale dell’arte, che non ha confini e nessuno può fermare”. “Ciò che si fa non è un evento, ma la tappa di un percorso di iniziative”, ha sottolineato mons. Dario Edoardo Viganò, assessore del Dicastero per la Comunicazione, auspicando che “le carceri siano il luogo dove mettere alla prova la fede cristiana, che è un’esperienza di misericordia e di speranza”. “L’idea - ha spiegato Davide Dionisi, del Dicastero per la comunicazione - è quella di far conoscere la sofferenza patita dietro le sbarre e superare l’equivoco che porta ad identificare la persona con il suo errore”. La sfida controvento dell’avvocatura: prima di tutto lo Stato di diritto di Piero Sansonetti Il Dubbio, 6 ottobre 2018 Mattarella qualche mese fa citò Manzoni: “Il buonsenso c’era, ma se ne stava nascosto impaurito dal senso comune”. Gli avvocati partono da qui. Il congresso degli avvocati si conclude oggi, e direi che ha raggiunto due risultati. Il primo è quello di avere mostrato una avvocatura compatta e combattiva. Che ha voglia di svolgere il suo compito e la sua battaglia nella società italiana. Il secondo è di avere fatto breccia, anche nello schieramento politico, sulla richiesta di introdurre nella Costituzione la figura dell’avvocato. Il congresso ha approvato in modo praticamente unanime la richiesta di costituzionalizzare la figura dell’avvocato, e ha preso atto del parere favorevole dei giuristi e di tutto - tutto - lo schieramento politico. Sono importanti questi due risultati? Aprono prospettive nuove? Sono molto importanti, secondo me, soprattutto per una ragione che provo a spiegare. Il congresso forense si svolge in un frangente politico molto difficile. La maggioranza degli italiani, assai recentemente, ha votato per partiti che negli anni scorsi si sono schierati su posizioni piuttosto lontane dai principi essenziali dello Stato di diritto. E questi partiti, sulla base delle leggi fondamentali della democrazia, hanno assunto il compito di governare il paese. Spinti da un vento populista che attraversa e squassa tutta l’opinione pubblica. Probabilmente non solo in Italia, ma in tutta l’Europa e anche in America. Recentemente il presidente della Repubblica, Mattarella, ha descritto molto bene questo clima, citando un passo famoso dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni. È un passo del capitolo trentadue, che dice così: “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Si parla degli untori, cioè, potremmo dire oggi, delle fake news che trasformano il vivere civile in una bolgia del sospetto, dove l’odio e la paura dell’altro prevalgono su ogni altro sentimento e soprattutto sulla ragione. Io penso che Mattarella abbia ragione. Il senso comune oggi non è affatto favorevole a riforme liberali e garantiste della società italiana. Non ama lo stato di diritto. Vuole una società e uno stato organizzati attorno a due soli valori: il rigore e la punizione. Questo senso comune - che Mattarella vede come alternativo al buonsenso - è il luogo nel quale si incontrano molte altre spinte, che fanno capo a settori larghissimi della politica e a settori meno larghi ma molto attivi della magistratura. Chi vuole opporsi a questa tendenza, che sembra decisamente vincente, vuole contrastarla e vuole provare a fare emergere il buonsenso, e farlo uscire dai nascondigli dove è rintanato, deve combattere una battaglia controvento. Il buonsenso, diceva Manzoni, c’è, ma si nasconde. E ce l’aveva con il Cardinal Borromeo, al quale pure era molto devoto, ma che criticava perché non aveva avuto il coraggio di opporsi a viso aperto alla follia della caccia all’untore, che costò la vita a tanti innocenti e che rese perfida, stupida e fetida la società milanese in quegli anni. Anche oggi il buonsenso è finito chiuso in cantina. C’è qualcuno che ha il coraggio che mancò a Borromeo e vuole lanciare la sfida? Gli avvocati adesso si trovano collocati su questo fronte, che è un fronte decisamente scomodo. E dunque era prevedibile qualcosa che non è successo. E cioè un arretramento, una divisione, una rincorsa a inguattarsi nelle retrovie. Invece il congresso è stato un congresso molto coraggioso, nel quale è emersa l’autostima che si temeva potesse scomparire. E l’avvocatura ha affermato con nettezza il suo punto di vista, e si è detta fiduciosa di poter combattere e vincere la battaglia per lo Stato di diritto. L’obiettivo di introdurre in Costituzione la figura dell’avvocato, modificando l’articolo 111, cioè quello sul giusto processo, è un po’ la bandiera di questa battaglia. Se sarà raggiunto segnerà oggettivamente un punto a favore del buonsenso. È molto importante che questo avvenga. Non tanto per la categoria degli avvocati ma per la categoria dei cittadini. In gioco non c’è una professione ma una idea della società, e c’è l’idea stessa che la modernità si costruisca attorno al valore del diritto, e non attorno ad altri valori. Gli avvocati, qui da Catania, mandano un messaggio molto forte: “Dovete discutere con noi le questione della giustizia e dovete discutere con noi tutti i problemi che riguardano i diritti. E noi chiediamo di entrare nella Costituzione non per avere un privilegio, ma per raggiungere una posizione dalla quale diventiamo noi stessi difensori della Costituzione”. Si può immaginare una battaglia di difesa della Costituzione, e dei suoi valori - che sono alla base della democrazia politica - senza gli avvocati? Io non credo. Perciò penso che la sfida che parte da qui sia una sfida molto ardita, quasi immane. Non sarà facile vincerla, statene sicuri: però il fatto stesso che gli avvocati abbiano deciso di lanciarla, un po’ ci tranquillizza. Salvini e la legittima difesa: “Ti difendi da un ladro? Lo Stato pagherà le spese legali” di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 6 ottobre 2018 Il ministro dell’Interno annuncia il nuovo testo sulla legittima difesa. Previsto anche il pagamento delle spese legali da parte dello Stato per chi si è difeso da aggressioni. Aumento di pene e multe per rapinatori e scippatori. “Chi commette un crimine sa cosa rischia. Chi si difende in casa propria, sarà difeso anche dallo Stato”. La Lega stringe i tempi sulla questione sicurezza. Difesa “sempre legittima, accertamenti e processi più rapidi, spese legali a carico dello Stato”. Ma anche “pene più alte per ladri e rapinatori, delinquenti in prigione con obbligo di risarcimento alle vittime e stop invece alle richieste di rimborso da parte dei criminali e dei loro parenti”. Sono i punti chiave del testo unificato per la riforma della legittima difesa, depositato in commissione Giustizia del Senato, con la benedizione degli alleati grillini che parlano di “prima sintesi equilibrata”. L’approdo in Aula è fissato per il prossimo 23 ottobre. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini sottolinea: “Un ladro ti entra in casa, in azienda o in negozio e tu ti difendi? Sarà tuo diritto farlo, senza finire sotto processo per anni e pagando di tasca tua”. Il cardine del testo di cui è relatore Andrea Ostellari, presidente leghista della Commissione, con i sottosegretari all’Interno e alla Giustizia Nicola Molteni e Jacopo Morrone, passa per la modifica parziale del secondo comma dell’articolo 52 del codice penale (sulla legittima difesa), con l’aggiunta, in riferimento al reato di violazione di domicilio (art. 614), dell’avverbio “sempre” sulla sussistenza del rapporto di proporzione nel caso si difenda la propria o altrui incolumità, oppure i beni, con un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo, “quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”. La legittima difesa è estesa ad attività commerciali, professionali e imprenditoriali. Inserito inoltre un quarto comma: agisce “sempre in stato di legittima difesa chi respinge l’intrusione con violenza o minaccia di uso di armi o altri mezzi di coazione fisica”. Modifica poi dell’articolo 55 sull’eccesso colposo: esclusa la punibilità di chi si difende “in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Ma il testo prevede anche aggravamenti di pene e multe in caso di violazione di domicilio (da uno a 5 anni, e da 2 a 6 anni se con violenza e con armi), di furto in appartamento e scippo (da 4 a 7 anni nel primo caso, da 5 a 10 nel secondo, con multa fino a 2.500 euro), di rapina (da 5 a 10 anni e da 7 a 20 anni, con multa fino a 4 mila euro se con armi, a volto coperto, prendendo ostaggi, in abitazione, su mezzi di trasporto, in banche, Poste o davanti ai bancomat, e se il rapinatore fa parte di associazioni mafiose). E la sospensione condizionale della pena sarà subordinata al pagamento integrale del risarcimento alla vittima. Il sussidio di povertà prevedrà il “reato di cittadinanza” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 6 ottobre 2018 Il workfare penale all’italiana. Nel giorno delle critiche al Documento di Economia e Finanza (Def) da parte della Commissione Europea sono emersi altri dettagli sulla misura simbolo del cosiddetto “reddito di cittadinanza” al centro dello scontro sui conti. Il vicepremier Di Maio ha parlato di “sei anni di galera” per i consumatori poveri che tenteranno di frodare lo Stato lavorando in nero e percependo l’assegno di ultima istanza. Il sottosegretario agli Affari Regionali Stefano Buffagni (M5S) ha inventato un nuovo reato: “falso in reddito di cittadinanza”. Nel Def prospettive miracolistiche sui centri per l’impiego. Sulla carta tutto quello che non è accaduto negli ultimi 40 anni dovrà avvenire tra gennaio e marzo 2019. Il sussidio di ultima istanza contro la povertà assoluta chiamato impropriamente “reddito di cittadinanza” sancisce l’introduzione della “cittadinanza digitale” e “apre le porte all’innovazione per il singolo cittadino”. Questa pretesa infondata è contenuta nel Documento di Economia e Finanza (Def) ieri criticato dalla Commissione Europea. La “cittadinanza digitale” è considerata un avatar del “cittadino” in carne ed ossa, il suo completamento simbiotico destinatario di pratiche amministrative (firma e identità digitale, carta di identità elettronica, la Pec e altro) ed è stata formalizzata nel diritto italiano nel 2005 quando fu introdotto il “codice dell’amministrazione digitale”. Da gennaio 2018 è prevista una “carta della cittadinanza digitale” che auspica la semplificazione nell’accesso ai “servizi alla persona”, “riducendo la necessità dell’accesso fisico agli uffici pubblici”. Al di là della consistenza di queste promesse - che permettono l’accesso ai servizi di circa 3.800 amministrazioni - il Def conteneva in realtà un’”innovazione”: la creazione di un governo di 3,6 milioni di “poveri assoluti” italiani, escludendo 1,6 milioni stranieri tranne un numero di stranieri residenti da 10 anni. A queste persone non si riconosce la “cittadinanza politica”, ma la cittadinanza del consumatore obbligato a scegliere tra prodotti e servizi stabiliti dallo Stato spendendo un sussidio digitale accreditato su “un bancomat normale, non su una card che è umiliante” ha detto il vicepremier Luigi Di Maio. Come sarà confermato, tra poche settimane, da uno dei dodici collegati alla legge di bilancio annunciati nel Def, la cifra accreditata sul bancomat sarà il risultato della differenza tra il tetto di 780 euro e i limiti patrimoniali e reddituali Isee. Dovrà essere spesa interamente nei circuiti di spesa autarchici, altrimenti c’è una penalizzazione. Di Maio ha confermato che non ci sarà alcuna esenzione dal sussidio di povertà per le persone che non lavorano ma hanno una casa di proprietà. L’assegno sarà calcolato in base a un “affitto imputato”: il valore del patrimonio individuale non espresso dal reddito o da altre entrate, la presunzione di quanto costerebbe di affitto la casa di proprietà a prezzo di mercato. Tranne nei casi di nullatenenza accertata, la media dei sussidi per i forzati del consumo di povertà sarà più che dimezzata. La “cittadinanza digitale” che nasce sarà programmata in base all’esperienza in un centro commerciale e controllata dalla guardia di finanza che dovrà sorvegliare e punire eventuali frodi di chi lavora in nero. La pena annunciata da Di Maio è “sei anni”. Il sottosegretario agli Affari Regionali Stefano Buffagni ha aggiunto una postilla a questo nuovo stato penale digitale: “Per i furbi ci sarà il reato di “falso in Reddito di Cittadinanza” oltre a controlli seri e automatizzati, grazie alla digitalizzazione dei trasferimenti monetari”. La violenza di questi avvertimenti è pari solo al silenzio che il governo continua ad avere su chi, invece, costringe a lavorare in nero. Un atteggiamento inversamente proporzionale si riscontra invece per chi dovrebbe rientrare nel condono chiamato, eufemisticamente, pace sociale. Per i “poveri”, nessuna pace, solo accanimento. Il “cittadino digitale” sarà dunque sospettato di essere moralmente inaffidabile, è potenzialmente colpevole finché non avrà dimostrato di essere capace di spendere tra due e quattrocento euro in media. Ai beneficiari del sussidio di povertà è chiesto di cedere diritti in cambio della promessa di trovare un lavoro a tempo indeterminato. Questa convinzione è così forte da avere spinto il governo a prospettare una discesa dei fondi per il “reddito” già a partire dal 2020 per finanziare la “quota 100” e la “flat tax” cari alla Lega. Una scommessa che trascura la realtà del mercato del lavoro e le reali prospettive della crescita del Pil. Spesa complessiva per il 2019: 9 miliardi di euro, 0,9% del Pil annuo fino al 2021 e circa uno per i centri per l’impiego. Ciò che manca si dice sarà finanziato con il taglio dello 0,2% del Pil, in parte dalla spesa dei ministeri. Bruxelles non è stata convinta da questi calcoli, al netto delle argomentazioni ideologiche che hanno scambiato ingiustamente questo workfare neoliberista (in linea con l’Ue) per una misura “assistenzialistica”. Di Maio vorrebbe avviare questo sistema “entro marzo”. In tempo per le elezioni europee 2019, vera posta in palio in questo scontro con la Commissione Ue. Sarà necessaria una riforma epocale dei centri per l’impiego. Sulla carta tutto quello che non è accaduto negli ultimi 40 anni dovrà avvenire tra gennaio e marzo 2019. Il Def non spiega il miracolo. Non fissa la data delle assunzioni del personale qualificato, in aggiunta alle 10 mila (per 1,5 miliardi di costo) tra le forze dell’ordine. È ancora incerto chi dovrebbe formare questo personale, in quali tempi sarà effettuato “l’adeguamento dei locali dal punto di vista strutturale” dei 550 centri esistenti. Né si forniscono suggestioni sulla realizzazione del sistema informativo unitario tra enti diversi necessario all’avvio della “riforma”. Nella vaghezza di tutto questo agitarsi intorno al sussidio di povertà negli ultimi giorni si sono moltiplicati episodi singolari, presentazioni sensazionali dal balcone di Facebook, comunicazioni entusiastiche ispirate al wishful thinking aziendale. Va ricordata la stretta di mano con il professore italo-americano Mimmo Parisi creatore della “app” capace di fare incontrare la domanda e l’offerta di lavoro nel Mississippi, lo Stato americano preso ad esempio dai Cinque Stelle per annunciare la lieta novella delle “politiche attive” anche in Italia. C’è stato anche il discorso motivazionale dell’ex manager Amazon, commissario all’agenda digitale uscente, Diego Piacentini sull’”implementazione” digitale del sussidio che i cittadini poveri dovranno conquistarsi in cambio di otto ore di lavoro gratuito a settimana, corsi di formazione obbligatori, accettando un’offerta di lavoro su tre pena l’esclusione. Il governo non cederà, e insisterà su questi progetti. Potrebbe finire così. Se, e quando sarà approvata la manovra, ad aprile i destinatari del sussidio di povertà saranno le cavie di un esperimento digitale poderoso che progredirà, se sarà in grado di farlo, grazie all’interazione con i soggetti beneficiari. La “manovra del popolo” sembra agire come l’algoritmo nella rivoluzione digitale: apprende dai comportamenti degli umani e li sfrutta per accrescere il suo valore. Qui non è quello privato delle piattaforme, ma politico del governo che deve dimostrare che il sistema funziona e i poveri sono “occupati” messi al lavoro in quello che si prefigura come il workfare penale all’italiana. Nella Terra dei fuochi si continua a morire. Nonostante la beffa delle bonifiche di Francesca Sironi L’Espresso, 6 ottobre 2018 Per ripulire il territorio in Campania, è arrivato più di un miliardo. Ma i roghi tossici non si fermano. Tre milioni di persone sono esposte a gravi rischi per la salute. Tecnici e ambientalisti denunciano le varie passerelle dei politici. “E anche i 5 Stelle hanno tradito le promesse ai comitati”. È l’inferno perfetto: perché non si vede. Ci sono campi di spighe all’apparenza intatte, fossi d’erba scura, uno sterrato che porta a una masseria del ‘700. È perfetto, quest’angolo d’Ade. Se non che a respirare filtra dal terreno un odore dolciastro che prende allo stomaco - e fa sputare. Sotto questi prati sono state sversate infatti centinaia di migliaia di batterie. Una transenna coperta dai rovi segnala “pericolo” così come un pozzo chiuso da un lucchetto - anche se l’acqua al veleno viene comunque usata nei campi abusivi. Siamo a Cava Monti a Maddaloni, in provincia di Caserta. Un esempio perfetto dell’impasse in cui si trova la questione Terra dei fuochi in questo momento. “Qui la magistratura è arrivata, ha accertato, questa storia è stata portata in Parlamento. E poi? Nulla”, indica con rabbia e dolore Enzo Tosti, storico attivista per l’ambiente in Campania: “La politica è assente. Di chi è la responsabilità? Della Regione? Del Comune? Probabilmente sì. Ma allora, che si fa?”. Che si fa? Contenere, ripulire, Cava Monti è fra i progetti inseriti in un accordo da 160 milioni di euro, soldi pubblici, un ennesimo piano che prevede interventi a Bagnoli e operazioni di “risanamento” affidate a Invitalia, che prometteva a riguardo: “Il 2018 sarà l’anno delle bonifiche”. Per ora alla discarica delle batterie sepolte senza controlli il tempo passa immobile, nonostante “il problema fosse stato sollevato già vent’anni fa”, raccontava ancora nel 2015 un dirigente dell’Agenzia regionale per l’Ambiente ai deputati della commissione d’inchiesta sui rifiuti: “Poi era stato accantonato; siamo stati a eseguire delle misure. Abbiamo fatto riunioni, tavoli tecnici, eccetera. Abbiamo preparato anche un piano, però non ci sono finanziamenti e non si sa cosa fare: su Cava Monti ancora non si è deciso nulla di definitivo”. I finanziamenti nel frattempo sono arrivati, però. E parecchi. Fra fondi europei, contributi di Stato e stanziamenti regionali, la Campania ha avuto a disposizione, abbiamo ricostruito, oltre un miliardo di euro per ripulire le zone inquinate dagli sversamenti di rifiuti, soprattutto industriali, scarti ammassati di filiere che lavorano spesso in nero: scampoli tessili, materiali da costruzione, chimica tossica. La somma complessiva della mole di denaro messa sul tavolo è talmente difficile da calcolare con esattezza che il ministero dell’Ambiente, racconta il consigliere regionale Vincenzo Viglione, ha convocato un tavolo tecnico con la giunta per verificare l’entità effettiva dei soldi spesi e di quelli ancora disponibili. Ma il problema non è tanto il portafoglio, quanto la spesa rispetto ai risultati. Minimi. Soprattutto nella certezza che ogni bonifica rimandata è oggi - e se non oggi di certo domani - una minaccia gravissima e costante alla salute dei residenti. “La Terra dei fuochi è diventata una grande occasione di speculazione politica. Una passerella su cui si affacciano tutti: prima Matteo Renzi e Vincenzo De Luca, con le loro promesse. Ora anche il governo gialloverde”, commenta Raniero Madonna, giovane ingegnere ambientale che nel 2013 contribuì a portare a Napoli migliaia di cittadini dietro lo striscione “Stop biocidio”: “Il Movimento 5 Stelle sta tradendo le aspettative dei comitati, qui come a Taranto”. L’esempio? “Ai primi di luglio hanno presentato il “decreto Terra dei fuochi”. Si tratta in realtà di una riorganizzazione delle competenze del ministero. Chiamarlo così è uno spot politico che mortifica il dolore di questa gente”. La promessa elettorale del governatore De Luca aveva e ha la sagoma colossale delle cinque milioni e mezzo di tonnellate di ecoballe ammassate sotto immensi teli neri a Giugliano, a Villa Literno e in altri piccoli comuni. Rifiuti dei rifiuti, un monumento alla monnezza che si estende per chilometri su terreni che sono costati a oggi 24 milioni di euro solo d’affitto, con ovvi interessi dei clan. L’ex ministro Gian Luca Galletti, annunciando “Ecoballe, addio!” tre anni fa, mise sul piatto 450 milioni di euro per smaltire quel peso, 150 stanziati per decreto nel 2015. A questo gruzzolo si sono aggiunte altre centinaia di milioni, in parte con la Finanziaria del 2016, in parte con fondi europei stornati apposta da altri obiettivi per alimentare quest’unica missione. Insomma, una cassaforte. Risultato? L’ultimo report della “struttura di missione per lo smaltimento dei Rsb (l’acronimo burocratico che identifica i “rifiuti stoccati in balle”), aggiornato al 5 luglio 2018, è a dir poco demoralizzante: su 880 mila tonnellate messe a bando, ne sono state rimosse solo 140 mila e 537. Di questo passo ci vorrà un secolo per inaugurare la pulizia promessa, mentre gli stessi stock vengono traslati altrove in Italia (pochi sono finiti in Portogallo). Vicino alle ecoballe, a Giugliano, s’alza un altro mausoleo all’inquinamento, tappa obbligata del triste “toxic tour” di questa terra fragile: la Resit, una discarica che da decenni fa filtrare sostanze tossiche nel suolo. I primi atti amministrativi sono del 2008. I soldi per recintare i veleni ci sono. La gestione viene affidata a Sogesid, società in house del ministero dell’Ambiente. Che s’incastra presto. Analisi a rilento, ricorsi, indagini giudiziarie, lavori che procedono a fatica. Insieme al paradossale dettaglio per cui la gestione del percolato - il liquido causato dai rifiuti - non rientrava nella gara. Per cui adesso nessuno sa come metterci mano. In provincia di Caserta simile sorte illogica, almeno a vederla da fuori, descrive luoghi come “Lo Uttaro”, un’area industriale di cui l’ex sindaco Pio Del Gaudio, di fronte a una relazione ambientale che definiva cogenti i divieti di utilizzare l’acqua, per la falda contaminata, dichiarava: “Non c’è alcun allarme ambientale”. Era il 2014. Nel frattempo si sono sommati piani, carotaggi, controlli, allarmi, quasi un milione speso in progetti solo da Sogesid. Azioni concrete di bonifica della zona? Missing. E altri rivoli di fondi, europei e non, si sono persi nel frattempo in antologie burocratiche. O in smaccati sprechi. Come è stato per gli almeno sette milioni di euro spesi per la “videosorveglianza anti-roghi” da decine di comuni. Su uno spiazzo di cemento in periferia di Orta di Atella, in quella che fu Terra di Lavoro, una bella telecamera nuova nuova si alza sopra mucchi di scarti industriali e urbani appena incendiati. Il sistema, spiega la Polizia, non comunica infatti con la centrale. Quindi gli agenti della Municipale, se vogliono vedere le immagini (che si cancellano ogni 7 giorni), devono mettersi in auto sotto il palo e per “ore e ore”, con un tablet, scaricare i file. Risultato: una fatica inutile. Certo, in questi anni alcune bonifiche sono state fatte. Grazie a 250 milioni stanziati da Bruxelles nel 2013, ad esempio, 39 discariche pubbliche abusive sono state rese innocue. Su 120, però: ne restano 81 da sistemare, oltre a 26 private. E ancora: 15,5 milioni di euro sono stati affidati a un grande studio che si spera definitivo, messo nelle mani dell’Istituto Zooprofilattico e di un gruppo di agguerriti ricercatori indipendenti. Dovrebbe dare risultati importanti sui pozzi (mai censiti completamente fino ad ora) e sui marcatori di veleni nel sangue di 4.200 persone sane. Per ora, alcuni risultati pubblicati hanno rassicurato gli agricoltori sulla bontà dei loro frutti. Con l’entusiasmo - scritto per decreto - della Regione Campania, per la quale il progetto aveva permesso alle imprese di “contrastare con dati scientifici la campagna denigratoria nei loro confronti”. Orientare i numerosi e confliggenti “dati scientifici” di questa zona martoriata dai veleni e dal silenzio è facile. Dopo gli anni dove tutto era “emergenza”, dopo anni di studi su studi usati per contrapporre analisi di un’emergenza ambientale diffusa che è sempre rimasta tale, ora la parola d’ordine sembra diventata: normalizzare. Ridimensionare. Spegnere almeno i fuochi mediatici. Il dirigente dell’Asl 2 di Napoli Antonio D’Amore sta avviando ad esempio una campagna d’informazione per gli screening oncologici, un’iniziativa meritevole in una zona che non ha accesso, e abitudine, a una buona sanità. Ha sul tavolo i manifesti pronti. Ma li vuole far ristampare. Perché c’è scritto “Terra dei fuochi” sotto il logo e questo lemma “non lo voglio proprio più vedere”, dice. I registri dei tumori vengono usati alternativamente per denunciare il disastro o per rassicurare sulle incidenze standard di malattie, pur sapendo che è negli anni che cova il male prima di manifestarsi. A disorientare è la scala stessa del bacino preso in considerazione: 90 comuni, tre milioni di persone, esposte a mix di inquinanti diversi e non sempre definiti. “Il pericolo è quello di non riuscire a leggere fattori di rischio presenti in alcuni luoghi, da una parte, e dall’altra creare allarme su persone che sono al sicuro”, commenta Mario Fusco, coordinatore dei registri dei tumori in Regione. Di sicuro l’atlante sulla mortalità mostrerà, come L’Espresso può anticipare, che la mortalità è in eccesso in 60 comuni per gli uomini e 61 per le donne, residenti che si trovano sia dentro che fuori il perimetro amministrativo dei roghi. Anche gli incendi non riconoscono il confine “standard” della zona considerata malata. Ne è un esempio Bellona, in provincia di Caserta. Ufficialmente fuori dalla Terra dei fuochi, mentre concretamente ospita un ex impianto di trattamento dei rifiuti che è andato a fuoco due volte: la prima nel 2012, la seconda a luglio del 2017. E “le fumarole”, come le chiamano i residenti, continuano ogni settimana. “Io quando sento la puzza, faccio un video, così che non possano dirmi che il problema è finito”, racconta Adele, che vi abita di fronte. L’Ilside di Bellona è stata d’altronde l’anteprima della stagione attuale. Perché se è vero che i roghi di monnezza, di pneumatici e frigoriferi, al bordo della strada, sono diminuiti, grazie ai controlli coordinati dal prefetto, quest’estate in Campania gli incendi sono tornati. Diventando ben più preoccupanti. In tre mesi, sono bruciati tre dei cinque impianti regionali convenzionati con il consorzio per il riciclo della plastica. Altri stabilimenti specializzati nel trattamenti degli scarti sono stati colpiti. L’ultimo rogo è accaduto la notte del 24 settembre: a Pastorano ha preso fuoco un enorme piazza di stoccaggio. Per interpretare il fenomeno, si parla del blocco dell’import di 32 tipi di rifiuti da parte della Cina. O di manovre per aumentare il prezzo dello smaltimento in Italia da paesi esteri, quindi per alzare il business attraverso l’emergenza. Di certo si rischia una nuova crisi. Per combatterla “l’approccio investigativo deve essere quello che abbiamo per gli altri reati di profitto”, commenta Domenico Airoma, procuratore aggiunto del Tribunale di Napoli Nord: “Come per il traffico di stupefacenti, non dobbiamo fermarci al singolo pusher ma cercare di ricostruire legami e traffici. Seguendo i profitti. La stessa cosa va fatta per i reati ambientali”. Perché anche gli inquinatori inizino a pagare. E non solo i cittadini. No ai domiciliari per Verdiglione. “Fatemi tornare a scrivere libri” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 6 ottobre 2018 Armando Verdiglione, 73 anni mal portati, parla con un filo di voce dalla sedia a rotelle, ormai magrissimo. Nel suo primo mese di detenzione - da Opera è stato da trasferito al reparto penitenziario dell’Ospedale San Paolo - ha perso 24 chili. Il perito di parte che l’ha visitato ieri ha scritto nero su bianco che la sua condizione psicofisica “non è compatibile con l’ambiente carcerario”. E gli avvocati (Lucio Lucia, Andrea Orabona e Stefano Pillitteri) rilanciano ancora la richiesta di detenzione domiciliare per età avanzata e salute precaria, già rigettata tre volte. Ma lui non sopporta l’idea di essere dipinto come un anziano debole, tantomeno intende “fare quello che muove a compassione”. Con lo sguardo battagliero ben noto all’ambiente della cultura (e della magistratura), pure in un sussurro scandisce bene le parole: “Chiedo mi vengano concessi i domiciliari perché da casa posso continuare a scrivere i miei libri, incontrare intellettuali. Posso ancora dare un contributo alla cultura. E inoltre vorrei stare vicino a mia moglie che è malata di tumore”. Poi, sapiente, il professore allarga il discorso, da sé agli altri: “Nel nostro Paese le misure alternative al carcere sono utilizzate troppo poco. In queste settimane, mentre la manovra di bilancio faceva tanto clamore, passava sotto silenzio il via definitivo del Consiglio dei ministri ai decreti di riforma del sistema penitenziario. In pratica si affossa la legge delega che provava ad estendere quelle misure. Non si doveva fare, e lo dico a prescindere dal mio caso, dalla mia età, dal mio stato di salute, perché quello che i miei avvocati chiedono è già previsto dalla legge attuale”. Psicanalista orgoglioso, Verdiglione, filosofo riconosciuto a livello internazionale, imprenditore discusso per le accuse di ordine finanziario che gli sono state mosse una prima volta negli anni ‘80. A suo carico, allora, erano le ipotesi di truffa, tentata estorsione e circonvenzione di incapace (che gli costarono 4 anni e due mesi). Poi di nuovo fu accusato nel 2008 (frode fiscale e truffa alle banche: gli furono comminati nove anni, con tanto di confisca di beni per oltre cento milioni, e un mese fa la condanna - ridimensionata a 5 anni - è diventata esecutiva). “Avevo intorno pensatori di fama internazionale, da Alberto Moravia a Emmanuel Lévinas e Jorge Luis Borges”, dice il professore, lasciandosi prendere solo un attimo dalla nostalgia. Nel 1987 l’”affaire Verdiglione” provocò la levata di scudi di studiosi del calibro di Bernard-Henri Lévy e Eugène Ionesco, che comprarono una pagina su Le Monde e lanciarono un appello al Presidente della Repubblica e alla magistratura italiana per mettere fine a quello che bollavano come “clima da caccia alle streghe con prigionieri politici”. Quando il professore tornò in cella a scontare la pena si mosse un gruppo guidato da Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora. E anche ora, al secondo processo, sono venuti a testimoniare in aula per lui da tutto il mondo intellettuali del calibro di Marek Halter. Venendo all’oggi: a settembre diventa definitiva la condanna (per i reati che risalgono a dieci anni fa) a lui e alla moglie Cristina De Angeli Frua (ma a lei, in ragione dell’età e del tumore, i domiciliari sono stati concessi). Quello che resta della loro vita di un tempo non c’è più. La villa San Carlo Borromeo di Senago, che veniva affittata per matrimoni ma soprattutto utilizzata per convegni (“a scopo intellettuale e non speculativo”, dice lui), risultata esposta per 73 milioni, è andata all’asta. Così la villa Medolago di Limbiate. Quanto all’udienza di merito sulla richiesta dei domiciliari, è fissata per il 10 dicembre. Verdiglione scende dalla sedia a rotelle, si corica sul letto del San Paolo e prima di addormentarsi sussurra: “Magari il giudice di sorveglianza anticipa la decisione e mi fa tornare a casa, e ai miei libri”. Il diritto all’oblio nelle mani della Corte Ue di Mauro Masi* Italia Oggi, 6 ottobre 2018 Il 13 maggio 2014 la Corte di giustizia europea ha introdotto il “diritto all’oblio” nel senso che ha stabilito che i cittadini Ue hanno diritto di richiedere ai motori di ricerca (quindi essenzialmente a Google) la rimozione di informazioni associate al proprio nome quando queste siano “inadeguate, irrilevanti, non pertinenti o non più pertinenti”. Qualora il motore non ottemperi, l’interessato può adire le competenti autorità nazionali che valutano la fattispecie e, se del caso, possono imporre allo stesso motore di ricerca la soppressione del link. Le autorità nazionali, scriveva allora la Corte, dovranno bilanciare il diritto alla protezione dei dati personali con l’interesse generale a una corretta e completa informazione. Google, dopo aver criticato duramente e tentato di opporsi alla sentenza, ha poi deciso di ottemperare e di farlo in via immediata mettendo a disposizione dei cittadini europei un modulo online attraverso il quale richiedere la rimozione dei contenuti rientranti nel “diritto all’oblio”. Negli oltre quattro anni successivi sono peraltro emerse almeno due grandi problematiche. La prima è di natura giuridica: la sentenza della Corte ha lasciato un ampio spazio di interpretazione (quando, ad esempio, una notizia è “irrilevante” o “non più pertinente”?); uno spazio che, nell’impostazione originaria, la Corte stessa sembrava riservare alle varie autorità nazionali. Nella prassi di questi anni però lo spazio interpretativo è stato occupato, di fatto, essenzialmente da Google che è diventato l’arbitro (con propri criteri non necessariamente noti al pubblico) del bilanciamento tra diritto alla privacy e libertà di espressione. La seconda problematica, ancora più pervasiva, è di natura tecnica: il diritto all’oblio non esiste negli Stati Uniti e fuori dalla Ue e Google fin dall’inizio ha deciso di vagliare solo le richieste relative alle proprie estensioni europee per cui un contenuto rimosso ad esempio da google.it o da google.uk può essere comunque raggiungibile da google.com (il sito globale di BigG). In questo specifico scenario si è inserita la giustizia francese aprendo un procedimento che può portare ad un cambiamento molto significativo del modus operandi dei motori di ricerca: nel 2015 il Garante per la privacy francese ha stabilito infatti che Google doveva rimuovere i link non solo dalla versione francese del motore di ricerca ma tale rimozione era da estendersi a tutte le diramazioni dello stesso. Google, ovviamente, ha resistito e nel 2016 è stato multato con la sanzione simbolica di 100 mila euro per la quale Big G (preoccupata dall’effetto “annuncio” e di “precedente” della sentenza) ha adito il Tribunale amministrativo supremo francese che ha rinviato il caso alla Corte di giustizia europea; questa ora ha fatto sapere che si pronuncerà nelle prossime settimane. La decisione stabilirà se chiunque nel mondo potrà chiedere la deindicizzazione globale o se, invece, il diritto all’oblio dovrà essere nazionale o, al limite, continentale. Sarà una decisione storica, che comunque cambierà la rete. *Delegato italiano alla Proprietà intellettuale Campania: la territorialità della pena e gli ingiusti trasferimenti dei detenuti fuori Regione di Samuele Ciambriello linkabile.it, 6 ottobre 2018 Nei giorni scorsi come Garante dei detenuti ho incontrato un gruppo di reclusi del carcere di Secondigliano, reparti di Alta sicurezza. Il tema affrontato e denunciato da loro è stato la territorialità della pena. Oggi ho incontrato dei familiari di detenuti napoletani trasferiti in Calabria, Sicilia e Umbria. Indubbiamente la lontananza dal luogo di residenza rende difficile e a volte impossibile per il detenuto l’incontro con i familiari, l’assistenza con i servizi territoriali, lo stesso rapporto con l’Avvocato, rende poi ancora più difficile il percorso rieducativo. Non si tratta solo di un problema di natura tecnico giuridica connesso con l’applicazione dell’art, 42 dell’OP, ma si tratta anche di una questione di natura culturale e sociale, cioè di avere da parte di tutti un approccio democraticamente positivo nei confronti dei detenuti e del mondo carcerario nel suo complesso. Ecco cosa dice l’art 42 dell’ordinamento penitenziario: “I trasferimenti sono disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell’istituto, per motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari. Nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie”. Nella prassi, il trasferimento per motivi di sicurezza è stato utilizzato come cautela presa nei confronti dei detenuti che, pur non avendo commesso illeciti disciplinari o penali, sono stati considerati scomodi perché troppo “attivi”. I trasferimenti per esigenze di istituto, per motivi di sicurezza e di giustizia, sono disposti d’ufficio dall’Amministrazione penitenziaria, incidendo inevitabilmente sul principio di territorialità. Le esigenze dell’istituto consistono in necessità organizzative dello stesso (come sovraffollamento, lavori di restauro, sicurezza interna, protezione dello stesso detenuto), a cui è ovviamente estranea la condotta del detenuto. Per le storie ascoltate è stata rilevata una prassi di trasferimento per motivi di sfollamento, la quale nascondeva una “sanzione disciplinare” irrituale. Questi motivi determinano trasferimenti provvisori, derogando al principio di territorialità a favore del diritto di difesa, delle relazioni affettive, del reinserimento del detenuto. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria deve assumersi la responsabilità delle proprie scelte sbagliate. Noi continueremo ad essere resistenti, disarmati ma resistenti, difendendo il primato della persona diversamente libera e i suoi diritti inviolabili. Roma: Rebibbia, i bimbi uccisi dalla madre e il decisionismo del ministro Bonafede di Tiziana Bartolini e Paola Ortensi noidonne.org, 6 ottobre 2018 Alice Sebesta non doveva essere incarcerata perché la legge lo vieta. Il sistema, di fronte a una tragedia umana di questa portata, dovrebbe interrogarsi con coscienza e civiltà. Alice Sebesta, 33 anni, è arrestata per detenzione di droga e il 27 agosto entra nel carcere femminile di Rebibbia insieme ai suoi bimbi di 6 e 24 mesi. Tutti e tre sono accolti nel nido, spazio attrezzato e ben tenuto, in cui sono reclusi altri piccoli con le loro mamme. Il 18 settembre Alice getta i suoi bambini dalle scale, uccidendoli. La parola tragedia non riesce ad esprimere il dolore che suscita l’uccisione di due innocenti, difficile trovare espressioni che possano definire l’entità di un dramma generato da una sofferenza immensa e disumana, talmente insopportabile da indurre in una madre un gesto feroce, disperato, incomprensibile. Era prevedibile? Il sistema carcerario avrebbe potuto impedire ad Alice questo duplice infanticidio? Sono domande che né oggi né mai, probabilmente, potranno avere risposte certe e rispettose delle due vite negate e correlate alla gravità del gesto. È il senso di umana finitezza ad impedirlo: la razionalità e il sentimento ergono un muro di protezione tra la capacità di comprendere e le ragioni che provocano il gesto di una madre che uccide figli suoi e con l’allattamento ancora intimamente parte di lei. Una manifestazione così estrema della fragilità che abita l’animo umano impone la pietà e invoca il silenzio. Non così ha ragionato la politica: il ministro della giustizia Alfonso Bonafede il giorno dopo ha sospeso i vertici dell’Istituto di pena, additando come responsabili la Direttrice Ida Del Grosso, la Vicedirettrice Gabriella Pedote e la Vicecomandante della Polizia Penitenziaria Antonella Proietti. La scure dello Stato si è abbattuta con severità e repentinamente su chi, dentro alle ‘mura maledettè, lavora ogni giorno misurandosi con le difficoltà e le contraddizioni che inevitabilmente nascono nell’incontro/scontro tra le rigidità del sistema e le infinite sfumature delle sofferenze che la prigione infligge. Perché sono tutte diverse le persone detenute; entrando in carcere non perdono le loro peculiarità caratteriali, le origini culturali o il bagaglio del vissuto. Ciascuna è una storia a sé e ciascuna vive la reclusione a suo modo. I regolamenti, le leggi, le circolari non tengono conto delle differenze: sono scritte per le “persone detenute”, come se potesse esistere uno standard. Chi, giorno per giorno, è a contatto con loro ha il compito di declinare le neutralità, di spiegare il senso di tanti no, di modulare quanto possibile, di alleggerire il peso delle delusioni, di comprendere quando il filo della resistenza è troppo teso. Il personale è costantemente sull’onda di un moto perpetuo che non consente di aggrapparsi a punti fermi. Ogni gesto, ogni parola, ogni scelta è un viaggio nell’incertezza. Invece le leggi non hanno dubbi, i regolamenti impongono, le circolari prescrivono. Non conosciamo i dettagli del dramma di Alice, se non attraverso gli articoli pubblicati in cui le sue uniche parole sarebbero state “ora Faith e Divine sono liberi”; però sappiamo che, in base alle norme vigenti, le donne con figli piccoli non dovrebbero stare in carcere ma in strutture dedicate perché, come si sa, il parto e un bimbo piccolo sono fattori destabilizzanti per la donna. Ma le strutture sono insufficienti, gli Icam (Istituti a Custodia Attenuata per Detenute Madri) non riescono ad accogliere tutti i 62 bambini reclusi con le loro mamme. Lo Stato è inadempiente, eppure accusa, decreta, sancisce. Lo Stato punisce chi è obbligato ad accogliere chi in carcere non dovrebbe stare. Talvolta il rigore è necessario o persino indispensabile, perché le mancanze o le violazioni negli Istituti di pena ci sono. Nel caso di Rebibbia femminile, carcere indicato come modello avanzato, quello che possiamo affermare tranquillamente e con cognizione di causa dopo 4 anni in cui tutte le settimane e per lunghi periodi teniamo il nostro laboratorio, è che dal 2015 abbiamo visto al lavoro i vertici dell’Istituto e il personale, constatando in modo diretto e ‘sul campo’ professionalità e umanità. Ci siamo confrontate spesso con la Direttrice e la Vicedirettrice, incontrando apprezzamento e attenzione verso le proposte. La costante apertura a tanti progetti di volontariato che portano dall’esterno opportunità di incontri e scambio, sempre utili alle persone detenute, sono la testimonianza di un approccio che cerca di alleviare il peso della detenzione e di dare un senso ad un tempo altrimenti vuoto. Di fronte a questo impegno, che abbiamo sempre visto riconfermato anno dopo anno, la durezza della reazione dello Stato con le sospensioni comminate ai vertici dell’Istituto appare incomprensibile e frettolosa, se non addirittura dannosa. Lo abbiamo toccato con mano molte volte: il carcere è un microcosmo complesso in cui tutto si condensa e si amplifica. Pensiamo con sgomento al clima in cui l’istituto è piombato dopo il gesto di Alice, immaginiamo anche l’angoscia e il senso di impotenza che attraversa l’animo di tutte le persone, operatrici e detenute. Ci domandiamo anche quale può essere l’impatto di un provvedimento così duro come l’allontanamento dei punti di riferimento nell’Istituto, se non provocare ulteriore instabilità emotiva e nuove incertezze? Abbiamo sentito la necessità di condividere queste riflessioni sperando di contribuire alla conoscenza della complessità della realtà carceraria, intento che, del resto, ci poniamo con il nostro laboratorio a Rebibbia. Pensiamo che andare oltre la superficialità e i giudizi sommari è, in casi come questo, l’unico possibile gesto di civiltà. *Volontarie con il progetto “A mano libera” di Noidonne e Noidonne TrePuntoZero Reggio Calabria: i ragazzi di mafia siano liberi di scegliere di Mario Nasone* Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2018 Il lavoro iniziato dal presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria Roberto Di Bella di dare una alternativa di vita ai figli dei mafiosi ha suscitato consensi e critiche, alcune motivate, altre superficiali e pressappochiste. Con tutto il rispetto dei diversi e autorevoli pareri, forse sarebbe bene conoscere il punto di vista di chi è stato coinvolto in queste vicende di costrizione e condizionamento: come lo sono i ragazzi delle mafie. Emblematica la storia di uno di questi, G.D., proveniente da una famiglia di ‘ndrangheta della piana di Gioia Tauro. G.D. ha incontrato qualche mese fa il presidente Di Bella. Iniziò il suo racconto a partire dall’arresto a 16 anni per favoreggiamento di un pezzo da novanta della ‘ndrina locale. “Quell’arresto fu la mia fortuna perché determinò una svolta importante nella mia vita”, confessò. Poi seguì l’incontro con don Italo Calabro e con il suo Centro Comunitario Agape, fondato per strappare a un destino di abbandono e di esclusione sociale i minori delle periferie e degli orfanotrofi. Un incontro che determinò la scelta di G.D. di rompere con quel clan che lo stava risucchiando, e di spezzare i fili con la sua stessa famiglia che voleva per lui, una volta uscito dal carcere, un ruolo di primo piano nell’organizzazione criminale. Una scelta lacerante che lo portò a rompere i rapporti con la madre che gli pose un ultimatum: “O stai con noi o stai con il prete”. Lui fece la scelta di andare via, riuscendo negli anni anche a convincere la madre a fare la stessa scelta. Don Italo Calabrò fece la stessa cosa con gli undici minori coinvolti nella faida di Cittanova, una guerra che provocò 49 morti ammazzati. Anticipando quello che oggi fa il presidente Di Bella, nel tentativo di salvare questi figli di mafia da un destino di morte e di devianza, Don Italo convinse il Tribunale per i minorenni ad allontanare i ragazzi dai loro genitori, e a collocarli presso famiglie e comunità della regione e del Nord, grazie anche all’aiuto del gruppo Abele di don Ciotti. A distanza di oltre trent’anni, G.D. ha un desiderio: incontrare i ragazzi in carcere o nelle scuole, per testimoniare la bontà di quell’intuizione alla base del progetto Di Bella, da lui sperimentata sulla propria pelle. Per dire loro delle cose molto semplici: “Abbiate coraggio, affidatevi e confidate!”. Ma G.D. vorrebbe parlare anche ai capimafia, ancora di più alle madri e alle mogli: “Fate qualcosa per i vostri figli, voi che siete passati attraverso l’inganno della galera e della morte”. Di Bella ha di fatto continuato, con il suo protocollo “Liberi di scegliere”, quel lavoro avviato da don Italo Calabrò e da don Luigi Ciotti. Vederlo definito come un Pol Pot che deportai minori e gioisce della sofferenza di quelle madri a cui talvolta si decide di allontanare i figli è un giudizio ingeneroso ma anche superficiale. Personalmente sono stato testimone degli incontri del presidente Di Bella con i ragazzi, e con le loro madri: sono sempre emersi grande rispetto e attenzione quasi “paterna”. I provvedimenti del Tribunale sono frutto di ascolto e di rigore professionale, dove l’allontanamento, la revoca o la limitazione della potestà genitoriale sono le soluzioni estreme motivate da fatti gravemente pregiudizievoli dell’interesse del minore. È uno Stato che invece di stare a guardare interviene per offrire ai minori l’opportunità di fare incontri con adulti, con famiglie, con contesti sociali diversi da quelli in cui avevano vissuto. Con un limite: quello della maggiore età. Il momento della loro vita in cui sono chiamati a fare le loro scelte, anche quelle criminali, ma con la maggiore consapevolezza di chi ha avuto la possibilità di avere conosciuto delle alternative ai modelli mafiosi di vita in cui sono stati cresciuti. *Centro comunitario Agape Napoli: “se un bambino delinque a 8 anni, il problema è il nostro modello educativo” di Conchita Sannino La Repubblica, 6 ottobre 2018 Spadafora si smarca da Salvini. Il sottosegretario di Palazzo Chigi: “lavorare sulla povertà materiale è molto importante, e lo stiamo facendo con il reddito di cittadinanza. Ma non basta. C’è la povertà educativa e culturale, con cui fare i conti: con i danni sugli adulti e per la società, e le ferite che gravano su più piccoli. E nessuna repressione potrà mai sostituire questo lavoro che va fatto sulle fasce meno protette, e nei Comuni in cui i tagli hanno purtroppo indebolito ogni tipo di assistenza”. Vincenzo Spadafora, sottosegretario M5S alla presidenza del Consiglio - e autentico “sherpa” tra Palazzo San Giacomo e Palazzo Chigi - conferma la sua visione alternativa, di voce fuori dal coro. E ribadisce che sta lavorando alla misura per i giovani, annunciata ai primi di settembre a Repubblica, mirata a favorire “esperienze lavorative e formative” tra i giovani, “per valorizzarne potenzialità e talento, in territori fortemente penalizzati dalla crisi, al Sud come al Nord”. Spadafora ha partecipato ieri, ospite in punta di piedi, al premio “Carlo Castelli”, organizzato dalla società nazionale di San Vincenzo De Paoli, con la collaborazione del Ministero della Giustizia ed il patrocinio di Camera e Senato: un concorso riservato ai racconti biografici dei detenuti dei vari penitenziari italiani, sui motivi all’origine delle loro devianze. “Il comune denominatore? Tutti raccontano di aver sentito la mancanza di figure di riferimenti negli anni dell’adolescenza e della formazione”, spiega Antonio Gianfico, presidente della società che a Nisida ha premiato i primi tre elaborati. Per Spadafora, un ritorno in ambienti a lui noti, in tutti i sensi: il sottosegretario, negli anni scorsi, nel ruolo di garante per l’infanzia, aveva visitato più volte Nisida e ha sempre coltivato i rapporti con laici, mondo cattolico, volontariato. Un profilo che lo spinge a smarcarsi con garbo, ma nettezza, da altre posizioni governative: come quelle del ministro Matteo Salvini, cinque giorni fa in visita istituzionale a Napoli. Il leader leghista aveva sottolineato in Prefettura, che “qui ci sono camorristi a otto anni”. Che ne pensa, Spadafora? “Che onestamente, i colpevoli siamo noi. Se un bambino di otto o dieci anni o di qualsiasi altra età delinque il problema è nostro, i responsabili siamo noi che non gli abbiamo creato le alternative, non è certo colpa sua. È un problema della società, certamente non di chi nasce in certi contesti e si ritrova con genitori che vivono di illeciti. Per questo il primo problema da fronteggiare, nel contrasto serrato a queste devianze, è la povertà educativa e culturale”. Per il sottosegretario con delega ai giovani, c’è uno spazio su cui - almeno nelle intenzioni - “bisogna puntare molto: è il welfare. Sono stato a Napoli due settimane fa, si sa che ho incontrato il sindaco de Magistris, lavorerò tutti i giorni perché in questo territorio ci sia un’alleanza al di là dei colori politici per dare delle risposte ai ragazzi. Con le mie deleghe farò in modo che tutte le risorse che recupereremo in questa legge di stabilità vadano soprattutto al Sud”. Missione politiche sociali, dunque. “Il welfare locale è molto importante. Vengo da questa provincia, in cui ormai i Comuni non hanno più risorse, assistenti sociali, in cui molti servizi sono stati accorpati o chiusi. Anche se non è una mia delega, ho sentito il dovere di far presente a tutti i ministri competenti, questa necessità. Non dimentico una delle mie prime volte a Nisida, che come istituto penale minorile rappresenta una eccellenza italiana dei luoghi e dei modelli in cui si esprime la nostra giustizia - aggiunge Spadafora. E ricordo la testimonianza di un ragazzino detenuto: mi disse che lui pensava, una volta destinato al carcere minorile, che sarebbe stata la fine per lui, ormai non aveva più niente da sperare o desiderare. E invece, una volta qui, aveva per la prima volta incontrato la curiosità, la conoscenza, il rispetto tra le persone, e gli stimoli culturali che nessun altro spazio, dalla famiglia alla scuola, aveva esercitato su di lui. Io penso che noi dovremmo sentire sulle spalle, come governo, costantemente questa responsabilità”. Ferrara: le mostre e il giornalismo come evasione pur rimanendo in carcere di Simone Pesci estense.com, 6 ottobre 2018 Nella Casa circondariale di Ferrara i detenuti frequentano corsi di fotografia, pittura e redigono un giornale. Evadere dal carcere si può. Così come è possibile che una sessantina di cittadini possa decidere di varcare la soglia della Casa circondariale di via Arginone liberamente, per scoprire cosa si cela realmente dietro quei muri. E scoprire che, dentro le celle, ci sono persone che, grazie ai corsi di pittura, fotografia e ad Astrolabio - il giornale del carcere di Ferrara redatto da detenuti - hanno trovato la svolta. Fin tanto da organizzare - con l’aiuto dei loro insegnanti - una mostra di fotografie in bianco e nero e di pitture che ha lasciato a bocca aperta coloro che hanno scelto di passare l’ora dell’aperitivo di venerdì nell’evento “La città incontra il carcere”, un momento importante e meritevole di essere inserito nel programma ufficiale del festival di Internazionale. “Queste sono persone con enorme potenzialità” ha sottolineato il direttore del carcere Paolo Malato, che ha aperto quella che è stata una sorta di riunione informale della redazione di Astrolabio, alla quale ha partecipato anche l’assessore comunale Chiara Sapigni: “Quello del giornale del carcere è uno dei progetti più ‘anziani’ che il Comune finanzia. Ed è una delle azioni che mantiene la dignità attraverso la scoperta di cose mai provate o conosciute prima”. “Astrolabio nasce nel 1997 - ha spiegato alla cittadinanza Vito Martiello, uno dei padri del periodico -. È difficile fare un giornale in carcere? Forse sì; è istruttivo? Non lo so, ma posso dire che fa bene”. Con l’auspicio che il giornale sia un aiuto “per tutti a ritrovare la rotta per diventare cittadini diversi e per costruire una comunità diversa”. Grazie a queste iniziative i detenuti si sentono profondamente cambiati. “Quando sono arrivato dentro non ero interessato alla lettura e al giornalismo, due cose che mi hanno fatto diventare una persona diversa” ha confidato Francesco. “Scrivere è un ponte che stiamo cercando di costruire fra noi e il mondo esterno” ha sostenuto un detenuto precedendo Cesare, che, entusiasta dell’esperienza, ha definito Astrolabio “una liberazione un, un urlo”. Il sentirsi parte di un qualcosa che “riesce a far evadere” pur restando in carcere, come ha spiegato Pierluigi. Tutti loro sono grati dell’opportunità che gli viene concessa, come ha affermato Paride: “L’arte è lo strumento per trascorrere il tempo qui dentro in modo costruttivo e imparare le cose è la cosa migliore”. Domani la Marcia Perugia-Assisi, 25 chilometri per “restare umani” di Mario Di Vito Il Manifesto, 6 ottobre 2018 Tre anniversari, venticinque chilometri, decine di migliaia di persone attese. Partirà domani mattina alle 9 dai giardini del Frontone di Perugia la “Marcia della pace e della fraternità” che arriverà alle 15 e 30 alla Rocca Maggiore di Assisi. Gli organizzatori parlano di 530 associazioni, 160 scuole e 286 tra comuni, province e regioni che hanno deciso di aderire: è il popolo italiano che vuole “restare umano” nonostante tutto quello che lo circonda. Oppure, proprio a causa di quello che lo circonda. “La vera sfida - ha detto il coordinatore Flavio Lotti - è aprire una prospettiva nuova in un momento in cui la rassegnazione ha bloccato le persone nella sensazione che nulla possa cambiare e che quindi sia meglio farsi gli affari propri”. I tre anniversari che dettano le coordinate sulle quali si muove la Marcia per la pace di domani sono i cento anni dalla fine della prima guerra mondiale, i settant’anni dalla proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti umani e i cinquant’anni dalla morte di Aldo Capitini, il padre italiano della nonviolenza. Inoltre quest’anno la marcia intende promuovere “un percorso unitario contro il razzismo e la cultura della violenza”, a testimonianza del fatto che gli occhi dei partecipanti sono ben aperti e guardano con molta attenzione anche a un presente che di episodi di razzismo e di intolleranza ne sta facendo registrare parecchi. Anzi, più i governanti varano provvedimenti in odore di razzismo e più sembrano guadagnare consenso. La svolta, per questo, deve essere prima di tutto culturale: costruire ponti di pace contro i muri dell’intolleranza, soprattutto adesso che sembrano altissimi, quasi insormontabili. E la pace, come si legge nel manifesto della Marcia, “non è solo il contrario della guerra, ma il rispetto della dignità e dei diritti umani di tutti”. “La violenza nei confronti di immigrati, con una evidente connotazione razzista e spesso neofascista - questa l’analisi delle associazioni - impone una seria e immediata azione di contrasto che parte da una doverosa riflessione: il tessuto sociale impoverito divenuto, giorno dopo giorno, campo fertile per i fomentatori d’odio e di esclusione sociale”. Per questo “la società civile, il mondo della cultura, dell’associazionismo, dell’informazione, l’insieme delle istituzioni democratiche sono chiamate a impegnarsi nel contrasto a questa deriva”. Una deriva violenta che alcune statistiche aiutano a circostanziare molto bene. Secondo un’indagine pubblicata recentemente dalla Noto Sondaggi, il 52% degli italiani è a favore della legittima difesa in tutti casi. Secondo il Censis, invece, il 39% è favorevole all’introduzione di criteri meno rigidi per il possesso di un’arma da fuoco per la difesa personale (nel 2015, stessa fonte, la percentuale era del 26%). In Italia, in realtà, armarsi è anche molto semplice: nello scorso febbraio, Luca Traini a Macerata sparò con una Glock la cui licenza “per uso sportivo” fu ottenuta in appena 18 giorni. Ancora il Censis avverte che, con un cambio delle regole e un allentamento delle prescrizioni, le vittime da arma da fuoco potrebbero salire fino a 2.700 ogni anno, contro le 150 attuali. La lotta, dunque, è contro questo stato di cose e contro la rassegnazione. “Diversamente dagli imprenditori dell’odio e dai rassegnati - spiegano ancora gli organizzatori della Marcia -, noi sappiamo che sono le persone a fare la storia e che il cambiamento che sogniamo non dipende solo dalle grandi decisioni ma anche dalle piccole, piccolissime, azioni fatte ogni giorno da ciascuno, dappertutto”. Si evocano così “miliardi di azione di pace” da parte di una comunità molto più diffusa di quanto si possa pensare. I valori della Marcia, infatti, si ritrovano nella varietà dei suoi partecipanti: ci sono i cattolici, ma anche i Giovani musulmani, le associazioni ormai storiche come la Tavola della pace e la Rete della Pace, insieme all’Arci, ai sindacati, alle sezioni dei partiti di sinistra e di centrosinistra. C’è anche tanto spontaneismo: persone che decidono di aderire solo e soltanto perché si sforzano ancora di credere nell’esistenza di un mondo migliore. Un Nobel della pace per mettere al bando gli stupri di guerra di Valerio Sofia Il Dubbio, 6 ottobre 2018 Vincono il congolese Mukwege e l’irachena Murad. Alla fine il Premio Nobel per la Pace è andato ai candidati forse più logici e probabilmente più rappresentativi e meno divisivi. Oslo ha scelto per dividere il riconoscimento tra due protagonisti che erano entrambi dati tra i favoriti della vigilia. Si tratta di due attivisti di primo piano che sulla loro pelle pagano la lotta contro gli stupri di guerra. Si tratta di Denis Mukwege e Nadia Murad. A loro il riconoscimento “per gli sforzi nel mettere fine all’uso della violenza sessuale come arma in guerre e conflitti armati”. Il primo è un medico ginecologo del Congo che da tempo si occupa di curare le vittime della violenza sessuale usata anche come arma di guerra nel conflitto civile che non cessa di infuriare in diverse regioni della Repubblica Democratica del Congo. Murad invece è una donna Yazida irachena, che nel 2014 venne rapita come schiava sessuale dall’Isis, che conquistò il suo paese massacrando centinaia di persone tra cui quasi tutta la sua famiglia. Una volta riuscita a fuggire alcuni mesi dopo, è diventata un’attivista dei diritti umani battendosi in particolare per denunciare gli orrori subiti dalle donne. Come fa anche Mukwege, cha da 16 anni a questa parte nell’ospedale Panzi da lui fondato a Bukawo, nell’est del Paese, ha accolto e curato circa quarantamila vittime di stupri, nel corso di un conflitto (terminato ufficialmente nel 2002 ma che continua in diverse forme non meno feroci in diverse regioni del grande Paese africano) che l’allora segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, aveva definito “un genocidio sessuale”. Il dottore ha anche perfezionato tecniche per affrontare le terribili lesioni che scaturiscono dalle violenze. Mukwege ha inoltre spiegato che - come accaduto anche in altre regioni in guerra, dai Balcani al Medio Oriente di Murad - “Lo stupro è una vera e propria strategia militare”, finalizzato alla distruzione della comunità e del tessuto sociale dei gruppi nemici. Le violenze sessuali sono paragonabili a riti di violenza collettiva, che cementano i rapporti fra i combattenti e invece distruggono completamente le giovanissime donne, le quali poi fuggono per la vergogna abbandonando la propria comunità, la quale spesso a sua volta non regge il peso di aver dovuto assistere impotente agli abusi sulle proprie figlie. Ma il medico non si è limitato a spiegare quanto accade, e neanche solo all’impagabile ruolo di chi cura e si prende cura di queste vittime, ma ha anche denunciato l’abbandono in cui queste realtà si verificano e continuano a verificarsi: “Il mondo ha chiuso gli occhi”. Nadia Murad arriva al Nobel dopo aver ricevuto già molti riconoscimenti, come il Premio Sakharov nel 2016 e nello stesso anno l’incarico di prima ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani. Oltre che testimone degli stupri di guerra e della violenza jihadista, la 25enne yazida ha anche un ruolo importante nella riscossa femminile di fronte a i codici sociali diffusi in gran parte del mondo che impongono alle donne di rimanere in silenzio e vergognarsi degli abusi a cui sono state sottoposte. Migranti. Scuola d’integrazione: dentro la classe che abbatte tutti i muri di Antonia Grasselli Corriere della Sera, 6 ottobre 2018 Il Liceo scientifico “Enrico Fermi” di Bologna ha sperimentato un progetto innovativo con un gruppo multietnico di 19 studenti. Ecco che cosa è successo. “Al di là dei muri” è un progetto di cittadinanza attiva e di service learning, cioè si propone di contribuire a formare dei cittadini responsabili, per cui consapevoli, in un mondo e in un’epoca che hanno assunto dei caratteri innovativi ormai irreversibili e intende fare questo affrontando dei bisogni sociali, non in modo teorico, ma attraverso la condivisione di situazioni e la progettazione di possibili soluzioni. Lo abbiamo realizzato al liceo “Fermi” di Bologna, è un progetto molto ambizioso ma credo che alla ripresa di un nuovo anno scolastico sia utile farlo conoscere, perché è un modello che si può replicare. Per questo abbiamo pensato di raccontarlo su queste pagine. Ne siamo molto orgogliosi. Basta dare anche solo un’occhiata al sito (registrodiclasse.storiamemoria.eu) - fatelo perché è bellissimo - per intuire che c’è un mondo nuovo che si svela, un futuro di bene che può essere nostro: una classe multietnica luogo di incontro, di condivisione, cioè di amicizia, perciò di scoperta dell’altro e in cui i contenuti disciplinari (italiano, scienze, storia) sono diventati occasione di un lavoro creativo, necessario per far nascere una cultura nuova, che non rinnega niente delle singole specificità, ma che di esse si arricchisce continuamente. Questa classe può essere paragonata a un cantiere ricco di operatività: lavori di gruppo, quindi comprensione e confronto, riprese video per la documentazione, scrittura di articoli - resoconto, attività in laboratorio di scienze, ricerche individuali poi relazionate e condivise, reportage fotografico. Ora, vi prego, non leggete gli articoli e le pagine del sito come se foste in una cristalleria, impacciati dal timore che, muovendosi, si possa rompere qualcosa. No, non è una vetrina da ammirare! Immedesimatevi in questi ragazzi, nel lavoro di noi professori, con l’immaginazione entrate in classe, sedetevi in un banco, partecipate ad un gruppo e seguiteci giorno per giorno. Così serve quello che abbiamo fatto, perché tutti possano, in loro stessi, rifare la stessa esperienza e poi uscirne cambiati, come è successo a noi. Tutti, non solo i prof. C’è un disperato bisogno oggi di guardare il fenomeno migratorio con occhi diversi, in modo costruttivo. Non per ignorare le difficoltà, ma per trovarne una soluzione rispettosa della nostra comune umanità. Nel 2013 ho iniziato a costruire un ponte con l’Africa, un piccolo e grande ponte rappresentato dal sostegno a distanza, con una mia classe terza, grazie alla Fondazione Avsi. Josephine di Isohe, Sud Sudan. Poi in altre due classi, in seguito con altre ancora di mie colleghe amiche. Lettere sorprendenti. I miei studenti non ci potevano credere: chi sono questi che nel loro niente ci richiamano ad una profondità di sguardo che ci fa sentire colpevoli della nostra superficialità? Poi Mare Nostrum, il dramma dei profughi che ci ha travolto, da noi accolti con generosità in quegli anni. L’Africa tra noi. Il progetto così si allarga ad altri fronti collaterali. Il desiderio è sempre quello di incontrare, conoscere, condividere. Fino al progetto “Al di là dei muri”, un prodotto compiuto ed articolato, esito di uno sforzo collegiale da parte della mia scuola, della Coop. Soc. Arca di Noè che gestisce centri di accoglienza, ma in modo del tutto particolare del suo Dirigente Maurizio Lazzarini (prematuramente scomparso a fine agosto e a cui va tutta la mia gratitudine piena di affetto e di stima), perché noi volevamo dimostrare che “è possibile”, anche con poco in termini di mezzi e risorse finanziarie. Serve competenza, ovviamente, ma soprattutto una paziente determinazione frutto dell’età e dell’esperienza, ma non basta. I have a dream. Sì, io ho un sogno. La capacità di sognare da adulti è un’intuizione chiara e luminosa di un futuro possibile. Migranti. La stretta sull’asilo, record di rifiuti anche senza decreto di Vladimiro Polchi La Repubblica, 6 ottobre 2018 Scatta la stretta sui rifugiati. Oltre 6mila le domande d’asilo cestinate in un mese: una valanga. Crollano anche le concessioni di permessi umanitari: a settembre passano dal 26% al 17%. Le commissioni territoriali per l’asilo si allineano alle circolari estive del Viminale. E così, ben prima che il “decreto Salvini” sia convertito in legge, la protezione umanitaria diventa un miraggio. Un passo indietro. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, forma residuale di protezione per quanti non hanno diritto allo status di rifugiato né alla protezione sussidiaria, ha fatto fino ad oggi la parte del leone: nel 2017, su 130mila richiedenti asilo, il 58% ha visto respinta la domanda, l’8% ha ottenuto lo status di rifugiato, l’8% la protezione sussidiaria e ben il 25% quella umanitaria. Numeri troppo alti per il ministro dell’Interno, tanto che nel decreto immigrazione e sicurezza la protezione umanitaria viene addirittura cancellata. Prima, però, il Viminale si era già mosso per via amministrativa. Il 4 luglio Matteo Salvini aveva firmato una direttiva per chiedere una stretta proprio dei permessi di soggiorno per motivi umanitari. Ma le cose all’inizio non erano andate come sperato. E così il ministero era dovuto intervenire nuovamente. In una email inviata il 16 luglio dalla presidente della commissione nazionale per il diritto d’asilo alle varie commissioni territoriali si faceva notare che “dalla percentuale delle protezioni umanitarie, ferma al 28%, emerge che la direttiva del ministro non ha ancora trovato attuazione e che anzi il dato numerico è addirittura aumentato da 14.032 a 14.471”. Da qui la richiesta di una “doverosa modifica”. Che puntualmente è arrivata. I dati di settembre 2018 fotografano bene l’inversione di rotta. Su oltre 9mila domande esaminate, la concessione della protezione umanitaria crolla dal 26% di agosto scorso al 17%. Non solo. Si registra un record assoluto di dinieghi. Ben il 72% di chi ha chiesto una qualche forma di protezione se l’è vista rifiutare (ad agosto le domande cestinate erano state “solo” il 59%, in linea coi mesi precedenti). Un giro di vite che non è passato inosservato. Dura la reazione dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione: “Tenuto conto che in questa fase la platea dei richiedenti asilo non è sostanzialmente cambiata - sostiene il vicepresidente Gianfranco Schiavone - questa inversione di tendenza a legislazione invariata è davvero allarmante. Significa che le commissioni territoriali per l’asilo non sono indipendenti. Non operano cioè solo in base al dettato normativo, come dovrebbero, ma obbediscono a degli ordini di servizio”. Migranti. La Germania sceglie la linea dura per rimandarli in Italia di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 6 ottobre 2018 Berlino sposa la linea dura per rimandare i migranti in Italia senza attendere l’accordo bilaterale annunciato dal ministro dell’Interno Horst Seehofer ma mai firmato da Matteo Salvini. L’Ufficio federale per l’immigrazione e i rimpatri, “in applicazione al Trattato di Dublino”, sta infatti inviando in queste ore moltissime lettere ai profughi arrivati in Germania passando per l’Italia, ordinandone il trasferimento. Non si esclude, per la prima volta, l’impiego di voli charter. Prossime “Nel villaggio del padre volevano sacrificarlo agli dei: chi ha i capelli rossi è considerato alla stregua degli albini”. Dago è scappato in Europa ma, prima di arrivare in Germania, è passato per l’Italia. E secondo gli accordi di Dublino, è lì che deve tornare. Ieri un aereo di linea ha portato il diciannovenne a Roma, insieme ad un altro ivoriano, Serge Oliko. Il presidente della loro squadra è infuriato: “È una vergogna che la Germania si comporti così. Non sento dire altro: ragazzi con un futuro qui che spariscono sempre più spesso, che vengono rispediti in Italia. Con che prospettive?”. In serata, abbiamo raggiunto Dago mentre è alla stazione di Roma, al telefono il diciannovenne è un disco rotto, è disperato: “Voglio tornare in Germania, qui nessuno mi aiuta”. Già, ma a Horst Seehofer importa poco che schiere di avvocati stiano spiegando ai giudici tedeschi che l’Italia non garantisce una rete di sostegno degna ai migranti. Dall’inizio dell’anno, racconta Petra Haubner, avvocato che assiste i profughi in Baviera, “c’è stata un’accelerazione micidiale: ogni giorno da Deggendorf”, dove si trova uno dei centri di ancoraggio più importanti della Germania, “prelevano almeno un richiedente asilo o una famiglia intera per i Paesi di prima destinazione. Nella stragrande maggioranza dei casi li mettono su un volo per l’Italia”. Al di là della propaganda italiana, la verità è che la Germania, e soprattutto la Baviera, hanno accelerato enormemente i processi per i cosiddetti “casi Dublino”. Nell’esperienza dell’avvocato “dall’inizio dell’anno, siamo passati dall’1% di profughi rispediti nei Paesi di primo approdo negli anni scorsi, e soprattutto in Italia, a un buon 10%. Il salto di qualità è evidente. Checché ne dica Salvini. Ed è diventato molto più difficile, per noi, proteggerli e tenerli qui”. Anche perché i criteri sono diventati più crudeli. Fino a poco tempo fa un genitore con un bambino sotto i 3 anni non poteva essere mandato in Italia senza una rassicurazione, da parte delle autorità del nostro Paese, che sarebbe stato accudito. “Adesso quella soglia è scomparsa. Il risultato? Un mio assistito è stato rimandato in Italia con la figlia piccola, sono finiti a dormire per strada e lei gli è stata immediatamente strappata e data in affidamento. Un altro esempio? Siccome è vietato mandare via donne incinte quando comincia il periodo legale della maternità, le prelevano il giorno prima”. La Germania è ansiosa di dimostrare che il giro di vite c’è. E secondo Haubner un’altra novità è che in passato alla richiesta di rimandare qualcuno in Italia “le autorità non rispondevano mai - ma vale comunque il principio del silenzio-assenso - adesso invece sono più solerti anche loro e rispondono più spesso “sì, grazie, mandateceli”. L’accelerazione è confermata da Stephan Reichel, il presidente di “Matteo”, l’associazione delle chiese cattoliche e protestanti che aiutano i profughi. Anzi, c’è un’enorme novità, a sentire lui: “A tantissimi è arrivata una lettera che li avverte che saranno riportati in Italia il 9 o il 19 ottobre”. Una notizia che si è diffusa in un batter d’occhio nella sua amplissima rete di volontari, avvocati e sacerdoti. “Perché la novità scioccante, come mi ha rivelato un politico bavarese di alto rango, è che d’ora in poi vogliono usare voli charter per rispedire i migranti in Italia. Così ne mandano a Roma o a Milano molti di più”. Migranti. L’attacco alle Ong, laboratorio contro la democrazia di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 6 ottobre 2018 Alla spirale di delegittimazione delle Organizzazioni non governative impegnate quotidianamente nelle azioni di sostegno ai Paesi in via di sviluppo e, di conseguenza, in difesa dei diritti umani legati ai processi migratori, si aggiunge un’accusa, non nuova, ma esacerbata nella forma e nei toni: tratta degli schiavi. Ci ha pensato l’Onorevole Giorgia Meloni a rilanciare, dopo le inconcludenti indagini di qualche tempo fa da parte di magistrati inclini alla costruzione di teoremi accusatori che volevano le Ong colluse con gli scafisti, la definizione di veri e propri schiavisti per quanti continuano coerentemente a ricordare, con il loro lavoro, alla comunità internazionale quali sono gli impegni verso le parti più vulnerabili della popolazione mondiale, a partire dai minori. Nel Mein Kampf scritto da chi di propaganda e disinformazione, falsificazione della realtà e, oggi si direbbe, di fake news, se ne intendeva, si trova una espressione che ben epitomizza questo modo di fare: la merda nel ventilatore. Non è necessario cioè provare l’accusa, basta sollevarla e, appunto, qualche schizzo arriverà certo ad infangare i nuovi schiavisti non governativi. L’obiettivo reale di queste affermazioni apodittiche, naturalmente, è molto più complesso, ed è quello di rimettere in discussione tutta la politica estera solidale dell’Italia e dell’Europa insinuando, maldestramente peraltro, un nesso tra cooperazione internazionale e nuove schiavitù. Al cosiddetto pull factor dunque, cioè alla tesi che aiutare i migranti a non morire in mare equivale a richiamarli in Italia, si aggiunge qui la “novità” che le Convenzioni internazionali in materia di aiuto sarebbero solo un’astuta copertura per la gestione di traffici criminali. Un salto di qualità non da poco dato che sulle questioni migratorie si gioca l’Idea stessa di unità europea. Ora è chiaro che si cerca di colpire nel mucchio per sollevare dubbi sulla legittimità stessa dei trattati internazionali in materia di aiuto umanitario, ma l’obiettivo grosso è la delegittimazione delle fondamenta stesse sulle quali nacque l’idea di Unione europea dopo la Seconda guerra mondiale. In altre parole le destre sovraniste e xenofobe cercano di disarticolare il Diritto internazionale dei Diritti umani a partire dal suo anello più esposto, le Ong appunto, ma così facendo gettano accuse, più o meno dirette, anche sulle normative europee ed internazionali a cui le Ong si ispirano. A questo punto sarà interessante vedere la reazione del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione, che per certi versi è il garante e non solo il referente politico delle organizzazioni “neo-schiaviste”. Che ci sia uno scontro a destra sulla leadership dei sovranisti, giocata a botta di dichiarazioni sempre più xenofobe e razziste è una dato di fatto politico, ma che tutto questo, come ha detto anche il papa, si giochi sulla pelle di esseri umani, dovrebbe scatenare reazioni di indignazione generali anche in seno ad una parte del governo. In conclusione, in questo quadro perverso per la partecipazione democratica che si va componendo tra decreti sicurezza che smantellano i caposaldi della Legge eguale per tutti, arresti di un sindaco il cui unico “reato” è quello di solidarietà, è chiaro che le Ong non possono limitarsi ad un atteggiamento di passiva presa d’atto dell’imbarbarimento del clima generale intorno alle loro pratiche, ma saranno costrette a rispondere sia a livello pubblico sia a livello politico, e non solo, a queste provocazioni infamanti, in coerenza con la loro missione, a salvaguardia della loro professionalità ma anche, e soprattutto, in nome dei loro assistiti, delle persone con le quali e per le quali lavorano cercando di far valere la suprema legge della solidarietà tra esseri umani. Turchia e Iran liberticide. Perché l’Europa tace? di Gennaro Malgieri Il Dubbio, 6 ottobre 2018 Le purghe politiche di Erdogan e le esecuzioni degli ayatollah vengono ignorate dai nostri governi. Che non si fanno problemi a commerciare con i tiranni. Dov’è finita l’Europa dei diritti umani, dei diritti dei popoli? Possibile che nessuno pensi di organizzare una manifestazione decente per sensibilizzare autorità ed opinione pubblica su quanto sta accadendo nel mondo a noi vicino; un mondo con il quale intratteniamo rapporti politici e d’affari, culturali e turistici nel nome della “civile convivenza” che sempre di più assomiglia ad un grande “disordine universale” meticolosamente programmato? Domande che s’inseguono leggendo giornali, soprattutto stranieri, che danno conto come nella vicina ed “amica” Turchia un tiranno musulmano (ma la religione non c’entra niente) dipendenti pubblici e giornalisti vengano ogni giorno minacciati, licenziati, costretti alla fuga, imprigionati. Il fallito golpe del 2016, ed ancor prima le manifestazioni libertarie di Gezi Park a Istanbul, hanno offerto il pretesto al sultano Erdogan di premere l’acceleratore della sua macchina del terrore che ha nei giudici addomesticati i ben oliati ingranaggi che gli consentono di silenziare, torturare e condannare chi non gli va a genio. La lista è lunga. L’ultimo di cui abbiamo saputo qualcosa è Ahmet Altan, noto ed influente giornalista arrestato con suo fratello Mehmet due anni fa. Lo scorso 2 ottobre la Corte d’Appello di Istanbul ha confermato la condanna all’ergastolo comminatagli in primo grado per terrorismo. La stessa sorte toccata ad altri cinque giornalisti. Senza una straccio di prova, senza neppure un indizio, senza un’accusa confortata da testimonianze credibili. È bastata la parola di Erdogan, o meglio dei suoi scagnozzi, per convincere i giudici che Altan aveva attentato (non si sa in che modo) all’ordine costituzionale avendo rapporti con i presunti ispiratori del golpe pilotato dai gulenisti nemici giurati di Erdogan. Gulen era il miglior amico e sponsor del Sultano quando questi prometteva una Turchia più aperta e democratica, degna di entrare in Europa, fedele alla laicità di Ataturk. Poi si è rifugiato negli Stati Uniti. Acqua passata; i buoni propositi sono imputriditi sul Bosforo. Altan, nel suo splendido e dolente resoconto dell’infamia di cui è vittima, “Non rivedrò più il mondo” (Solferino), scrive queste pietose ed orgogliose parole che vale la pena riportare dal momento che quasi nessuno in Italia lo fa: “Ma aspettate. Prima di suonare le trombe della pietà nei miei confronti, ascoltate quello che ho da dirvi. Sì, sono una persona chiusa in un carcere di massima sicurezza in mezzo al deserto. Sì, sono chiuso in una cella la cui porta si apre e si chiude con uno sferragliare di metallo. Sì, mi passano i pasti attraverso un buco in mezzo alla porta. Sì, perfino la sommità del cortile di pietra in cui cammino su e giù è coperta da una gabbia di acciaio. Sì, non ho il permesso di vedere altre persone che non siano i miei avvocati e i miei figli. Sì, mi è vietato spedire anche solo due righe ai miei cari. Sì, ogni volta che devo andare in ospedale prendono delle manette da un mucchio di ferraglia e me le infilano ai polsi. Sì, ogni volta che mi tirano fuori dalla cella ordini come “alza le braccia, togliti le scarpe” mi colpiscono come schiaffi. Tutto questo è vero, ma non è tutta la verità”. Vorremmo che Ahmet Altan rivedesse in mondo, il suo mondo innanzitutto, molto diverso da quello di Erdogan che ha invece la libertà di scorrazzare per le contrade d’Occidente raccontando menzogne e raccattando carità pelosa affinché si prenda cura degli immigrati che i “buoni europei” non vogliono tenere, un impiccio che costa caro. Il leader turco va e viene, in particolare, dalla Germania come se fosse il suo cortile di casa e tutto (o quasi) gli si permette per motivi geopolitici, strategici ed economici, perfino di sfidare la Cancelliera “costretta” ad abbozzare. Quando si dice che il sistema della menzogna è più forte della verità non si sbaglia. Quello stesso sistema che in Iran (Stato alleato con la Turchia: chi si somiglia si piglia), guarda caso lo stesso 2 ottobre, ha mandato a morte una ragazza di 24 anni, di origine curda, Zeinab Sekaanvand, arrestata e condannata alla pena capitale quando aveva solo 17 anni (è la prima volta che su una minorenne infierisce così duramente il regime degli ayatollah, facendo “meglio” di quanto riuscì a quel crudele poveraccio di Ahmadinejad). È stata accusata di aver ucciso suo marito costretto a sposarlo quando aveva 15 anni. Ha ammesso l’omicidio, ma per difendersi da abusi sessuali indescrivibili, sevizie e reagire alla segregazione. Nonostante lo avesse più volte denunciato, nessuna indagine era stata aperta a carico dell’uomo. L’esecuzione è stata rinviata perché Zeinab si era risposata con un prigioniero in carcere ed era rimasta incinta. Lo scorso 30 settembre la ragazza aveva partorito ma il bambino, nato morto. Due storie ed una sola realtà. Gli “amici” dell’Occidente dove si pensa di difendersi da “barbari” provenienti da mondi sconosciuti, sono più che barbari impietosi criminali di Stato. Con essi però si tratta come se fossero personalità di specchiate virtù. A nessuno nelle cancellerie d’Europa viene in mente di convocare gli ambasciatori turchi ed iraniani quanto meno per far presente il disgusto dei “custodi della civiltà” per i loro metodi. Morti innocenti, incarcerati innocenti, giornali che chiudono, libertà sfregiate ogni giorno in aree del mondo che comunque ci appartengono. Ma dalle nostre parti non ci si fa caso. Gli affari sono affari. E si fanno pure con i delinquenti. Iran e Libia: la ricetta Usa e il ruolo dell’Italia, grazie alla Lega di Alberto Negri Il Manifesto, 6 ottobre 2018 Per la nuova guerra a Teheran Stati Uniti, Israele e Arabia saudita contano sull’Europa. Il petrolio libico moneta di scambio con Roma. Come funziona il sistema Usa e come faremo la nuova guerra all’Iran? Il metodo è quello di applicare strette sanzioni finanziarie sul petrolio iraniano in modo da vendere meglio il loro, quello dei sauditi e delle monarchie del Golfo. Con i soldi incassati Riad - secondo acquirente di prodotti bellici al mondo - e gli emiri possono continuare a comprare gli armamenti americani. Sono loro i maggiori clienti del Pentagono, soprattutto adesso che i sauditi devono combattere la guerra in Yemen, dove muoiono migliaia di civili ma che è stata silenziata sui media internazionali. Semplice no? Si chiama libero mercato in libero massacro. E via anche con i dazi alla Cina che vuole sfuggire alla morsa degli Usa sui rifornimenti energetici aprendo il corridoio sino-pakistano, altra partita strategica di portata globale perché se sarà realizzato consentirà a Pechino di sfuggire in parte al controllo americano degli Stretti di Malacca. All’Italia, se fa la brava applicando le sanzioni a Teheran, viene garantito il greggio della Libia che in Cirenaica verrà spartito con i francesi. E prima o dopo del vertice sulla Libia, che si svolgerà a Palermo in novembre, il generale Khalifa Haftar avrà la testa del nostro ambasciatore a Tripoli. Non è un caso che il ministro degli Esteri Moavero andrà a incontrare il suo collega Lavrov a Mosca: la Russia con Francia ed Egitto sostiene il generale e da almeno due anni Mosca si propone, inascoltata, alla diplomazia italiana come mediatrice per controbilanciare l’influenza francese. Ma non è finita qui. Per fare davvero la guerra non solo economica all’Iran - da 40 anni il vero bersaglio di Usa, Israele e sauditi - bisogna usare altri mezzi senza però entrare in un devastante conflitto in campo aperto dopo quello che per sette anni ha disintegrato la Siria e che occidentali e monarchie arabe hanno perso insieme ai turchi. Così entrano in campo le storiche relazioni pericolose francesi, internazionali e italiane con il fronte anti-Iran. Circa 3500 Mujaheddin Khalq (Mek), oppositori di Teheran un tempo di stanza in Iraq si sono acquartierati in Albania. Parigi e Teheran sono ai ferri corti per la presenza del Mek in Francia, usato da tempo dai servizi israeliani e americani. Nei Balcani, grazie anche ai finanziamenti delle monarchie sunnite del Golfo, si è formato negli anni, tra Kosovo, Albania, Bosnia e Macedonia, un esercito di jihadisti: almeno un migliaio in questi anni si sono arruolati in Siria per combattere contro Bashar al Assad appoggiato da russi e iraniani. Adesso i jihadisti sconfitti stanno tornando nei Balcani e potrebbero essere utilizzati in funzione anti-Iran, come per altro è già avvenuto finora nella guerra per procura siriana. Il recente attentato con 30 morti nella città iraniana di Ahwaz alla parata dei Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione, è stato probabilmente un’avvisaglia di questa nuova strategia. Ma per questa guerra all’Iran, economica e in parte terroristica o di guerriglia, ci vuole anche la partecipazione degli europei che inizialmente volevano aggirare le sanzioni Usa all’Iran e difendere l’accordo sul nucleare del 2015 firmato da Obama e stracciato da Donald Trump. Ci sono dubbi che la Francia, nonostante alcune dichiarazioni ufficiali, intenda oltrepassare le sanzioni Usa all’Iran come vorrebbe fare la diplomazia di Bruxelles secondo quanto già annunciato dalla Mogherini. L’Italia, invece di agire per conto proprio e difendere l’export delle imprese in Iran, si sta adeguando a questa agenda americana e agli ordini ricevuti dalla Lega da Israele. Che la Lega esprima posizioni assai filo-israeliane è di dominio pubblico ed è riscontrabile nelle dichiarazioni alla stampa del suo leader Salvini. A questo atteggiamento i leghisti hanno fatto seguire i fatti. La Lega ha detto di no a una proposta Cinque Stelle, avanzata per altro da Unioncamere, per organizzare un istituto di credito autonomo per garantire l’export di piccole e medie imprese in Iran. Siamo in mano, come si vede, a coraggiosissimi sovranisti in Italia e in Europa.