Galeotta fu la Costituzione di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 ottobre 2018 “Anche i nostri padri costituenti sono stati detenuti”. A Rebibbia, la prima tappa dell’inedito “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”. Ma il ministro Bonafede diserta. È cominciata con l’inno di Mameli e le fotografie di due mondi completamente opposti: da un lato, i dieci giudici della Corte costituzionale, ricevuti con tutti gli onori, che impettiti sul palco del teatro di Rebibbia ascoltano in silenzio o mimano appena le parole, e dall’altro la platea di oltre 250 detenuti, tra cui una ventina di donne, che intonano a squarciagola Fratelli d’Italia come fosse il loro canto di libertà. Ed è finita con un’unica immagine potente: strette di mano, sguardi di ammirazione e sorrisi franchi tra uomini e donne che non sembrano più così distanti. A trarre un bilancio della prima tappa del “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”, iniziativa senza precedenti che si è avvalsa del contributo di docenti ed esperti coordinati dal prof. Marco Ruotolo dell’Università Roma Tre, non può sfuggire che nello scambio di idee tra i giudici che hanno il compito di controllare la legittimità costituzionale delle leggi e coloro che le leggi le hanno infrante non è affatto detto che siano i secondi (quelli che facevano le domande ai primi) ad aver imparato di più. Dopo i saluti delle autorità presenti (colpisce l’assenza del ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede, sostituito dal sottosegretario Jacopo Morrone) e dopo la lezione introduttiva tenuta dal presidente della Corte, Giorgio Lattanzi, per circa due ore dodici detenuti e detenute hanno articolato altrettante domande ai costituzionalisti, dimostrando una preparazione approfondita dei temi trattati ma soprattutto regalando alla Corte un punto di vista tanto più interessante perché misconosciuto sul mondo del carcere e della giustizia. Con grande attenzione, i reclusi hanno poi ascoltato le risposte, e il confronto che ne è scaturito è stato trasmesso in diretta streaming sul sito della Corte costituzionale e in oltre 150 carceri e 15 istituti minorili, seguito simultaneamente da oltre 11 mila detenuti. RaiCinema ne trarrà un docu-film, da questo “Viaggio nelle carceri” e dalle lezioni sui “frammenti di Costituzione” che i giudici terranno nei vari istituti (a Milano San Vittore il 15 ottobre, Nisida minorile il 19 ottobre, Terni il 29 ottobre, Genova Marassi il 9 novembre, Lecce femminile il 16 novembre, e in altri nel 2019). In occasione delle celebrazioni del settantennale della Carta Costituzionale, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, la Corte ha deciso di uscire dal palazzo della Consulta e, in continuità con il viaggio nelle scuole effettuato l’anno scorso, ha scelto di entrare in quel “luogo non luogo” che, come ricordava un detenuto, Francesco De Blasi, era considerato da Pietro Calamandrei una delle porzioni più significative del territorio della Repubblica. Il perché di questa scelta da parte dei giudici costituzionalisti - e perché proprio ora, che in Italia e in Europa tornano a spirare venti reazionari - lo ha spiegato lo stesso Lattanzi: “I nostri padri costituenti avevano conosciuto nel Ventennio fascista la mortificazione del carcere. Dietro la Carta costituzionale ci sono tante persone che sono state detenute. Per loro i diritti fondamentali non si fermano alla porta del carcere, e il carcere non significa esclusione ma impegno per una nuova inclusione. Non un dentro in cui si finisce, ma un dentro in cui si ricomincia”. Non a caso la Consulta assegna “un ruolo decisivo alla dignità della persona”, e negli anni “ha dichiarato illegittime varie norme dell’ordinamento penitenziario” (due solo nel 2018) perché non coincidevano con il fine rieducativo della pena in cui credevano i nostri padri costituenti. Un concetto che non sembra proprio al centro dei pensieri del sottosegretario Morrone, che nel suo intervento ha voluto invece sottolineare l’”inderogabile necessità” del carcere, che tuttavia deve essere sede di un “percorso riabilitativo”. E il bisogno di assicurare la “certezza della pena”, “una rapida applicazione della sanzione” e al contempo la “presenza dello Stato in tutte le sue articolazioni nelle comunità più degradate e disagiate, dove criminalità e delinquenza si alimentano”, in “un’ottica di prevenzione”. E invece, grazie al contributo dei detenuti, nel teatro di Rebibbia è emerso ieri un quadro decisamente più sofisticato e approfondito delle problematiche dell’esecuzione della pena e delle ripercussioni sulla pubblica sicurezza. Anna Maria, detenuta di 68 anni e bisnonna, per esempio, ha posto il problema dell’affettività in carcere, necessaria non solo al detenuto “per non farsi dimenticare dal mondo fuori”, ma anche perché la “pena non punisca i familiari che nulla hanno commesso”, come ha sottolineato la giudice Cartabia. Paolo ha ricordato che per “evitare la vendetta sociale” la pena dovrebbe essere flessibile e comminata in un “tempo ragionevolmente breve”. Principio che - ha esortato il giudice Modugno - “deve essere reso concreto dal legislatore”. Perché, secondo una recente sentenza della Consulta (149/2018), la personalità del condannato non resta segnata dal reato commesso ma è proiettata verso un rinnovamento, che è fisiologico e culturale insieme, dunque sensibile agli stimoli ricevuti. E poi, ancora, i giudici hanno ricordato le varie sentenze o i tanti moniti della Corte su ciascuno degli argomenti proposti dai reclusi: la cultura come mezzo di trattamento; la formazione e il lavoro che scarseggiano o non sono di qualità; le pene accessorie che non favoriscono la riconciliazione con il mondo legale fuori dal carcere; la costituzionalità dell’interdizione perpetua dal diritto di voto, “il pezzo più grosso della cittadinanza”, come l’ha definito Giuliano Amato; il diritto alla speranza negato dall’ergastolo ostativo; la logica che sottende la rieducazione in carcere di un cittadino straniero a cui poi viene negata la cittadinanza italiana; il motivo per cui in Italia non è permesso il ricorso diretto al giudizio della Corte costituzionale; la salute e il perché si debba ancora morire in carcere (domanda che ha ottenuto l’applauso più sentito). E infine una domanda, posta da Giorgiana: “Sentiamo di un possibile ridimensionamento delle misure alternative e dell’accesso ai benefici di legge. Sarebbe sconvolgente, se fosse così. È possibile tornare indietro senza violare la Costituzione?”. Il giudice Viganò ricorda che la Consulta ha emesso molte sentenze contro gli automatismi dell’applicazione della pena, afferma che “il trattamento non è un brain washing ma fa appello alla libertà interiore del condannato, alla sua autodeterminazione che ancora resta”. Ma si ferma qui, e non dà giudizi sugli ultimi annunci governativi. Qualcuno dalla sala evoca Marco Pannella. Detenuti e Consulta a colloquio a Rebibbia di Valentina Stella Il Dubbio, 5 ottobre 2018 Al via il progetto “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”. “Credo che la Costituzione e la Corte Costituzionale siano per i detenuti e per tutti gli altri uno scudo nei confronti dei poteri dello Stato che neppure il legislatore con le sue notevoli maggioranze può violare”. È il presidente della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi a ribadire il ruolo della Consulta e della Carta fondamentale dinanzi a circa 250 detenuti - di cui venti donne - riuniti ieri presso la Casa Circondariale di Rebibbia a Roma dove ha preso il via il progetto “Viaggio in Italia: la Corte Costituzionale nelle carceri”, che proseguirà in altri cinque istituti di pena (San Vittore a Milano, Nisida minorile, Terni, Genova- Marassi, Lecce femminile). L’evento, unico nel suo genere, è stato seguito in collegamento streaming in oltre 150 carceri e in 15 istituti minorili per un totale di 11.000 detenuti a fare da spettatori. Nella lezione del presidente Lattanzi si conta per ben sette volte la parola “dignità”, una ridondanza non formale ma sostanziale: “L’esecuzione della pena deve essere regolata da leggi che devono essere conformi alla Costituzione, alla base della quale c’è la persona umana con la sua insopprimibile dignità. Dignità e persona coincidono; eliminare o comprimere la dignità di un soggetto significa togliere o attenuare la sua qualità di persona umana. Ciò non è consentito a nessuno. Nelle decisioni la Corte Costituzionale ha assegnato alla dignità della persona un ruolo decisivo. È nella dignità che la Corte riconosce il naturale presupposto di molti dei diritti che di volta in volta nei vari giudizi vengono presi in considerazione. È nell’articolo 2 della Costituzione che si radica innanzitutto questo presupposto dato che, come si legge in una sentenza della Corte Costituzionale, “in quell’articolo è sancito il valore assoluto della persona umana”. Nel nostro viaggio - prosegue Lattanzi - racconteremo questo: che la Costituzione, con il valore fondamentale della dignità che ne è alla base, appartiene anche a chi è detenuto. Il nostro racconto vuole rappresentare il riconoscimento costituzionale della dignità delle persone detenute, vuole indicare che tra il dentro e il fuori delle mura del carcere non esistono barriere ideali ma solo barriere fisiche e che nella Carta il carcere non significa esclusione ma impegno per l’inclusione”. È stata forte l’emozione nel sentire suonare l’Inno d’Italia nel teatro del carcere alla presenza di dieci giudici della Consulta Marta Cartabia, Giuliano Amato, Giancarlo Coraggio, Francesco Viganò, Daria de Pretis, Silvana Sciarra, Giovanni Amoroso, Franco Modugno e Luca Antonini oltre il presidente - che hanno risposto a 12 domande dei detenuti, i quali hanno avuto con loro un dialogo sul diritto alla salute, sull’affettività, sulla rieducazione, sulla speranza, che può venire sicuramente meno quando si è condannati ad un ergastolo ostativo. Due gli imperativi costituzionali emersi dalle risposte dei giudici: progressività e flessibilità della pena. Quella che è venuta fuori non è una Costituzione “imbalsamata” come ha tenuto a precisare Lattanzi ma uno “strumento per chi non ha potere ed è più debole”; è una Carta che scommette sulla trasformazione della persona detenuta, come ha ricordato il giudice Viganò, richiamando la nota sentenza 149 del 2018, di cui è stato redattore “in piena coerenza, soprattutto, con l’assunto - sotteso allo stesso art. 27, terzo comma, Cost. - secondo cui la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, fosse anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”. Tra le autorità presenti anche il sottosegretario alla giustizia Jacopo Morrone a cui il giudice Giuliano Amato, prendendo come spunto una domanda del detenuto Roberto Pecci sulla pena accessoria, in particolare sull’interdizione spesso perpetua al diritto al voto, ha lanciato un appello: “Varrebbe la pena, signor Sottosegretario, che gli organi politici se ne occupassero perché francamente togliere il diritto di voto ad una persona che rientra nella società è togliergli il pezzo più grosso della cittadinanza”. Ad intervenire anche il capo del Dap Francesco Basentini il quale ha annunciato che a breve ci sarà un ampliamento dei colloqui tra detenuti e familiari attraverso l’uso di Skype in tre istituti. Alla fine dell’incontro strette di mano e persino abbracci tra i giudici ed alcuni detenuti. Rebibbia, i giudici costituzionali in carcere coi reclusi: “leggi per i deboli” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 ottobre 2018 L’inno di Mameli e le domande degli immigrati. Il presidente Lattanzi: “No a influenze da sentimenti e umori che si agitano e dominano nel Paese”. “La nostra Carta è una legge giusta mai nemica, un indispensabile strumento contro abusi e prevaricazioni”. Sulle note dell’inno di Mameli i detenuti si alzano in piedi e cantano, un po’ fuori tempo ma convinti, come vedono fare ai calciatori della Nazionale in tv. Alcuni mettono la mano sul cuore. Anche qualche giudice costituzionale, tra i dieci sul palco, accenna le strofe, e alla fine il “Sì!” dei reclusi risuona fragoroso nel teatro del carcere romano di Rebibbia. Gridato anche dagli stranieri che partecipano all’incontro per mettere in evidenza la loro condizione. Zuvra H., donna di origini nomadi che vive in Italia dal 1983, madre di undici figli di cui quattro italiani, chiede se sia giusto che quando avrà scontato la pena non potrà avere il permesso di soggiorno in quanto pregiudicata. Il giudice Giancarlo Coraggio le risponde che il rifiuto del permesso non può essere motivato solo a causa dei precedenti penali. In tempi di provvedimenti che mettono insieme immigrazione e sicurezza, sono precisazioni che pesano. Ma più in generale pesa - e molto - la scelta della Corte costituzionale di andare nelle carceri d’Italia a parlare di diritti e doveri, e dunque di Costituzione. Un viaggio che comincia da Rebibbia dove i giudici guidati dal presidente Giorgio Lattanzi dialogano con oltre duecento detenuti che ascoltano e fanno domande, in diretta streaming con 150 istituti sparsi in tutta Italia, per una platea di circa 11.000 persone che scontano una pena o attendono in cella l’esito di un processo. “Può sembrare strano venire a illustrare una legge come la Costituzione nel luogo in cui la legge può apparire nemica - dice Lattanzi. Ma la nostra Costituzione, che è una legge giusta, non è mai nemica, e rappresenta un indispensabile strumento di tutela per impedire abusi e prevaricazioni”. Il mosaico di volti e tatuaggi mescolati alle grisaglie di giudici e autorità diventa l’immagine della “legge giusta” che non si ferma davanti alle mura delle prigioni, ma vive anche al loro interno. Le facce variegate dei reclusi - tirate e rilassate, cupe e sorridenti, rassegnate e curiose, diffidenti e molto altro, ognuna con la sua storia di diritti negati prima agli altri e poi a se stessi - rappresentano la “carne viva” su cui affonda il messaggio di Lattanzi: le pene devono tendere al reinserimento del condannato nella società, e dunque nessuna legge può porre preclusioni assolute o limiti insuperabili alla concessione di benefici e alla “risocializzazione” dei detenuti, i quali meritano di essere valutati nei loro cambiamenti. La Corte l’ha stabilito e ribadito più volte, anche in sentenze recenti che hanno dichiarato illegittime regole e divieti troppo stringenti. Anna Maria R. - mamma, nonna e bisnonna di 68 anni, chiusa in cella da tre e mezzo - vorrebbe norme meno rigide su telefonate e colloqui, perché “l’affettività è importante per non perdere definitivamente i contatti con il mondo che abbiamo lasciato fuori da qui”. L’applauso scrosciante fa capire quanto il problema sia sentito da tutti quelli che affollano il teatro, e la vice-presidente Marta Cartabia la rassicura: “La Costituzione guarda ai diritti della persona in tutti i suoi aspetti, compresi quelli legati alla famiglia. E l’afflittività della pena non deve ripercuotersi sui familiari del detenuto”. La Corte, ricordano i giudici, non può fare nuove leggi, ma rimuovere ostacoli rappresentati da norme che non rispettano i principi fondamentali fissati dalla Carta del 1948; e nel tempo ha bocciato, riformato o cancellato leggi che non garantivano i diritti alla difesa, alla salute, all’istruzione, all’informazione, al lavoro. “La Costituzione e la Corte esistono in modo particolare per le persone detenute, perché sono più deboli”, ricorda Lattanzi. Roberto P. e Francesco P. chiedono se sia giusta l’interdizione perpetua dal diritto al voto a pena espiata, o la regola per cui i cittadini - compresi i reclusi - non possono rivolgersi direttamente alla Corte. “Sono problemi seri, che forse è giunto il momento di affrontare”, risponde il giudice Giuliano Amato. Ma tocca prima al legislatore. L’importante, conclude il presidente Lattanzi, è che la Costituzione non sia “imbalsamata”. E che la Corte non si faccia influenzare da “sentimenti e umori che si agitano ed eventualmente dominano nel Paese”; altra affermazione dal significato particolare di fronte a tentazioni discriminatorie e spinte securitarie: “Le nostre direttrici sono nella Costituzione, e solo quelle dobbiamo seguire, per evitare scostamenti anche momentanei dai principi costituzionali”. La Costituzione “brilla” a Rebibbia: 10 giudici a confronto con i detenuti di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2018 Dodici domande, dodici risposte. Per un confronto eccezionale: da un lato, a domandare, i detenuti del carcere di Rebibbia; dall’altro, a rispondere, i giudici della Corte costituzionale. “Abbiamo sentito l’esigenza di rimettere in circolazione lo spirito della Costituzione”, ha spiegato il presidente della Consulta, Giorgio Lattanzi. È stata questa la molla, a 70 anni dall’entrata in vigore della Carta, che ha spinto i giudici costituzionali a uscire dal palazzo e a incontrare il Paese reale, a cominciare dai suoi tasselli più sensibili: prima le scuole, a inizio anno. Da oggi anche le carceri. Il nuovo “viaggio-racconto” della Consulta è partito dal polo penitenziario romano che conta nel complesso 2.200 detenuti, di cui 344 donne della casa di reclusione femminile. Quella in cui, neanche venti giorni fa, una mamma ha ucciso i due figlioletti gettandoli dalle scale del nido. Una tragedia che ha riaperto il dibattito sull’opportunità di tenere dietro le sbarre le madri con figli molto piccoli. E che, più in generale, ha riacceso i riflettori su un pianeta per lo più dimenticato, quando non reietto. Lattanzi cita i padri costituenti: “Mai più carceri cimiteri dei vivi” - Anche per questo la lezione del presidente Lattanzi e le riflessioni corali sui diritti fondamentali e la tutela della dignità della persona umana come cardine del nostro ordinamento sono risuonate quanto mai solenni. Alla composta platea di circa 250 detenuti, di cui una ventina donne, oltre alle 11mila persone recluse di altre 150 carceri e 15 istituti di pena minorili collegati in streaming, i giudici hanno ricordato il giuramento dei padri costituenti, che portavano sulla loro pelle le cicatrici del fascismo: “Mai più un carcere cimitero dei vivi”. “Da lì è nato l’articolo 27”, il principio secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, ha sottolineato Lattanzi, individuando in quella “super legge” che è la Carta, per i detenuti come per tutti, “uno scudo nei confronti dei poteri dello Stato, che neppure il legislatore con le sue mutevoli maggioranze può violare”. Persino la sua stessa revisione “non è senza limiti, perché ci sono principi supremi che non possono in alcun modo essere violati”. “Il giudice costituzionale non sia mai di parte” - Il giudice costituzionale, secondo Lattanzi, “è un protagonista che non deve mai trasformarsi in una parte”. La Corte deve essere “immersa nella società e consapevole delle idee, dei sentimenti e degli umori che si agitano ed eventualmente dominano nel Paese, ma non dipendere da questi nei suoi giudizi sulle leggi. Le sue direttrici la Corte non può che trarle dalla Costituzione e solo quelle direttrici deve seguire, avendo cura di evitare anche scostamenti momentanei dai principi costituzionali. È questo il nostro compito”. Il diritto all’affettività - Ricchi e articolati gli interrogativi dei detenuti, frutto di incontri precedenti promossi da Marco Ruotolo, ordinario di diritto costituzionale all’Università di Roma Tre e responsabile scientifico del progetto. Ad Annamaria, che ha posto la questione del diritto all’affettività, ha risposto la giudice Marta Cartabia: “La Costituzione guarda alla persona in tutti i suoi bisogni. Diritti e doveri non si fermano fuori dal carcere. Ma il “come” non può non essere diverso, perché bisogna tenere conto delle esigenze di sicurezza. Mantenere sani rapporti familiari è decisivo per il cammino di rinascita. La Corte non ha il potere di costruire nuove norme, ma cerca di rimuovere gli ostacoli attribuendo grande responsabilità ai magistrati di sorveglianza”. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, ha annunciato un ampliamento dei colloqui telefonici e l’avvio di una sperimentazione dell’uso di Skype in tre istituti. Responsabilizzazione e cultura per rinnovarsi - A Paolo che chiedeva come si concili la rieducazione con “la gran parte dei detenuti lasciati a giocare a carte e a passeggiare nelle sezioni”, Franco Modugno ha invitato a considerare il “rinnovamento” come un percorso tanto neurologico quanto ambientale: “È indispensabile l’offerta di concrete opportunità che consentano al singolo di responsabilizzarsi”. E se Francesco domandava perché il teatro (attività storica e prestigiosa di Rebibbia, assurta alla ribalta internazionale grazie al film “Cesare non deve morire” dei fratelli Taviani) fosse spesso ridotto al rango di intrattenimento invece che riconosciuto dal legislatore come trattamento e rieducazione, Daria de Pretis ha sottolineato che niente come la cultura “consente di sviluppare la propria personalità”, nulla produce un cambiamento più forte. “La Costituzione scommette sul cambiamento” - “La Costituzione scommette sul cambiamento”, ha sintetizzato efficacemente Francesco Viganò, redattore della sentenza 149/2018 che ha dichiarato incostituzionale l’impossibilità di accedere, per un periodo eccessivamente lungo, a qualsiasi beneficio penitenziario per alcune categorie di detenuti, sulla base del reato commesso. “Il condannato non è il suo reato, è una persona che la Carta percepisce in evoluzione”, ha aggiunto, replicando a Giorgiana che esprimeva tutto il suo timore per il progetto del governo di ridurre benefici e misure alternative. La legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario è l’attuazione di quel programma costituzionale. Da non confondere con il “buonismo”: “La parola chiave è “prudenza”, ma gli imperativi costituzionali sono due: progressività dell’accompagnamento verso l’esterno e flessibilità, da non intendersi in contrapposizione all’esigenza di certezza della pena, ma finalizzara a renderla idonea al percorso di risocializzazione”. Percorso mai scontato: “Non deve esserci automatismo nella concessione dei benefici”. A Filippo che chiedeva come si possa conciliare il diritto alla speranza con pene quali l’ergastolo ostativo, Viganò ha risposto sulla stessa lunghezza d’onda: “Il diritto alla speranza fotografa l’idea della Costituzione che scommette sul cambiamento, ma la condizione è che il detenuto abbia compiuto un percorso di risocializzazione e revisione critica del passato. Finora la Corte ha sempre ritenuto che la mancanza di collaborazione processuale sia la prova di pericolosità sociale ancora in essere e di persistenti legami con la criminalità organizzata”. Il diritto alla salute e la lotta agli automatismi - Gli automatismi sono stati condannati anche sul tema più sentito: il diritto alla salute. “Non è giunta l’ora che non muoia più nessuno in carcere?”, ha domandato Stefano, tra gli applausi degli altri reclusi. “La salute è diritto fondamentale che tendenzialmente deve prevalere su ogni altro elemento”, ha replicato il giudice Luca Antonini, chiarendo che compito della Corte è giudicare quali automatismi sono illegittimi. Giuliano Amato ha rincarato: “È inammissibile che si muoia in carcere perché non si ricevono cure adeguate. Perbacco, pensiamo all’Africa e l’Africa ce l’abbiamo in casa?”. Amato, rispondendo a Francesco che citando l’esempio tedesco chiedeva perché non rendere possibile il ricorso diretto dei cittadini alla Consulta, ha elencato lo svantaggio (l’eccesso prevedibile di ricorsi) ma anche il vantaggio: “La specialità che si riconoscerebbe ai diritti fondamentali e l’effetto concreto delle sentenze”. Il lavoro insufficiente - Inevitabile il riferimento al lavoro. Con Fabio, laureando in giurisprudenza, che ha denunciato l’offerta ancora scarsa e la penalizzazione retributiva delle detenute. La giudice Silvana Sciarra ha osservato come anche le politiche del lavoro in carcere vadano “individualizzate”. Di nuovo lo stesso faro: “Tornare all’individuo contro gli automatismi”. E superare gli stereotipi per garantire alle donne pari diritti. Non poteva mancare, in una galassia in cui 20mila detenuti sul totale di 59.275 sono stranieri, la questione sollevata da una reclusa cui è stata rifiutata la carta di soggiorno per precedenti penali, madre di 11 figli di cui 4 cittadini italiani. “Che senso ha rieducare in Italia una persona che poi non potrà essere cittadina italiana?”, la sua domanda. “Il rifiuto permanente di soggiorno non può essere determinato dai precedenti penali”, ha osservato Giancarlo Coraggio. “La rieducazione è utile proprio perché si abbiano strumenti culturali ed etici per inserirsi attivamente nella società”. La spina delle pene accessorie - Le pene accessorie, specie quelle perpetue, sono state contestate vivacemente dai detenuti. “Non rischiano di indurre chi esce a tornare sulla strada da cui proviene?”, ha suggerito Vincenzo. Per il giudice Giovanni Amoroso, “è un problema di bilanciamento”, come si evince dalla sentenza Zagrebelsky 132/2001 sul caso di un lavoratore con obbligo di soggiorno. Con Roberto che invocava spiegazioni sulla ratio dell’interdizione perpetua del diritto di voto, Amato è stato netto: “Varrebbe la pena che gli organi politici se ne occupassero. Togliere il diritto di voto è togliere il pezzo più grosso della cittadinanza”. Quasi 60mila detenuti in carcere, verso un 2018 da record di Maurizio Tortorella affaritaliani.it, 5 ottobre 2018 Sono 59.275, per oltre un terzo stranieri. Ogni sei persone in cella, ce n’è più o meno una di troppo rispetto al regolamento. Continuano ad aumentare i detenuti nelle carceri italiane. I dati relativi al 30 settembre, appena resi noti dal ministero della Giustizia, indicano un dato di 59.275 reclusi nelle 190 prigioni attive: è un nuovo record che batte di 140 unità quello già registrato alla fine di agosto. La tendenza crescente all’affollamento dura almeno dal gennaio 2017, quando i detenuti erano 55.381 (per di più distribuiti, allora, in 191 istituti di pena), e cioè quasi 4mila in meno rispetto a oggi. La “capienza regolamentare”, quella che indica i posti effettivamente disponibili, è attualmente di 50.622 detenuti. Pertanto i reclusi in soprannumero, allo stato, sono ben 8.653: il 14,5% del totale. In definitiva, ogni sei persone custodite in cella, ce n’è più o meno una di troppo. Tra i detenuti, gli uomini sono come sempre la stragrande maggioranza: le donne sono appena 2.556. Gli stranieri sono 20.098 (il 33,9% del totale), 71 in più rispetto allo scorso 31 agosto, e ben 1.273 in più rispetto al gennaio 2017. Nelle carceri più importanti, situazioni di particolare affollamento riguardano sicuramente Rebbbia, a Roma, dove i detenuti sono attualmente 1.473 mentre dovrebbero essere 1.178. Sempre a Roma, a Regina Coeli i reclusi sono 963 contro i 617 previsti dalla capienza regolamentare. Nel carcere milanese di San Vittore sono presenti 1.013 detenuti contro 8.18 previsti. Alle Vallette di Torino sono 1.383, e dovrebbero essere al massimo 1.062. Nelle celle di Marassi (Genova), sono 718 contro una previsione massima di 546. A Bergamo sono 545 contro 321. Carceri, cresce la popolazione detenuta. Meno stranieri, tante malattie, troppi suicidi La Presse, 5 ottobre 2018 Le carceri italiane sono sovraffollate al punto da ledere in molti casi i diritti fondamentali delle persone detenute: in due anni la popolazione carceraria è cresciuta di 6.000 unità. Ogni detenuto costa allo stato 137 euro al giorno, ma uno su tre è in cella pur attendendo ancora una condanna definitiva. È un quadro di poche luci e tante ombre quello che emerge dal dossier presentato quest’anno dall’associazione Antigone sulla condizioni degli istituti penitenziari italiani. Sovraffollamento e scarso supporto psicologico contribuiscono al drammatico numero di suicidi in cella: 52 nel 2017, mentre 1.135 sono i tentativi di suicidio. Sono oltre 50 i bambini, sotto i tre anni, conviventi con madri detenute, spesso in strutture non attrezzate alle loro esigenze più elementari. Tredici, secondo i dati forniti dal Dap a fine agosto, le madri detenute nel carcere romano di Rebibbia dove il 19 settembre scorso si è consumato il duplice infanticidio ad opera di una giovane che ha scaraventato i due figli a terra uccidendoli. Nonostante l’aumento consistente dei detenuti, cala il numero di stranieri in carcere: 2000 in meno rispetto a dieci anni fa, anche se il numero di stranieri residenti in Italia nello stesso lasso di tempo è notevolmente cresciuto. Gli stranieri sono il 37,7% del totale dei detenuti in attesa del primo giudizio. L’Italia è il quinto paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare. Nel 2017 i detenuti ancora in attesa di sentenza definitiva erano il 34,4%, mentre la media europea è del 22%. Sul fronte della salute, secondo gli ultimi dati, circa il 70% dei detenuti possiede almeno una malattia cronica, ma di questi poco meno della metà ne è consapevole. Le carceri si confermano, quindi, un concentratore di patologie: malattie infettive, psichiatriche, metaboliche, cardiovascolari e respiratorie. Infine, sul fronte della prevenzione contro il terrorismo, nel 2017 i detenuti sotto osservazione per radicalizzazione sono stati in forte aumento rispetto all’anno precedente: 506 contro 365 del 2016 (il 72% in più). Questi detenuti sono monitorati dal Dap con tre livelli di allerta: alto, medio e basso. 242 sono oggetto di un alto livello di attenzione (il 32% in più del 2016), 150 di un livello medio (il 100% in più del 2016) e 114 di un livello basso (nel 2016 erano 126). Tra coloro che rientrano nel livello alto, 180 sono in carcere per reati comuni e 62 perché sospettati, o condannati, per reati connessi al terrorismo islamico. “Tra il dentro e il fuori del carcere non esistono barriere ideali ma solo fisiche”. Così il presidente della Consulta Giorgio Lattanzi che con i giudici della Corte costituzionale incontra oggi circa 250 detenuti (tra cui 20 donne) a Rebibbia (Roma), nell’ambito del progetto “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”. Lattanzi sottolinea il valore assoluto, anche in carcere della Costituzione che “si rivolge anche ai detenuti garantendone i diritti”. Affinché il carcere, aggiunge, “non sia un dentro in cui si finisce ma un dentro in cui si ricomincia”. Il progetto “Viaggio nelle carceri” della Corte Costituzionale, grazie alla collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità, prevede un ciclo di incontri in diverse carceri italiane, a partire da Rebibbia Nuovo complesso, prima tappa del ‘Viaggio’, cui seguiranno, fino al 16 novembre 2018, San Vittore a Milano, Nisida minorile, Terni, Genova-Marassi, Lecce femminile. Il Viaggio proseguirà poi nel 2019, come quello nelle scuole dello scorso anno. Malattie croniche per 7 detenuti su 10 (e a stare peggio sono le donne) Corriere della Sera, 5 ottobre 2018 Il virus dell’epatite C è il più diffuso: dai 25 ai 30mila detenuti, uno su tre, dovrebbero essere trattati con i nuovi farmaci altamente attivi contro il virus Hcv. Ogni anno nei 190 istituti penitenziari italiani transitano circa 100mila detenuti. Circa il 70% di loro ha una malattia cronica (o anche più di una), ma poco meno della metà ne è consapevole. I dati ufficiali del Ministero della Giustizia indicano che oltre il 50% dei soggetti ha meno di quarant’anni e che un detenuto su tre è straniero. E le carceri si confermano un concentrato di malattie infettive, psichiatriche, metaboliche, cardiovascolari e respiratorie. Di questo tema si parla a Roma, giovedì 4 e venerdì 5 ottobre, al Congresso nazionale della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe Onlus), organizzato insieme alla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (Simit). Tra gli argomenti “caldi” la vaccinazione delle persone detenute, integrazione e tutela delle fragilità sanitarie e sociali in carcere, il dolore e la salute mentale in ambito penitenziario, eradicazione del virus dell’epatite C nelle sezioni detentive, esperienze di gestione dei detenuti migranti. Epatite C, la più diffusa - “Tra le malattie infettive, il virus dell’epatite C (Hcv) è quello più rappresentato, soprattutto a causa del fenomeno della tossicodipendenza - spiega Sergio Babudieri, presidente del Congresso e direttore scientifico Simspe onlus. Un terzo dei detenuti (34%) è detenuto per spaccio di stupefacenti, il che li rende più soggetti a malattie infettive. Dal 30% al 38% dei carcerati ha gli anticorpi del virus dell’epatite C, ma di questi solo il 70% ha il virus attivo. Dai 25 ai 30mila detenuti, quindi uno su tre, avrebbero bisogno di essere trattati con i nuovi farmaci altamente attivi contro il virus C dell’epatite”. Hiv e tubercolosi - Numeri migliori, ma non rassicuranti, per quanto riguarda l’Hiv: la patologia è in diminuzione, ma non riguarda più esclusivamente le categorie a rischio. Oggi si parla del 3/3,5% di sieropositivi nelle carceri, ma è difficile arrivare a nuove diagnosi. I malati di epatite B, invece, sono il 5-6% del totale. Oltre la metà dei detenuti stranieri è invece positivo ai test per la tubercolosi. “Quando parliamo di migranti dobbiamo ricordarci che si tratta di persone che, per più o meno ovvie ragioni, tendono a non curarsi e a non poter approfondire la propria questione sanitaria - dice Babudieri. In aumento per loro è soprattutto la tubercolosi, con la possibilità di far crescere la circolazione di ceppi multi-resistenti ai farmaci. Un ulteriore problema è intrinseco alla malattia, per sua natura subdola e non facilmente diagnosticabile, perché il peggioramento è lento e graduale. Ci vorrebbe una maggiore attenzione proprio a partire dai centri migranti, dove spesso ci sono controlli sanitari non adeguati”. La situazione delle donne - Le donne sono circa il 4% della popolazione carceraria. I reati più perseguiti da loro sono quelli contro il patrimonio, contro la persona e in materia di stupefacenti. Ma sono molto frequenti anche i reati di prostituzione. Si contano poi una sessantina di bambini, da pochi mesi a 6 anni, figli di madri che hanno subito un arresto o una condanna. “Da recenti studi internazionali - spiega Babudieri - emerge che le donne detenute hanno una percentuale di malattie infettive superiore di alcuni punti percentuali rispetto agli uomini. Una “élite in negativo” in cui si concentrano non solo malattie infettive, ma anche psichiatriche, cardio-respiratorie, metaboliche e degenerative. Eppure occorrerebbe un piccolo sforzo per garantire a loro, e agli eventuali minori, ottimi risultati. Ma, data l’età media della popolazione totale, si potrebbe raggiungere uno stato di salute nettamente superiore per tutti”. Programma di vaccinazione - “I responsabili dell’assistenza sanitaria in carcere sono i sistemi sanitari regionali - aggiunge Babudieri. A loro spetterebbe il compito di creare un ponte tra i medici delle carceri e i medici dell’igiene e della prevenzione territoriale. Il responsabile di ogni struttura penitenziaria dovrebbe correlarsi con i responsabili della Sanità pubblica per la realizzazione di un programma di vaccinazione totale. In questo modo tutte le persone detenute saranno sotto controllo, garantendo non solo la loro sicurezza, ma anche quella di chi starà loro accanto, dentro e fuori le strutture penitenziarie. Non è mai stato fatto un registro nazionale per nessuna patologia, non c’è mai stato un coordinamento nazionale. Da anni la nostra Società ha proposto di affidare all’Istituto Superiore di Sanità la gestione di un Osservatorio nazionale per la tutela della salute in carcere che coordini tutti gli osservatori regionali già costituiti, ma questa nostra richiesta è stata costantemente disattesa”. Mattarella firma il decreto sulla sicurezza, ma ricorda gli obblighi della Costituzione La Stampa, 5 ottobre 2018 Salvini esulta e risponde: “Rispettiamo la costituzione e i trattati ma non siamo fessi”. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha firmato il decreto legge in materia di Sicurezza e Immigrazione voluto dal ministro Salvini ma contestualmente ha inviato una lettera di richiamo al premier Giuseppe Conte. “Al riguardo - dice il capo dello Stato - avverto l’obbligo di sottolineare che, in materia, restano “fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato”, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo. E, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia”. Salvini: “Rispettiamo la costituzione ma non siamo fessi” - “Il presidente Mattarella ha firmato il decreto Sicurezza del cattivone di Salvini, quindi la settimana prossima il parlamento comincerà a discutere e soprattutto a votare queste decine di articoli che porteranno più sicurezza. Dopo tante polemiche, dopo i giornali che dicevano non ce la farà mai, Mattarella non firmerà mai, “ciapa li e porta a ca”“ esulta Salvini su Facebook. Poi aggiunge: “Ho spiegato al presidente Mattarella che noi rispettiamo la Costituzione, le Convenzioni e i trattati internazionali però non vogliamo passare per fessi” in un videomessaggio sempre su Facebook. Salvini ha quindi precisato che “se un richiedente asilo arriva in Italia, fa richiesta di asilo politico e nel frattempo spaccia droga, picchia un poliziotto, scippa un’anziana o molesta una bambina viene immediatamente convocato dalla commissione prefettizia, che gli dice “caro mio tu non sei un profugo sei un delinquente” e col primo aereo, primo barcone, primo pedalò, prima mongolfiera, torni a casa”. Decreto sicurezza. Nel testo varato da Salvini resta la stretta su asilo e cittadinanza di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 5 ottobre 2018 Frenata invece sullo sport, fuori le norme sulle manifestazioni sportive. I diritti tv saranno assegnati “con incarichi della durata di tre esercizi”. Passa l’articolo 14 sulla revoca della cittadinanza “in caso di condanna definitiva per i reati di terrorismo”. Le norme sulle manifestazioni sportive escono dal decreto sicurezza, mentre ottiene il via libera il contestato articolo 10 - quello sulla sospensione della procedura per i richiedenti asilo - che era stato cambiato su suggerimento del Quirinale. Passa il vaglio del Colle anche l’articolo 14, sulla revoca della cittadinanza, modificato rispetto alla stesura originale. Dopo svariate settimane di trattativa tra 5 Stelle e Lega e altre settimane di dialogo con i giuristi che collaborano con il capo dello Stato, il testo firmato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini entra dunque in vigore. E adesso dovrà essere esaminato dal Parlamento per la conversione in legge entro 60 giorni. Con il rischio alto che ci siano comunque problemi di costituzionalità e dunque che le norme vengano ulteriormente aggiustate durante il dibattito di Camera e Senato. Un’eventualità che lo stesso Salvini ha ben chiara visto che più volte ha definito il testo “non blindato”. La sospensione - L’articolo 10 ha come titolo “Procedimento immediato innanzi alla commissione” e stabilisce: “Quando il richiedente è sottoposto a procedimento penale oppure è stato condannato anche con sentenza non definitiva, il questore ne dà tempestiva comunicazione alla commissione territoriale che provvede nell’immediatezza all’audizione dell’interessato e adotta contestuale decisione” sulla richiesta di asilo. Rispetto alla prima versione che era stata concordata tra il Viminale e il ministero della Giustizia è stato dunque previsto di svolgere un’istruttoria prima dell’eventuale bocciatura dell’istanza. Rimane invece per lo straniero “l’obbligo di lasciare il territorio nazionale, anche in pendenza di ricorso avverso la decisione della commissione”. La cittadinanza - È possibile che il dibattito parlamentare porti a modificare l’articolo 14 tenendo conto che la cittadinanza è un diritto costituzionalmente garantito. E invece la norma ora contenuta nel decreto stabilisce che venga revocata “in caso di condanna definitiva per i reati di terrorismo entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna con decreto del presidente della Repubblica su proposta del ministro dell’Interno”. La procedura elimina gli automatismi ma non è scontato che questo sia sufficiente per la conversione definitiva in legge. I diritti sportivi - Nel provvedimento erano state inserite norme sui diritti tv. In particolare un articolo secondo cui “a partire dalla stagione sportiva 2019-2020 possono accedere alla ripartizione della quota dei diritti audiovisivi da assegnare ai partecipanti ai campionati di calcio di serie A e B solo le società, quotate e non quotate, che abbiano sottoposto i propri bilanci alla revisione legale svolta da una società di revisione iscritta nel registro dei revisori contabili, la quale, limitatamente a tali incarichi, è soggetta alla vigilanza della Commissione nazionale per le società e la borsa. Gli incarichi hanno la durata di tre esercizi e non possono essere rinnovati o nuovamente conferiti se non siano decorsi almeno tre anni dalla data di cessazione dei precedenti”. Il Quirinale ha imposto che questa parte fosse inserita in un nuovo decreto portato ieri al consiglio dei ministri. “Le coperture” - Dal ministero dell’Economia era stato chiesto di inserire la precisazione che “dall’attuazione delle nuove norme non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” con attenzione particolare alla norma che prevede “il raddoppio della durata massima del trattenimento dello straniero nei Centri di permanenza per il rimpatrio da 90 a 180 giorni”. C’è scritto sicurezza, si legge repressione di Checchino Antonini Left, 5 ottobre 2018 Il decreto Salvini su immigrazione e sicurezza, nel solco della legge Minniti-Orlando colpisce profughi, poveri e ribelli. E introduce reati per impedire la protesta sindacale o dei movimenti. come nel caso del divieto dei picchetti stradali. Chi ci guadagna? Per esempio, i palazzinari. Partiamo dalla Val di Susa dove più efficace è staro l’appello al voto utile per i Cinque stelle. Una volta al governo quel partito non solo è ambiguo sul Tav ma i suoi ministri hanno votato come un sol uomo il di Salvini che, col pretesto della lotta al terrorismo e alle mafie, colpisce “barbari, marginali e ribelli, ossia stranieri, poveri, e quelli che occupano case e centri sociali, un’ossessione per Salvini e le destre”, spiega a Left, Livio Pepino, ex magistrato e presidente del Contro Osservatorio Val Susa. “Da anni l’alfiere degli Yes Tav, Stefano Esposito, ex senatore Pd, si batteva perché il blocco stradale diventasse reato uguale al sequestro di persona” ricorda Italo Di Sabato, coordinatore di Osservatorio repressione. Ora Salvini lo copia pari pari e, sul solco dei decreti Minniti-Orlando, prosegue la fuga del Paese “dallo Stato sociale allo Stato penale, si utilizza la fabbrica della paura per destrutturare lo Stato di diritto”. Il sedicente governo del “cambiamento” copia il Pd che a sua volta copiava il Pdl che peggiorava certe malefatte dell’Ulivo compiute “perché se no avrebbe vinto Berlusconi”. Così il Dl Salvini, oltre a premere in generale sulla condizione migrante, criminalizza le occupazioni, arma di Taser le polizie municipali (nelle città con più di 100mila abitanti), estende il Daspo urbano di Minniti anche alle arce di nere e presidi sanitari (per colpire senzatetto, tossici, trans e disagiati psichici) e ripenalizza - da uno a sei anni di carcere - il blocco stradale, “forma tipica del conflitto sociale - ricorda Pepino - depenalizzato dal 1999 (comportava una sanzione amministrativa, ndr) perché si pensava che le dinamiche sociali avessero bisogno prima di risposte politiche. Ora sembra che si vogliano esorcizzare”. “Col reato di occupazione di immobili - illustra Riccardo Bucci, avvocato dell’associazione Alterego - viene sottolineato l’indirizzo dì stampo repressivo-politico, prevedendosi una pena più grave per chi organizza (fino a 4 anni di pena) in confronto a chi occupa fisicamente (2 anni). E viene autorizzata l’intercettazione telefonica come accade per traffico di armi, droga e reati per i quali la pena è l’ergastolo”. Prima gli italiani, ma solo se palazzinari o industriali visto che la reclusione (e l’espulsione in caso di condanna se sci straniero) potrebbe interessare quei lavoratori della logistica (settore impossibile da delocalizzare composto all’80% da migranti regolari) che in questi anni, grazie a scioperi e picchetti, sono riusciti a strappare vittorie importanti. Gongola Conferra, la Confindustria del comparto, per [‘“ulteriore indispensabile strumento di prevenzione dì forme di violenza e di sopraffazione. Contiamo molto sul suo effetto dissuasivo su pochi caporioni” dichiara il presidente Nereo Scarponi. “Si pone un problema per la parte più combattiva del movimento dei lavoratori. E tuia sorta di doppio gioco del governo: da un laro proclami (come l’abolizione della povertà, ndr), dall’altra repressione per mettere un tappo alle lotte”, ci dice da Palermo Serafino Biondo, operaio Fincantieri e delegato Fiom con all’attivo diverse denunce per iniziative politiche e sindacali sfociate in blocchi stradali. L’attacco è verso il movimento operaio meticcio: “Nella stagione primavera-estate, il Folk Devil (il mostro, ndr) governativo era il migrante; in autunno-inverno, sì aggiungono i lavoratori e gli occupanti di spazi a scopi sociali o abitativi, figure non necessariamente migranti”, aggiunge Francesco Romeo, penalista, fra l’altro, in processi come quello per la mattanza cilena alla Diaz o contro le torture ai detenuti politici (il “caso De Tormentis”), suggerendo di leggere ii decreto “nella sua sinergia con la recente circolare sugli sgomberi: e un salto di qualità nella storia penale della Repubblica”. Da un paio di decenni gli apparati di polizia tentavano di appioppare, senza successo, l’associazione a delinquere ai movimenti sociali: “E un tentativo di spoliticizzare e criminalizzare le lotte come alla fine dell’800 quando gli anarchici erano processati come “associazione di malfattori”“, dice Romeo. E, ancora, Pepino: “Con il Daspo e il Taser ai vigili si completa la trasformazione dei sindaci in organi di tutela dell’ordine pubblico anziché di portatori di istanze sociali”, Riccardo De Corato, già missino, ossessionato dai centri sociali, e ora assessore lombardo alla Sicurezza, immigrazione e polizia locale per Fratelli d’Italia, è già in tour per l’aggiornamento professionale delle polizie locali della sua regione. Sgomberi, Daspo e sfratti violenti, si ripetono nelle grandi e piccole città con i sindaci pentastellati in prima fila. “Il diritto all’abitare viene totalmente soppiantato da una visione privatistica - dice ancora Bucci, in un ordinamento dove gli immobili invenduti non prevedono tasse per il costruttore, mentre i cittadini senza casa non solo non possono occupare immobili invenduti e inutili, ma non possono neanche organizzarsi. Dulcis in fundo, gli organizzatori di occupa/ioni rientrano a pieno titolo tra i socialmente pericolosi, pertanto soggetti a tutte le misure preventive come sorveglianza speciale, divieto di soggiorno, obbligo di firma anche se solo indiziati”. “Chi produce queste leggi sa benissimo - dice Romeo - che sono contrarie ai principi costituzionali ma, per arrivare alla suprema corte serve un giudice che ce la mandi. Ma i giudici risentono dello Zeitgeist, dello spirito del tempo. Intanto gli anni passano e gli effetti si producono”. Come sembrano dimostrare le inchieste contro le Ong e il sindaco di Riace. “Tuttavia queste formulazioni - interviene Bucci -devono essere valutate sotto un profilo di proporzionalità tra la pena e l’offesa arrecata: iniziamo oggi un lavoro di validazione per farne dichiarare l’illegittimità costituzionale per violazione dì vari principi di diritto”. Tutto questo deve essere valutato, spiega Bucci, anche nei confronti dei principi del nostro ordinamento e di convenzioni ratificate, come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (“ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione...”), il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e perfino il Trattato sull’Ue all’art. 34, si legge, “riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa”. In questi giorni, movimenti per il diritto all’abitare e giuristi democratici stanno promuovendo iniziative per capire il da farsi e alcuni sindacati di base hanno lanciato per il 26 ottobre uno sciopero generale e il 27 una manifestazione a Roma. La difesa sarà sempre “legittima”. La riforma leghista imbarazza il M5S di Federico Capurso La Stampa, 5 ottobre 2018 Il vicepremier Salvini esulta: garantiremo un diritto sacrosanto. Ma i grillini: pronti a modifiche in Aula. Per far mandare giù il boccone della “difesa sempre legittima” agli alleati del Movimento 5 stelle, i leghisti credevano fosse sufficiente rafforzare il “principio di proporzionalità tra difesa e offesa”, intorno al quale i grillini hanno scavato la loro trincea. E invece, all’arrivo del disegno di legge in Senato, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è balzato sulla sedia. “Scritto così, il testo non passerà mai”, commentano nei corridoi del ministero di via Arenula, mentre le truppe parlamentari M5S mettono in chiaro che “si apprezza il lavoro di sintesi della Lega, ma saranno necessarie delle modifiche”. La partita è delicata, perché smontare uno dei cavalli di battaglia di Matteo Salvini porterebbe a uno scontro e a ritorsioni che nessuno vuole. Ma non si può nemmeno far credere che si voglia affermare “sempre” il principio di proporzionalità tra offesa e difesa all’articolo 1 del testo - ragionano i Cinque stelle - se poi, al punto successivo, quello stesso principio viene aggirato. I fili si sono aggrovigliati attorno al caso di “eccesso di legittima difesa”. La possibile attenuante dello “stato di grave turbamento”, oggi prevista per chi reagisce oltre misura a un’intrusione in casa propria, nella versione leghista si trasforma in uno strumento per rendere “non punibile” qualunque eccesso di legittima difesa. Sarà sufficiente quindi credere che ci sia un pericolo, per non incorrere più nel “problema” della proporzionalità tra difesa e offesa. “Ma chi è che non si sentirebbe gravemente turbato dall’intrusione in casa propria di qualcuno?”, si chiede - da psicologo - il deputato M5S Massimo Baroni. Insomma, per i Cinque stelle è una concessione troppo ampia e va rivista. Non solo. Per i leghisti la legittima difesa è valida anche senza che il ladro abbia un’arma in mano: è sufficiente che minacci di usarne una. E in nessun caso, con il nuovo testo, il ladro o i propri familiari potrebbero chiedere un risarcimento per eventuali danni subiti da un eccesso di legittima difesa. Punti, questi ultimi, che i Cinque stelle vorrebbero limare, ma che non vengono considerati dirimenti. C’è piena sintonia, invece, sull’inasprimento delle pene più anni di reclusione, più corpose le multe. Bene, per il M5S, anche il capitolo “processi”. Per Lega e Cinque stelle va concessa una “priorità assoluta” ai processi per legittima difesa. E per chi ha reagito a un furto o un’aggressione in casa propria, le spese processuali saranno interamente a carico dello Stato. È prevista, poi, anche una stretta sulla concessione della condizionale al ladro o all’aggressore: per poterne godere, dovrà preventivamente risarcire ogni danno. Piovono le critiche dalle opposizioni: un far west per il Pd, troppo poco per Forza Italia. Matteo Salvini, invece, già esulta: “Pronta la legge, si comincia in Senato il 23 ottobre. Avanti, il diritto alla difesa per i cittadini perbene è sacrosanto!”. Insomma, la Lega vuole accelerare, per chiudere la partita in Senato subito dopo l’approvazione della manovra. E dunque - lasciano intendere agli alleati M5S - senza stravolgere tutto. Ma la strada è in salita. Ministro Bonafede: “Riforma fallimento in arrivo, poi riordino della bancarotta” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2018 Un processo a misura di giudice. Con meno riti, per tararlo sulla complessità della causa. Sì a un sistema elettorale del Csm con il sorteggio. E poi revisione del penale fallimentare, delle ipotesi di bancarotta, per completare l’intervento sulla parte “civilistica”. Piena condivisione della nuova class action. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede risponde alle domande del Sole 24 Ore davanti ai quasi duemila delegati del XXXIV Congresso nazionale forense che si è aperto ieri a Catania. Signor ministro, il Congresso chiede l’inserimento in Costituzione di un riconoscimento dell’avvocato. Garantisce un impegno in questa direzione? C’è la massima disponibilità. Ci proveremo e avvieremo un percorso. Personalmente ritengo che si tratti di un intervento necessario a completare la disciplina costituzionale della giurisdizione. Molte polemiche ha sollevato l’elezione a vicepresidente del Csm dell’ex responsabile giustizia Pd David Ermini. Nel contratto di governo la modifica del sistema elettorale del Csm è al primo punto. Ritenete di intervenire? Non ho fatto polemiche. Ritengo che Ermini sia una bravissima persona con la quale collaborerò e tuttavia non c’è dubbio sul significato politico di quel voto: un unico ex parlamentare c’era tra i laici e quello è stato eletto. Quanto al sistema elettorale è nel contratto di governo. Lo cambieremo ed è assolutamente possibile che ci possa essere uno spazio per forme di sorteggio che però non potranno essere integrali. Per queste servirebbe una modifica di rango costituzionale. Sul processo civile, i documenti di accompagnamento al Def puntualizzano la direzione dell’intervento: sarà il giudice a declinare le regole processuali sulla complessità del caso. Non teme contrasti con l’avvocatura? La mia stella polare è il buon funzionamento della giustizia nell’interesse dei cittadini. L’approvazione degli operatori del diritto è importante, ma fondamentale è anche il consenso dei cittadini. Ci sono dinamiche del sistema giustizia che il semplice cittadino non comprende più. La pluralità dei riti e il loro effetto sui tempi non è più tollerabile. Bisogna andare nella direzione di una grande semplificazione; non sono però per preclusioni rigide. Il rito deve favorire l’attribuzione di torti e ragioni, non alimentare l’incertezza. Se si continua con l’inutile complessità si rischia di aumentare la sfiducia dei cittadini nella giurisdizione. Dal 2016 al 2017 lo stock di cause arretrate è diminuito in una percentuale tra il 4 e il 5%. Non è per forza un successo se significa l’allontanamento del cittadino dalla giustizia. Ritiene possibile un abbassamento del contributo unificato? Al momento purtroppo non è possibile, ma prometto di aumentare le risorse a disposizione dell’amministrazione. Ritiene anche di dovere potenziare quel circuito alternativo alla giurisdizione “classica” che oggi fa perno su conciliazione e negoziazione assistita? Sto conducendo un monitoraggio sui risultati che questi strumenti producono. In alcuni settori i benefici sono evidenti; in altri invece tutto si risolve in un’incomprensibile allungamento dei tempi. La revisione della geografia giudiziaria ha sollevato polemiche. Soprattutto tra gli avvocati. La modificherete? Non c’è né la possibilità né l’opportunità. Penso a interventi molto mirati, dove la riforma ha prodotto evidenti risultati di denegata giustizia. Posso però annunciare che nella prossima riscrittura della Legge fallimentare è stata stralciata tutta la parte relativa alla soppressione delle sezioni fallimentari locali. A proposito, quando andrà in consiglio dei ministri la nuova disciplina delle crisi d’impresa? A breve. Abbiamo trasmesso il decreto ai ministeri competenti. Tra le novità rispetto alla versione approvata dalla commissione Rordorf, che in gran parte conserviamo, c’è una maggiore attenzione, nelle misure di allerta, alla realtà delle piccole e medie imprese evitando automatismi troppo penalizzanti. Completeremo l’intervento con una nuova disciplina del penale e delle diverse ipotesi di bancarotta: a breve istituirò un tavolo tecnico. Penso sia un intervento indispensabile per dare compiutezza, prevedendo misure premiali per chi risana l’azienda in crisi, senza essere però indulgenti su chi commette fatti di bancarotta fraudolenta. Sempre in tema di diritto dell’economia, che valutazione dà della legge sulla class action ora al Senato? Lei firmò nella passata legislatura una proposta che molti giudicano più equilibrata di quella appena votata... Considero la legge importante e coraggiosa. I cittadini potranno contare su uno strumento importante in più. È un buon punto di equilibrio come testimonia l’unanimità del consenso ottenuto alla Camera dove sono stati accolti anche emendamenti dell’opposizione. Nella legge è disciplinato anche ruolo e compenso dell’avvocato in maniera tale da rendere premiale la retribuzione per il legale che sposa class action fondate. Dall’Avvocatura arrivano sollecitazioni al cambiamento dell’esame… Intanto ho differito l’entrata in vigore del nuovo esame. Presto ripartiranno i tavoli di confronto con il Cnf sull’accesso e sul patrocinio a spese dello Stato. Infine, le intercettazioni. Le norme dell’ex ministro Andrea Orlando sono state congelate. Ritiene che serva una maggiore salvaguardia della privacy? Stranamente, quell’intervento metteva d’accordo tutti, avvocati e magistrati, nel bocciarlo. Era un intervento nutrito da profonda sfiducia proprio nei confronti degli avvocati, obbligati a ore di ascolto senza poter trarre neppure copia delle intercettazioni. Oggi ho scritto agli Ordini chiedendo indicazioni. Quanto alla privacy, il problema non si risolve con il bavaglio ai giornalisti che devono essere liberi di informare su fatti rilevanti che riguardano uomini pubblici. A partire dai politici. Vanno tutelati più i cittadini che il politico che parla al telefono. “Pronti a portare l’avvocato in Costituzione”. Parola di ministro di Giulia Merlo Il Dubbio, 5 ottobre 2018 “Da parte della maggioranza di governo c’è la volontà di iniziare un percorso di studio, per portare la funzione dell’avvocato in Costituzione”. È con questa promessa alla platea che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, si è presentato agli avvocati riuniti a Catania per il trentaquattresimo congresso nazionale. Intervistato dal giornalista del Sole24Ore, Giovanni Negri, il guardasigilli ha affrontato i temi centrali in materia giustizia, sottolineando come il congresso forense, “rappresenta per me una casa. A chi mi chiede che lavoro faccio, io rispondo sempre non che faccio l’avvocato, ma che sono avvocato. Questo stesso sentire lo porto con me anche facendo il ministro”. Quanto al tema congressuale dell’avvocato in Costituzione, Bonafede ha definito l’istanza come “legittima, una fisiologica chiusura del cerchio: nella Carta si parla di diritto alla difesa, di magistratura e il ministero della Giustizia è l’unico dicastero citato. Manca solo l’avvocatura”. Ermini e il Csm - Bonafede è tornato sulla polemica per la nomina del laico David Ermini a vicepresidente del Csm. “Non era mia intenzione polemizzare. Ma parlo con franchezza: secondo me nella sua nomina c’è un significato politico chiaro, anche se non mi riferivo al colore politico. È però significativo che il Csm abbia eletto l’unico membro laico che è anche parlamentare. Lo considero un modo di creare un legame con la politica”. E ha aggiunto che il suo governo punta a modificare il sistema elettorale del Csm, “con un meccanismo che combatta il correntismo”. Tra le ipotesi, ha confermato che c’è anche quella del sorteggio: “Non è auspicabile un sorteggio integrale, quindi stiamo studiando un sistema che non sia contro qualcuno ma a favore dei magistrati”. Processo civile e riforma fallimentare - Le linee guida per l’intervento sul processo civile nell’arco del prossimo biennio si trovano nel documento di accompagnamento del Def. “Come ha detto il presidente Mascherin, il processo è sede naturale delle garanzie e l’obiettivo è orientarlo alla qualità”, ha esordito Bonafede. Il ministro, che ha colto i sentimenti contrastanti della platea, ha spiegato che cerca “il confronto con gli addetti ai lavori ma voglio anche che i cittadini capiscano. Oggi i troppi riti e le troppe norme generano una sostanziale incertezza, quindi il nostro sforzo è quello di semplificare”. Come punto di partenza, ha indicato la riconduzione dei due atti introduttivi - la citazione e il ricorso - ad uno unico “che sarà il ricorso. Già questo è un messaggio di chiarezza”. Il ministro ha confermato che non verranno chiuse le sezioni fallimentari locali e che la riforma fallimentare si colloca in linea di continuità con il progetto della commissione Rordorf, “che io ho sostenuto anche quando ero all’opposizione”. Al testo manca la parte sul diritto penale fallimentare, quindi Bonafede punta ad integrare questa lacuna. Quanto alle richieste di diminuzione del costo del contributo unificato per il rito amministrativo, ha ammesso che “non ci possiamo permettere di abbassarlo entro dicembre. Assicuro però un investimento importante nelle risorse di giustizia, dai magistrati al personale amministrativo”. Class action - Il tema è molto caro a Bonafede: “La proposta approvata alla Camera è coraggiosa e assolutamente equilibrata. La maggioranza è compatta e sono orgoglioso che il testo sia stato approvato senza voti contrari, perché è stato arricchito dai contributi anche delle opposizioni”. Nella legge è disciplinato ruolo dell’avvocato e anche il suo compenso. “È un elemento a cui ho tenuto molto, è un segnale che ho voluto dare agli avvocati, per dire che devono avere un ruolo centrale nei moderni sistemi di giustizia”. Intercettazioni - Bonafede, che ha collocato su un binario morto la riforma studiata dal suo predecessore, ha spiegato che “quella legge non piaceva a nessuno e rendeva impossibile il lavoro degli avvocati, che non potevano fare copia delle intercettazioni”. Il testo allo studio del suo ministero, punta a “tutelare la privacy dei cittadini, ma la libertà di informazione va tutelata”. Bonafede ha precisato che “il giornalista deve poter individuare le informazioni che devono diventare pubbliche, perché i cittadini hanno interesse vero a conoscerle”. E ancora ha aggiunto che “la disciplina tutelerà i cittadini ma non è fatta per salvare i politici, che devono prendersi onori e oneri del ruolo. Anzi, è giusto che si dimettano se vengono rese note loro conversazioni compromettenti”. Ddl anticorruzione - “Da siciliano, so che la corruzione è l’altra faccia della medaglia della mafia”, ha esordito Bonafede, individuando il problema nel fatto che “in Italia i corrotti la fanno franca: i numeri dei colletti bianchi in carcere fanno ridere, lo 0,6% della popolazione carceraria. Significa che c’è una falla”. La riforma, che comprende il Daspo per i corrotti, un meccanismo premiale per chi collabora e l’equiparazione della corruzione ai reati gravi come la mafia, “è un segnale agli imprenditori onesti, che chiedono di poter lavorare in un mercato pulito”. Adr e geografia giudiziaria - In merito alle Adr, Bonafede ha impostato un ragionamento a due binari. “In alcuni settori la mediazione obbligatoria funziona, come il diritto famiglia, i diritti reali, e il condominio. Lì dobbiamo creare continuità. Ci sono settori, invece, in cui è passaggio inutile, anzi crea frustrazione. In questi la renderemo facoltativa e alternativa alla negoziazione assistita, che vorrei estendere anche alle controversie di lavoro ed eliminare invece nei casi di sinistri stradali”. In materia di geografia giudiziaria, invece, il ministro ha ribadito che “non c’è possibilità di riaprire i tribunali che sono stati chiusi, ma è stata importante la decisione di rinviare la chiusura dei tribunali sulle isole, che avrebbe reso impossibile in quei territori avere una risposta di giustizia”. E ha concluso promettendo “l’apertura di sportelli di prossimità, dislocati nei centri che hanno subito la soppressione degli uffici giudiziari. Questo con l’obiettivo di evitare, per quanto possibile, che i cittadini debbano sempre recarsi presso le sedi accorpanti”. Sorvegliati e puniti, galera a chi lavora in nero e percepisce il “reddito” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 5 ottobre 2018 Dalla società di sorveglianza alla società penale. Nuovi particolari sul sussidio di ultima istanza per i poveri assoluti chiamato impropriamente “reddito di cittadinanza”. Il vicepremier ministro del lavoro Di Maio: “Se imbrogliano si beccano 6 anni di galera per dichiarazioni non conformi alla legge”. Fino a sei anni di galera per chi lavorerà in nero percependo il sussidio di ultima istanza vincolato al lavoro gratuito e all’obbligo di formazione ribattezzato impropriamente “reddito di cittadinanza”. In un question time al Senato ieri il vicepremier ministro del lavoro e dello sviluppo Luigi Di Maio (Cinque Stelle) ha nuovamente brandito la minaccia contro i “furbetti del reddito” ribadendo quello che sembra il più vivo interesse del governo: assicurare il mainstream più accorsato, un’opposizione che la pensa allo stesso modo che va da Berlusconi al Pd, esperti come il presidente dell’Inps Tito Boeri e guru del micro-credito come Muhammad Yunus sul fatto che il “reddito” impedirà ai “poveri” di “restare sul divano”. La paventata minaccia del carcere è in questo caso più grave dell’abuso d’ufficio e della malversazione ai danni dello Stato. Non è solo un’iperbole, ma l’esibizione ringhiosa dell’impostazione paternalistica, lavoristica e colpevolizzante di un provvedimento pensato per una nuova ortopedia sociale: il cittadino sarà identificato nel “povero” e dovrà dimostrare di essere “una persona perbene” (Di Maio). Questo essere “perbene” sarà valutato in base a due criteri: essere un consumatore che si comporta secondo i criteri stabiliti dal governo (consumare tutta la cifra presso esercizi commerciali autarchici) e essere un lavoratore potenziale ma volenteroso disponibile ad attivarsi facendo otto ore di lavoro gratuito a settimana, partecipando ai corsi di formazione, accettando un’offerta di lavoro su tre (probabilmente non solo nel territorio di residenza). La combinazione tra un paternalismo che riduce il povero a consumatore e una “politica attiva del lavoro” che obbliga l’individuo a investire il credito (morale e finanziario) concesso dallo stato in un percorso di verifica della sua morale e degli obiettivi di produttività è, in sintesi, la poor law ribattezzata con il concetto opposto di “reddito di cittadinanza”. Quest’ultimo è un’erogazione diretta, universale, incondizionata di un reddito alle persone, pur sempre legato alla cittadinanza. Problemi che non si pongono invece con il più dignitoso “reddito di base” che contempla cittadini e stranieri sullo stesso piano. Questa logica del sorvegliare, premiare o punire si basa sul rovesciamento dell’onere della prova: 3,6 milioni di cittadini italiani, più una quota indefinita di stranieri residenti da 10 anni, dovranno dimostrare di essere “poveri” in base ai loro comportamenti. Per essere profilati come “poveri” non basterà l’accertamento fiscale della condizione di deprivazione economica e il calcolo del reddito in base alla differenza tra il tetto di 780 euro e il calcolo del reddito Isee fino a sette (otto?) mila euro. Stando così le cose, e in attesa di un atto ufficiale del governo, il “povero” sarà considerato un potenziale frodatore, a meno che dimostri di non essere tale. La società della sorveglianza che si sta approntando può trasformarsi in una società penale. Continua a colpire la distanza tra il funzionamento del dispositivo con la rappresentazione del governo. “Con questa manovra del popolo rivoluzionaria intendiamo ripagare il popolo che ha subito sprechi e che ha dovuto pagare per vitalizi e pensioni d’oro” ha detto Di Maio. È una scelta strategica perché, presto o tardi, si scoprirà che per questo “popolo” la vita non sarà né felice, né degna, mentre dal governo si continuerà ad affermare la verità di regime. E si proverà a negare la realtà a ogni critica. Ieri Cinque Stelle e Lega si sono intrattenuti in una surreale baruffa sulle cifre destinate dalla legge di bilancio al “reddito” dei Cinque Stelle e alla “quota 100” della Lega. È il minimo, visto che mancava ancora persino un testo definitivo del Def più tormentato degli ultimi anni. Per tutta la mattinata Salvini e i Cinque Stelle hanno giocato con i miliardi: alla Lega sarebbero andati “solo” 5 miliardi invece di 7; al “reddito” “solo” otto invece dei dieci complessivi annunciati. Poi hanno ritrovato un equilibrio. La sintesi l’ha data Salvini: “Tra Fornero e reddito sono circa 16 miliardi, negli anni la spesa per la Fornero crescerà, mentre il reddito di cittadinanza dovrebbe scendere, perché la gente troverà lavoro”. Ma siamo sicuri che questo lavoro non sarà di nuovo precario e che i beneficiari del “reddito” non si ritroveranno prigionieri di questo sistema? La difesa di Lucano: “Mi contestano il reato di umanità” di Silvio Messinetti Il Manifesto, 5 ottobre 2018 Riace. Il Sindaco dopo l’interrogatorio di garanzia è più sereno: “Ho aiutato chi aveva bisogno e ho tolto i rifiuti all’ndrangheta”. Alle 8 del mattino Mimmo Lucano esce dalla sua abitazione e si dirige al palazzo di Giustizia di Locri, nei pressi del lungomare, per l’interrogatorio di garanzia. Ha il volto tirato di chi ha passato notti insonni. Con lui il pool di legali, guidati dall’avvocato Antonio Mazzone. Saranno quattro ore intense. Al termine, il Sindaco, sospeso da ieri, si ferma a parlare con i cronisti. Ha il volto decisamente più disteso. Sulla revoca dei domiciliari, il giudice si è riservato. Ma ha fatto presente che tra le restrizioni non vi è quella di parlare con l’esterno. E Lucano non si tira indietro. Parla a briglia sciolta ed espone il suo pensiero. “C’è chi mi accusa di non aver rispettato le regole, ma la Costituzione, nata dalla lotta partigiana, la rispetto più io di molti che si nascondono dietro le cosiddette regole. E il primo insegnamento della Costituzione è la tutela degli esseri umani che non vanno discriminati per il colore della pelle, etnia o nazionalità”. Chi lo conosce sa che in questi giorni di forzato silenzio era come un leone in gabbia. Perché la sua schiettezza è anche la sua forza. E pure sulle accuse che gli vengono contestate non ha filtro: “Ciò che mi sta succedendo è una cosa assurda. Anche i giudici mi hanno appena confermato che io sono agli arresti per un reato di umanità. Ma mi è stato detto che la legalità viene prima di tutto. Non vanno violate le regole”. E qui Lucano si infervora e gli torna alla mente, come un colpo al cuore, il giorno in cui arrivò a San Ferdinando al capezzale di Becky Moses, con la copia della sua carta d’identità in mano. “Ma io a queste persone che parlano di regole vorrei chiedere se è regolare quello che è successo a Becky e se c’è qualcuno che ha pagato per il diniego di accoglienza che lei ha subito e per cui è morta bruciata? No, nessuno ha pagato. E io sto male ancora a pensarci. Perché salvare una sola vita dalla strada e dalla morte vale fare il sindaco, dà significato a un’intera vita”. Sulla questione dei presunti matrimoni combinati Lucano non ha remore: “Tutto inventato o meglio si tratta di frasi estrapolate dal contesto e mal interpretate. Non capisco perché hanno fatto certe caricature. E poi perché parlano di matrimoni al plurale? È stato solo uno, ma non è stato combinato. Abbiamo fatto le pubblicazioni, come in tutte le cose regolari”. Sull’affidamento diretto del servizio rifiuti che i giudici reputano fraudolento, in quanto affidato a due cooperative non iscritte all’albo speciale, Lucano obietta che quell’albo al tempo non esisteva nemmeno. In effetti, l’albo delle coop sociali dal 2012 al 2016, gli anni in cui Lucano ha affidato i servizi alla Ecoriace e alla Girasole, non c’era affatto in Calabria. E poi, più in generale, non riesce a trattenersi e sbotta. “Ma come è possibile che in una zona assediata dalle ecomafie, ridotta a discarica per mare e per terra, devo essere perseguito per questo? C’è la ‘ndrangheta che controlla questo ciclo dei rifiuti e praticamente io ho cercato di fare luce, di coinvolgere le cooperative sociali. Devo pagare per questo?”. Lucano ribadisce poi che nelle cooperative coinvolte lavorano “persone svantaggiate, riacesi e migranti e abbiamo cercato di dare lavoro ai disoccupati, in un paese affamato di lavoro e di speranza. E abbiamo portato pulizia e decoro. Nel primo anno di sindaco c’erano il percolato e i liquidi insalubri in mezzo alle strade, oggi non c’è un mozzicone di sigaretta in terra. Perché come mi ha insegnato il mio amico Salvatore Procopio di Botricello dove c’è un rifiuto c’è una risorsa”. Infine, sui fondi per l’accoglienza su cui la procura ha intenzione di ricorrere al tribunale del riesame per riaffermare i capi d’accusa cassati dal Gip, Lucano insiste: “Io non ho mai guadagnato, né preso soldi da alcuno. A chi voleva darmeli ho sempre detto di devolverli in beneficenza. I soldi che mi hanno offerto per la fiction li ho rifiutati. A Riace sono stati usati soldi pubblici solo per progetti relativi ai migranti e per alleviare sofferenze, opportunità di lavoro e di integrazione o dare una vita migliore a perseguitati o asilanti. Questa è la chiave di un sistema che si è fatto conoscere come modello di buone pratiche ambientali e umanitarie nel mondo intero”. E che Lucano non dimentica mai di difendere: “Riace non ha mai preso più soldi di altri Sprar. Ma differenza di altri, e a differenza anche dei tanti Cas sparsi per l’Italia, abbiamo fatto accoglienza e integrato migliaia di persone. Creando tante opportunità per i locali”. I genitori di Giulio Regeni a Mattarella: “La verità, dopo tante menzogne” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 ottobre 2018 “Oggi sono passati 32 mesi. Ci manca di trovare il motivo per cui ci hanno portato via Giulio”. Claudio Regeni, mercoledì dal palco del Teatro India, ha riassunto in poche parole il dolore privato e pubblico dell’assenza di giustizia. In una tiepida serata romana erano in tanti all’evento di conclusione della ciclostaffetta partita dal Friuli e arrivata mercoledì mattina nella capitale: cittadini, giovani, artisti, il collettivo ‘Giulio Siamo Noi’. In mano una rosa gialla, in bocca la stessa parola: verità. L’hanno chiesta i genitori di Giulio, l’hanno ribadita l’avvocata Ballerini e il senatore Luigi Manconi, l’hanno recitata Pif e Valerio Mastandrea, l’hanno cantata Simone Cristicchi e Roy Paci. “Il motivo per cui non siamo tanto contenti: è un anno che è stato mandato giù l’ambasciatore Cantini. Il suo mandato era verità per Giulio Regeni. Ancora non c’è. È tempo che si tirino fuori delle cose, non vogliamo mezze verità”, ha detto la madre Paola in apertura di una serata che segue a mesi di andirivieni dal Cairo di ministri e vicepremier senza che nessuno abbia davvero messo sul tavolo giustizia per l’uccisione del giovane ricercatore. Al Teatro India c’era un’Italia diversa da quella governativa e della ragion di Stato. A loro la famiglia Regeni ha detto grazie, al giallo ormai presente ovunque - come ricordato sul palco da Mastandrea - nelle piazze, i balconi, i comuni che fanno della morte di Giulio una questione collettiva, universale, di lotta alla tortura e ai regimi dovunque essa sia esercitata o questi si trovino. Poche ore prima una delegazione era stata ricevuta al Quirinale dal presidente della Repubblica Mattarella e alla Camera dei Deputati dal presidente Fico. Due voci altre rispetto al ritornello di Stato ripetuto da due anni e mezzo dai rappresentanti di due governi diversi. È a loro che la famiglia si è rivolta, a Mattarella che hanno consegnato una lettera, pubblicata ieri su la Repubblica, in cui hanno ricordato la generosità sua e dei cittadini italiani, “la migliore Italia che oggi ha pedalato fin qui”. “Ma non possiamo fermarci. Abbiamo bisogno, dopo tanta attesa e tante oltraggiose menzogne, che alle parole si aggiungano i fatti. È un’esigenza corale, non una faccenda privata. Lei, che più di tutti ha a cuore la dignità di questo paese, dia voce a questa nostra richiesta e restituisca fiducia e onore a tutti i nostri concittadini”. Non solo a loro, ma come viene ripetuto da 32 mesi all’intero popolo egiziano vittima dell’identico regime che ha preso Giulio e che da oltre cinque anni lo soffoca per l’atavica paura che si sollevi ancora: “La ricerca della verità per Giulio - scrivono - diventi un impegno per la tutela dei diritti umani come segno esemplare della serietà e l’intransigenza del nostro paese”. Una intransigenza che dovrebbe condurre Roma a interrompere le relazioni con chi viola i diritti umani invece di ingrassarlo per ingrassarsi, come accade in Yemen con le bombe italiane sganciate dai sauditi o al Cairo con contratti commerciali milionari. La Cassazione al Viminale: sgomberare le case occupate di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 24918/2018. Il Viminale che non sgombera gli immobili occupati abusivamente, appena lo ordina Procura, deve risarcire i proprietari. Né la strategia “attendista” può essere giustificata con l’esigenza di evitare più gravi disordini. Con la conseguenza che lo Stato dovrà risarcire i danni. Proprio nel giorno in cui il decreto Salvini sulla sicurezza, che prevede anche una stretta sulle occupazioni abusive (e che fa seguito alla direttiva dell’Interno del 1° settembre che ordina il censimento degli occupanti), incassa la firma del Quirinale, la Cassazione deposita una sentenza con la quale impone la tolleranza zero nei confronti di chi viola la proprietà privata. La Suprema corte?(sentenza 24198) accoglie il ricorso di due società proprietarie di 50 appartamenti occupati a Firenze da esponenti del “Movimento per la casa”, e bolla come illegittimo il comportamento dello Stato che ha atteso sei anni per eseguire l’ordine di sgombero della Procura. Un ritardo che la Corte d’Appello, aveva “giustificato”- negando il risarcimento alle società - con l’esigenza di evitare disordini, e tutelare l’ordine pubblico. Per la Cassazione una motivazione inaccettabile e un paradosso degno di Epimenide. Perché non si può chiedere di tollerare, per ragioni di ordine pubblico, un atto commesso da persone organizzate, proprio in violazione di quest’ultimo. L’ordine pubblico si tutela ripristinando la legalità “e non assicurando al reo, per sei anni, la possibilità, di godere del frutto del reato”. La via indicata dalla Suprema corte per dare una risposta al diritto all’abitazione, sta nell’edificare immobili dedicati e nell’espropriare le abitazioni private in linea con la legge e previo giusto indennizzo, e “non certo nel garantire a dei riottosi il godimento dei beni altrui”. La politica di welfare per soddisfare il diritto alla casa - precisano gli “ermellini” - non si può fare a spese dei privati cittadini, che pagano già tasse non lievi: denaro che serve per alimentare la spesa per lo stato sociale. Non c’è alcun margine di successo per la difesa del ministero dell’Interno, secondo la quale il mancato uso della forza pubblica non era frutto della negligenza dei suoi organi, ma dell’assenza di istruzioni esecutive dettagliate nei provvedimenti della Procura. Una “spiegazione” che la Cassazione considera “singolare”, da parte di un dicastero che “pretende di avere la massima discrezionalità quando si tratta di scegliere se dare o non dare esecuzione ad un provvedimento giudiziario di sgombero, e di non averne alcuna, quando si tratta di scegliere il modo dell’esecuzione”. E anche sul punto i giudici non mancano di chiarezza. La discrezionalità della Pubblica amministrazione non può mai spingersi, a meno di non stravolgere ogni fondamento dello Stato di diritto, fino a stabilire se eseguire o meno un provvedimento giudiziario. E il margine di manovra è prossimo allo zero quando è in gioco la tutela di un diritto, come quello di proprietà, riconosciuto dalla nostra Carta e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Pubblica amministrazione è dunque responsabile e deve risarcire, in base alle regole aquiliane, i proprietari: danni che dovrà calcolare la Corte d’Appello di Firenze. Vano ricordati i due precedenti del Tribunale di Roma, che per situazioni analoghe ha condannato il ministero dell’Interno a pagare prima 10 e poi 28 milioni di euro. I giudici considerano poi irrilevanti, le ragioni per le quali gli immobili sono stati occupati. L’occupazione è stata un delitto che “non cessa di essere tale solo perché il reo si trovasse in uno stato vero o presunto di bisogno”. Un diverso ragionamento porterebbe al risultato paradossale, di giustificare qualunque usurpazione di beni o diritti altrui, disintegrando la stessa convivenza civile. E la Corte cita Blaise Pascal per ricordare che “non rendendo forte la Giustizia, si finirebbe per rendere giusta la Forza”. Una sentenza netta, salutata, ovviamente, con favore dal presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani: “Dopo il Tribunale di Roma - afferma Spaziani - dalla Corte di cassazione arrivano parole chiare sulle occupazioni abusive di immobili. Ora aspettiamo il decreto sicurezza e l’applicazione senza indugi della circolare Salvini. Forse in Italia comincia a essere tutelato il diritto di proprietà”. Lombardia: sportello garante apre anche in carceri provincia di Pavia Adnkronos, 5 ottobre 2018 Raccogliere le richieste e le segnalazioni di disagi da parte dei detenuti; facilitare il loro rapporto con gli enti della Pa (Inps, Aler, Agenzia delle Entrate) per il disbrigo delle pratiche su pensioni, invalidità, tasse; monitorare l’effettivo accesso ai servizi sanitari (prenotazioni esami clinici, somministrazione delle cure) e il regolare svolgimento di corsi e certificazioni scolastiche e professionali. Queste alcune delle competenze che verranno svolte dallo sportello del garante, aperto da oggi nelle carceri di Pavia, Vigevano e Voghera. Un ufficio a disposizione dei detenuti e delle loro famiglie per consentire, anche a chi si trova in condizioni di restrizione della libertà personale, di accedere ai servizi previsti dalla legge, garantendo la reale fruizione dei diritti civili. L’iniziativa, illustrata dal difensore regionale della Lombardia, Carlo Lio, che svolge anche le funzioni di garante dei detenuti, è stata avviata grazie a un accordo con il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. “Obiettivo di questo progetto - spiega Lio - è avvicinare i detenuti all’istituzione che li tutela, aprendo sportelli direttamente accessibili all’interno del carcere. È un segnale di vicinanza e di attenzione da parte della Regione”. Milano: progetto “Officine del caffè”; formazione e lavoro in carcere, oltre la solidarietà imagazine.it, 5 ottobre 2018 La friulana Illiria protagonista di un percorso innovativo con i detenuti della struttura carceraria di Bollate. Mario Toniutti, vice presidente di Gruppo Illiria, azienda italiana di riferimento per la distribuzione automatica, ha raccontato al Salone della Responsabilità sociale d’impresa di Milano, il progetto Officine del caffè avviato nel Carcere di Bollate dal Consorzio Coven. Il Consorzio riunisce 14 aziende del mondo del vending per un fatturato complessivo di oltre 205 milioni di euro e un totale di circa 1.600 dipendenti. Toniutti ha illustrato il progetto Officine del caffè che impiega i detenuti del Carcere di Bollate nella riparazione e manutenzione della macchine OCS (office coffee system) del Consorzio. Il progetto ha previsto una fase di formazione in cui i tecnici di Coven, insieme a Lavazza, hanno illustrato le caratteristiche delle macchine da riparare, le varie fasi della manutenzione e le modalità di riparazione/sostituzione dei pezzi. Partiti con 200 macchine del sistema Firma, sono seguite altre 200 macchine di altri sistemi. La fase della formazione è stata fondamentale perché si raggiungano gli standard qualitativi garantiti e ha permesso ai detenuti di acquisire delle capacità lavorative spendibili sul mercato, una volta terminata la reclusione. L’obiettivo di Coven è estendere l’iniziativa anche ad altre carceri in Italia, permettendo a più soci di far parte di questo progetto: è dimostrato infatti che i detenuti che lavorano in carcere acquisiscono delle competenze che li rendono più sicuri e capaci di affrontare il mondo esterno quando escono e quindi hanno più possibilità di non essere recidivi. Oggi, grazie a questa esperienza, è riconosciuta l’importanza di una costante collaborazione fra mondo esterno e interno al carcere, per permettere ai detenuti un reintegro nella società e in qualche modo anche l’opportunità di restituire alla società il danno fatto. Campobasso: i detenuti diventano apicoltori, al via ai laboratori in carcere primonumero.it, 5 ottobre 2018 Gli ospiti dell’istituto penitenziario di Campobasso saranno impegnati in un corso di formazione teorico/pratico. Il progetto di Legambiente consente loro di avere una possibilità di inserimento nel mondo del lavoro una volta usciti. L’apicoltura per dare una seconda chance ai detenuti. Rieducandoli e offrendo loro una possibilità di inserimento nel mondo del lavoro. Per favorire una vita normale una volta fuori. Ed è Legambiente a farsi promotrice del progetto che punta al “reinserimento sociale dei detenuti tramite l’apicoltura”: oggi pomeriggio - 4 ottobre - nella casa circondariale di Campobasso è iniziata la “Scuola itinerante di apicoltura” finanziata con i soldi dell’otto per mille della Chiesa Valdese. Una iniziativa - denominata “A.P.E. - L’apicoltura previene l’emarginazione” - avviata nel 2016 e già realizzata con i ragazzi del Centro di salute mentale di Campobasso. Il progetto parte da via Cavour, struttura che versa in condizioni inaccettabili (in primis dal punto di vista igienico-sanitario) a detta dell’associazione Antigone. L’obiettivo è allargarsi al resto del Molise e delle altre regioni d’Italia: qui sarà esportato “un sistema formativo itinerante” che farà tappa nei vari istituti penitenziari grazie ad un furgone con i loghi di progetto e con il logo della Tavola Valdese. I detenuti saranno impegnati in un corso di formazione teorico/pratico che fornirà loro le nozioni necessarie per svolgere tutte le attività previste nel progetto. Il corso, tenuto da alcuni apicoltori, si articolerà sia moduli teorici che pratici, dando la possibilità ai corsisti di mettere in pratica le nozioni apprese seguendo i principi dell’apicoltura sostenibile. Chi sta scontando la pena in carcere dunque avrà la possibilità di apprendere un mestiere. L’impegno dunque non sarà fine a se stesso: “L’iniziativa non vuole limitarsi a riempire i tempi dell’ozio forzoso ma, al contrario, si candida ad essere uno spazio formativo di rilevante spessore”, puntualizza il direttore della Casa circondariale Mario Silla. Il penitenziario di Campobasso ospita anche detenuti che non hanno studiato. Frequentare un corso di questo tipo aumenta le loro possibilità di trovare un lavoro una volta usciti. “Questo penitenziario - aggiunge Silla - accoglie infatti molte persone che non hanno avuto, per diverse ragioni, la possibilità di accedere ad esperienze di studio e di specializzazione nei loro contesti di provenienza. È necessario, pertanto, accrescere o diversificare le competenze di ciascuno avendo cura che esse siano in linea con quanto richiesto dal mercato del lavoro in ambiente esterno”. E l’apicoltura apre prospettive interessanti, come sottolineano Giuseppe Faioli e Andrea de Marco, rispettivamente presidente del Circolo Legambiente “E. Cirese” di Campobasso e direttore di Legambiente Molise: “Crediamo molto nell’apicoltura e nelle possibilità legate ad essa, e soprattutto nel modello di intervento ideato dal Circolo di Campobasso con i due progetti finanziati dalla chiesa Valdese, in quanto si fonda su tutti e tre pilastri della sostenibilità: ambientale, economico e sociale”. Venezia: carcere, aperto il chiostro per i colloqui dei detenuti con i figli di Chiara Semenzato Gente Veneta, 5 ottobre 2018 Aprire l’ex chiostro, insegnare ai detenuti alcuni lavori manuali, incentivare e rendere più soddisfacenti i colloqui tra genitori e figli, imparare a prendersi cura dei luoghi in cui si vive. Sono solo alcuni degli obiettivi raggiunti da un progetto messo a punto nel carcere Santa Maria Maggiore di Venezia in cui una nuova area verde, inaugurata mercoledì, è stata messa a disposizione dei detenuti, “un posto - ha spiegato la direttrice Imma Mannarella - in cui i padri possono incontrare i figli più piccoli in un contesto sereno. Fatte le debite proporzioni, come quando una famiglia si incontra ai giardinetti”. Il recupero e la ristrutturazione del chiostro, fino a poco tempo fa sommerso di macerie, calcinacci e materiali di risulta, è stato possibile grazie alla sinergia tra l’amministrazione penitenziaria, l’associazione “La gabbianella e altri animali” e la Confartigianato: guidati dagli educatori e dagli agenti penitenziari, seguiti dai volontari e istruiti dagli artigiani, i detenuti - 23 in tutto - hanno sistemato piazzole e vialetti, intonacato e ridipinto muri, piantato alberi, ridando vita a un luogo abbandonato. “Abbiamo voluto fare - ha sottolineato Carla Forcolin, presidente della Gabbianella - qualcosa per i bambini che non hanno accanto i loro genitori. Un luogo per incontrarli, ma anche per disegnare o costruire una torre con loro. I più piccoli hanno una soglia di attenzione bassa e un’ora di colloquio può essere pesante. Cerchiamo di non farli annoiare, di rendere l’incontro più lieve”. L’auspicio dei volontari, poi, è che questo chiostro possa diventare il cuore pulsante per altre attività, un coro magari o delle rappresentazioni teatrali. “Siamo qui - ha aggiunto Gianni De Checchi, segretario della Confartigianato Venezia - perché abbiamo capito che bisogna darsi alla solidarietà con uno scopo che guardi più avanti rispetto al quotidiano. La gestione delle sofferenze è uno dei capisaldi per un paese civile: la pena fine a se stessa, la mera espiazione diventa peggiore del male fatto se non c’è speranza”. In 5 allora - Francesco Busatto e Matteo Busolin imprenditori edili, l’elettricista Ivan Tosi, il lattoniere Alessandro Goattin e il giardiniere Luca Convertino - hanno insegnato il mestiere ai detenuti, rinunciando al loro compenso per devolverlo alla Gabbianella. “In questi mesi - hanno raccontato - abbiamo provato un’emozione forte, un’esperienza intensa sotto il profilo umano. Oggi c’è una grande soddisfazione. Per noi è facile intonacare un muro o sistemare una fontana. Qui, però, abbiamo capito che per aiutare qualcuno si possono fare anche piccole cose, senza inventarsi chissà che”. La speranza, allora, è che l’incontro tra artigiani e detenuti non resti solo un episodio sporadico. “Un modo si troverà - hanno concluso il segretario De Checchi e la direttrice Mannarella - ogni iniziativa viene fatta guardando al domani. Oggi abbiamo seminato qualcosa che darà frutto”. Roma: manifestazione a Montecitorio per di no ai bimbi in carcere romadailynews.it, 5 ottobre 2018 “Nessun bambino varchi più la soglia di un carcere”. Questa la richiesta di cittadini e associazioni che si sono riuniti a Roma, in piazza Montecitorio, per ricordare il tragico evento della morte dei due bimbi il 18 settembre scorso nella sezione nido del carcere di Rebibbia. La tragedia ha messo ancora una volta in luce il dramma dei bambini costretti a vivere con le madri detenute all’interno degli istituti penitenziari. In Italia sono 62 i piccoli che si trovano in questa condizione, secondo quanto emerge dai dati ufficiali del ministero della Giustizia. Sono 62 i bambini costretti a scontare una pena per un crimine mai commesso. È la legge 354/1975 dell’Ordinamento penitenziario che permette alle madri detenute di tenere con sé i figli minori fino al compimento del terzo anno di età. “Un importante traguardo è stato poi raggiunto con l’approvazione della legge Finocchiaro 40/2001 sulle “Misure alternative alla detenzione a favore delle detenute con figli minori a carico”, che ha ridotto il numero dei bambini presenti nelle carceri. Ma questo non basta” hanno fatto sapere gli attivisti radunati davanti al Parlamento. “Siamo convinti che la politica debba assumersi le proprie responsabilità di fronte alla questione dell’ingresso di minori nelle carceri, lasciata in sospeso per troppo tempo” ha detto l’associazione “A Roma insieme”, che da 25 anni si pone questo obiettivo. “Siamo in piazza per chiedere un atto morale e di profonda umanità- hanno concluso i manifestanti. Oggi abbiamo la speranza di non vedere più un bambino passare i primi anni dell’infanzia dietro a delle sbarre”. Ferrara: teatro in carcere con “Ascesa e caduta degli Ubu” cronacacomune.it, 5 ottobre 2018 Sabato 6 ottobre alle 20.30. Quattordici detenuti metteranno in scena “Ascesa e caduta degli Ubu”. Regia di Horacio Czertok, che da quarant’anni lavora con persone recluse da tutto il mondo. Lo spettacolo sarà presentato sabato 6 ottobre 2018 alle 20.30 (ma solo per chi ha prenotato entro il 5 settembre) all’interno della Casa circondariale Costantino Satta (via Arginone, Ferrara) nell’ambito della programmazione della Festival della rivista Internazionale. “Di quanto avviene all’interno delle mura delle carceri sappiamo poco. Per larga parte della società libera, il carcere rappresenta semplicemente un deterrente. Si fatica a vedere la finalità trattamentale di questo luogo, le opportunità che può offrire a chi vi è destinato. L’ottica con cui ci si volge a queste persone rischia di essere per lo più assistenziale, legata in qualche modo ad un senso di carità”: Horacio Czertok, fondatore del Teatro Nucleo e del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna sintetizza il contesto nel quale da oltre quarant’anni lavora con persone recluse: un’azione poetica e politica il cui più recente esito, Ascesa e caduta degli Ubu. “In realtà, in condizione ristretta si trovano anche persone dalle potenzialità inespresse, abilità e sensibilità che per ragioni sovente del tutto fortuite non sono riuscite a esprimersi a pieno” aggiunge Czertok “Concedersi di percepire il detenuto in questa maniera significa per la società iniziare a riappropriarsi di risorse umane utili per il suo funzionamento. Il benessere e la crescita in quanto essere umani dei detenuti serve anche a chi sta fuori, soprattutto considerando che i detenuti prima o poi escono e torneranno ad abitare tra noi”. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Nucleo, patrocinato dall’ASP Ferrara e dal Comune di Ferrara, si inserisce nel più ampio progetto Stanze di Teatro Carcere 2018 a cura del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, che, nell’ambito di un Protocollo d’Intesa con la Regione Emilia, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziarie e il Centro Giustizia Minorile Emilia Romagna e Marche, riunisce realta` teatrali operanti negli Istituti di Pena di Bologna, Modena, Ferrara, Reggio Emilia, Parma, Forlì e Castelfranco Emilia. Gli spettatori che si sono prenotati entro il 5 settembre scorso potranno assistere a uno spettacolo ispirato all’Ubu roi del drammaturgo francese Alfred Jarry, in cui sovrani e tiranni sono raffigurati come mostri grotteschi, in una esposizione senza banalità dei loro vizi e delle virtù a cui hanno rinunciato. Arte e vita si intrecciano, a Ferrara. Nell’ambito del programma ufficiale del festival Internazionale a Ferrara, presso la Casa Circondariale “C. Satta” di Ferrara il 6 ottobre alle 20.30 la compagnia dei detenuti attori dopo l’esperienza fatta al Teatro Comunale di Ferrara, si presenterà nella sala che ospita le prove durante il corso dell’intero anno. Nuovi attori, una scenografia tagliata su misura, nello spettacolo vi sono aumentate consapevolezze, grazie alle osservazioni introiettate dopo l’ultima replica. Giocato in casa questa volta, propone un rapporto più stretto con lo spettatore, ritagliando all’interno dell’istituto di pena una stanza che per un’ora vivrà in un altro tempo ed in un altro spazio. Alfred Jarry a cavallo tra due secoli rifiuta la retorica parolaia della scena del suo tempo e recupera i saperi e i sapori della Commedia dell’Arte. Tutt’altro che superficiale concede allo spettatore di vedere come mostri grotteschi sovrani e tiranni di ogni specie. Ne inventa il lessico e le movenze. Ne riconosce i vizi principali senza scadere nella banalità. Ne riconosce le virtù alle quali hanno rinunciato con disarmante leggerezza. Esilarante e caustico allo stesso tempo. Le logiche che portano ad un colpo di stato, ad una truffa o ad una rapina sono sempre somiglianti dacché l’umanità esiste in quanto entità organizzata. Il principio è semplice: comincia ad invidiare. Coltiva l’invidia ed identifica il nemico, poco importa se vi è della stima reciproca. Trova un alleato, fatti aiutare e sbarazzatene una volta che hai raggiunto ciò che volevi. Uno spettacolo che l’umanità mette in scena quotidianamente, ai quattro angoli del globo. Per accedere è necessario inviare una e-mail all’indirizzo: teatroccferrara@gmail.com. Entro e non oltre mercoledì 5 settembre, indicando: cognome, nome, data e luogo di nascita, numero di documento e allegando scansione del documento d’identità. La comunicazione di avvenuta autorizzazione verrà data entro l’1 ottobre. Posto unico 10 €. Biglietti disponibili da lunedì 1 ottobre, per coloro che sono autorizzati, presso il botteghino del Teatro Nucleo, via Ricostruzione 40, Pontelagoscuro (Ferrara) aperto lunedì-venerdì ore 8-12 e sabato ore 9-13 e 15-19. Per info: www.teatronucleo.org. Massa Carrara: musica nelle carceri con l’otto per mille della Chiesa Battista ucebi.it, 5 ottobre 2018 Il 25 settembre è stato ufficialmente inaugurato il progetto “La porta della musica”, un’iniziativa finanziata con l’8 per mille dell’Ucebi e rivolta a facilitare la formazione musicale dei detenuti ospitati nella Casa di Reclusione di Massa. Promotore del progetto è stata la chiesa evangelica “Acqua viva” di Massa con l’incoraggiamento ed il supporto del pastore Carlo Santarini. All’inaugurazione hanno partecipato oltre una ventina di detenuti, il direttore del carcere, dott. Paolo Basco, il comandante della Polizia Penitenziaria, commissario capo Amalia Cucca, l’educatore Gino Paolini, oltre ad altro personale educativo e di vigilanza, il dott. Niccolò Ciuffi, maestro di coro in rappresentanza del Conservatorio Musicale “Niccolò Paganini” della Spezia, il pastore Massimo Torracca in rappresentanza delle chiese evangeliche di Sarzana e di Massa oltre ai diaconi della chiesa “Acqua Viva” di Massa che operano all’interno della Casa di Reclusione. Il dott. Basco, appassionato cultore di musica, ha coinvolto i presenti sugli aspetti educativi e formativi della musica, ma anche alla responsabilità che ciascuno di loro, liberamente, si è assunto su una partecipazione costante ed attiva. L’utilizzo dei fondi 8xmille significa consapevolezza che sono denari che noi cittadini destiniamo a finalità sociali, culturali e umanitarie a cui si affianca il lavoro del volontariato, che nel caso delle chiese evangeliche coinvolte è prestato da persone che con proprie risorse personali impegnano tempo e denaro per essere presenti nel carcere. Il maestro Ciuffi non solo ha sottolineato come il corista acquisisca una maggiore conoscenza del proprio corpo attraverso la respirazione, ma anche un’interrelazione tra i coristi che supera la mera esecuzione di un brano: il coro è un corpo che si muove all’unisono e rafforza la condivisione tra le singole identità. Il pastore Torracca, che ha portato il saluto del pastore Santarini assente per inderogabili impegni, ha ringraziato per la consulenza tecnica sugli strumenti, offerta dal dott. Basco, tutto il personale che opera nel carcere per la costante disponibilità ed attenzione ai bisogni dei carcerati, ed il Conservatorio “G. Puccini” della Spezia per la stipula della Convenzione con cui è stata resa disponibile un’aliquota di docenti per consentire l’alfabetizzazione musicale, la formazione del coro e l’insegnamento all’uso degli strumenti attualmente disponibili (tastiera e chitarra). Un ringraziamento particolare è stato rivolto al prof. Paolo Baruffetti che ha profuso un forte impegno per la definizione del protocollo di intesa che regola la Convenzione. Il progetto si articolerà in tre mesi terminando con una valutazione delle attività nel mese di dicembre, periodo nel quale i reclusi coinvolti nell’iniziativa realizzeranno un momento musicale di chiusura corso. Con il finanziamento proveniente dall’8xmille Battista sono stati acquistati strumenti e acquisita docenza per un importo complessivo di € 5.000, ulteriormente integrato dalla chiesa evangelica “Acqua Viva”. La speranza è che il progetto abbia un buon risultato di partecipazione in modo da avere i presupposti necessari alla presentazione, per l’anno 2019, di analoghe attività aumentando le ore di docenza ed integrando la parte strumentale. Roma: carceri minorili, arriva il Cinema Sociale di “Fuori le Ali” La Repubblica, 5 ottobre 2018 Il 5 ottobre, il Fabbrica Roma ospita l’Associazione culturale “Fuori le Ali” (Fla), che porta i mestieri del cinema nell’istituto di pena minorile di Casal del Marmo. La settima arte strumento di riscatto. Nell’ex Cartiera Latina, tra il 5 e il 7 ottobre, si svolge il Festival Fabbrica Roma ReACT, che unisce associazioni impegnate nella tutela dei diritti e della diffusione culturale nella città. Alle 19 del 5 ottobre, l’Associazione culturale “Fuori le Ali” (Fla), che unisce Cinema, istituzioni e impegno civile in una militanza a partire dalle carceri minorili, racconta il suo impegno nell’IPM di Casal del Marmo, dove porta i mestieri del cinema tra i giovani detenuti. Ne discutono Silvia Scola, presidente di Fla; Marta Rizzo, vicepresidente e coordinatrice; Giacomo Ebner, magistrato; due dei registi di Fla, Mimmo Calopresti e Wilma Labate, moderati dal critico Serafino Murri. Un Festival per l’Altra Roma. Fabbrica Roma ReACT è un’iniziativa dell’Associazione culturale Comunitaria con il Patrocinio della Regione Lazio e del Municipio Roma VIII, in collaborazione con una rete di associazioni e realtà attive in ambito culturale e sociale, tra le quali Terra! Onlus, Rete di Cooperazione Educativa, Slow Food, Matemù, Baobab Experience. “Fabbrica Roma - spiega Anna Pozzali, ideatrice del Festival - nasce per raccontare l’Altra Roma: un luogo in cui invertire il racconto sulla città. Roma è piena di energie vitali e vi operano associazioni, realtà attive, figure del mondo della cultura e della promozione dei diritti. L’evento vuole dare spazio a tutte le preziose esperienze di Roma per ridisegnare insieme una identità aperta e condivisa. Il programma delle tre giornate vede laboratori, presentazioni, esposizioni. Per la rinascita di Roma bisogna mettere in campo le sue energie sane, il saper fare che la città muove”. Cos’è Fuori Le Ali. Ideata da Marta Rizzo e Silvia Scola, “Fuori Le Ali” diffonde i mestieri del Cinema tra le pieghe più scomode della società. Ha trovato la sua definizione grazie a Giuliano Montaldo, Mimmo Calopresti, Wilma Labate, ma soprattutto con le uniche due scuole di Cinema riconosciute al livello nazionale e regionale: il CSC-Cineteca Nazionale, con Felice Laudadio e Roberto Perpignani, e la Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté, con Daniele Vicari. Raccoglie in sé Amnesty International e Gianni Rufini, il Ministero della Giustizia e il magistrato Giacomo Ebner, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, il SNGCI e Laura Delli Colli, Francesco Bruni, Serafino Murri, Antonio Falduto, Gherardo Gossi, Marta Zani, Annalisa Forgione, Fabrizio Ciavoni, l’AgiScuola e l’Associazione Produttori Televisivi, Cinemovel di Libera contro le Mafie, l’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, la consulenza legale di Natalia Paoletti. Il Consiglio dei Garanti è composto da Altan, che ha ideato e regalato il logo all’Associazione, Gigliola Scola, Lidia Ravera, Luciana Castellina, Dacia Maraini, Giuliano Montaldo, Paolo Taviani. Tutti, nel nome di Ettore Scola al quale Fla è dedicata. La vita di Fla. Nata nell’ottobre 2017, Fla ha già avviato un lavoro collettivo per la diffusione dei mestieri del Cinema come possibilità concreta per i ragazzi detenuti e non solo. Il 24 marzo 2018, Fla partecipa alla manifestazione Il Palcoscenico della Legalità, organizzata dall’Associazione CO2 di Giulia Minoli e Giulia Agostini al Teatro India di Roma; tra il 24 aprile e il 29 maggio 2018 Marta Rizzo e Silvia Scola, assieme ai registi e professionisti del cinema di “Fuori le Ali”, entrano nell’ IPM di Airola (Benevento), come partner del Progetto Il Palcoscenico dell’ Legalità, dell’Associazione CO2, portando ai giovani detenuti film realizzati dagli stessi soci di Fla, per raccontare i lavori concreti che si nascondono dietro l’opera filmica. Il 10 luglio Fla è ospite della Casa Internazionale delle Donne di Roma, dove propone il film Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli (1965). Fla nell’IPM di Casal del Marmo, Roma. Nel frattempo, il 9 giugno, Marta Rizzo e Silvia Scola entrano nell’IPM di Casal del Marmo, portando ai detenuti Tutto quello che vuoi (2017) di Francesco Bruni, assieme a Giuliano Montaldo, cofondatore di Fla e protagonista del film. E poi, Roberto Perpignani e, ancora, Daniele Vicari, con il direttore della fotografia Gherardo Gossi e il film Velocità Massima (2002), e Prima che la notte (2018), assieme ai giovani attori del film su Pippo Fava, presentato su Rai1 il 23 maggio, Giornata Nazionale della Legalità. Tutti i martedì e i giovedì pomeriggio, Fuori le Ali ha proposto ai ragazzi detenuti di Roma film realizzati dai registi, dai montatori, dai direttori della fotografia, scenografi, critici, organizzatori di festival, che lavorano nel cinema e che aderiscono all’Associazione. L’ultimo incontro, l’11 luglio, ha visto la commossa partecipazione di Claudio Amendola, protagonista del film di Wilma Labate Domenica (2001), presentato nell’IPM assieme alla regista, a Marta Rizzo e Silvia Scola. Un nuovo sguardo attraverso il Cinema”. “Entrare nei minorili per portare un altro sguardo ai ragazzi - spiega Silvia Scola, la Presidente di Fla - permettere loro di conoscere il lavoro collettivo che è alla base del cinema e, attraverso i mestieri, dare loro l’opportunità di intravedere un futuro diverso, non segnato per forza da un destino di delinquenza, è ciò che ci ha spinto ad avviare con tanta forza la nostra chiamata alle armi della cultura. L’impegno di Fuori le Ali è quello di riuscire a incuriosire, affascinare e affabulare questi ragazzi, in modo da deviare, sia pure di poco, un percorso che loro sentono già scritto una volta che saranno fuori. Nel nostro piccolo, almeno fin qui, ci siamo riusciti, perché molti ragazzi ci aspettano e hanno chiesto espressamente di poter proseguire il lavoro con Fuori le Ali”. L’incontro con Fabbrica Roma React. L’incontro tra Fabbrica Roma React e “Fuori le Ali” ha luogo nella Ex Cartiera Latina di Via Appia Antica, nel programma “Dialoghi su Roma”, alle 19 di venerdì 5 ottobre. Moderatore, il critico cinematografico Serafino Murri. Saranno presenti Silvia Scola, presidente di Fuori le Ali, Marta Rizzo, vicepresidente e coordinatrice dell’Associazione, Giacomo Ebner, magistrato presso il dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia, Mimmo Calopresti e Wilma Labate. “Fuori le Ali - dice Giacomo Ebne - è un progetto che ha portato nel carcere minorile di Casal del Marmo la magia del Cinema, l’opportunità di imparare un mestiere e le grandi colonne della cinematografia italiana. L’importante è che la cultura italiana si stia mobilitando, assieme a realtà più istituzionali e legate nella difesa dei diritti umani, per dare una possibilità a giovani cittadini che si trovano in una condizione difficile. L’entusiasmo e la tenacia degli animatori di Fuori le Ali hanno consentito ai ragazzi di vivere esperienze uniche. L’interesse è stato alto, così come i primi risultati”. Perugia: al via progetto “Alpha Carcere”, organizzato dalla Diocesi agensir.it, 5 ottobre 2018 La cappellania dell’Istituto penitenziario di Capanne a Perugia ha organizzato, sabato 6 ottobre, un training di formazione di “Alpha Carcere”, che si svolgerà nella parrocchia di San Giovanni Apostolo del quartiere perugino di Ponte d’Oddi. L’incontro, a partire dalle ore 8.30 fino alle 13, è aperto a tutti coloro che sono interessati anche solo a conoscere la realtà del carcere. Si tratta di un nuovo progetto, denominato “Alpha Carcere”, il cui obiettivo è quello di contribuire a superare le tante difficoltà legate alla realtà delle carceri. “Alpha Carcere” è, spiegano i promotori, “un percorso di prima evangelizzazione, pensato per i carcerati, che da tantissimi anni viene proposto in centinaia di carceri presenti in più di 50 Paesi del mondo”. La proposta arriva dalla cappellania del carcere di Perugia, che già nei mesi di maggio e giugno 2018 ha offerto ai detenuti della sezione maschile un’esperienza simile. La buona risposta della popolazione carceraria a quest’iniziativa ha dato il via al progetto di “Alpha Carcere”: un cammino più strutturato che permetterà un migliore svolgimento degli incontri. Grazie alla collaborazione di catechisti volontari provenienti da varie realtà ecclesiali dell’arcidiocesi - Rinnovamento nello Spirito, Comunità Magnificat e parrocchie, il cappellano padre Francesco Bonucci ha promosso una serie di catechesi che permettesse ai partecipanti (circa 80 detenuti) di fare “esperienza della misericordia di Dio”. “Con Alpha Carcere - spiega padre Bonucci - condividiamo la visione e il desiderio che ogni detenuto possa avere l’opportunità di (ri)scoprire la fede cristiana e il senso della vita. I prigionieri spesso provano un senso di perdita e hanno fame di trovare uno scopo e un significato nella vita. Alpha può dare loro la possibilità di porre le grandi domande della vita e scoprire la fede cristiana in un ambiente sicuro, informale e amichevole”. Campobasso: sport in carcere, progetto del Coni per la salute psico-fisica dei detenuti isnews.it, 5 ottobre 2018 L’iniziativa sarà presentata nel corso di una conferenza in programma martedì 9 ottobre con inizio alle 10.30 nella sala riunioni del Coni Molise. “Lo Sport in carcere” è un nuovo progetto organizzato dal Coni Molise, con la collaborazione dei Delegati Provinciali Coni Campobasso e di Isernia, per promuovere salute e benessere all’interno degli istituti di reclusione. L’iniziativa è rivolta alle Case Circondariali di Campobasso, Isernia e Larino ed è finalizzata allo svolgimento di attività sportive all’interno degli istituti di pena con l’obiettivo di sviluppare nei detenuti un’educazione corporea e motoria per l’affermazione di abitudini sane nella quotidianità carceraria uscendo dal sedentarismo. Lo sport, quindi, diventa strumento per acquisire la consapevolezza della salute psico-fisica, il recupero dello schema motorio, la valorizzazione espressiva e comunicativa del corpo. La dimensione ludica rappresenta un’opportunità di socialità e di allentamento delle tensioni prodotte dalla condizione detentiva. La cultura sportiva contribuisce all’educazione alle regole ma anche allo sviluppo dell’autostima. Il programma sportivo prevede tre diversi percorsi formativi: l’attività in palestra-sala pesi, con lo scopo di attribuire competenze specifiche rispetto alle tecniche di allenamento; le attività motorie di gruppo, finalizzate al miglioramento delle capacità fisiche; gli sport di squadra (calcio), dove l’attività consiste nell’apprendimento delle caratteristiche tecnico-tattiche di base della disciplina per poter svolgere partite amichevoli e tornei. Il progetto “Sport in carcere” sarà presentato nel corso di una conferenza stampa in programma martedì 9 ottobre con inizio alle 10.30 nella sala riunioni del Coni Molise, sita a Campobasso in Via Carducci 4/M, alla presenza dei rappresentanti istituzionali dell’Ente e dei Direttori delle carceri di Campobasso, Isernia e Larino che hanno accolto l’iniziativa con grande entusiasmo. Migranti. Stretta sui permessi umanitari, a rischio chi è sotto processo di Valentina Errante Il Mattino, 5 ottobre 2018 Permessi umanitari più difficili da ottenere e riservati solo ad alcune categorie, ma a una platea più ampia rispetto a quanto previsto dalla prima stesura del decreto Sicurezza voluto dal Viminale. Dal testo, rivisto e modificato per dieci giorni di fila prima di ottenere il via libera del Colle, spariscono le norme che riguardavano lo sport e i diritti Tv. Il provvedimento, come voleva Salvini, prevede invece un aumento dei reati che, se commessi da un profugo o un richiedente asilo, comporteranno la revoca del permesso o il diniego della domanda. Mentre salta l’automatismo dell’espulsione, nel caso in cui il richiedente sia indagato o condannato in primo grado per i richiedenti asilo indagati o condannati in primo grado per reati di particolare allarme sociale. E se, per volontà del Ministero dell’Economia, spariscono i nuovi impegni di spesa, previsti, invece nella prima stesura, resta la norma che prevede il ritiro della cittadinanza ottenuta per residenza o matrimonio da uno straniero poi condannato per reati di terrorismo. Circostanza assai rara. Aumentano fino a quattro anni le pene per chi occupi abusivamente immobili e si prevede anche il “Daspo” antiterrorismo. La vera stretta riguarda i permessi umanitari. Ossia quei casi che, pur non rientrando nel perimetro dell’asilo politico, risultavano secondo il giudizio delle Commissioni territoriali chiamate a pronunciarsi, degni di ottenere garanzie nel nostro Paese. Oggi quei permessi saranno concessi solo a chi provenga da luoghi dove si siano verificate calamità naturali, a soggetti che necessitino di cure mediche, a chi si sia distinto per particolari meriti civili, a chi sia stato vittima di tratta di esseri umani o abbia subito sfruttamento lavorativo o violenza in famiglia. Non sarà invece automatica l’espulsione per i richiedenti asilo che finiscano indagati o siano condannati in primo grado, per reati di particolare allarme sociale, come la violenza sessuale, l’omicidio, la rapina. La commissione territoriale dovrà immediatamente convocarli e pronunciarsi sulla richiesta. Nel caso in cui l’istanza non venga accolta e la magistratura abbia emesso misure cautelari, saranno allontanati dal territorio nazionale. È una circostanza che non si è mai verificata ma il decreto prevede che a un soggetto che l’abbia ottenuta per matrimonio o residenza, la cittadinanza italiana possa essere revocata in caso di condanna definitiva per reati di terrorismo. Una norma che sarà di sicuro oggetto di discussione, dal momento che la cittadinanza è una condizione giuridica costituzionalmente garantita. Quei profughi in ostaggio della propaganda di governo di Leonardo Filippi Left, 5 ottobre 2018 Ricordate i migranti che Salvini voleva trasferire in Albania, in barba alle leggi e al diritto internazionale? Dopo il calvario nel deserto, le torture in Libia, il naufragio e la segregazione nel porto di Catania in attesa dell’asilo hanno trovato un tetto. Nell’hot-spot di Messina. Amina non sapeva cosa le avrebbe riservato quel viaggio. In cerca di una possibilità, di una vita diversa, di un futuro, parte nel 2015 dall’Eritrea. Vuole raggiungere il nord Europa. E lasciarsi indietro il suo Paese, fatto di torture per chiunque osi opporsi al regime, povertà, leva obbligatoria anche per le donne, mancanza di prospettive. Amina (per tutelarne l’incolumità il nome è di fantasia, a differenza della triste e realissima vicenda) è una dei 150 migranti che il governo giallonero ha tenuto per dieci giorni in ostaggio a bordo della nave Diciotti della Guardia costiera, ad agosto. Centocinquanta esseri umani in gravi condizioni fisiche e psicologiche, ridotti a pedine nella scacchiera politica del ministro dell’Interno, manovrati per tentare di vincere la partita con l’Ue sulle ricollocazioni (partita rapidamente persa) e apparire vittoriosi di fronte al proprio elettorato. Incassare consensi sulla pelle delle persone. “Sapete dove andranno? Alcuni degli immigrati, ed è un risultato miracoloso che non si è mai visto in venti anni, vanno in Albania” sbraitava Salvini di fronte ai fan in visibilio a Pinzolo. Nel frattempo il suo spin dottor, onnipresente sui social, Luca Morisi, twittava: “Caso Diciotti risolto da Salvini. Gli immigrati saranno portati in un centro a Messina, e poi cominceranno le operazioni di distribuzione che coinvolgeranno anche la Chiesa italiana oltre ad Albania e Irlanda”. Dopo il silenzio dell’Unione europea rispetto alla richiesta tricolore di redistribuzione del piccolo gruppo di migranti, infatti, il governo Conte riusciva a strappare un patto con Cei, Irlanda e Albania appunto. I vescovi italiani ne avrebbero ospitati un centinaio - non in Vaticano, sia chiaro, bensì in Italia, coi fondi dell’otto per mille cioè dei contribuenti mentre gli esecutivi di Dublino e Tirana una ventina a testa, 39 persone in tutto. Una scelta, in questi ultimi due casi, che ha subito scatenato indignazione e proteste di giuristi e società civile, in quanto non esistono norme che permettano allontanamenti coatti di questo tipo verso Paesi esteri. Per giunta l’Albania non fa parte dell’Unione europea, e non adotta le tutele Ue circa il riconoscimento dell’asilo. Ora, come hanno diffusamente raccontato le cronache, una considerevole parte di chi era ospitato nelle strutture gestite dalla Chiesa ha deciso di allontanarsi quasi subito per tentare di proseguire il viaggio verso nord. Lì dove li aspettano amici, affetti, relazioni consolidate. Ma che fine hanno fatto, invece coloro che sarebbero dovuti essere affidati a Paesi stranieri? A quanto ci risulta, a distanza di più di un mese nessuno di loro è stato trasferito all’estero. Indagare in questa direzione significa portare alla luce non solo il carattere disumano e contrario ai principi del diritto internazionale delle politiche migratorie del governo legastellato, ma pure la loro radicale, perpetua inefficacia anche in una ottica legalitaria e disciplinare. Politiche fatte di annunci violenti e fini a se stessi, che rimbombano nei media e nelle orecchie delle persone e qui si fermano non potendo essere attuate. Alimentando però un caos che concima la richiesta di “ordine e disciplina” da parte dei seguaci dell’esecutivo, in un tragico ma ben architettato circolo vizioso. Amina, dicevamo all’inizio, per arrivare in Italia ha affrontato la “consueta” odissea. “F. passata per il Sudan, lei e i suoi compagni di viaggio son stati rapiti e venduti da un trafficante all’altro. Amina e altri sono stati costretti per quattro mesi sotto terra, segregati come animali in Libia. La sua pelle ha perso pigmentazione, dopo lunghe giornate completamente al buio”. A raccontare la sua vicenda è Carmelo Picciotto, avvocato e socio Asgi che, insieme ai colleghi Carmen Cordaro e Filippo Finocchiaro, ha incontrato alcuni degli eritrei ospitati presso l’hot-spot di Messina. “Qui si trovavano i 39 migranti che il governo voleva portare all’estero, alcuni provenienti dalle Isole Comore, altri dal Bangladesh, ma in massima parte eritrei. Almeno una parte di questi ultimi, ora, ha deciso di allontanarsi”, spiega Finocchiaro. Ma - poiché il loro trasferimento in Albania e Irlanda sarebbe stato compatibile col diritto solo previa l’adesione dei diretti interessati - con quale criterio sono stati scelti i 39 migranti? “Queste persone - riferisce Finocchiaro - non avevano espresso alcuna volontà in tal senso, non solo, nemmeno erano stati informati di nulla, almeno in un primo momento”. “In questo gruppo - aggiunge Cordaro - c’erano anche almeno tre minorenni, e siamo riusciti a ottenere che venissero portati in una casa di accoglienza per bambini. Per due di loro è stato nominato un tutore, ora speriamo di poterli ricollocare se rintracciamo loro parenti in Europa”. Nell’hot-spot dunque, in questo limbo prolungato, in attesa di una soluzione che non si sblocca, erano ospitati anche minori, non certo nel luogo ideale per la loro crescita. Se la situazione non si sblocca, è perché tra le autorità italiane e quelle albanesi è ancora in corso un dialogo, per “definire, sulla base della normativa internazionale, le modalità di attuazione” del trasferimento. Almeno, così ha riferito il sottosegretario all’Interno M5s Luigi Gaetti durante una interrogazione parlamentare a firma del radicale Riccardo Magi lo scorso 5 settembre. Si tratta dunque di un problema diplomatico? “Assolutamente no, su questo bisogna essere chiari” osserva Cordaro. “L’Albania non fa parte del sistema di asilo Ue e non sono possibili trasferimenti di questo tipi contro la volontà dei migranti”. Per questo motivo, l’esecutivo giallonero tenta di superare l’imbarazzo facendo ricadere la colpa - per l’ennesima volta - su chi fugge da regimi e dittature. Secondo l’avvocato dell’Asgi, ora la strategia del governo “sarà quella di chiudere gli occhi, aspettando che si allontanino, per poi incolparli per il semplice fatto di avere un progetto migratorio che va oltre il Belpaese”. Ma, complice l’affossamento della riforma del regolamento di Dublino, approvato dal Parlamento Ue ma rinnegato dal Consiglio, con l’esultanza di Salvini e Orbàn, per i migranti uscire dalle gabbie nazionali non è semplice. “Il punto - conclude Cordaro - è che lo scopo primario del ministro Salvini è fare propaganda politica, e per blandire il suo elettorato faceva comodo dire “trasferiamo tutti all’estero”, ma ci sono ancora delle leggi, che impediscono di ragionare in questi termini”. Ma delle leggi, il governo presieduto dall’avvocato degli Italiani, sembra non interessarsi. Migranti. Operazione Mediterranea: la sicurezza è quella dei diritti di Simone Pieranni Il Manifesto, 5 ottobre 2018 La conferenza stampa. “Se troveremo un’imbarcazione in difficoltà obbediremo al diritto: la vita in mare si salva sempre”. “Stiamo navigando il mare con la consapevolezza di trovarci dove non vorremmo essere, perché non dovrebbero più esistere persone costrette a diventare naufraghe da salvare e persone costrette a diventare salvatori”. La vera sicurezza è quella dei diritti. Con queste parole è stata presentata ieri a Roma l’operazione Mediterranea; sfida politica nel tentativo di riaprire un conflitto sul terreno europeo e sulle migrazioni. Un esempio che dimostra che “si può fare”; “un’azione non governativa” attuata con una nave battente bandiera italiana, partita nei giorni scorsi per raggiungere le acque internazionali. L’operazione è il frutto del lavoro di mesi di attivisti, ong, associazioni e singoli “donors”. Del nucleo promotore fanno parte singole persone e associazioni come l’Arci e Ya Basta Bologna, Ong come Sea-Watch, il magazine online I Diavoli, imprese sociali quali Moltivolti di Palermo e Comunità San Benedetto al porto di Genova. I garanti dell’operazione sono Nicola Fratoianni, Rossella Muroni, Erasmo Palazzotto (a bordo della nave) e Nichi Vendola. L’obiettivo è dimostrare che di fronte a quanto accade nel Mediterraneo e di fronte alle scelte dell’attuale governo italiano, si possono trovare strumenti politici di contrasto. Impegnata con due imbarcazioni di appoggio, la nave è al centro di un progetto reso possibile dal contributo di Banca Etica. L’obiettivo è quello di svolgere attività di monitoraggio, testimonianza e denuncia della drammatica situazione nel Mediterraneo centrale, senza soccorsi, nel silenzio del nostro governo complice dell’attuale situazione. La nave, di 37 metri, se necessario è attrezzata per fare anche salvataggio in mare. “Se ci troveremo davanti a un’imbarcazione in difficoltà obbediremo al diritto: la vita in mare si salva sempre. Ci auguriamo che le istituzioni facciano lo stesso” hanno spiegato alla conferenza stampa. Giorgia Linardi della ong Sea Watch ha ricordato che il tasso di mortalità nel Mediterraneo centrale negli ultmi mesi è “aumentato e in continuo aumento”. “Ieri si è ricordato il terribile naufragio del tre ottobre, dopo quell’evento fu lanciata l’operazione Mare Nostrum. Oggi come allora c’è la necessità di non lasciare annegare le persone in mare”. Presenti anche Veronica Alfonsi di Proactiva Open Arms e Sandro Veronesi, in rappresentanza di un gruppo di intellettuali (tra cui Luigi Manconi, Michela Murgia, Gipi, Paolo Virzì, Alessandro Bergonzoni, Teresa Ciabatti) che ha dato vita a “Corpi”. A bordo della nave in loro “rappresentanza c’è la scrittrice Elena Stancanelli. In Grecia rifugiate stipate nei campi e a rischio di violenza di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 ottobre 2018 In un nuovo rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha raccolto le voci di oltre 100 donne e ragazze che dal marzo 2017 vivono in Grecia, nei campi e in altre strutture di accoglienza di Atene e soprattutto sulle isole del mar Egeo. Da quando i governi europei hanno chiuso le porte ai rifugiati, le donne sono finite sempre più nelle grinfie dei trafficanti, alla mercé di violenza fisica, verbale e molestie sessuali. Non possono chiamare la polizia o chiedere aiuto a qualcun altro perché sono “illegali”. Ma l’incubo non cessa quando raggiungono le coste europee. A causa dell’accordo tra Unione europea e Turchia del marzo 2016, coloro che approdano sulle isole greche si ritrovano intrappolati, in condizioni terribili, in campi squallidi finanziati dall’Unione europea. Il sovraffollamento è arrivato a livelli di crisi: nelle isole dell’Egeo 15.500 persone vivono in cinque campi che potrebbero contenerne solo 6400. Migliaia di persone, molte delle quali con bisogni particolari come i disabili e i bambini, dormono in tende allestite intorno ai campi. La mancanza di servizi igienico - sanitari, le insufficienti forniture di acqua potabile, l’accumulo di rifiuti e la presenza di topi anche di grosse dimensioni sono comuni in tutti i campi. Numerose donne in stato di gravidanza dormono sul pavimento e hanno scarso, se non nullo accesso alle cure prenatali. A settembre una donna ha partorito in una tenda del campo di Moria senza alcuna assistenza medica. La mancanza di chiavi per chiudere le porte e la poca luce rendono pericolose attività del tutto normali e quotidiane come andare in bagno, fare la doccia o persino camminare fuori dalle tende di sera. “Le porte delle stanze delle docce non si chiudono e gli uomini entrano mentre sei dentro. Nei bagni manca la luce. Quando è notte, mi faccio accompagnare da mia sorella o urino in un secchio”, ha denunciato una donna del campo di Vathy, sull’isola di Samo. Sulla terraferma greca, circa 45.500 migranti e rifugiati vivono in strutture di accoglienza temporanee nelle aree urbane oppure nei campi. Le condizioni di questi ultimi rimangono precarie: nel 2018 tre campi che erano stati chiusi perché giudicati inabitabili sono stati riaperti a causa della mancanza di altre strutture, senza che le condizioni fossero state migliorate. Tanto nei campi quanto nelle strutture situate nelle aree urbane, la mancanza di informazioni sufficienti e di interpreti donne pongono grandi ostacoli all’accesso a servizi essenziali, come l’aiuto legale o l’assistenza ai centri per la salute sessuale e riproduttiva. Le rifugiate in Grecia ce la stanno mettendo tutta per cambiare le cose: si uniscono per dare vita a iniziative di vitale importanza, come la creazione di spazi nelle aree urbane dove le donne e le ragazze possono incontrarsi e accedere a determinati servizi, la ricostituzione di reti sociali e la condivisione di competenze ed esperienze per creare una vita migliore per loro e per le loro famiglie. Ma questo non basta, e soprattutto non dovrebbero essere le donne rifugiate a cambiare le cose: da qui la richiesta di Amnesty International alle autorità greche di cessare di intrappolare le persone (il 60 per cento delle quali sono, va ricordato, donne e bambini) e all’Unione europea di contribuire a migliorare le condizioni di accoglienza e dare alle rifugiate il sostegno e la protezione urgenti cui hanno diritto. Stati Uniti. Più carcere o più misure alternative? rainews.it, 5 ottobre 2018 A Philadelphia una installazione interattiva fa discutere. Il dibattito sulle carceri, sul significato della detenzione, se questa debba essere più orientata alla punizione o alla riabilitazione è attualissimo anche da noi con un decreto del governo appena approvato in proposito che punta sul concetto della certezza della pena e la centralità del carcere. Anche negli Stati Uniti è da decenni un problema sociale e razziale. A Philadelphia un progetto artistico che vede protagonisti gli ex detenuti punta a coinvolgere la città nella discussione, in un’ottica riformatrice. Tweet 04 ottobre 2018 Da quasi vent’anni, l’edificio dei servizi municipali di Philadelphia ospita al centro una scultura in bronzo di Frank Rizzo, l’ex sindaco e commissario di polizia che a suo tempo divise la città con la sua politica alla Rudolph Giuliani di pugno di ferro contro la criminalità. Ora, un’installazione artistica temporanea che vede protagonisti uomini e donne reduci dal carcere e impegnati a rifarsi una vita, incombe sulla statua di Rizzo con l’intenzione di provocare una discussione sul tema caldo dell’incarcerazione di massa. Gli artisti coinvolti dicono che naturalmente non è un caso: “Volevo che questi ritratti che esprimono grande dignità fossero più grandi di Rizzo, ma anche più grandi di quanto loro (i detenuti) non vedano se stessi”, dice Russell Craig, uno dei principali artisti al centro del progetto interattivo “Portraits of Justice”, creato grazie al programma Mural Arti Philadelphia. I sostenitori di Rizzo lo ricordano come un fedele servitore della cosa pubblica ma i suoi critici, molti dei quali persone di colore, ricordano invece il suo approccio securitario come corrotto e razzista. Una volta disse: “Si fa un gran parlare di carceri sovraffollate ma se le prigioni sono affollate, se abbiamo bisogno di più prigioni, costruiamole”, aggiungendo che il criminale medio “non sa nemmeno cosa significhi la parola riabilitazione.” Per i 17 uomini e donne raffigurati in queste gigantografie la riabilitazione è avvenuta attraverso l’arte in stretta connessione con la loro comunità. Lavorano tutti per un programma di arti murali chiamato “The Guild”, un apprendistato retribuito per ex detenuti. Queste immagini, in cui i detenuti sono raffigurati in modo sereno, orgoglioso perfino radioso, sono disposte intorno alla base dell’edificio e sono dipinte su uno sfondo di mattoni che intende simboleggiare tutte quelle barriere che un detenuto trova davanti a sè per rientrare nella società dopo essere stato rilasciato. Nel corse di alcune performance che si terranno nelle prossime settimane, il pubblico avrà l’opportunità di cancellare un mattone per sostituirlo con un proprio pensiero o proposta di come risolvere i problemi della giustizia penale. Entro la fine del programma, questo il senso dell’iniziativa, i mattoni saranno spariti, sostituiti con proposte di soluzione. Alla inaugurazione hanno partecipato Jim Kenney e il procuratore distrettuale Larry Krasner. Ciascuno di loro ha cancellato un mattone scrivendo le proprie idee per ridurre la carcerazione. Kenney ha scritto: “Occupazione e formazione;” Krasner ha scritto: “Accesso più rapido alle misure alternative”. Stati Uniti. Diamo voce ai i bambini di Tornillo: sono rinchiusi con il filo spinato di Monica Mosca Gente, 5 ottobre 2018 Sbaglio poco se dico che la notte è bella solo per gli innamorati, che ci trovano le stelle per sognare e la luna per baciarsi sotto. È bella anche, ecco si, per chi dorme sereno nel suo letto, con un tetto sopra la testa e in casa la famiglia. Altrimenti la notte può essere foriera di fantasmi, troppo buia. E fare paura. Di notte gli amanti si amano; di notte i bambini chiamano la mamma perché hanno perso il ciuccio o fatto un brutto sogno. Ai confini fra Texas e Messico, in quella che è stata chiamata The Tent City, la Tendopoli, non so esattamente cosa facciano di notte le centinaia e centinaia di bambini che sono rinchiusi là dentro, ma ancora non sbaglio se dico che piangono, e inutilmente, perché non c’è nessuna madre che li può consolare. La storia, drammatica e dall’odore del ferro del filo spinato, è stata raccontata dal quotidiano The New York Times e ha scoperchiato un pentolone bollente e fetido. Dunque: si sapeva che l’amministrazione Trump facesse portare i figli minori di chi illegalmente entrava negli Stati Uniti in centri di “accoglienza”, separandoli a forza dai genitori. Lo scorso giugno al proposito si sollevò un polverone, non si possono dividere madri, anche se prive di documenti, e bambini magari di due o tre anni, è una barbarie. Protestò mezzo mondo, perfino la first lady Melania (lo scrissi proprio in questa pagina) fece capire al marito presidente Trump che così non andava. Non so se a pesare sia stata l’opinione pubblica sdegnata o la sfuriata della moglie, di Trump l’umorale non si può mai dire con certezza, fatto sta che i suoi amministratori promisero di piantarla con la cosiddetta “tolleranza zero” verso i migranti abusivi e che non l’avrebbero più fatto, basta allontanamenti forzati, basta bambini piccoli senza papà o mamma. Ma eccoci alla resa dei conti: non soltanto quella promessa era da marinaio, anzi da mozzo e non è stata quindi mantenuta (fatto prevedibile, poiché negli Stati Uniti i minori non possono essere ospitati nelle patrie galere, come invece avviene qui da noi, dramma nel dramma, e allora dove potevano metterli?), ma la situazione si è aggravata. Pare infatti che oggi nella Tendopoli incriminata il numero dei bambini soli sia quintuplicato rispetto all’anno scorso. Contarli non è facile, forse sarà impossibile poiché Tornino Tent City è un luogo anche misterioso, oltre che spaventoso, dove i giornalisti sono banditi e i politici quasi, più volte rimbalzati proprio davanti alla recinzione di filo spinato nodoso che lo circonda. Quel che denuncia The New York Times non è però solo quanti siano i minori “detenuti”, ma in che modo vengano là condotti. Di notte, appunto, al buio, nel cuore del sonno i bambini ospitati nei centri di varie zone d’America vengono svegliati e caricati su pullman che prima dell’alba li fanno sbarcare tutti a Tornillo. Zainetti, sacchetti, le poche cose che avete, tutti fuori!, e dei ciucci neanche a dirlo. Se piangono, gli passerà. E che siano terrorizzati, rannicchiati - come a sui gli autobus è messo in conto. La denuncia del quotidiano americano è di “deportazioni notturne”, definizione orrenda che evoca periodi orrendi. Di notte si dà meno nell’occhio. Di notte i cronisti si sfuggono meglio. Adesso che il problema è sotto gli occhi del mondo, l’appello va a Trump perché lui stesso lo risolva, per carità. La sua politica della “tolleranza zero” ha dato frutti, sì, ma non quelli da lui sperati: gli ingressi clandestini dal Messico non sono diminuiti, mentre diminuite drasticamente sono le famiglie residenti negli Stati Uniti che si offrono di prendere in custodia i piccoli deportati. Perché molte non hanno i documenti in ordine, e non vogliamo guai, abbiamo paura. Non dimentichiamo i bambini di Tornillo, senza colpe, loro, a dormire sotto le tende e a sgolarsi per chiamare qualcuno. Non ci sono scuole né assistenza legale, in quella Tendopoli è sempre notte. Non dimentichiamoli, Melania pensaci tu, anche questa volta. Australia. Il grido di un profugo dall’isola-prigione di Manus diventa libro di Francesca Caferri La Repubblica, 5 ottobre 2018 Il professore di filosofia Omid Tofighian ha raccolto il racconto di Behrouz Boochani recluso a Manus, isola prigione in Papua-Nuova Guinea. Il libro fa luce sui metodi adottati contro chi cerca di entrare nel Paese. Un autore rinchiuso nell’isola prigione in un angolo remoto di mondo, un luogo dove non arrivano giornali né troupe televisive a raccontare quello che accade. Un professore universitario che divide il suo tempo fra Sidney e il Cairo e che si è dato una missione: far conoscere al mondo il dramma dei migranti e lavorare per migliorare le loro condizioni di vita. Un rapporto che nasce seguendo lo stile dei tempi, con un contatto via social network che si trasforma poi in un’amicizia segnata dagli audio e dai messaggi di Whatsapp: e che infine sfocia in una delle forme di comunicazione più antiche, un libro. È questa, in poche righe, la storia di “No friend but the mountains: writings from Manus prison”, (Nessun amico se non le montagne: scritti dalla prigione di Manus), opera a quattro mani scritta da Behrouz Boochani, migrante che dall’Iran avrebbe voluto raggiungere l’Australia, ma prima ancora giornalista e poeta curdo di nazionalità irachena, e di Omid Tofighian, professore di filosofia dell’università di Sidney. Uscito qualche mese fa per Pan Macmillan - Picador, è diventato un caso editoriale nel mondo di lingua anglosassone e ha contribuito ad accendere i riflettori sull’isola-carcere di Manus, luogo sperduto nell’arcipelago della Papua Nuova Guinea dove l’Australia rinchiude i rifugiati che tentano di raggiungere il Paese. Il libro è la trascrizione dei messaggi, dei racconti e delle riflessioni che il giornalista-profugo ha inviato per anni all’amico accademico e ha fatto guadagnare a Boochani il premio giornalistico Anna Politkovskaja, voluto dalla rivista Internazionale per ricordare la giornalista russa uccisa a Mosca. Oggi alla consegna, in occasione dell’apertura del festival di Internazionale a Ferrara, Boochani non potrà essere presente. A ricevere il riconoscimento ci sarà al suo posto Tofighian: spetterà a lui pronunciare il discorso di apertura dell’evento in nome di quello che definisce “un pensatore e uno scrittore eccezionale”. “Siamo entrati in contatto per la prima volta nel febbraio 2016”, racconta Tofighian, “Behrouz aveva accesso a Internet tramite il suo cellulare, io avevo letto un suo post su Facebook e gli ho mandato un messaggio: così abbiamo cominciato a parlare di come rendere pubblico il sistema di detenzione a cui l’Australia sottopone i rifugiati. Mi ha chiesto di aiutarlo a tradurre quello che scriveva in inglese... e così è nato tutto”. Nel giro di qualche mese l’intervento di Tofighian, con la sua capacità di tradurre in inglese i pensieri che Boochani scriveva in farsi, ha portato la vicenda del giornalista curdo e dei suoi compagni di detenzione all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale: ed è arrivata la proposta del libro. “Behrouz è uno scrittore”, prosegue il suo traduttore, “aveva già scritto racconti prima di dedicarsi al giornalismo in Iran. Ha iniziato a scrivere appena arrivato a Manus: quando abbiamo cominciato a lavorare sul libro, di fatto aveva già dei capitoli in bozza. Poi sono arrivato io, e il lavoro di scrittura si è intensificato”. Così, per mesi, i due si sono scambiati messaggi.