Bambini dietro le sbarre. Quel rapporto “malato” in cella tra madre e figli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 ottobre 2018 Il diritto della detenuta di ospitarli possibilmente fuori dal penitenziario. Finora abbiamo parlato delle varie leggi che prevedono il diritto della madre detenuta di ospitare con sé il figlio, possibilmente fuori dal perimetro penitenziario. Ma come mai in Italia viene contemplato questo diritto? L’obiettivo è che il bambino non sia privato dall’affetto e dalle cure materne, a beneficio della tutela della sua salute e della sua crescita emotiva e sociale. Proprio per questo motivo, oltre a non recidere subito il legame, le leggi che si sono susseguite e non applicate fino in fondo, prevedono anche che i figli non vivano all’interno delle mura carcerarie. Ancora una volta dobbiamo rispolverare l’ultima relazione del Garante nazione delle persone private delle libertà e andare direttamente al capitolo riguardante i bimbi detenuti. “La presenza di infanti - si legge nella relazione trasmessa in Parlamento - che trascorrono i primi mesi se non anni della propria vita, proprio i più decisivi per la formazione, in un contesto come quello del carcere rappresenta di per sé un grave vulnus. E se, alcuni Istituti si sono attrezzati con sezioni o stanze nido che ruotano realmente attorno alle esigenze primarie del bambino, va detto che il Garante nazionale ha trovato, in alcune sue visite, anche sezioni che del nido non hanno davvero nulla: un reparto detentivo classico, talvolta anche in cattive condizioni materiali con carenza perfino di un lettino adatto a un bimbo di questa età, dove i bambini vivono non solo con le loro madri ma anche in promiscuità con le altre donne detenute”. L’autorità del Garante infine sottolinea: “Per questi bambini, che imparano a parlare all’interno del carcere, che acquisiscono familiarità con parole come blindo o passeggio, che vedono il cielo attraverso finestre con sbarre, che sono separati dai fratelli e dai padri e che al compimento del terzo anno di età come regalo ricevono la separazione tanto improvvisa quanto dolorosa dalla madre con cui hanno vissuto in simbiosi fino a quel momento, per questi bambini costruire un rapporto positivo con le Istituzioni sarà molto difficile. Queste osservazioni non devono però essere lette in favore di una interruzione del rapporto tra bambino e madre”. Quindi nessuna interruzione, ma favorire il rapporto tra i due. Perché? La teoria dell’attaccamento consiste in un’analisi di carattere scientifico sul legame che i bambini e i loro genitori stabiliscono fin dagli stadi più precoci dello sviluppo. Il primo autore che l’ha proposto come concetto cardine, per spiegare il comportamento dei bambini, fu John Bowlby, ricercatore britannico di scuola psicoanalitica che elaborò tale teoria. Secondo l’autore inglese, il bambino, appena nato, è naturalmente portato a sviluppare un forte legame di attaccamento con la madre o col caregiver, ossia con colui che si prende cura di lui. Nella specie egli approfondisce lo studio del comportamento infantile, in situazioni di distacco dalla madre. Il comportamento di attaccamento nei bambini - afferma Bowlby con il suo studio - si presenta generalmente forte e frequente fino ai tre anni di età. Superata questa fase, essi si mostrano più in grado di accettare un temporaneo allontanamento della propria madre (ad esempio all’asilo, prendendo parte a giochi con gli altri bambini). Sempre secondo l’autore i bambini dopo il terzo anno di età si manifestano più sicuri in un ambiente sconosciuto e più propensi a instaurare forme di attaccamento sostitutive come con un parente o insegnante. Il nostro Paese ha recepito questi studi e ha sempre cercato di salvaguardare questo rapporto, anche se riguardano le mamme detenute. Un diritto inviolabile quello riguardante il legittimo rapporto tra le detenute e i propri figli. Ma l’ambiente carcerario non lo aiuta e rischia di diventare un rapporto malato. Più volte è stato denunciata questa “malattia” che rischia di verificarsi dietro le sbarre. Diversi studi spiegano che all’interno del carcere, il legame che si viene a creare con la madre è un legame malato, caratterizzato da una totale dipendenza dalla madre, in cui il bambino è iper-accudito e dove l’influenza istituzionale gioca un ruolo chiave nel determinare una scarsa autonomia del ruolo genitoriale. L’istituzione infatti si sostituisce alla madre in tutte quelle attività esterne previste per il bambini, come le passeggiate, gli accompagnamenti al nido, dalle quali la madre resta inevitabilmente esclusa. La reclusione determina quindi delle strette limitazioni nel ruolo genitoriali, precludendo un sano legame tra la madre e il bambino oltre a ripercuotersi sul suo vissuto psicologico ed emotivo. Quindi si ritorna nuovamente al problema iniziale: il carcere come luogo non adatto per favorire un sano sviluppo del bambini e un sano legame con la madre. Un legame che sarà bruscamente reciso se la madre dovrà ancora scontare altri anni di carcerazione. La protezione dei minori, sotto l’aspetto del rapporto con i genitori, è stato formalizzato per la prima volta in Europa il 21 marzo del 2014 attraverso la Carta dei figli dei genitori detenuti che “riconosce formalmente il diritto di questi minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto del medesimo alla genitorialità. La Carta è il risultato del protocollo d’intesa fra l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e dal Presidente dell’associazione “Bambinisenzasbarre” volto a promuovere i diritti dei minori, istituendo un tavolo permanente composto dai rappresentanti dei tre soggetti firmatari, per monitorare periodicamente l’attuazione dei punti previsti dalla Carta. A luglio di quest’anno, la Carta è diventata anche una raccomandazione europea da parte del Consiglio d’Europa. I bambini negli altri Paesi - A febbraio del 2010 si è voluto realizzare un rilevamento, attraverso il Consiglio d’Europa, finalizzato ad avere più aggiornate e specifiche informazioni inerenti alla situazione presente in Europa riguardo alla possibilità, per la madre detenuta, di poter avere accanto il proprio figlio. Hanno risposto 19 nazioni e precisamente Austria, Belgio, Cipro, Danimarca, Francia, Germania Ovest, Grecia, Inghilterra, Galles, Irlanda del Nord, Islanda, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Portogallo, Scozia, Spagna, Svezia, Svizzera. È emerso che tutti questi Paesi hanno la possibilità di poter avere accanto a sé il bambino, tranne però la Norvegia, la quale non prevede nel suo ordinamento questa possibilità. Un’osservazione più attenta dei dati ha evidenziato un numero rilevante di eccezioni: in Lussemburgo si tende a non ammettere tutti bambini che possono essere separati dalla madre; in Olanda si tende ad inserire la madre detenuta con il bambino presso la comunità dove lavora; in Norvegia invece, il bambino viene affidato alla famiglia di origine o a delle comunità. Ma l’età sino alla quale il bambino può stare con la madre in carcere? Nelle nazioni che hanno risposto al rilevamento si è potuto osservare che si oscilla da un’età massima di permanenza del bambino accanto alla madre detenuta di 6 anni, come in Italia e in Spagna ai 9 mesi previsti in Irlanda del Nord, in Olanda ed in Inghilterra. Anche dalla risposta a questa domanda si è potuto osservare come vi sia la tendenza, in diversi paesi europei, a ridurre la possibilità per il bambino di restare con la madre detenuta negli istituti penitenziari, offrendo diverse opportunità di inserimento del bambino stesso in comunità- famiglie, affidandolo a genitori affidatari, ricercando comunque delle soluzioni che gli evitino il dover subire l’impatto traumatico del carcere. La conclusione è che l’Italia risulta decisamente più sensibile sulla difesa del rapporto tra figli e madri detenute, un po’ meno però nell’evitare, al bambino stesso, l’ambiente penitenziario. Carcere e salute mentale, focus al Ministero della Sanità romasociale.com, 4 ottobre 2018 La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e il passaggio di competenze nella gestione della salute dei detenuti dal Ministero della Giustizia a quello della Salute: sono molti i cambiamenti che hanno investito il sistema carcerario italiano e che impongono una riflessione giuridica e sanitaria sulla salute mentale all’interno degli istituti penitenziari. È nato così il primo meeting internazionale “Il sistema penitenziario italiano e spagnolo a confronto. Focus sulla salute mentale”, che - promosso dalla Società Italiana di Medicina Penitenziaria e dalla Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze con il contributo incondizionato di Otsuka - permette un dialogo tra il modello italiano e quello iberico. Durante l’incontro, gli esperti scientifici e i rappresentanti delle istituzioni coinvolte nella gestione delle carceri italiane - come il Ministero del Salute, la Procura Generale di Roma e il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale - hanno condiviso il proprio punto di vista sui possibili punti di incontro tra i sistemi penitenziari di Italia e Spagna. “I contenuti presentati oggi - ha dichiarato Giulia Grillo, ministro della Salute - rappresentano uno spunto utile per intraprendere una riflessione più ampia sulla gestione della salute negli istituti penitenziari del nostro Paese. Come ministero della Salute puntiamo a dimostrare in concreto che è possibile fare di più per perseguire una gestione più efficiente delle politiche sanitarie dietro le sbarre. Nelle prossime settimane avvieremo una valutazione sul territorio delle diverse realtà italiane”. “L’Italia sta offrendo un modello transnazionale che ha suscitato l’attenzione di altri Paesi, tra cui ad esempio la Spagna. In alcune carceri del Bel Paese si è proposta una gestione unitaria e multidisciplinare dei disturbi psichiatrici attraverso il monitoraggio costante della salute mentale e gruppi di sostegno tra i detenuti: tutte iniziative per garantire la continuità assistenziale dopo la scarcerazione”, ha dichiarato Luciano Lucanìa, presidente della Società Italiana di Medicina Penitenziaria. “Oggi per la prima volta due sistemi penitenziari diversi e con caratteristiche differenti, quello spagnolo e quello italiano, si confrontano sulle stesse problematiche di tipo clinico e organizzativo”. Gli fa eco Massimo Clerici, presidente della Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze, che ha aggiunto: “La giornata di oggi si colloca in un percorso di confronto e di scambio tra le varie realtà europee sui cambiamenti in materia di assistenza psichiatrica negli istituti penitenziari per garantire a tutti i pazienti, anche quelli nelle carceri, un adeguato trattamento. È un processo fondamentale vista anche la crescita esponenziale dei disturbi psichiatrici tra i detenuti: oggi in carcere, ad esempio, la schizofrenia e i disturbi della personalità hanno una frequenza rispettivamente di quattro e di due volte maggiore rispetto alla popolazione generale. In Italia il salto di qualità è stato fatto con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari nel 2015, sostituiti dalle Rems o dall’istituzione di servizi di psichiatria interni alle carceri”. Il dibattito ha coinvolto i rappresentanti di tutte le istituzioni che hanno un ruolo nel sistema penitenziario italiano, come le procure della Repubblica e le Aziende Sanitarie Locali. “La Procura generale di Roma è impegnata nel diffondere negli uffici del distretto la collaborazione con la Sanità regionale, perciò si fa portatrice dell’esperienza del trattamento differenziato dei pazienti per i quali è stata riconosciuta la pericolosità sociale, al fine anche di fronteggiare la scarsità dei posti disponibili nelle Rems”, ha commentato Giovanni Salvi, procuratore generale di Roma. Anche Francesco Menditto, procuratore della Repubblica di Tivoli ha sottolineato l’attenzione delle procure del Lazio verso la gestione della salute mentale nelle carceri. “Negli anni, l’Italia ha cercato di mettere in atto diverse iniziative per tutelare le persone con fragilità psichiatrica che si trovano nelle carceri. La chiusura gli ospedali psichiatrici giudiziari e il conseguente passaggio di competenze tra il Ministero della Giustizia e quello della Salute nella gestione della salute mentale degli internati - commenta Menditto - rappresenta un esempio concreto di questo impegno. Anche nel Lazio sono state attuate iniziative importanti in questo senso. La Procura Generale di Roma ha infatti promosso un protocollo unitario che ha garantito il migliore funzionamento della nuova normativa e delle Rems (tre delle quali sono nel circondario di Tivoli), favorendo la collaborazione tra la magistratura, i Dipartimenti di Salute Mentale e il personale penitenziario”. A portare il punto di vista delle Aziende Sanitarie Territoriali è Giuseppe Quintavalle, Direttore Generale Azienda Sanitaria Territoriale Roma 4 e Commissario Straordinario Azienda Sanitaria Territoriale Roma 5. “Nella gestione dei detenuti con problemi psichiatrici non sono mancate iniziative volte a migliorare l’organizzazione dei sistemi di salute mentale negli istituti penitenziari italiani. È stato elaborato un percorso innovativo e sono state attuate numerose procedure, anche legislative. Nonostante le attività messe in atto siano numerose - ha affermato Quintavalle - è importante continuare a favorire momenti di confronto multidisciplinare sui possibili nuovi modi per migliorare sempre di più sia la sicurezza degli operatori sanitari e penitenziari che lavorano nelle carceri italiane, sia la presa in carico e l’assistenza dei detenuti con fragilità mentale”. “Otsuka è da sempre attenta alle tematiche sociali, così ha deciso di supportare il primo meeting internazionale sul confronto tra il sistema penitenziario italiano e spagnolo con focus sulla salute mentale in un particolare momento storico, che vede tutto il Vecchio Continente alle prese con i flussi immigratori e le tematiche legate alla diversità. Si vuole così sottolineare l’importanza di salvaguardare i bisogni di tutti i pazienti, anche nelle carceri, e di collaborare in comunione di intenti. Come azienda impegnata da anni nel campo del Sistema nervoso centrale, siamo orgogliosi di poter contribuire, insieme alle consociate europee di Spagna e Inghilterra, ad un dibattito di alto livello che affronta il tema delicato e sempre più attuale del proliferare dei disturbi psichiatrici nelle carceri”, dichiarano Fabrizio Ballantini, Market Access Director, e Chiara Cernetti, Government Affairs Manager di Otsuka Italia. Epatite, Hiv e tubercolosi: sette detenuti su dieci hanno malattie croniche di Claudia Osmetti Libero, 4 ottobre 2018 Più che carceri, le patrie galere sono dei lazzaretti. Dove l’assistenza sanitaria è ridotta al lumicino (grazie ai tagli sui tagli della politica politicante) e dove la presenza di cittadini stranieri, per forza di cose, non aiuta granché. Sono 20.098 i detenuti immigrati, la maggior parte di loro viene da paesi extra-comunitari, su un totale di 50.622 carcerati: più di uno su tre, i dati sono quelli ufficiali del ministero della Giustizia aggiornati al 30 settembre scorso, non è italiano. Con quel che ne consegue. “Dobbiamo ricordarci - sbotta il professor Sergio Badudieri, direttore scientifico della Onlus Simspe (la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria che si riunisce per il suo congresso annuale proprio oggi a Roma), - che si tratta di persone the, per ovvie ragioni, tendono a non curarsi e a non approfondire la propria situazione sanitaria”. Facile capirne i motivi: una semplice visita dal dottore potrebbe significare, per chi non ha il passaporto in regola, una segnalazione alle autorità. Poi entrano in cella, le strutture sono quelle che sono (fatiscenti, vecchie), l’infermeria alle volte lascia il tempo che trova (personale e strumentazioni fanno quello che possono, ma succede che non basti) e il resto va da sé. Risultato: “Aumentano i casi di tubercolosi - continua Badudieri - e si innalza pure la possibilità di mettere in circolo ceppi multi-resistenti ai farmaci. Un problema ulteriore è intrinseco alla malattia, per la sua natura subdola e non facilmente diagnosticabile: il peggioramento è lento e graduale. Purtroppo ci vorrebbe una maggiore attenzione proprio a partire dai centri per l’immigrazione dove spesso i controlli sanitari non sono adeguati”. Così albanesi, romeni, marocchini e senegalesi (le nazionalità più presenti dietro le sbarre tricolori) finiscono per passare, involontariamente sia chiaro, ai propri compagni di cella pure qualche virus. Sette detenuti su dieci hanno una patologia cronica, circa i150% di loro non sa neppure di essere malato. “Tra le malattie infettive il virus dell’epatite C è quello più rappresentato, soprattutto a causa della massiccia presenza di tossicodipendenti - continuano i rappresentanti della Simspe - i carcerati con gli anticorpi di specie sono appena il 30%, gli altri hanno il batterio attivo: servirebbero farmaci per circa 30mila detenuti. Sul fronte Aids, invece, al momento c’è circa il 3,5% dei detenuti a cui è stato diagnosticato l’Hiv, ma è un numero parziale. Fare le analisi è difficile. Gli affetti di epatite B sono poi il 6% del totale, per la Tbc più di 10mila carcerati stranieri è risultato positivo ai test”. Come a dire, una situazione fuori controllo. Ammalarsi in carcere non è mica così raro. Di Maio: soluzione a sovraffollamento non è svuotare galere, ma costruirne di nuove Adnkronos, 4 ottobre 2018 Per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri “penso occorra costruirne di nuove, non si può pensare a nuovi indulti o svuota-carceri. Non è questa la strada. Da una parte bisogna riorganizzare gli spazi nelle carceri per ridare dignità a chi è in cella, ma dall’altro io non cedo all’idea che per risolvere la questione occorra mettere persone fuori dalla galera”. Lo afferma il vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, ai microfoni di Radio Radicale. Carceri. Nasce un linguaggio comune europeo tra gli operatori Redattore Sociale, 4 ottobre 2018 Supportare gli educatori che operano in carcere e in strutture per misure alternative alla detenzione nello sviluppo delle proprie conoscenze, competenze e pratiche e condividere esperienze, approcci e metodi di lavoro nel campo dell’educazione rivolta a persone private della libertà. Sono gli obiettivi di “Educate” (Educators for inclusive and effective reintegration of inmate), progetto attivato a novembre 2016 che coinvolge le realtà di 5 Paesi europei (Spagna, Portogallo, Romania, Grecia, Italia) che lavorano sulla promozione delle competenze trasversali di persone private della libertà, in particolare con problemi psichiatrici, migranti e minoranze, per il loro reinserimento nel mercato del lavoro e la creazione di una rete locale che renda il reinserimento più efficace e riduca il rischio di recidiva. Ieri a Bologna si è svolto l’evento conclusivo del progetto, “un’occasione di confronto tra le diverse esperienze dei penitenziari di 5 Paesi europei”, come ha precisato Marcello Marighelli, il Garante regionale per le persone private della libertà personale. Le 5 realtà coinvolte sono L’Ovile (capofila del progetto per l’Italia), Carcere di Bistrita (Romania), You in Europe (Grecia), Asociación Noesso (Spagna), Associacao Sapana (Portogallo). “Il progetto è stato attivato 2 anni fa e si occupa della formazione degli educatori che lavorano con le persone private della libertà - ha spiegato Francesca Cavedoni dell’Ovile - L’obiettivo è quello di creare con gli altri 4 partner europei un linguaggio comune. Oggi presentiamo i risultati relativamente a 3 modelli: uno collegato alle competenze di chi lavora nel settore penale, sia dentro che fuori al carcere, un modello di reinserimento sociale ovvero come fare integrazione e reinserimento in maniera efficace, e un modello di inserimento lavorativo”. L’Ovile opera da 25 anni occupandosi di detenzione con progetti lavorativi all’interno del carcere di Reggio Emilia e nelle proprie strutture, “proponiamo attraverso l’accoglienza e l’inserimento lavorativo percorsi riabilitativi a persone in stato di bisogno”, ha spiegato Elena Frascaroli, responsabile ufficio progettazione della cooperativa sociale L’Ovile. “Legittima difesa, in casa propria sempre ammessa” di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 4 ottobre 2018 La via della Lega per far arrivare in porto la legge sulla legittima difesa passa da un “sempre”. Un avverbio aggiunto all’articolo 52 del codice penale, con l’obiettivo di mantenere quel principio di proporzionalità che gli alleati di governo del Movimento 5 Stelle hanno eletto a loro fortino. Il presidente della Commissione Giustizia del Senato, il leghista Andrea Ostellari che è anche relatore del provvedimento, ha presentato ieri il testo base, ossia quello su cui proseguiranno i lavori (una sorta di sintesi delle otto proposte depositate). L’iter del provvedimento si fa ora più definito dal momento che si è fissato l’approdo in Aula per il 23 ottobre: l’obiettivo della Lega è quello di avere il via libera del Senato già a inizio novembre, prima che cominci la sessione di bilancio. Il nuovo testo cerca di mantenere l’impianto del ddl che era stato presentato dal capogruppo Massimiliano Romeo, ossia l’idea cardine della Lega che chi si difende in casa non debba poi ritrovarsi in un aula di tribunale. Si interviene su due articoli del codice penale. All’articolo 52 si stabilisce dunque che sussiste “sempre” la proporzionalità della difesa quando si agisce per respingere l’intrusione con violenza, minaccia di uso di armi e di altri mezzi di coazione fisica in casa o nel luogo di lavoro. Di fatto, si cerca di restringere il campo delle interpretazioni del giudice. Il testo di Ostellari tocca però anche l’articolo 55 del codice penale. In pratica, si amplia la formulazione dell’eccesso colposo prevedendo che non possa essere riscontrato se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito “in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Aumentano inoltre le pene per il furto in abitazione, per la violazione di domicilio e per la rapina. Altra novità prevista dalla nuova legittima difesa è contenuta in una modifica al codice civile e stabilisce che l’aggredito non si possa trovare a subire cause di risarcimento per il danno né da parte dell’aggressore né da suoi familiari. Inoltre, nel caso di condanna per il reato di furto in abitazione e furto con strappo “la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa”. Per velocizzare i processi, si prevede anche che la liquidazione dell’onorario delle spese sia a carico dello Stato che si assume l’obbligo di pagare le spese di difesa nell’ipotesi di assoluzione di chi ha esercitato la legittima difesa. Il punto di equilibrio raggiunto dal leghista Ostellari sembra trovare d’accordo il Movimento 5 Stelle. Dal ministero della Giustizia, guidato da Alfonso Bonafede, si giudica in maniera positiva il lavoro svolto anche se, sottolineano, “come per ogni cosa è ancora migliorabile”. A criticare il provvedimento è invece Forza Italia, che cerca di pungolare il Carroccio e incunearsi nel rapporto con gli alleati di governo. Per gli azzurri, infatti, “la montagna ha partorito un topolino” e il testo presentato da Ostellari “è lontano anni luce da quanto i cittadini attendevano”. “Il peso imbarazzante e determinante del Movimento 5 Stelle - dichiarano i deputati Francesco Paolo Sisto ed Enrico Costa - ha prevalso, schiacciando i diritti di chi si difende dopo essere stato aggredito e continuerà ad essere ingiustamente trascinato in Tribunale”. Csm. L’abito non fa il monaco, ma almeno lo condiziona di Renato Balduzzi Avvenire, 4 ottobre 2018 La contrastata elezione del vicepresidente del Csm, con due voti di differenza a favore del candidato che ha prevalso, ha dato origine a numerosi commenti e a interventi anche di esponenti politici e istituzionali, questi ultimi talvolta un po’ frettolosi. In alcuni commenti si è ricordato il lontano precedente del 1976, quando venne eletto vicepresidente il professor Vittorio Bachelet, con due voti di scarto sul professor Giovanni Conso. Le due vicende non sono facilmente accostabili, come ha già avuto modo di chiarire il figlio di Bachelet, Giovanni. Aggiungo che quella elezione fu resa possibile proprio dalla circostanza che Conso, nel segreto dell’urna (come in altra occasione ebbe a chiarire lo stesso Giovanni Bachelet), votò a favore di Vittorio: se infatti vi fosse stata parità, sarebbe risultato eletto Conso, in quanto più anziano. Mi piace comunque ricordare quell’episodio in quanto vide protagonisti due grandi esponenti della cultura e dell’impegno civile di ispirazione cattolica, legati tra loro da profondi vincoli di stima e amicizia: basti pensare che Conso fu uno dei principali promotori, insieme al magistrato Mario Almerighi, dell’Associazione “Vittorio Bachelet”, costituita nel 1981 a un anno esatto dall’uccisione di quest’ultimo, e che la presiedette per venticinque anni, sino alla morte. Mi sento altresì, anche alla luce dell’esperienza fatta negli ultimi quattro anni come componente del Csm, di potere affermare che l’incarico di vicepresidente di tale organo comporta, per sua natura, che chi lo ricopre assuma un abito di indipendenza e di estraneità alle parti politiche: sia perché non è pensabile di governare un organo di garanzia, composto in larga prevalenza di togati, appoggiandosi su una maggioranza risicata e non assicurando par condicio a questi ultimi e alle loro articolazioni associative; sia perché la stretta vicinanza e la frequenza dei contatti con il Capo dello Stato, che di quell’organo è presidente, costituisce una ulteriore garanzia circa l’esercizio super partes di quella funzione (potremmo dire che, almeno in alcuni casi, l’abito, se non fa, almeno rafforza e condiziona il monaco). Esorterei pertanto tutti ad avere fiducia, oltre che nella coscienza e nella sensibilità istituzionale delle persone elette, nella bontà del disegno costituzionale, che dovrebbe indurre a lasciare lavorare in serenità il nuovo Csm, salvo naturalmente valutarne in seguito le decisioni e i comportamenti, nel pieno rispetto dei ruoli e delle competenze di ciascuno. Il problema di Davigo nominato alla sezione disciplinare del Csm di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 ottobre 2018 L’ex pm di Mani pulite, Piercamillo Davigo, è stato nominato dal plenum del Consiglio superiore della magistratura come componente della sezione disciplinare. Il candidato più votato alle ultime elezioni del Csm di luglio è tra i sei prescelti dell’organo di autogoverno della magistratura che giudicheranno sulle toghe accusate di illeciti disciplinari dal procuratore generale della Cassazione o dal ministro della Giustizia. Con il leader della corrente Autonomia e indipendenza siederanno nella sezione Giuseppe Cascini (ex pm nel processo Mafia capitale ed esponente di Area), Corrado Cartoni (Magistratura indipendente), Marco Mancinetti (Unicost), Fulvio Gigliotti (membro laico indicato dal Movimento 5 stelle) e infine, come componente di diritto (che presiede i lavori), il neo vicepresidente del Csm, David Ermini. Un ruolo di prestigio per Davigo, vista la delicatezza dei compiti che la sezione è chiamata a svolgere (può adottare provvedimenti disciplinari nei confronti delle toghe che possono influire sull’avanzamento di carriera, almeno nella teoria). Ma è proprio questa delicatezza a imporre seri interrogativi sull’opportunità di affidare l’incarico a un magistrato che negli ultimi decenni, fin dai tempi in cui faceva parte del pool di Mani pulite, ha mostrato di concepire il rapporto fra magistratura e politica come una guerra (in cui sarebbe la seconda, ovviamente, a volersi imporre sulla prima), e che di conseguenza piuttosto che valutare criticamente l’operato di un magistrato - favorendo così il “nemico” in questo conflitto - preferirebbe probabilmente tagliarsi un piede. Ma ragioni di opportunità sulla nomina di Davigo non si pongono solo in termini formali, ma anche sostanziali. Il caso più importante su cui la sezione disciplinare dovrà esprimersi, infatti, è certamente quello che coinvolge i pm napoletani dell’inchiesta Consip, Henry John Woodcock e Celestina Carrano, finiti a processo disciplinare con l’accusa di aver commesso con “inescusabile negligenza” una “grave violazione” dei diritti di difesa di Filippo Vannoni (consigliere dell’allora premier Matteo Renzi) e, nel caso di Woodcock, di aver anche rilasciato alcune dichiarazioni al quotidiano la Repubblica nonostante le richieste di riserbo dell’allora procuratore capo facente funzioni Nunzio Fragliasso. Ragioni di opportunità si palesano soprattutto se si guarda alle affermazioni rilasciate da Davigo in un’intervista a Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano il 13 luglio scorso, all’indomani della sua elezione in Csm, proprio in merito al caso Woodcock. Nell’intervista l’ex pm si disse d’accordo con il suo collega di corrente, Sebastiano Ardita (anch’egli eletto in Csm), che aveva definito il processo disciplinare a carico di Woodcock “roba da Corea del nord”. “Quando l’organo di autogoverno - affermò Davigo - non dice nulla contro gli attacchi del governo a un pm colpevole di fare indagini a livelli alti e anzi lo processa disciplinarmente prim’ancora che vengano processati gli imputati, magari usando gli esposti degli imputati contro quel pm, c’è da restare esterrefatti”. In altre parole, secondo Davigo, il procedimento disciplinare su Woodcock non avrebbe neanche dovuto essere aperto dal Csm. È inevitabile, quindi, porsi una domanda: quale imparzialità di giudizio può garantire un magistrato che, mesi di prima di essere chiamato a esprimersi su un procedimento, si è sbilanciato pubblicamente in maniera netta a favore di una delle parti in causa (Woodcock)? Dubitare, pensando alle regole basilari del giusto processo, è lecito. Class action più facile, ma non per il passato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2018 Dopo confronti serrati, arriva il via libera della Camera. E la class action viene rispedita in Senato profondamente modificata. In una versione peraltro molto simile a quella già approvata a Montecitorio e poi incagliatasi al Senato nella passata legislatura. Cardini della nuova azione di classe, fortemente voluta dal Movimento 5 Stelle, sono: l’ampliamento di situazioni giuridiche tutelate e strumenti di tutela, con un’azione inibitoria oltre al risarcimento (per far cessare le condotte lesive); l’ingresso nella classe possibile sia prima sia dopo la sentenza di condanna dell’impresa; il compenso per i rappresentanti della classe e i difensori, in caso di vittoria, col riconoscimento della quota lite. Rispetto alla versione approvata in commissione, passa la proposta di Forza Italia (con la relatrice di minoranza Giusi Bartolozzi) di un accantonamento della retroattività. Uno dei punti cruciali e più critici che avrebbe esposto le imprese a una finestra di possibili contestazioni sul passato, di ampiezza tra i cinque 5 e i 10 anni a seconda dell’illecito fatto valere. L’azione, su cui la competenza passa dal tribunale alla sezione specializzata in materia d’impresa, sarà articolata in tre fasi: la prima e la seconda, rispettivamente, su ammissibilità dell’azione e decisione sul merito; e l’ultima sulla liquidazione delle somme dovute agli aderenti all’azione. Vista la nuova collocazione della disciplina, sottratta al Codice del consumo per passare in quello di procedura civile che si arricchirà di un nuovo Titolo, spariscono i riferimenti a consumatori e utenti. E la class action potrà sempre essere proposta da chi chiede risarcimenti per lesione di diritti individuali omogenei. L’azione sarà nella titolarità di ogni componente della classe, ma anche delle organizzazioni o associazioni senza scopo di lucro che hanno come scopo la tutela di quei diritti, iscritte in un elenco tenuto dal Mise. Bersagli dell’azione potranno essere imprese ed enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, per atti e comportamenti della loro attività. C’è anche l’estensione del perimetro oggettivo di applicazione: anche se sono confermate individualità e omogeneità dei diritti, il Ddl individua nella class action lo strumento utile per tutte le ipotesi di responsabilità contrattuale (in linea con la disciplina vigente) e quelle di responsabilità extracontrattuale, oggi limitate a pratiche commerciali scorrette e comportamenti anticoncorrenziali. Per esempio, nel caso del dieselgate, la disciplina attuale fa valere “solo” la lesione alla normativa sulla concorrenza (prodotto diverso da quello pubblicizzato); in futuro si potranno far valere anche lesioni a diritti come quello alla salute o all’ambiente. Tra le maggiori criticità, sottolineate da Confindustria anche in audizione alla Camera, resta la possibilità di un’adesione anche dopo il giudizio di merito (evidentemente favorevole). “Un meccanismo di adesione così (dis)articolato - osserva Confindustria - determina, da un lato, la violazione del principio della parità delle posizioni processuali, in quanto azzera di fatto il rischio di soccombenza di coloro che sceglieranno di aderire solo dopo la pronuncia (favorevole); dall’altro, lede il diritto al contraddittorio, poiché il convenuto avrebbe contezza del numero dei soggetti che vantano una pretesa risarcitoria solo dopo la conclusione della causa”. Al netto di un’ovvia considerazione sul rischio di incentivare comportamenti opportunistici di chi potrà attendere l’evoluzione della causa e valutare se aderirvi, si complicherebbe anche la possibilità di una transazione, della quale potrebbero a lungo restare ignoti i soggetti da risarcire e quindi i costi. Assai problematici, per la moltiplicazione del contenzioso, sono poi i costi: il Ddl disciplina il compenso sulla falsariga della cosiddetta quota lite, somma che l’impresa deve corrispondere al rappresentante comune degli aderenti e al difensore dell’attore. È un compenso ulteriore, rispetto alla somma dovuta a ciascun aderente come risarcimento. Importo che è una percentuale del totale da pagare, calcolata sul numero dei componenti la classe e sulla base di sette scaglioni. Il giudice può correggere gli automatismi degli scaglioni sulla base di specifici criteri (complessità dell’incarico, ricorso a coadiutori, qualità dell’opera; sollecitudine nelle attività; numero di aderenti). Resta il filtro di ammissibilità, sia pure rimodulato. L’azione sarà cioè giudicata inammissibile quando: è manifestamente infondata (qui l’azione può essere riproposta se sopravvengono circostanze diverse o nuove ragioni di fatto o diritto); è proposta da un ricorrente che non appare in grado di curare adeguatamente i diritti individuali omogenei; l’attore è in conflitto di interessi nei confronti dell’impresa; manca l’omogeneità dei diritti. Riace, sul sindaco Lucano è scontro tra magistrati di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 4 ottobre 2018 “Errori grossolani dei pm”. “No, nessuno è sopra la legge”. La Procura replica al Gip: “Nessuno è sopra la legge”. Lucano: “Il mio è un reato di umanità”. Sei errori rilevati dal giudice, smontata la ricostruzione dei magistrati. Sul reato di truffa “marchiana inesattezza” da parte dei finanzieri. Ci sono tre testimoni che accusano il sindaco di Riace, Domenico Lucano, di irregolarità. E sono tutti dipendenti del Comune. Sono state le loro dichiarazioni a supportare la contestazione relativa alla gara per lo smaltimento dei rifiuti. Il gip Domenico Di Croce li ha ritenuti attendibili, ma ha modificato il capo d’imputazione evidenziando lo sbaglio dei pubblici ministeri. Non è l’unico. L’inchiesta sull’operato di Lucano è segnata da ben sei errori ritenuti talmente gravi da Di Croce da averlo convinto a far cadere i reati più gravi sottolineando le “lacune” delle verifiche affidate alla Guardia di Finanza. E smontando pezzo dopo pezzo la ricostruzione della Procura. Lo scontro tra pm e gip - Oggi Lucano sarà interrogato per rispondere di due reati: aver favorito l’immigrazione clandestina combinando finti matrimoni e aver affidato un appalto in maniera irregolare. “Non possiamo consentire, come Stato italiano e con Costituzione italiana, che qualcuno persegua un’idea passando bellamente sopra i principi e sopra le norme. Altrimenti consentiremmo a chiunque di praticare i propri convincimenti infischiandosene delle leggi”, ha detto ieri il procuratore Luigi D’Alessio per rispondere alle critiche. Nella sua ordinanza di cattura il giudice stigmatizza però “l’acritico recepimento da parte del pubblico ministero delle conclusioni raggiunte all’esito di una lunga attività investigativa dagli appartenenti alla Guardia di Finanza” e poi elimina una dopo l’altra le accuse più pesanti. La “vaghezza” - Il giudice esamina il primo capo di imputazione nel quale “si rimprovera a Lucano, Sindaco del Comune di Riace (ente non “attuatore”, come erroneamente indicato dalla polizia giudiziaria, bensì “gestore” dei progetti Sprar e Cas) di non avere fatto ricorso ad alcuna reale procedura negoziale per l’affidamento, negli anni 2014, 2015, 2016 e 2017, dei servizi di accoglienza di migranti nell’ambito dei progetti, così turbando le relative gare in spregio ai principi di trasparenza, concorrenza ed economicità”. E conclude: “La vaghezza e la genericità del capo d’imputazione lo rendono inidoneo a rappresentare contestazione provvisoria alla quale validamente “agganciare” un qualsivoglia provvedimento custodiale. Il mero riferimento a “collusioni” ed “altri mezzi fraudolenti” che avrebbero condotto alla perpetrazione dell’illecito si risolve in formula vuota”. “Errore grossolano” - Ma la critica più grave riguarda le accuse di truffa relative ai soldi che secondo la Procura sarebbero stati ingiustamente incassati. Scrive Di Croce: “Gli inquirenti sembrano incorsi in un errore tanto grossolano da pregiudicare irrimediabilmente la validità dell’assunto accusatorio (per come da loro delineato). La Guardia di Finanza quantifica infatti l’ingiusto profitto conseguito dagli enti attuatori - ed il correlativo danno patrimoniale per lo Stato - nel totale delle somme incassate. Non sono stati svolti accertamenti bancari o patrimoniali. Va però evidenziato che l’ingiusto profitto andava individuato nella minor somma tra quanto ottenuto dagli enti e le spese da loro realmente effettuate. Viceversa, gli investigatori qualificano, si ripete erroneamente, come illecitamente lucrato tutto il denaro corrisposto agli enti anche per servizi effettivamente resi. Ad aggravare gli effetti di tale marchiana inesattezza è poi la circostanza che gran parte delle conclusioni cui giungono gli inquirenti appaiono o indimostrabili o sfornite di riscontri”. La triste storia di Riace che rende tutti più deboli di Goffredo Buccini Il Manifesto, 4 ottobre 2018 Il dibattito e le polemiche sull’arresto del sindaco che aiuta i migranti. Perché in uno Stato di diritto il fine non giustifica mai i mezzi. Con la sua ostensione della bontà ha spaccato l’Italia in due tifoserie. O, meglio, ne ha rafforzato divisioni già profonde. Sarebbe forse utile, invece, un approccio più pragmatico alla vicenda umana, politica e giudiziaria di Domenico Lucano, il sindaco di Riace agli arresti domiciliari nel paesino calabrese diventato, per opera sua, modello mondiale dell’accoglienza (e dunque assai osannato e assai vituperato). L’idea di fondo che ha mosso Lucano è molto difficile da contestare in buonafede. Fare leva sui migranti per ripopolare borghi deserti delle nostre montagne, soprattutto al Sud, è una scelta ormai diffusa e praticata dal sistema Sprar (lui ci arrivò in anticipo): e porta, al contrario della “sostituzione” paventata da alcuni, anche il rientro di molti ragazzi del posto, perché le cooperative sociali, come testimoniano pure tante storie narrate dal Corriere con Buone Notizie, creano reddito, lavoro, nuova imprenditorialità (si pensi a casi virtuosi come la rinascita di Petruro Irpino, protagonista la Caritas, o di Castel del Giudice, a opera di un sindaco riformista e di un imprenditore “olivettiano”): insomma, vita che ricomincia. La strada assai vitale imboccata dal sindaco di Riace, però, sembra virare a un certo punto verso un’altra direzione, creando nel tempo una specie di repubblica autonoma sulle montagne calabresi. I “bonus” come moneta parallela dei migranti (ora carta straccia nelle tasche dei negozianti), i laboratori solidali quali volano di lavoro (chiusi da tempo) sono ingegnose trovate che reggono solo con il sostegno dello Stato, in assenza del quale tornano mera utopia. E la gestione dei soldi pubblici può diventare dunque una ricca pignatta cui qualcuno, meno idealista di Lucano, può aver mirato. Del sindaco le carte mostrano, accanto a un grado quasi insostenibile di naïveté, una disinvoltura amministrativa spinta ben al di là dei fardelli penali e ben distante dall’immagine di economista prodigio che gli era stata ritagliata addosso per via ideologica. In uno Stato di diritto, inoltre, il fine non giustifica mai i mezzi, anzi, se i mezzi sono sbagliati pervertono il fine. Così l’idea di bypassare la legge per offrire ai migranti corsie preferenziali occulte si presta a ogni forzatura. La parte politica più vicina a Lucano si rallegra del fatto che siano cadute molte delle accuse mosse dalla Procura. Ed è comprensibile. Dovrebbe tuttavia preoccuparsi di quanta benzina diano alle tesi di Salvini l’uso opaco del danaro e il ricorso ai matrimoni combinati per mettere in regola le migranti. Lo scarso rispetto per i contraenti italiani di quei matrimoni, poveri fantocci paesani arruolati dal sindaco alla bisogna (il “piccolino” che non ha “mai visto una donna” e il “poverino” così stralunato da non ricordare nemmeno il nome della falsa promessa sposa) riesuma poi l’idea inquietante che per raddrizzare il legno storto dell’umanità poco importi quanto si debba sacrificare di ogni individuo, conta il disegno etico. Il gip ha scagionato da altre e più gravi accuse (concussione, associazione per delinquere, truffa) il sindaco con parole che però ne velerebbero il profilo di amministratore quand’anche nelle prossime ore fosse revocata o alleggerita la misura cautelare. Arrestandolo per i matrimoni combinati (dunque favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) e per la gestione dei rifiuti, ne fa un quadro sorprendente: dice cioè che Lucano tiene talmente in non cale la legge che, se restasse libero, continuerebbe nell’illecito anche sapendo di avere gli occhi di tutti addosso. Perché, aggiungiamo noi, certo di avere ragione. Invece, con buona pace di molta intellighenzia di sinistra, Lucano ha inferto - magari con le migliori intenzioni - al sistema dell’accoglienza da lui stesso propagandato nel mondo un colpo dieci volte più duro di quanto avrebbero saputo fare mesi di propaganda sovranista. Scegliere senza controllo né criteri oggettivi quale migrante aiutare va benissimo per un privato cittadino volenteroso ma apre voragini di ingiustizia sotto la scrivania di un sindaco. La solidarietà senza legalità diventa caos e arbitrio. Dalla storia di Riace, comunque vada a finire, usciamo tutti più deboli e più poveri. Mafie. Quegli amministratori sempre sotto tiro di Doris Lo Moro* La Repubblica, 4 ottobre 2018 All’inizio degli anni 90, dopo decenni di disattenzione che avevano prodotto, soprattutto in alcune zone del Paese, abbandono e marginalità, il Parlamento approva due leggi destinate a incidere profondamente sulla vita dei Comuni italiani: la legge n. 221 del 22 luglio 1991 che introduce l’istituto dello scioglimento dei consigli comunali e provinciali per “fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso” e la legge n. 81 del 25 marzo del 1993 che prevede l’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti delle province. Nell’epoca successiva, se non può certo dirsi che le cose siano cambiate radicalmente, non c’è però dubbio che quello che succede sul territorio diventa più leggibile per un verso per i numerosi decreti di scioglimento di Consigli comunali (289 dalla data di entrata in vigore della legge) e per un altro, di segno opposto, per le buone pratiche che si radicano in numerosi enti locali, su tutto il territorio nazionale, per opera di amministratori fortemente motivati dal mandato elettorale diretto, spesso operanti in rete, con il contributo fondamentale di associazioni storiche (Anci, Legautonomie) o di nuova istituzione (come Avviso Pubblico, una rete di enti locali nata nel 1996 per la promozione della cultura della legalità e della cittadinanza responsabile). Mentre si monitora l’applicazione della legge sullo scioglimento, più volte modificata, che non sembra in grado di fronteggiare in maniera efficace la pressione della criminalità organizzata sui governi locali, da Legautonomie Calabria parte l’allarme per un altro fenomeno in crescita, quello delle intimidazioni agli amministratori locali, gli “amministratori sotto tiro” a cui successivamente Avviso Pubblico dedicherà un rapporto annuale. Per indagare su questo fenomeno, su cui continuava ad esserci una incredibile sottovalutazione da parte delle Istituzioni, è stata istituita al Senato, nella XVII legislatura, in cui sono stata Senatrice, una commissione parlamentare d’inchiesta di cui sono stata prima proponente e poi Presidente. In realtà, la mia storia politica di Sindaco eletto nel 1993 in una città, Lamezia Terme, che usciva da uno scioglimento per infiltrazioni mafiose (e che peraltro ha subito successivamente due nuovi decreti di scioglimento nel 2002 e nel 2015) e di assessore regionale alla sanità sotto scorta nella legislatura apertasi in Calabria con l’omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale, Franco Fortugno, mi aveva messo tante volte davanti a interrogativi a cui era difficile dare delle risposte: che relazione c’è tra le infiltrazioni e le intimidazioni? Le intimidazioni sono di matrice mafiosa? Cosa succede dopo le intimidazioni? Gli amministratori minacciati sono sempre onesti? Conoscere il fenomeno serviva a trovare risposte e possibili rimedi da parte di uno Stato che doveva assumersi le sue responsabilità e tutelare gli amministratori onesti. Risultati dell’inchiesta. L’inchiesta, durata un anno, ha prodotto risultati apprezzabili. Con riferimento al periodo oggetto d’indagine (16 mesi) sono stati acquisiti elementi e dati su 1.265 atti intimidatori, registrati soprattutto nel Sud e nelle isole ma presenti anche nelle regioni centrali e settentrionali (con la sola eccezione della Valle d’Aosta, esente dal fenomeno). Significativi, in particolare due dati: solo per 182 episodi risultavano individuati i responsabili, ignoti per l’85,6 per cento del casi (dato su cui incide la scarsa collaborazione delle vittime, dovuta spesso alla difficoltà di individuare un movente per la vastità dell’azione amministrativa, che però produce sfiducia nei risultati delle indagini e genera a sua volta scarsa collaborazione) e solo nel 13,7 per cento dei casi è stata individuata una matrice mafiosa (nelle regioni più colpite vi è spesso un forte radicamento della criminalità organizzata che incide sul contesto sociale ed istituzionale, spesso degradato, più che sulle singole intimidazioni). A seguito dell’inchiesta, sono stati depositati quattro proposte di legge ed è stato istituito un Osservatorio permanente del fenomeno presso il Ministero dell’Interno. La proposta di legge più significativa, che raccoglieva la richiesta di maggiore tutela degli amministratori, è stata approvata ed è diventata legge (n. 105 del 2017). Non sono state create nuove figure di reato ma si è rafforzata la tutela degli amministratori, estendendo, in particolare, ai singoli componenti la tutela prevista dall’art. 338 del codice penale per i “corpi politici”. Questo amplia i mezzi di ricerca delle prove e consente misure (anche privative della libertà personale) prima non applicabili. Si rafforza la tutela degli amministratori onesti e, al contempo, si potenzia il contrasto delle collusioni e delle complicità, alle quali il mondo degli enti locali non è certo estraneo. Sotto alcuni profili l’indagine, che era finalizzata ad acquisire elementi di conoscenza e di valutazione del fenomeno delle intimidazioni agli amministratori locali, è andata oltre le aspettative. Gli omicidi. Il primo dato da sottolineare è quello relativo agli amministratori uccisi. Il tema è emerso sin dalle prime battute dell’indagine, nel corso delle audizioni di Legautonomia Calabria e di Avviso Pubblico. In mancanza di dati ufficiali, la Commissione si è posta l’obiettivo di ricostruire nomi e storie degli amministratori uccisi negli ultimi quarant’anni. La ricerca ha prodotto risultati impressionanti che erano stati sottovalutati anche perché non conosciuti nella loro effettiva entità. Sono stati 132 gli omicidi consumati dal 1974 in poi. Si tratta nella stragrande maggioranza di uomini, ma ci sono anche tre donne, l’età media non supera i 46 anni, appartenevano a tutti gli schieramenti politici e vivevano prevalentemente in regioni meridionali (Sicilia, Campania, Calabria). Si tratta di persone di cui spesso si è perso persino il ricordo. Per alcuni solo recentemente si è intitolata un’aula, una strada, un parco. Molte famiglie a distanza di anni chiedono verità su quanto accaduto. Contrariamente a quanto rilevato per le intimidazioni, in gran parte (nel 47 per cento, secondo i dati elaborati dalla Commissione) l’uccisone dell’amministratore locale è riconducibile a matrice mafiosa (come avviene per le intimidazioni e le minacce più gravi). La cifra oscura delle dimissioni. L’indagine sugli atti intimidatori ha riguardato necessariamente gli episodi denunciati o comunque rilevati dalle autorità preposte. Si tratta, pertanto, di un dato che non tiene conto degli episodi non disvelati. Nel corso dell’indagine, è emerso un elemento assai significativo: dietro le dimissioni (personali o collettive) di amministratori può celarsi un’intimidazione che ha ottenuto l’effetto di allontanare l’amministratore dalla gestione della cosa pubblica. Dalla documentazione acquisita sono emersi almeno 70 casi di dimissioni rassegnate negli ultimi quarant’anni a seguito di atti intimidatori; per 21 di tali casi alle dimissioni è conseguito lo scioglimento del consiglio comunale. Mentre era in corso il lavoro d’inchiesta, si è registrato un caso del genere, grazie alla testimonianza del Sindaco di un comune calabrese, i cui organi erano stati sciolti a seguito delle dimissioni dei consiglieri comunali (destinatari di minacce e di intimidazioni). Non sono in grado di sapere se l’Osservatorio presso il Ministero dell’Interno stia monitorando la situazione e se l’applicazione della nuova legge stia aiutando in maniera significativa le indagini. Certo è che il grado di consapevolezza raggiunto non consente il perdurare di disattenzione e sottovalutazioni. Alla data di audizione del Ministro dell’Interno dell’epoca da parte della Commissione (29 luglio 2014) erano attive 341 misure di protezione nei confronti di amministratori locali (8 misure tutorie ravvicinate ministeriali, 8 misure tutorie ravvicinate di competenza prefettizia, 322 misure di vigilanza generica radiocollegata e 3 misure di vigilanza dinamica dedicata). Un dispendio di energie e di risorse che non era riuscito a disvelare la gravità della situazione. Intanto, anche nel 2017 e nell’anno corrente i dati relativi ai decreti di scioglimento e alle intimidazioni continuano a crescere e varie indagini convalidano la necessità di verificare il comportamento degli amministratori, prima e dopo le minacce, per rafforzare la reazione e spezzare la solitudine degli amministratori onesti e, al contempo, per isolare e neutralizzare quelli che si consegnano ai clan o ne sono espressione. *Magistrato, già Presidente della Commissione monocamerale d’inchiesta sul fenomento delle intimidazioni agli amministratori locali Sanzioni amministrative “penali”, lex mitior applicabile direttamente Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2018 Tribunale di Bergamo - Sentenza 14 settembre 2018 n. 1851. Il Tribunale di Bergamo, sentenza 1851/2018 (in qualità di giudice d’appello) con una innovativa sentenza, applicando direttamente la legge comunitaria più favorevole, approvata in un momento successivo, ha confermato l’annullamento di una sanzione amministrativa nei confronti di una azienda di mangimi. Per il giudice unico Cesare Massetti, infatti, la natura particolarmente afflittiva della sanzione amministrativa la rendeva sostanzialmente di carattere “penale” facendo scattare la retroattività della legge posteriore più favorevole. La decisione ha così risolto positivamente la questione se le esportazioni di Proteine Animali Trasformate (P.A.T.) da parte di Ecb Company, sanzionate dall’Agenzia di tutela della salute di Bergamo con l’importo di circa 10mila euro, perché vietate ai sensi del Regolamento Cee 999/2001 vigente al tempo delle esportazioni, potessero considerarsi legittime in virtù di un’applicazione retroattiva del successivo Regolamento UE 27/2016. Accolta dunque la tesi della società secondo cui, nel caso concreto, sussistevano i cosiddetti criteri Engel che consentono, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale e Cedu, la retroattività della legge più favorevole nel sistema delle sanzioni amministrative. Il giudice di appello, dunque, senza sollevare incidente di costituzionalità, ha applicato il principio di retroattività della lex mitior e ha dichiarato la legittimità delle esportazioni di P.A.T. Secondo la IV Sezione civile infatti: “l’infrazione di cui si discute mira alla tutela di un interesse pubblico (la tutela del bene salute, se non l’interesse della pubblica economia), e la relativa sanzione (non meramente risarcitoria, ma afflittiva/preventiva/repressiva) è particolarmente elevata”. “Tanto basta per ritenere che si tratti di una norma convenzionalmente penale, con conseguente applicabilità del principio della retroattività della legge sopravvenuta più favorevole al trasgressore”. Di qui il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata. Per lo studio legale Masotti Berger Cassella che ha assistito la Srl si tratta di un decisione di “enorme rilievo che segna l’ingresso della giurisprudenza Cedu nel nostro ordinamento: per la prima volta, infatti, un giudice civile italiano applica direttamente il principio di retroattività della legge più favorevole nel campo degli illeciti amministrativi, senza passare per la Consulta”. Ritenute omesse, la condotta ripetuta osta alla “tenuità” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 43654/2018. Sforare di oltre il 5% la soglia di punibilità dei 10mila euro fissata per l’omesso versamento delle ritenute fa perdere l’impunità. La Corte di cassazione, con la sentenza 43654, torna sulla possibilità di applicare l’articolo 131-bis, sulla particolare tenuità del fatto, all’imprenditore che omette di versare le ritenute. E questa volta lo fa confermando la condanna a carico del ricorrente che aveva omesso un versamento di 10.568 euro. Per i giudici della terza sezione penale andare oltre la soglia del 5,68% è troppo. I giudici, pur ammettendo la contenuta gravità oggettiva della vicenda, valorizzano anche l’elemento dolo: l’imputato era a conoscenza dell’obbligo di pagare ma ha consapevolmente deciso di non versare il dovuto all’Inps. Un comportamento tenuto anche in passato, anche se mantenendosi sempre sotto il limite di rilevanza penale. Solo il 30 maggio scorso (sentenza 39413) era andata meglio al legale rappresentante di una società condannato sia in primo grado sia in appello ma assolto in Cassazione per un debito complessivo annuo di 11mila euro, e dunque di mille euro oltre il limite penale. Per la Corte d’appello i singoli versamenti omessi rappresentavano condotte plurime e reiterate tali la escludere la non punibilità. Di diverso avviso era stata la Cassazione secondo la quale l’articolo 131 bis del Codice penale, nel collegare alla causa di non punibilità l’abitualità del comportamento, si riferisce solo a condotte che sono reato di per sé, anche se singolarmente considerate. Per la Suprema corte la causa di non punibilità era applicabile in un’omissione che sforava la soglia legale di mille euro, considerando però tutti i versamenti non eseguiti nel loro complesso. A favore dell’imputato aveva giocato la non abitualità delle omissioni. È questo, infatti, il fil rouge che lega le sentenze della Cassazione sul tema, anche se oscilla l’ammontare degli sforamenti “tollerati” dal punto di vista penale. Con la sentenza 30882 del 2018, infatti, la Suprema corte ha negato l’articolo 131-bis all’amministratore di una Srl per un anno in cui l’importo mancato era di 10.728 euro. Un no giustificato con la reiterazione delle omissioni per tre annualità. In linea di massima resta valida l’indicazione data dalla Suprema corte con la sentenza 14595/2017, con la quale si è ribadito un principio di diritto in materia di reati tributari relativo allo sforamento delle “soglie”. In quel caso, relativo a un omesso versamento Iva, per un importo complessivo pari di 254.345, con uno sforamento di 4.345, ha negato la norma di favore del 131-bis, considerandola applicabile solo quando l’omissione é vicinissima alla soglia di punibilità. Ma non basta, come sembrerebbe, che il danno sia esiguo, quasi irrilevante, se il comportamento è abituale. Lazio: il Garante dei detenuti audito in Consiglio regionale su tragedia Rebibbia quotidianosanita.it, 4 ottobre 2018 “Sanità in carcere deve essere più tempestiva e presa in carico più sollecita”. Audizione in Consiglio sul caso della detenuta che il 19 settembre ha ucciso i due figli piccoli lanciandoli dalle scale. Per il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, una soluzione alternativa alla detenzione della donna doveva esserci, considerato che “prima della tragedia c’erano 16 bambini nel nido femminile di Rebibbia, mentre oggi apprendiamo che ce ne sono solo sei”. E sulla richiesta di visita psichiatrica per la donna, “dobbiamo far sì che i servizi sanitari in carcere abbiano una capacità di tempestività di intervento e di presa in carico più sollecita”. Audizione congiunta, nei giorni scorsi, in Consiglio regionale del Lazio, tra la prima e la settima commissione sul caso della detenuta tedesca Alice Sebesta, che il 19 settembre, nel carcere di Rebibbia, ha ucciso i due figli di sei e diciannove mesi di età. Sono intervenuti il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, e Gianni Vicario, dirigente della Direzione regionale salute e integrazione sociosanitaria. Una nota dell’ufficio stampa del Consiglio spiega che il presidente della commissione Affari istituzionali, Rodolfo Lena, e quello della commissione politiche sociali, Giuseppe Simeone, hanno convocato l’audizione congiunta su sollecitazione di alcuni consiglieri regionali, tra cui Michela Di Biase (Pd), intervenuta a inizio seduta per spiegare i motivi della richiesta. “Capire che cosa possiamo fare come Consiglio regionale all’interno del quadro normativo vigente e se c’è la possibilità, visto che andiamo incontro alla discussione sul Bilancio regionale, di poter dare un contributo per evitare che accadano ancora casi come questo”, ha detto la consigliera segretaria dell’Ufficio di presidenza. Il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, ha parlato di “caso unico nella storia penitenziaria, mai successo, che deve particolarmente allarmarci e sollecitarci a verificare cosa non ha funzionato, non tanto per cercare responsabilità individuali, quanto per individuare alcuni meccanismi che non funzionano”. Secondo il Garante, ci sono diversi ordini di responsabilità. “Una - ha detto - attiene al fatto stesso che questa donna, madre di due bimbi così piccoli, fosse in carcere, misura prevista dal Codice solo in fattispecie eccezionali, mentre nel caso specifico sappiamo che due coimputati erano in libertà provvisoria al momento della tragedia”. “In questo caso - ha aggiunto il Garante - dobbiamo considerare discutibile la scelta operata, anche perché prima della tragedia c’erano 16 bambini nel nido femminile di Rebibbia, mentre oggi apprendiamo che ce ne sono solo sei, perché sono state trovate soluzioni alternative dai magistrati di sorveglianza e dai giudici. Questo dimostra che anche uno sforzo dell’Autorità giudiziaria può evitare che si verifichino circostanze come questa”. La seconda questione, a giudizio di Anastasia, riguarda i venti giorni di carcerazione di Alice Sebesta con i suoi figli e attiene alle valutazioni scaturite dalle visite psicologiche effettuate sulla detenuta per vagliare lo stato mentale e le possibilità di compiere gesti autolesionistici. Secondo il Garante risulta la richiesta di una ulteriore visita psichiatrica di approfondimento che però non è stata effettuata. “Noi tutti - ha precisato - dobbiamo far sì che i servizi sanitari in carcere abbiano una capacità di tempestività di intervento e di presa in carico più sollecita”. Infine, Anastasia ha posto l’accento sul problema delle alternative al carcere, la possibilità cioè di avvalersi di strutture esterne che possano ospitare persone detenute che non hanno domicilio idoneo o, come in questo caso, in presenza di bambini. Dopo l’intervento del Garante dei detenuti, si è sviluppato un ampio dibattito, soprattutto sulle ultime due questioni poste. “I consiglieri regionali - riferisce la nota - hanno garantito l’impegno a intervenire per migliorare sia l’aspetto sociosanitario che quello delle alternative alla detenzione in carcere in casi particolari, ricordando anche che alcune cose sono già state fatte, come l’approvazione della delibera per la creazione dell’osservatorio regionale per la salute in carcere, che però non è stato ancora convocato. La Regione Lazio - è stato detto - ha anche stanziato fondi per la mediazione culturale in carcere, assegnati ai distretti sociosanitari, ma che non sono stati ancora utilizzati perché, come ha ricordato anche Anastasia, i Comuni non hanno ancora ricevuto le linee guida per il loro utilizzo”. In chiusura di seduta, il presidente Lena ha elencato una serie di iniziative che le due commissioni possono mettere in campo per dare risposte immediate alle criticità emerse dall’audizione. “Sulla mediazione culturale - ha detto - dobbiamo capire se dare risorse ai distretti sociosanitari sia stata una cosa intelligente o se invece sia più opportuno trovare soluzioni alternative e più immediate. Sul potenziamento delle strutture di accoglienza alternative al carcere - ha proseguito Lena - pur sapendo che non siamo noi a decidere dove debbano andare i detenuti, possiamo però aumentarle, offrendo così un’opportunità in più a chi deve farlo. Questo lo possiamo fare insieme immediatamente nel prossimo Bilancio. Infine - ha concluso Lena - occorre verificare qual è la situazione del personale medico, visto che da due anni è passata alla Regione la competenza delle cure sanitarie nelle carceri, per capire quanti medici operano e quanti altri ne servono, sollecitando Asl e direzione regionale a fare bandi specifici”. Proseguendo la sua attività di approfondimento delle cause che hanno provocato la tragedia di Rebibbia, i due presidenti, con una rappresentanza di consiglieri, si sono poi recati all’istituto penitenziario di via Tiburtina per un sopralluogo istituzionale al settore maschile, quello con una popolazione più numerosa. “Nel corso dell’incontro - riferisce la nota del Consiglio - sono emerse molte delle criticità affrontate nel corso dell’audizione mattutina. In particolare ci si è soffermati sulle condizioni dei reparti destinati ai detenuti bisognosi di cure e assistenza medica e infermieristica. Il numero insufficiente di personale è certamente l’emergenza più evidente”. “Alta è la richiesta di macchinari diagnostici e di specialisti, come ad esempio gli psicologi, a fronte di un numero crescente di detenuti con problemi psichici e disagi mentali. Il periodo di osservazione di trenta giorni previsto di norma per questi ultimi in un’aula dedicata di Rebibbia, non è apparso ai consiglieri una misura sufficiente, da sola, a recuperare situazioni difficili che meriterebbero ulteriori approfondimenti”, riferisce la nota. Attenzione puntata anche alla fruibilità effettiva dei luoghi di aggregazione e allo stato dei servizi igienici a disposizione. Il carcere attualmente ospita circa 1.500 persone, con una capienza stimata di 900 unità. Venezia: in carcere un giardino per i detenuti e le famiglie di Daniela Ghio Il Gazzettino, 4 ottobre 2018 Con la piantumazione di una pianta di lavanda da parte di un detenuto e del suo bambino è stato ufficialmente inaugurato ieri nel carcere di Santa Maria Maggiore il nuovo giardino degli incontri dei carcerati con le loro famiglie. Un progetto iniziato otto anni fa, quando i volontari dell’associazione Rio Terà dei Pensieri e Veritas avevano liberato gratuitamente lo spazio verde dai materiali di risulta della ristrutturazione del carcere e proseguito negli ultimi anni grazie all’impegno dell’associazione La Gabbianella e altri animali con il progetto Lavorare per i propri figli e fondi regionali. A presentare il nuovo spazio verde per gli incontri alla città sono stati Imma Mannarella, direttrice del carcere circondariale Santa Maria Maggiore, Carla Forcolin, presidente dell’associazione La Gabbianella, Andrea Bertoldini, presidente di Confartigianato Venezia, Gianni De Checchi, segretario di Confartigianato Venezia, l’architetto Athos Calafati, estensore del progetto e gli artigiani di Confartigianato Venezia che lo hanno reso possibile: Francesco Busatto (Impresa Edile), Matteo Busolin (Impresa Edile), Ivan Tosi (Elettricista), Alessandro Goattin (Lattoniere), Luca Convertino (giardiniere). “Imparare un lavoro, imparare per dare e rinascere può diventare una porta verso la libertà, anche cominciando da dentro un carcere - ha detto Mannarella. Il progetto nella sua realizzazione, ha previsto un semplice ma complesso percorso formativo, sia manuale che umano, per i detenuti. Un percorso che, grazie alla collaborazione degli artigiani della Confartigianato Venezia ha visto insegnare loro i rudimenti di alcune tra le più nobili arti artigiane come il mestiere di muratore, lattoniere, elettricista e giardiniere”. “Abbiamo sempre cercato di fare qualcosa per i bambini, è importante che abbiano un luogo dove venire e vedere le cose preparate dai papà - ha spiegato Forcolin.Trattandosi di un percorso formativo ma anche educativo e concreto, come materia prima dove concretizzare gli insegnamenti abbiamo perciò usato gli spazi interni al carcere, quelli usati per fare incontrare i detenuti con i loro figli e familiari”. Duplice lo scopo di questo progetto, dare ai carcerati la possibilità di imparare un lavoro che li aiuti a reinserirsi nella società e far creare dalle loro mani e dal lavoro imparato, un luogo più bello e curato dove accogliere i propri affetti, il tutto seguendo la logica che il prendersi cura delle cose comuni, il donare uno spazio più bello può aiutare a uscire nel vortice di una mentalità criminale che vuol sopraffare e insegnare l’altruismo e il rispetto delle regole della società. “Da 75 anni operiamo sul territorio veneziano - ha affermato De Checchi, è nostro dovere dare solidarietà, rendendo le pene utili per la riabilitazione”. Napoli: il progetto che insegna ai ragazzi a vivere la legalità Askanews, 4 ottobre 2018 Gli studenti al lavoro in fondo confiscato alla mafia. Insegnare ai ragazzi che legalità non è un concetto astratto ma una buona pratica messa in campo ogni giorno da tante realtà positive che non sempre trovano spazio e voce per raccontare le loro storie. È l’obiettivo di “Vivere la legalità”, progetto che coinvolge l’Istituto alberghiero Isabella d’Este Caracciolo, del quartiere Sanità a Napoli, come spiega Marcella Vulcano, vicepresidente Advisora che gestisce insieme a Meridonare la campagna di crowdfunding per sostenere l’iniziativa. “L’idea è quella di una rivoluzione culturale, di far conoscere ai giovani la realtà dei beni confiscati e l’utilizzo virtuoso di questi beni, cosa significa fare economia sociale”. I ragazzi seguiranno lezioni di economia, marketing, e poi si metteranno al lavoro piantando limoni e seguendo il processo fino alla trasformazione dei loro frutti in un limoncello di qualità. Tutto all’interno del fondo “Amato Lamberti”, primo bene agricolo confiscato alla mafia a Napoli e gestito dall’associazione (R)esistenza anticamorra, presieduta da Ciro Corona. Dal 2012 siamo qui a gestirlo creando opportunità lavorative per i detenuti. Attualmente ce ne sono 11, finalmente un luogo dove chi non ha avuto possibilità di scegliere da qui può dare una sferzata al proprio futuro. Milano: il design entra a San Vittore per migliorare le celle dei detenuti di Zita Dazzi La Repubblica, 4 ottobre 2018 Sedie componibili, barra multifunzione, tavolo a scomparsa: così lo spazio quotidiano diventa meno claustrofobico. In carcere, nelle celle da 9 metri quadrati, ci si siede sui letti. Gli sgabelli servono per appoggiare le cose, gli abiti. Non c’è spazio per camminare, né per fare altro. Se uno cucina, l’altro legge in bagno, dove peraltro poi si lavano i piatti. Ma questa difficile quotidianità potrebbe finire un giorno, se gli spazi fossero riorganizzati e arredati secondo il modello “Stanze sospese” che verrà presentato domani a San Vittore, il carcere che ospita il prototipo di cella ripensata da un gruppo di designer volontari, che ha arredato anche gli spazi dell’Icam, l’istituto dove stanno le mamme detenute con i loro bambini. Il progetto piace anche al direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano: “Vorremo ripensare il luogo dove le persone stanno gran parte della giornata, migliorando l’ambiente, col concetto del riciclo, che è anche la filosofia della struttura. Per ora è una sperimentazione, da valutare quanto sia realizzabile concretamente e in quali tempi”. Tutto è nato un anno al carcere di Opera, col sostegno della Fondazione Allianz. La cella non cresce in metratura, ma è come se lo facesse. C’è una seggiola che soddisfa quattro attività (sedere, studiare, socializzare, svagarsi), inglobando un tavolino in cui è incisa mezza scacchiera. Una seduta classica, se inforcata a cavalcioni, dove si potrà comodamente leggere, mangiare, fare piccoli lavoretti. Se poi due seggiole si incontrano, la scacchiera si completa e questo favorisce momenti sociali. C’è una barra che diventa un sistema aperto con ganci e pioli: appendiabiti, scaffale aperto con angolo cottura, un posto dove mettere piatti e stoviglie. Il detenuto può aggiungere un manico di scopa o un gancio e ampliare il sistema. Il tavolo può “scomparire”, lasciando liberi qualche decina di centimetri per muoversi. Così lo spazio claustrofobico può prendere un ordine, essere personalizzato. Il progetto è stato presentato anche al Fuorisalone 2018 con un’installazione promossa da 5VIE art+design nelle cantine del Siam, dove sono state riprodotte una cella del carcere di Opera e una allestita con i prototipi dei nuovi arredi in plastica riciclata, prodotti nelle falegnamerie sociali e nel laboratorio Arteticamente di Sacra Famiglia e del Polo formativo Legno Arredo. Perché sono in tanti a collaborare a questo progetto realizzato da giovani designer per “dare dignità al soggiorno di detenzione, favorire l’acquisizione di nuove competenze mediante lavoro, studio, gioco e bricolage. Un nuovo cammino, nella legalità”. Palermo: al carcere Pagliarelli lavori per riqualificare spazi di incontro con i famigliari palermotoday.it, 4 ottobre 2018 A darne notizia è Vincenzo Figuccia, parlamentare dell’Udc all’Ars: “Si sblocca finalmente un progetto che ridisegna totalmente gli spazi e le modalità di accoglienza per centinaia di parenti e bambini che ogni giorno varcano i cancelli”. “Esprimo soddisfazione per l’avvio dei lavori di riqualificazione degli spazi destinati all’attesa dei familiari alla casa circondariale Pagliarelli”. A parlare è Vincenzo Figuccia, parlamentare dell’Udc all’Ars che prosegue: “Una riqualificazione conforme alla Risoluzione del Consiglio d’Europa e alla mozione che ho presentato nelle scorse settimane”. Determinante sembra essere stato l’incontro del deputato regionale con la direttrice Francesca Vazzana e il provveditore dell’amministrazione penitenziaria Giancarlo De Gesu. “Dopo le criticità e i disagi rappresentati in occasione di più interlocuzioni con la dottoressa Vazzana e recentemente evidenziati al convegno “Oltre le sbarre” tenutosi lo scorso 13 settembre all’Ars - dice Figuccia - si sblocca oggi un articolato progetto che ridisegna totalmente gli spazi e le modalità di accoglienza e che presto assicurerà spazi idonei a centinaia di parenti e bambini che ogni giorno varcano i cancelli del Pagliarelli per far visita al proprio congiunto. Oggi è partito il cantiere e domani, alle 12.30 mi recherò in sopralluogo sul posto con la direttrice e il provveditore per verificare l’andamento dei lavori e fare il punto”. Firenze: la Rems di Empoli sarà operativa entro la prossima primavera controradio.it, 4 ottobre 2018 Franco Corleone, ieri in visita alla Rems di Empoli, ha affermato che la struttura sarà operativa entro primavera. Entro dicembre sarà pronto sia il primo piano con nove stanze singole sia la parte del piano terreno dedicata alle zone per la socialità, la mensa e gli studi medici, entro primavera poi “dovrebbe essere operativa a tutti gli effetti per rispondere alle richieste di misure di sicurezza non ancora eseguite e alleggerire il carico di detenuti di Volterra”. È quanto spiega il garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone che ieri ha visitato la piccola struttura che ospiterà le persone con problemi psichiatrici sottoposte a misure di sicurezza, nell’ex carcere femminile di Empoli. La struttura a regime, si spiega, ospiterà 20 persone e offrirà ampi spazi esterni per attività agricole e ricreative. “I lavori del primo lotto - ha detto Corleone - iniziati a maggio 2018 sono stati più onerosi del previsto a causa della situazione di degrado generale dell’immobile. Non è stato sufficiente quindi il progetto di riconversione ma sono stati necessari interventi profondi per rifare sia l’impianto idrico che di riscaldamento”. “Il mio suggerimento - ha aggiunto Corleone - è che vengano smantellate tutte le inferriate alle finestre e che si faccia al più presto il bando per l’appalto del secondo lotto di lavori che riguarda la restante parte del piano terreno adibita a 11 persone (9 uomini e 3 donne)”. Torino: riapre il bar del tribunale, anche detenuti tra i camerieri La Repubblica, 4 ottobre 2018 Contratto di sei anni a partire dal 22 ottobre. L’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo penserà al menu, il caffè arriverà dalla Torrefazione del carcere delle Vallette. È prevista per il 22 ottobre la riapertura del bar del Tribunale di Torino, chiuso dalla primavera scorsa dopo essere finito al centro di un’inchiesta sull’appalto. Lo scorso luglio il Comune e un raggruppamento temporaneo di imprese costituto da “Liberamensa” e “Consorzio sociale Abele lavoro” hanno sottoscritto un contratto di concessione di sei anni. Nel bar verranno impiegati una decina di detenuti ed ex detenuti, nell’ambito di un progetto di reinserimento e accompagnamento della società. “Una scommessa interessante - commenta Piero Parente, presidente di Liberamensa - un progetto unico in Italia”. L’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo penserà all’offerta gastronomica, mentre il caffè arriverà dalla Torrefazione del carcere di Torino. Ci sarà un angolo dove spillare birra artigianale, prodotta dai detenuti di Saluzzo, e un angolo panetteria con le lavorazioni di “Farina nel sacco”, marchio di ‘Liberamensà. In Tribunale, il servizio di ristorazione manca da quasi due anni: il punto di ristoro era finito al centro di un’indagine che aveva portato all’arresto di sette persone per corruzione, turbativa d’asta e truffa aggravata ai danni del Comune. Torino: lavoro in carcere, criticità e prospettive di Marcello Longhin comune.torino.it, 4 ottobre 2018 Gian Luca Boggia è il presidente di Extraliberi, Cooperativa che si occupa di lavoro all’interno della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino e della gestione del negozio freedhome che commercializza prodotti provenienti dalla carceri di tutta Italia. Ieri mattina Boggia è intervenuto durante una seduta congiunta delle commissioni “Legalità”, “Pari opportunità” e “Lavoro e Commercio” per raccontare l’esperienza del lavoro in regime di detenzione, le criticità e i margini per ottenere risultati confortanti. Boggia è partito dai dati: su una popolazione carceraria di quasi 60mila detenuti, solo il 30% è impegnato in un lavoro quotidiano. Se poi si escludono i lavori non qualificanti, svolti in turni trimestrali alle dipendenze dirette dell’amministrazione (consegna posta, distribuzione pasti, pulizie) sono solo mille i detenuti che lavorano presso aziende o cooperative esterne. Quasi tutti in Lombardia e Veneto. Poi c’è Torino, un percorso virtuoso grazie al succedersi di direttori “illuminati” (definizione di Boggia) che si attivano per incentivare il lavoro e diminuire l’ozio, sfruttando la disciplina che il legislatore ha voluto fornire con una Legge apposita, diciotto anni fa. Produzione di caffè e pane, lavanderia e stireria industriale, sartoria, stampa, falegnameria, sono le principali attività svolte da quaranta detenuti, selezionati dagli operatori in base a caratteristiche ben precise che hanno a che fare con i requisiti personali ma, anche, con la durata e la tipologia della pena da scontare. Sette le aziende che investono su queste attività: formazione e lavoro che permettono riscatto, autonomia, dignità. Nella costante lotta contro la “recidiva” (il commettere nuovamente un reato, una volta tornati in libertà) il lavoro garantisce, dati alla mano, di scendere dal 65/70% fino al 10. Soprattutto quando al lavoro vengono associati il regime di semilibertà e la possibilità di svolgere quel lavoro al di fuori delle mura del penitenziario. Impiegare il proprio tempo in modo produttivo, conoscere modalità di lavoro vero (non in nero e non illegale) aiutano il reinserimento nella società. E alla società di risparmiare: il sistema penitenziario costa alla comunità tre miliardi l’anno. Milano: Susanna Magistretti, che ha portato la bellezza del verde nel carcere di Bollate di Gian Basilio Nieddu greenews.info, 4 ottobre 2018 Una “giardiniera” del verde, con laurea in storia moderna e 10 anni nel mondo della pubblicità come copy, che oggi dialoga con sociologi, botanici e psicoanalisti per portare il bello in carcere. Missione riuscita e suggellata dal riconoscimento del premio Terres Des Femmes, assegnato dalla Fondazione Yves Rocher alle donne che, a livello internazionale, si distinguono nella tutela dell’ambiente e della salute. Lei è Susanna Magistretti, presidente di Cascina Bollate, la cooperativa sociale che ha fondato nel 2007 per il reinserimento dei detenuti del carcere di Bollate. Susanna è una donna che ha seminato bene e con coraggio. Ha abbandonato terrazze e giardini milanesi per rigenerare spazi urbani “gestiti” da tossicodipendenti in cura e poi, come dice lei, ha iniziato “a bazzicare galere”. Correva l’anno 1998. Tanta pratica preceduta dalla teoria, merito della formazione offerta in un corso della Fondazione di Francia, Jardin d’aujord’hui. “Ero stufa dell’aspetto estetico di terrazze e giardini - ci racconta - e ho iniziato a studiare un fenomeno più estremo: il reinserimento sociale di alcolisti e tossicodipendenti. Era il 1997. Ho approfondito le conoscenze con sociologi, botanici e psicanalisti. Un tema estremamente formativo”. Magistretti varca di nuovo la frontiera francese e ritorna a casa ricca di idee: “In Italia ho pensato di fare delle proposte, una è passata: ho iniziato a lavorare all’interno di un SerT (Servizi per le Tossicodipendenze, NdR) di Milano, anche perché il responsabile della struttura mi conosceva per il mio lavoro precedente di copy sul tema Aids. Ho iniziato a titolo volontario con i tossicodipendenti che andavano al SerT a prendere il metadone. Un giardinetto minuscolo, ma al centro di Milano”. In queste poche zolle di terra il vento gonfia le vele di questo rivoluzionario progetto. Funziona. Il giardino conquista pure “la sciura che chiede le bustine dei semi”. “Detta così sembra una cosa folcloristica - spiega Susanna - ma è stato un passaggio molto profondo. Un posto assolutamente marginale da cui si girava alla larga è diventato un luogo dove si coltivava il bello! Davanti alla bellezza le persone se ne fregavano dei tossici. Andava bene così”. Un esempio concreto di rigenerazione urbana, in anni in cui il termine non era ancora di moda tra urbanisti, architetti e funzionari della pubblica amministrazione e tantomeno tra i politici. Prima di quella trasformazione con forbici, guanti e pollice verde il SerT era solo una desolante “distesa di boccettine di metadone”. Il progetto di Susanna rigenera non solo il luogo ma anche le persone: “Persone che avevano perso tutto o forse non avevano avuto tutto dalla vita…”. Susanna non si ferma e da quel momento migra verso vari carceri. “Nel 2004/5 sono andata a Bollate dove ho visto delle improbabili serre con ciclamini e cipolle di Tropea. Sono stata chiara fin da subito: se volete sviluppare lavoro per i detenuti sappiate che i ciclamini li vendono più belli all’Esselunga, idem per le cipolle di Tropea”. Il progetto, sotto la sua guida, prende quindi un sentiero diverso, orientato ad erbacee perenni e rose antiche. “Ho lavorato con amici vivaisti, ho sputato sangue, ne sputiamo ancora (ma molto meno). Solo fiori ed arbusti. Vendiamo l’infinita varietà possibile in natura. Il concept risponde al tentativo di aprire una relazione amichevole tra uomo e natura, non seguire il fiorire continuo, come il modello mucca da latte”. E l’orto? “È stata una catastrofe, bello ma non c’era sincronia commerciale. Avevamo i pomodori, ma non c’era nessuno che li voleva a fine luglio e non avevamo neanche il frigo per lo stoccaggio”. Botanica sociale, dunque? “Il tema del sociale in agricoltura, come il biologico, è una relazione forte ed amichevole. Una strada da percorrere sempre, in generale, e in particolare con persone in difficoltà. Il verde fa bene ma quando c’è un’idea di bellezza: Io che sono stato sfigato - pensa il detenuto - ho una parte buona in me, che mi viene riconosciuta perché coltivo il bello ed il buono. Un’idea che non è semplicemente estetizzante”. Il futuro per Susanna è già oggi e le basta. “Intendo perpetuare il presente, non ho progetti di allargamento - anche perché non tira aria politica buona verso i detenuti. Manteniamo il presente”. Sul riconoscimento di Terres Des Femmes ci tiene a dirci che si era sbagliata: “Mi ha colpito, ho pensato all’inizio che fosse la solita marchetta aziendale, invece sono molto seri. La responsabilità ambientale in un ‘azienda così grande mi ha stupito ed è un’esperienza, al di là dei quattrini, di cui sono molto grata.” I 10.000 euro del premio li ha utilizzati infatti per la ristrutturazione del Giardino Didattico del carcere, dove ora i detenuti apprendono il mestiere del giardiniere. Genova: il teatro del carcere di Marassi apre le porte alla città telenord.it, 4 ottobre 2018 Sono 9 gli spettacoli in programma tra l’autunno e la primavera: si parte il 13 ottobre con la Banda di Caricamento. La prima rassegna di musica e teatro civile Voci dall’Arca si articola in due sezioni distinte. La prima, “Voci dall’Arca - note d’autunno”, che si svolgerà nei mesi di ottobre e novembre 2018, prevede sei concerti, la seconda, “Voci dall’Arca - parole di primavera”, che si svolgerà nei mesi di aprile e maggio 2019, prevede cinque spettacoli di teatro civile per un totale complessivo di 11 eventi e 26 repliche. La maggior parte degli eventi si svolgeranno presso Il Teatro dell’Arca, dal quale la rassegna prende il nome, collocato nell’intercinta della Casa Circondariale di Genova - Marassi, altri, grazie alla collaborazione con il Teatro Nazionale di Genova, si svolgeranno presso il Teatro della Corte e il Teatro Duse. Il principale obiettivo della Rassegna è quello di portare la società civile nel carcere e le voci del carcere oltre le mura grazie ad una programmazione che “sdogani”, per i temi trattati e le caratteristiche degli interpreti, il teatro del carcere dal contesto detentivo per aprirlo al territorio e a nuovi pubblici. “Per la prima volta il Teatro dell’Arca presenta non uno spettacolo ma un vero e proprio cartellone per il teatro del carcere: musica d’autunno e rappresentazioni in primavera, un unicum in Italia che dimostra come la cultura possa essere un fattore di inclusione sociale - commenta Ilaria Cavo, assessore alla Cultura di Regione Liguria. Il progetto porta all’interno delle mura del carcere di Marassi una serie di spettacoli e concerti che aprono uno squarcio nella vita carceraria dei detenuti, una iniezione di vitalità fondamentale per dare spunti di riflessione e stimoli culturali tanto ai detenuti quanto al pubblico esterno, che potrà entrare all’interno del teatro del carcere. Allo stesso tempo, porta fuori, a contatto con il pubblico, il teatro carcerario, creando un punto di contatto tra i detenuti e la cittadinanza. In questo modo il teatro diventa veramente uno snodo, un punto di congiunzione e scambio tra il carcere e la città. Iniziative di questo tipo rappresentano al meglio quello che intendiamo per inclusione sociale. Non a caso tutto questo è stato possibile anche grazie a corsi di formazione attivati da Regione Liguria sull’asse “Inclusione sociale” del Fondo sociale europeo: in questo modo una quarantina di persone hanno potuto frequentare corsi di scenotecnica e recitazione. Il risultato rafforza la convinzione che i progetti culturali possano continuare, anche in futuro, a rappresentare un fattore di inclusione e quindi essere destinatari di finanziamenti specifici dell’Fse”. I concerti, gli spettacoli e gli eventi collaterali scelti per questa prima edizione della rassegna sono innanzitutto accomunati dall’idea di mettere insieme un cartellone che, pur connotandosi per un elevato livello artistico, non trascuri le contaminazioni di genere e le integrazioni con artisti e operatori che muovono i loro passi al di fuori dei circuiti ufficiali. La rassegna prevede due spettacoli in scena presso le sale del Teatro Nazionale di Genova: la nuova produzione della Compagnia Stabile della Casa Circondariale di Marassi Scatenati “L’isola dei Sogni”, che debutterà al Teatro della Corte dal 9 al 14 aprile 2019, e lo spettacolo “Il figlio della tempesta” della Compagnia della Fortezza di Volterra, in scena al Teatro Duse il 16 aprile 2019, un progetto molto speciale che vedrà in scena, in una rete fatta di parole, presenze e musica, Armando Punzo, Andrea Salvadori e alcuni attori detenuti della Compagnia per celebrare i 30 anni della Fortezza. La Rassegna, attraverso una programmazione di spettacoli ricchi di implicazioni sociali e civili, si prefigge inoltre di promuovere cultura, inclusione sociale ed educazione alla legalità utilizzando il teatro come un “ponte” tra la popolazione detenuta e la cittadinanza attiva. Per questo motivo, per ogni spettacolo in programma, è anche prevista una replica dedicata alla popolazione detenuta, nell’ottica di sviluppare un percorso articolato di educazione alla teatralità e di formazione alla visione. La Rassegna è stata realizzata in stretta collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Genova - Marassi ed è il risultato del consolidamento pluriennale della collaborazione con il Teatro Nazionale di Genova, l’Istituto Vittorio Emanuele II- Ruffini, l’Associazione Fuoriscena e, per la prima volta, in sinergia con Echo Art ed Eutopia Ensemble. Airola (Bn): l’esperienza di un laboratorio rap nel carcere minorile linkabile.it, 4 ottobre 2018 Si è tenuto ieri presso l’Istituto minorile di Airola il saggio conclusivo del laboratorio “La musica a colori”, un laboratorio di rap interessante e innovativo. È stato un momento di condivisione e di forti emozioni, che ha visto protagonisti alcuni dei ragazzi ristretti, che, con l’aiuto e la partecipazione di diverse associazioni e professionisti, hanno scelto di portare sul palcoscenico canzoni scritte da loro, scegliendo il genere rap come strumento di denuncia. L’impegno dei ragazzi è stato ripagato dalle parole spese da diverse figure istituzionali lì presenti, come il sindaco di Airola Michele Napoletano, l’assessore alle Politiche Sociali giovanili di Napoli Alessandra Clemente, che, con il suo intervento toccante, ha ricordato la figura della madre alla quale è dedicata la biblioteca della struttura penitenziaria e ha preso parola anche il Presidente del Tribunale per i Minorenni di Napoli Patrizia Esposito. Sul punto sono interventi anche il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello: “Ho trovato particolarmente interessante ascoltare canzoni scritte direttamente dai ragazzi ristretti ad Airola, che racchiudevano storie di vita vissuta. Hanno permesso a noi spettatori attenti di poterne percepire l’emozione. Questa rappresentazione ha messo in evidenza come all’interno degli istituti penitenziari questi ragazzi abbiano la possibilità di sperimentare valori e ideali e di mettersi in gioco, cosa che al di fuori non gli è stata consentita. Nell’istituto i ragazzi, infatti, hanno la possibilità di studiare, di formarsi, di individuare i loro interessi e di comprendere il significato della genitorialità”; il Direttore dell’Istituto minorile di Airola, Dario Caggia: “I contesti urbani di provenienza di questi ragazzi li considerano delinquenti, ma oggi, su questo palco, ho visto solo ragazzi talentuosi con tanta voglia di reagire”. Infine, efficaci e riassuntive sono state le parole della Dirigente del Centro Giustizia Minorile della Campania, Maria Gemmabella: “Non fatevi derubare della vostra vita. Abbiate il coraggio di difendere e proteggere la vostra libertà”. Ad Airola il primo laboratorio di espressione rap risale al 2010, ed è diventato, visto il riscontro positivo avuto tra i ragazzi, un appuntamento fisso. Ad allietare la manifestazione in carcere c’è stato anche il noto Rap Scarrafone, che si è esibito portando sul parlo alcuni suoi brani con i ragazzi ristretti. Spiragli. Rivista del Polo Penitenziario Universitario Toscano Ristretti Orizzonti, 4 ottobre 2018 Nel 1997, grazie all’Associazione Volontariato Penitenziario - AVP Onlus, nasce all’interno dell’Opg di Montelupo Spiragli, un giornale che aveva lo scopo di dare la voce al desiderio di esprimersi e di comunicare di alcuni internati. Spiragli, sotto la guida di AVP e del giornalista Ric-cardo Gatteschi è stata, nella categoria del giornalismo penitenziario, l’esperienza più longeva e ha interrotto la sua attività solo in ragione della chiusura dell’Ospedale psichiatrico avvenuta nel 2015, in ottemperanza alla Legge n.81 del 2014. All’inizio del 2017 il professor Antonio Vallini, in veste si delegato del rettore al Polo Universitario Penitenziario dell’Ateneo di Firenze e in accordo con AVP, inizia a sviluppare l’idea di una rivista del Polo Penitenziario toscano destinata a comunicare il valore della presenza dell’Università in carcere e, contemporaneamente, a diffondere, attraverso i contributi degli studenti detenuti e dei lo-ro professori e tutors, alcune testimonianze della efficacia di tale presenza. Maria Grazia Pazienza, attuale delegata del Rettore dell’Università di Firenze, continua il progetto di Antonio Vallini e nel 2018 Spiragli rinasce come Rivista del Polo Penitenziario Universitario Toscano in forma di periodico quadrimestrale con tre uscite annuali. L’obiettivo principale è quello di incoraggiare e diffondere lo studio in carcere, facendo conoscere la rilevanza che lo studio e la cultura rivestono nella quotidianità della persona reclusa e, contemporaneamente, come questa attività e impegno sia condizione per poter costruire o mantenere vive le risorse cognitive, culturali, sociali utili a un più facile rinserimento nella società. Attraverso il racconto di esperienze e riflessioni maturate all’interno delle istituzioni si vuole sottolineare la possibilità per la persona ristretta di rimanere capace e interessata alla discussione e attiva nella partecipazione al dibattito su questioni sociali, politiche, storiche, giuridiche e culturali, di sviluppare un proprio punto di vista e di saperlo comunicare grazie principalmente agli strumenti acquisiti attraverso lo studio universitario. In questa sottolineatura degli studi universitari si colloca l’elemento distintivo di Spiragli che si muove su un terreno poco battuto finora all’interno del “giornalismo carcerario” e che aspira a valorizzare l’impegno negli studi durante l’esperienza detentiva e a testimoniare la validità di questa scelta al fine di meglio comprendere la società nella quale si sta effettuando un percorso di riabilitazione socio-culturale. La rivista vuol essere anche un incubatore di idee, all’interno del quale proporre pro-getti e ipotesi di lavoro con soggetti diversi. È aperta alla collaborazione di tutti i detenuti universi-tari degli istituti penitenziari toscani, al personale amministrativo e al personale addetto alla sicurezza, ai docenti e ex docenti dei vari atenei e a tutte le figure attive per ragioni diverse nell’ambito della detenzione. Anche i detenuti non studenti possono mandare loro articoli che saranno valutati dalle redazioni e, eventualmente, pubblicati. Film su Stefano Cucchi nelle scuole, appello a Bussetti di Gaetano Costa Italia Oggi, 4 ottobre 2018 Già oltre 2 mila firme in attesa della risposta del ministero dell’Istruzione. Le scuole come i vecchi cineforum. Con “Sulla mia pelle” proiettato sugli schermi. “Il nostro obiettivo è creare degli spazi di confronto. Non serve a nulla limitarsi a guardarlo da soli sul divano”. Alcuni studenti di Firenze hanno lanciato una petizione online per chiedere al ministro dell’Istruzione in quota Lega, Marco Bussetti, di promuovere la visione negli istituti superiori della pellicola di Alessio Cremonini e Alessandro Borghi che ripercorre gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, il 3lenne romano morto nel 2009 durante la custodia cautelare. La raccolta firme su change.org, che sinora ha raggiunto oltre 2.200 sottoscrizioni, è intitolata “vogliamo Sulla mia pelle nelle scuole superiori”. “Il film tratta la drammatica vicenda irrisolta della morte di Stefano Cucchi”, si legge nel testo. “Le associazioni studentesche Federazione degli studenti, Unione degli studenti e Rete degli studenti medi, con l’appoggio della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, propongono al ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, di promuovere la visione di questo film in tutte le scuole superiori. La scuola, luogo di cultura e mediatrice di conoscenza, è il luogo migliore per far conoscere questa vicenda e creare dibattito attorno ai temi di cui il film, in modo equilibrato, parla”. Il coordinatore nazionale della Federazione degli studenti è il fiorentino Lorenzo Tinagli. È stato lui a coinvolgere le altre associazioni del capoluogo toscano. “Abbiamo allargato la proposta ad altre associazioni, come Rete degli studenti medi e Unione degli studenti, che si sono mostrate subito entusiaste”, ha spiegato Tinagli. “Ho parlato personalmente anche con Ilaria Cucchi, che ha detto di essere con noi e di appoggiare la nostra richiesta. Il suo coraggio e la sua forza, oltre ad alcuni consigli, sono stati un grande esempio e uno stimolo per andare avanti nell’iniziativa. E doveroso parlarne. Tutti devono vedere il film, soprattutto i ragazzi”. Ilaria Cucchi, tramite l’associazione dedicata al fratello, ha lanciato l’iniziativa #StefanoCuchiinognicittà per proiezioni autorizzate anche al di fuori del circuito dei cinema, con centinaia di richieste già pervenute. “Crediamo che siano la prova tangibile che c’è un’esigenza sociale fortissima di affrontare queste tematiche”, si legge su Facebook. “Le piazze piene, così come i cinema strapieni, ci dicono qualcosa di importante: forse qualcosa sta davvero cambiando”. La richiesta a Bussetti si unisce alla serie di iniziative per promuovere il film che, insieme con altre 20 pellicole, è candidato a rappresentare l’Italia agli Oscar. “L’ideale sarebbe che tutte le scuole facessero vedere il film lo stesso giorno, ma siamo consapevoli delle difficoltà”, ha detto Tinagli a Repubblica Firenze. “Chiederemo al ministro che solleciti i vari istituti, anche attraverso una circolare. La cosa bella è ricreare a scuola quelli che erano i cineforum e dare la possibilità agli studenti di discutere, insieme con i loro insegnanti o anche con esperti esterni, di temi cruciali come la droga, il concetto di giustizia e le difficoltà che esistono in alcuni ambienti sociali chiusi o all’interno delle carceri” I diritti umani calpestati. E noi zitti di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 4 ottobre 2018 Le ingiustizie non conoscono la geografia. E identico è il nostro disinteresse. Dovremmo protestare per la condanna all’ergastolo di sei scrittori e giornalisti al termine di un processo-farsa in Turchia: ma non lo faremo, non ci conviene o, meglio, non ce ne importa granché, la nostra sensibilità sulla difesa dei diritti umani si è affievolita fino a scomparire, inghiottita dalle regole e dalle ipocrisie e dal cinismo del realismo politico. I governi europei devono tenersi buono Erdogan, pagato profumatamente per tenersi i profughi della Siria, e non saranno certo scossi dalla drammatica denuncia di un perseguitato del regime turco, Ahmet Altan, contenuta nel libro “Non rivedrò più il mondo” pubblicato in Italia dalle edizioni Solferino. Decine di migliaia di dipendenti pubblici in Turchia sono stati licenziati con la scusa di una loro presunta partecipazione al golpe fallito del 2016. Ma tutti noi facciamo finta che non sia successo nulla, le istituzioni europee, assenti e rinchiuse in un’ignavia che dovrebbe far vergognare un’Europa che si dice cementata nella difesa di valori non negoziabili, e un’opinione pubblica oramai narcotizzata sulle violazioni della più elementare libertà politica attuate in Paesi a noi vicinissimi. Del resto, quasi tiriamo un sospiro di sollievo quando i tribunali egiziani, succubi della dittatura “laica”, distribuiscono pene capitali a pioggia a esponenti dei Fratelli musulmani. Siamo anche disposti ad accantonare il caso Regeni per mantenere buoni rapporti con il Cairo: l’Egitto non è forse un bastione nella guerra contro il fanatismo oscurantista islamico? E il massacratore del popolo siriano Assad, sostenuto da Putin, non è forse il “male minore” da lasciare in pace nella guerra contro l’Isis? E dovremmo commuoverci per la tragica sorte del popolo curdo, raccontata su queste pagine da Lorenzo Cremonesi, che proprio nella lotta contro lo Stato islamico è stato eroicamente in prima fila? Nella logica ferrea del realismo politico dovremmo forse contemplare l’ossequio a un sentimento desueto come la gratitudine? Siamo peggiorati. Tutti: destra e sinistra, sovranisti e democratici, establishment e popolo, senza distinzione. Tutti uniti dall’osservanza dell’unico principio a cui teniamo davvero: la nostra tranquillità. La carneficina siriana, le cui conseguenze ci hanno lambito fino a farci perdere il sonno e il controllo, ci ha reso insensibili alla strage di diritti umani, all’incedere incontrastato di dittature feroci con cui vogliamo intrattenere solidi e “tranquilli” rapporti di reciproca non ingerenza. I tempi dell’”ingerenza umanitaria”? Archiviati. Le istituzioni internazionali si avvitano nella più patetica impotenza. Le Nazioni Unite, ostaggio di satrapi e tiranni, mettono nelle loro commissioni per i diritti umani esponenti di regimi che dei diritti umani fanno sistematica strage. Ci impressionano le immagini di tortura che hanno luogo nei centri libici di reclusione dei migranti, ma l’Onu non fa nulla perché quell’oscenità non abbia più luogo. L’Europa, neanche a parlarne: le uniche parole pronunciate dalla responsabile degli affari esteri europea, Federica Mogherini, sono animate dalla sua ossessione anti-israeliana e dalla sua difesa della teocrazia iraniana, dove le donne, esattamente come accade nell’Arabia Saudita, sono perseguitate e condannate a una condizione coatta di soggezione e oppressione. Apprendiamo ora che nell’Iraq liberato dagli aguzzini dell’Isis le donne che osano trasmettere loro immagini libere su Instagram vengono minacciate e assassinate: ma noi non sappiamo più nemmeno farci impressionare da notizie così. I diritti umani calpestati non conoscono la geografia. Si ripetono identici anche in altri contesti, come resta identica la nostra indifferenza. Dopo la denuncia generosa di papa Francesco, siamo tornati a dimenticare la sorte dei Rohingya, la popolazione musulmana massacrata dall’esercito di Aung San Suu Kyi, incredibilmente insignita dal più immeritato dei Nobel per la pace. E ancora oggi resta isolato il coraggio di Angela Merkel che ha sfidato l’ira di Pechino stringendo la mano al Dalai Lama, rappresentante di un popolo, come quello tibetano, ancora oppresso nel silenzio. Del mondo. Il valore universale dei diritti umani, sempre al centro dei discorsi ufficiali, è spartito dall’agenda dei governi e dal cuore dell’opinione pubblica mondiale. Ancora una volta le persecuzioni di Erdogan resteranno impunite, l’unica, tristissima, certezza. Aiuto al suicidio, il governo contro Marco Cappato davanti alla Consulta di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 ottobre 2018 Dj Fabo. Anche l’esecutivo giallo verde difende la costituzionalità della norma introdotta in epoca fascista. Quando qualche settimana fa l’Associazione Luca Coscioni consegnò nelle mani del presidente della Camera Roberto Fico le 130mila firme di cittadini poste in calce alla legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia, il governo giallo-verde bypassò le divisioni interne sull’argomento liquidando la questione come “non prevista nel contratto”. Eppure, deve aver prevalso la linea leghista (quella del ministro della famiglia Fontana, però, più che di Salvini), se l’esecutivo ha deciso di non rimanere neutro sulla questione e di opporsi invece al dubbio di legittimità costituzionale sull’articolo 580 del codice penale presentato dal Tribunale di Milano nel processo a carico di Marco Cappato, accusato di istigazione e aiuto al suicidio di Dj Fabo. Al secolo Fabiano Antoniani, l’uomo cieco e tetraplegico aveva chiesto il supporto del tesoriere dell’associazione Coscioni per farsi accompagnare in una clinica Svizzera, dove poi è effettivamente morto suicida il 27 febbraio 2017. Il processo, che si è aperto l’8 novembre 2017 in seguito all’autodenuncia di Cappato, si è parzialmente concluso il 14 febbraio 2018 con l’assoluzione dell’esponente radicale “per la parte che lo vedeva imputato di istigazione al suicidio”, spiegano i legali dell’associazione Coscioni coordinati dalla segretaria, l’avvocata Filomena Gallo. Mentre “per la parte di aiuto al suicidio, la Corte di Assise di Milano ha emesso una ordinanza di remissione alla Consulta per il giudizio di costituzionalità della norma”. “Ho appena appreso che anche il governo Conte-Di Maio-Salvini ha presentato memorie contro di me davanti alla Corte Costituzionale - ha scritto ieri in una nota Cappato - affinché il dubbio di legittimità costituzionale sia dichiarato inammissibile, come già aveva chiesto il governo Gentiloni”. È imminente infatti l’udienza nella quale la Consulta dovrà esprimersi riguardo alla norma che vieta l’assistenza al suicidio contemplata dal Codice Rocco: si terrà il prossimo 23 ottobre. L’aiuto al suicidio è, ricorda Cappato, “reato istituito e punito in Italia secondo quanto disposto dal Codice penale del 1930, in piena epoca fascista e antecedente alla Costituzione e dunque su un concetto di libertà e diritti umani e civili totalmente rivoluzionato nel corso del tempo”. Il governo avrebbe potuto non presentare opposizione, come già avvenne in altre occasioni. Per esempio, il governo Renzi nel 2015 rinunciò alla difesa della legge 40, smantellata pezzo per pezzo dalla Consulta. “Dicono che era un atto dovuto - incalza Cappato - ma di fatto è un atto discrezionale. Avevo capito che non volessero affrontare il tema perché non è nel programma di governo. Speravo (e continuo a sperare) che questo significherà lasciare il Parlamento libero di decidere”. Di fine vita e “di altre libertà da conquistare”, di politica basata su un approccio scientifico anziché superstizioso, si parlerà nel XV Congresso dell’Associazione Coscioni che si terrà dal 5 al 7 ottobre presso l’Università Statale di Milano. Decreto sicurezza, il Colle ferma le espulsioni senza sentenza di Marco Conti e Sara Menafra Il Mattino, 4 ottobre 2018 Slitta ancora il via libera al provvedimento, si tratta sull’articolo 10. Ma il ministro tiene il punto: “Con il dl, chi spaccia via in poche ore”. Annunciato più volte come varato, il decreto sicurezza, che tanto a cuore sta al ministro dell’Interno Matteo Salvini, è ancora fermo al Quirinale e non è stato emanato ieri, come invece aveva annunciato alla Camera il responsabile del Viminale. “Conto di avere buone notizie entro oggi e chiudere il percorso e che tutti abbiano firmato quello che devono firmare, quindi che anche il Quirinale abbia dato il suo ok”, sosteneva ieri mattina Salvini. Annunciato più volte come varato, il decreto sicurezza, che tanto a cuore sta al ministro dell’Interno Matteo Salvini, è ancora fermo al Quirinale e non è stato emanato ieri, come invece aveva annunciato alla Camera il responsabile del Viminale. “Conto di avere buone notizie entro oggi e chiudere il percorso e che tutti abbiano firmato quello che devono firmare, quindi che anche il Quirinale abbia dato il suo ok”, sosteneva ieri mattina Salvini. Secondo quanto sostengono alcuni parlamentari del Carroccio e del MSS, i punti ancora da risolvere sarebbero sostanzialmente un paio e legati all’automatismo tra l’eventuale reato commesso dal migrante e la sospensione del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale. La formula, contenuta nell’articolo 10 della bozza, era già stata oggetti di una prima revisione subito prima dell’invio al Colle. Già in quel passaggio, la scorsa settimana, il meccanismo è stato affievolito: nel testo arrivato al Quirinale l’indagato viene ascoltato dalla commissione che valuta i permessi di soggiorno, prima della decisione definitiva. Resta però in piedi l’idea che possa essere espulso, previo parere della commissione, sulla base di una semplice denuncia e senza ulteriori accertamenti. Stando alle indiscrezioni di ieri, questa parte ora dovrebbe essere ulteriormente rivista e ammorbidita. Salvini rivendica che il meccanismo dell’automatismo resterà. Ieri l’ha ribadito in occasione dell’arresto di alcuni migranti sorpresi a Savona a spacciare droga: “Con le nuove regole del mio decreto sicurezza questi maledetti spacciatori verranno rispediti al loro Paese! La pacchia è finita”. Finirà sicuramente così, ma non è chiaro ancora quale potrà essere la formula che unisca la sua ipotesi e la presunzione di innocenza, in particolare per i semplici denunciati. Problemi il testo del decreto sicurezza ne ha avuti molti, tanto da essere oggetto di un costante lavorio da parte degli uffici legislativi del Viminale su suggerimento dei colleghi del ministero di Giustizia, di Palazzo Chigi e del Quirinale. “È il testo più condiviso, più modificato della storia di questo Governo”, ha ammesso Salvini. Qualcosa deve però essere sfuggito, come sembra evidente dall’analisi in corso in queste ore. Difficile dire come finirà perché se i nodi vengono considerati importanti sotto il profilo della tenuta costituzionale del decreto, il testo potrebbe essere rinviato al governo allegando i motivi che ne sanciscono la criticità. Tanto più che in realtà, come chiariscono dal Colle, c’è un ulteriore punto dolente a proposito dell’eliminazione del permesso umanitario dalle forme di protezione previste per i rifugiati. Le formule per correggere il testo sono anche loro tema di grande attenzione politica. La strada più semplice, che più piace al Quirinale perché eviterebbe tensioni esplicite, prevede che gli aggiustamenti vengano scritti di fatto dagli uffici del Quirinale. Il presidente Mattarella firmerebbe il testo, ovviamente concordato con il Viminale, evitando uno scontro esplicito. L’altra strada, più formale, segnerebbe la contrapposizione tra le due istituzioni. Un no alla firma che obbligherebbe il ministro Salvini a correggere il testo per poi riproporlo al consiglio dei ministri e di nuovo all’attenzione del presidente della Repubblica. Questo secondo percorso, di scontro palese, potrebbe anche portare ad un voto del parlamento. Difficile, però, che con la nota di aggiornamento al Def ancora in discussione, il governo voglia arrivare allo scontro. Dunque, la trattativa continua. Migranti. Il silenzio sullo ius soli di Jhumpa Lahiri* La Repubblica, 4 ottobre 2018 L’immagine straziante e ormai diffusa del ponte Morandi spezzato in due lo scorso agosto offre una chiave lampante per capire il discorso sospeso, il silenzio inspiegabile attorno allo Ius soli. Quella riforma, ormai affossata al Senato da mesi e fortemente contrastata dalla Lega, è un’altra strada rotta, crollata, cancellata. Intanto, un’intera generazione nata e cresciuta in Italia da immigrati - migliaia di minori che costituiscono la cosiddetta “seconda generazione” - cade in un vuoto identitario. Crescere in un Paese in cui la propria famiglia non ha ancora radici profonde, in cui i genitori non si sentono completamente a casa, è già un percorso precario. Si sente, sotto i piedi, un vuoto: l’assenza, spesso, di una rete di parenti, di certi punti di riferimento tramandati e ridati, la mancanza addirittura di un passato che sia anche, in qualche modo, vitale, fortificante, presente. La seconda generazione, di cui faccio parte anch’io, negli Stati Uniti, è un ponte, letteralmente, tra una cultura e un’altra. Loro stessi sono sospesi; appartengono per forza a due sponde diverse. Rappresentano, nella migliore delle ipotesi, un cammino dinamico, fluido, ibrido. Hanno una doppia prospettiva che serve a collegare, promuovere, unire, stabilire nuovi rapporti tra mondi separati, tra due realtà diverse. La seconda generazione va distinta dai genitori che sono arrivati e sono stati classificati come stranieri. Mentre i genitori sono rimasti, spesso, attaccati al Paese di origine, alle loro lingue e alle loro tradizioni, i figli sono proiettati verso il Paese d’arrivo. Quel Paese - in questo caso, l’Italia - diventa l’appiglio dominante e fondante. Si innestano nella lingua e nella cultura, vi appartengono, non conoscono altri Paesi. Il rifiuto di riconoscere, ufficialmente, questo percorso di vita e di dare loro la cittadinanza del Paese che li ha plasmati e influenzati sino alle midolla, non è solo una vergogna per l’Italia, è anche un gesto crudele. Sono privati della loro identità guadagnata e inconfutabilmente vera, autentica. L’abbandono dello Ius soli vuol dire l’abbandono di quei ragazzi. Il silenzio attorno allo Ius soli, come ogni silenzio, è pregno di significato. Significa chiusura mentale, paura crescente, ostilità, sempre di più, verso lo straniero. Chi si oppone teme che questa legge modifichi l’identità del Paese, che lo renda più misto e inclusivo, ma questo significa rinchiudersi nella xenofobia, in un razzismo di fondo. L’ansia di intaccare l’identità nazionale fa sì che una generazione di ragazzi non possano ottenere un’identità di alcun tipo. “Prima gli italiani” mi preoccupa, non solo perché è frutto di un nazionalismo spinto all’eccesso, ma perché è falso. Il problema è l’interpretazione - sbagliata, anche scollata dalla realtà - della parola chiave. “Italiano” in realtà ha già una valenza piuttosto ampia. “Italiano” ormai serve a definire un gruppo di persone legate interamente e saldamente a questo Paese, con nomi stranieri, con sangue diverso, con aspetti e origini diversi. È solo questa sentenza che lo rende un termine esclusivo, rigido, sclerotico. L’appartenenza è uno stato d’animo, un’identificazione prevalente e determinante con un luogo, una comunità, un modo di vivere. Ma c’è bisogno anche di documenti legali che proteggano, riconoscano, accettino, definiscano. Il silenzio attorno allo Ius soli va squarciato. È cruciale riprendere il discorso e conferire, alla seconda generazione, la cittadinanza italiana. Saranno loro a rinnovare l’Italia, a spingere il Paese verso il futuro. Saranno loro a costruire quel ponte. Con il silenzio, invece, questi ragazzi, lasciati fuori da un’identità nazionale, corrono il rischio di avvertire un senso di estraneità continua e pericolosa. Sprovvisti di cittadinanza, si sentiranno trascurati, vulnerabili. Anche silenziati. *Jhumpa Lahiri è una scrittrice statunitense di origine indiana. Nata a Londra, da qualche anno vive a Roma. Nel 2000 ha vinto il Premio Pulitzer per la narrativa. Il suo ultimo libro è “Dove mi trovo” (Guanda, 2018). Migranti. Consegnate a Salvini le 10mila cartoline contro morti in mare di Camilla Cupelli La Stampa, 4 ottobre 2018 “Solo in Cartolina”, la campagna di denuncia lanciata dai Creative Fighters lo scorso luglio, è giunta al termine. Diecimila cartoline approdano al Viminale. A consegnarle è un gruppo di creative fighters, creativi che hanno lanciato durante l’estate il contest “Solo in Cartolina” per la realizzazione di cartoline satiriche, con un tocco di humor nero, sul tema dei migranti e dei naufragi nel Mar Mediterraneo. “Salvini a giugno ha detto che i migranti vedranno l’Italia solo in cartolina. Ecco qua le nostre diecimila cartoline di risposta, una promessa è una promessa” spiega Nicole Romanelli, una delle organizzatrici. La consegna al Viminale - “Saluti dalla pacchia”, con foto di morti in mare. “Mari & Morti”, con le foto di persone annegate nei fondali del Mediterraneo. E così via, per centinaia di diverse opere creative in cartolina. Le dieci più votate sono state stampate in mille copie e firmate con pensieri e frasi indirizzate direttamente al Ministero dell’Interno. Domenica 30 il flash mob in piazza, in contemporanea a Roma a Milano, e oggi, 3 ottobre, “l’irruzione” al Viminale insieme alla rete Restiamo Umani. Il ritrovo era alle 16.30 davanti alla piazza ma alcuni manifestanti sono stati subito allontanati. A rimanere sono stati gli organizzatori che dopo un po’ di attesa sono riusciti a consegnare le cartoline nelle mani dello staff del Viminale. “Siamo contenti di essere stati ricevuti e aver consegnato i tanti messaggi in cartolina degli italiani, ma speravamo di incontrare il vero destinatario, il ministro dell’Interno. Speriamo che Matteo Salvini legga le cartoline e risponda ufficialmente” spiegano i creativi che hanno lanciato il progetto. La data non è casuale: il 3 ottobre è la giornata della memoria per le vittime dell’immigrazione, istituita per ricordare il tragico naufragio di Lampedusa del 2013, quando 368 persone persero la vita nel Mar Mediterraneo. La campagna - La campagna di “Solo in Cartolina”, che come dicono gli ideatori “non è nostra ma è di tutti”, è stata appoggiata da Ong, associazioni e artisti, come Arci, Msf e Proactiva Open Arms, ma anche Colapesce, Antonio Marras, Paolo Iabichino, Diabolik, Lo Stato Sociale. Le cartoline sono state pubblicate sui social network e al contest estivo per decidere le dieci migliori hanno partecipato 12.300 persone. Lunedì scorso, primo ottobre, alcune delle cartoline sono state affisse come cartelloni pubblicitari sui muri di Bologna, grazie alla collaborazione con Cheap street poster art. Il Canada valuta amnistia per condannati per possesso di cannabis Askanews, 4 ottobre 2018 Il 17 ottobre l’uso ricreativo della droga leggera sarà legale. Una amnistia per la cannabis. Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha dichiarato mercoledì che il suo governo sta considerando una tale ipotesi per i condannati per possesso di cannabis, proprio mentre l’uso ricreativo della droga leggera diventerà legale il 17 ottobre. “Come abbiamo detto, lo valuteremo non appena la legge sarà stata modificata, quindi dal 17 ottobre studieremo il modo migliore per raggiungere questo obiettivo”, ha detto Trudeau ad alcuni giornalisti. Il suo portavoce, raggiunto dalla Afp, ha spiegato che i dettagli pratici dell’eventuale amnistia non sono disponibili. Il ministro per la sicurezza Bill Blair, che è incaricato di far rispettare la legalizzazione della cannabis, ha ricordato mercoledì ai parlamentari che la legislazione attuale “rimarrà in vigore” fino al 17 ottobre. Nel 2013, Justin Trudeau ha ammesso di aver fumato degli spinelli cinque o sei volte nella sua vita, anche in occasione della sua elezione in Parlamento a una cena con degli amici.