Più giudici e più carceri nell’atto di indirizzo firmato dal guardasigilli di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 3 ottobre 2018 Il documento che traccia l’azione di Via Arenula per il 2019. È stato presentato ieri l’Atto di indirizzo politico istituzionale del ministro della Giustizia per il 2019. Il documento costituisce la base per la predisposizione della Nota integrativa di bilancio. Molte le novità fra gli obiettivi strategici che il guardasigilli Alfonso Bonafede punta a realizzare a partire dal prossimo anno. Al primo posto vi è il rilancio delle “politiche sul personale”. Si cercherà di raggiungere “la piena copertura delle piante organiche dell’amministrazione giudiziaria, della magistratura e della polizia penitenziaria”. Riguardo in particolare alle toghe, è in cantiere anche un loro aumento. Per la magistratura onoraria, invece, il ministro punta a una revisione della disciplina ordinamentale sotto il profilo delle “coperture previdenziali ed assistenziali”. Altro aspetto degno di nota è la digitalizzazione, con “l’implementazione del processo penale telematico e l’estensione del processo civile telematico in Cassazione”. Da affiancarsi ad un miglioramento della qualità amministrativa, promuovendo una razionalizzazione delle spese e una maggiore trasparenza dell’attività. Sempre in tema di razionalizzazione delle spesa, un capitolo è dedicato “all’efficientamento delle strutture penitenziarie e giudiziarie”: per far fronte al “fenomeno del sovraffollamento degli istituti penitenziari e garantire condizioni di dignità per le persone detenute - si legge - saranno realizzate nuove strutture, ampliate ed ammodernate le attuali, cambiata la destinazione di edifici pubblici dismessi”. Con un aumento consistente delle risorse destinate alla “manutenzione ordinaria e straordinaria delle carceri, implementando i sistemi di sicurezza, rivedendo il protocollo della sorveglianza dinamica e mettendo in piena efficienza i sistemi di sorveglianza”. Si interverrà “in maniera incisiva per il miglioramento della qualità della vita degli agenti di polizia penitenziaria, in termini di idoneità e vivibilità degli ambienti lavorativi”. Un accenno, poi, alla sicurezza degli uffici giudiziari, per un “puntuale monitoraggio delle strutture”. Una novità è la “Giustizia diffusa sul territorio e vicina ai bisogni dei cittadini”. Si tratta di una “rete di sportelli di prossimità per agevolare l’accesso ai servizi della giustizia anche agli utenti (cittadini ed imprese) che risiedono in quelle aree del territorio penalizzate dalla minor vicinanza alle sedi giudiziarie, prevedendo, in casi peculiari, una possibile riorganizzazione degli uffici giudiziari a partire da quelli del Giudice di Pace”. La riapertura dei piccoli tribunali è in effetti da sempre nell’agenda del M5s. Per l’esecuzione penale le linee guida si soffermano su “certezza della pena e dignità della detenzione”. Rimodulando la precedente riforma dell’ordinamento penitenziario con la valorizzazione del “lavoro come forma principale, assieme alla cultura, di rieducazione e reinserimento sociale della persona condannata”. È previsto anche un “periodo di ore d’aria prolungato rispetto all’attuale” e una modulazione degli spazi negli istituti penitenziari al fine di “rendere più agevoli, ove compatibile con le esigenze di sicurezza, i colloqui dei detenuti”. Ultimo capitolo riguarda il “rafforzamento della cooperazione giudiziaria internazionale per la lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata transnazionale e per il rimpatrio dei detenuti stranieri nei Paesi di origine”. A tal proposito si cercherà di ridurre la possibilità, per il detenuto, di opporre un diniego al rimpatrio. Gli “Stati generali” della giustizia voluti dall’avvocatura di Errico Novi Il Dubbio, 3 ottobre 2018 Il congresso forense è il primo crocevia della nuova fase politica. È inevitabile che il tema giustizia sia centrale. Sempre e in ogni legislatura. Compresa quella in corso. Ma è vero che sui provvedimenti in materia, previsti o solo ipotizzati, non c’è stata finora l’occasione di un confronto sistematico fra le parti in causa: politica, avvocatura e magistrati. Il 34esimo congresso forense che avrà inizio domani a Catania promette di trasformarsi nei primi “Stati generali della giustizia” del nuovo ciclo politico. E la stessa proposta di un esplicito riconoscimento costituzionale del ruolo dell’avvocato, messa a punto dal Consiglio nazionale forense, pare in grado di diventare un elemento chiarificatore nell’intero dibattito sulla giustizia. Stamattina, dalle 11.30, se ne comincerà a parlare nella conferenza stampa in cui i vertici dell’avvocatura presenteranno i lavori, programmati da giovedì a sabato prossimi. Lo faranno il presidente del Cnf Andrea Mascherin, il coordinatore dell’Ocf Antonio Rosa, il presidente di Cassa forense Nunzio Luciano e, con loro, sia le figure che, in ciascuna delle istituzioni forensi, hanno contribuito a organizzare la tre giorni, sia i rappresentanti dell’avvocatura e delle amministrazioni locali di Catania. Nell’incontro con i giornalisti, che si terrà presso il municipio, sarà ufficializzato il calendario delle tre giorni, che dovrebbe prevedere il confronto con i rappresentanti della politica e della giurisdizione nella giornata inaugurale, venerdì il dibattito interno all’avvocatura e il voto delle mozioni congressuali e, nella giornata conclusiva di sabato, un ulteriore approfondimento scientifico su “Il ruolo della giurisdizione per la composizione dei conflitti” e l’elezione dei nuovi componenti dell’Organismo congressuale forense. Il dialogo sarà ampio grazie alla presenza di rappresentanti di tutte le forze politiche e, innanzitutto, del guardasigilli Alfonso Bonafede. Domani, dopo i saluti del presidente dell’Ordine di Catania Maurizio Magnano di San Lio e del presidente dell’Unione dei Fori siciliani Massimo dell’Utri, sarà il presidente del Cnf Mascherin a pronunciare il discorso inaugurale, previsto per le 11, e quindi sarà il ministro della Giustizia a discutere, tra l’altro, della proposta di rafforzare in Costituzione il ruolo dell’avvocato. Bonafede sarà interpellato in un’intervista sul palco da Giovanni Negri del Sole 24 Ore. Subito dopo la pausa si svolgeranno, a partire dalle 15.30, le tre tavole rotonde che metteranno a confronto molti degli ospiti. Nella prima, il tema del “Rilievo costituzionale dell’avvocatura” sarà affrontato sul piano della dottrina, con il presidente del Cnf che sarà moderatore fra il presidente dell’Associazione costituzionalisti Massimo Luciani, il presidente della seconda sezione del Consiglio di Stato Roberto Garofoli, il professore emerito di Procedura penale Giorgio Spangher, il presidente emerito della Cassazione Giovanni Canzio e il professore di Diritto civile Pietro Rescigno. Mascherin condurrà anche il successivo confronto su “Autonomia e indipendenza della giurisdizione” che, dalle 17.30, vedrà impegnati diversi rappresentanti delle forze politiche, altri dei quali saranno invece coinvolti dal coordinatore dell’Ocf, Rosa, nel dibattito successivo aperto a tutti i temi del congresso. È certo che a Catania saranno ampiamente rappresentate le commissioni Giustizia dei due rami del Parlamento. Il presidente di quella del Senato Andrea Ostellari (Lega) sarà presente insieme con il suo vice Raffaele Stancanelli (Fratelli d’Italia) e la capogruppo dei Cinque Stelle Angela Piarulli. Dell’analogo organismo della Camera sono attesi il deputato del M5s Francesco Urraro e i capogruppo di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, rispettivamente Maria Carolina Varchi, Gianluca Cantalamessa ed Enrico Costa. Con loro, per il Pd, il vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio Franco Vazio e il responsabile Giustizia del partito Walter Verini. E ancora, il deputato di Fratelli d’Italia Ciro Maschio e l’azzurro Francesco Paolo Sisto. Una platea molto ampia. Che si confronterà in campo aperto sui temi della giustizia e in particolare sulla proposta cara agli avvocati. Con la possibilità di ascoltare anche il punto di vista della magistratura, altrettanto ampiamente rappresentata. Saranno presenti il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, il presidente aggiunto della Suprema corte Domenico Carcano e i vertici della magistratura catanese: il presidente della Corte d’appello Giuseppe Meliadò, il pg Roberto Saieva, il presidente del Tar Pancrazio Savasta e il presidente del Tribunale Francesco Mannino. Attesi a Catania anche diversi dirigenti del ministero della Giustizia: il vicecapo dell’Ufficio legislativo Giampaolo Parodi, il capo del dipartimento Affari di giustizia Giuseppe Corasaniti e il capo dell’Organizzazione giudiziaria Barbara Fabbrini. Il contributo offerto al congresso da parte dei magistrati sarà essenziale: nella loro proposta, il Cnf e le altre istituzioni forensi guardano al riconoscimento del ruolo costituzionale dell’avvocato anche come elemento equilibratore dell’autonomia delle toghe. Un bilanciamento che spazzerebbe via ogni equivoco sul paventato - dalla magistratura - assoggettamento alla politica, e renderebbe così inattaccabile l’indipendenza dell’intera giurisdizione. Temi che come si vede chiamano in causa tutti gli attori, a cominciare dalla politica. E che, per questo, davvero fanno del congresso forense di Catania i primi “Stati generali” sulla giustizia di questa nuova fase. Il sindaco di Riace Domenico Lucano è stato arrestato per un peccato di umanità di Roberto Saviano La Repubblica, 3 ottobre 2018 Mimmo Lucano ha fatto politica nel solo modo possibile in un Paese che ha leggi inique: con la disobbedienza civile, l’unica arma per difendere i diritti di tutti. Mimmo Lucano è agli arresti domiciliari, nessuno stupore in un Paese che ha ormai fatto sua una prassi suicida: criminalizzare la solidarietà. Mimmo Lucano è stato il primo a essere attaccato da Matteo Salvini ed è oggi il primo a cadere sotto la scure di una legge iniqua come la Bossi-Fini che nessun governo, nemmeno quelli che hanno fatto dell’anti-berlusconismo la propria bandiera, ha voluto cambiare. Fanno sorridere i Di Maio, stolti e pilateschi, che credono di poter archiviare con un post su Facebook il modello Riace come una bad practice targata Pd. La loro incapacità di leggere il presente è solo pari alla rabbia che covano verso un alleato di governo che li ha completamente tagliati fuori da quella comunicazione becera di cui si sentivano padroni. Eh sì, perché sentire la conferenza stampa di Salvini a Napoli è un piacere che ciascuno dovrebbe concedersi: intanto scopriamo che il problema di Napoli sono i motorini sequestrati, che occupano spazio. Se Salvini conoscesse Napoli, saprebbe che il problema di Napoli semmai sono i motorini non sequestrati, quelli su cui viaggiano intere famiglie con bambini piccolissimi. Ma siamo sempre là: il problema di Palermo è il traffico. Il problema del Paese sono gli immigrati e il problema della Calabria è Mimmo Lucano. E noi illusi che pensavamo fosse il narcotraffico. La motivazione dell’arresto di Mimmo Lucano è favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma mai nell’inchiesta leggerete che Mimmo Lucano ha agito per un interesse personale. Mai. E Mimmo Lucano ha fatto politica nell’unico modo possibile in un Paese che ha leggi inique. Mimmo Lucano ha fatto politica disobbedendo. Disobbedienza civile: questa è l’unica arma che abbiamo per difendere non solo i diritti degli immigrati, ma i diritti di tutti. Perché tutti abbiamo il diritto di vivere una condizione di pace sociale, senza nessun ministro che ci indichi numeri civici dove vivono persone da cacciare in quartieri da “bonificare”. Esatto, bonificare. Queste le parole di Salvini. Ma bonificare da cosa? Dagli esseri umani? Tutti abbiamo il diritto di vivere senza cercare colpevoli, e se il ministro ha subito individuato in Mimmo Lucano un nemico da abbattere, il Pd non ha mai compreso che se davvero voleva ripartire da qualche parte per ritrovare un barlume di credibilità, avrebbe dovuto farlo da Riace, da Mimmo Lucano. E prima ancora da Lampedusa e da Giusi Nicolini. E invece Mimmo è solo, e la Bossi-Fini è ancora lì a inchiodare, a bloccare chiunque decida di accogliere e di salvare vite. Legge-obbrobrio, legge intoccabile. Mimmo Lucano, un uomo solo a lottare contro una legge iniqua. Una legge che vede silenziosamente coesi coloro i quali ogni giorno si presentano a noi come acerrimi nemici. I Salvini, gli Orfini, i Minniti e i Toninelli, i Renzi, i Martina, i Di Maio, i Di Battista, i Bonafede, tutti uguali: nessuno di loro ha mai osato mettere in discussione i frutti più amari del berlusconismo: la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi che riempiono le carceri di immigrati e tossicodipendenti, rendendo il nostro uno Stato-fortezza, uno Stato di polizia. In un Paese diverso, un partito di sinistra unirebbe elettori solo dicendo basta a questi due obbrobri. Vi sembra possibile che il problema della Calabria, terra di narcotraffico e corruzione criminale, sia l’immigrazione? Mimmo Lucano è stato arrestato anche per “fraudolento affidamento diretto della raccolta rifiuti”, eppure mai si legge negli atti della Procura di Locri che abbia agito per guadagno personale, anzi si sottolinea il contrario. Il razzismo oggi in Italia è usato come arma di distrazione di massa, dovremmo rassegnarci a questa pratica trasversale a ogni partito, ma no. Non ci rassegniamo. Questo governo, attraverso l’utilizzo politico di questa inchiesta giudiziaria, da cui Mimmo saprà difendersi in ogni sua parte, compie il primo atto verso la trasformazione definitiva dell’Italia da democrazia a Stato autoritario. Con il placet di tutte le forze politiche. Ma le parole sono superflue, anche le mie. Andate piuttosto a Riace, vedrete bambini africani che parlano calabrese e case in disuso messe a disposizione degli immigrati da chi ha lasciato l’Italia, da italiani migranti economici accolti in Australia o in Sudamerica. Italiani che in questa Italia non ce l’hanno fatta. Dobbiamo mettere il nostro corpo in difesa del progetto Riace che è il modello più importante di accoglienza di tutto il Mediterraneo. “Io la carta d’identità gliela faccio... Io sono un fuorilegge, sono un fuorilegge perché per fare la carta d’identità io dovrei avere un permesso di soggiorno in corso di validità...in più lei deve dimostrare che abita a Riace, che ha una dimora a Riace, allora io dico così, non mando neanche i vigili, mi assumo io la responsabilità e gli dico va bene, sono responsabile dei vigili...la carta d’identità, tre fotografie all’ufficio anagrafe, la iscriviamo subito...”. Io sono un fuorilegge, dice Mimmo Lucano. Fuorilegge per aver fatto carte d’identità a chi avrebbe dovuto avere documenti per diritto e in tempi brevi. Per essersi assunto, da solo, le responsabilità che dovrebbe assumersi un intero Paese. E invece, insieme a questa politica codarda, tutti giriamo lo sguardo altrove. Agli occhi dell’opinione pubblica si vuol far passare Mimmo Lucano per colpevole e chi ha rubato agli italiani quasi 50 milioni di euro, e chi ha sequestrato persone inermi per bieco profitto politico, no. Tutto questo è assurdo e paradossale. Ecco perché vi invito tutti a stare accanto a Mimmo Lucano; la democrazia va difesa e questo processo diventa un banco di prova: impegniamoci tutti a smontare, una a una, le accuse a Mimmo Lucano. È l’unico modo che abbiamo per difendere il nostro Paese e quello che siamo. La caccia agli oppositori si è aperta, ci arrendiamo al processo di trasformazione della Repubblica italiana nella Repubblica ungherese di Orbán? No, non ci arrendiamo. Attiviamoci tutti, ché ora tocca a noi perché, come scrisse Bertolt Brecht: “Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere”. Da sindaco a simbolo pericoloso di Norma Rangeri Il Manifesto, 3 ottobre 2018 Pericolo pubblico. Questo governo, con la nefasta accoppiata dei due vicepresidenti, ha fatto terra bruciata dei principi di umanità e di accoglienza, Lega e 5Stelle hanno combattuto l’opera di salvataggio delle Ong (“i taxi del mare”, secondo Di Maio), e ora insieme si scagliano contro il modello Riace. Non si salva nessuno. Anzi, chi salva, chi aiuta alla sopravvivenza uomini, donne, minori sfruttati come schiavi lo fa a suo rischio e pericolo. Come è successo a Domenico Lucano, il sindaco di Riace finito su Fortune per il suo rivoluzionario sistema di accoglienza dei migranti. È stato arrestato ieri all’alba nella sua casa. A finire agli arresti domiciliari è stata la sua concreta testimonianza contro il razzismo, un arresto clamoroso, segno di una escalation che non conosce freni né limiti. Reagire con altrettanta forza e determinazione è un obbligo umanitario e un impegno politico. Una manifestazione nazionale sull’immigrazione si attende ormai da settembre, ma sconta difficoltà, pigrizie, opportunismi. Lo spread fa indignare più dei lager libici. Dopo i fatti di Riace ogni ulteriore timidezza sarebbe complice dell’odio che monta. In Calabria, nella regione governata da Mario Oliverio, da tempo schierato con il sindaco perseguitato, sabato ci sarà una manifestazione convocata dalle associazioni che si occupano di immigrazione. Prima del clamoroso sviluppo giudiziario, l’iniziativa doveva accendere i riflettori sulla drammatica situazione della piana di Gioia Tauro, l’appuntamento ora assume di prepotenza una valenza nazionale. Ha ragione Giuseppe Fiorello, l’attore protagonista di una fiction Rai su Riace che non viene trasmessa (censurata con orgoglio dall’onorevole Gasparri), quando dice che “il sindaco di Riace non va difeso, va amato”. Il ministro dell’interno Salvini lo detesta, ha sempre trattato Lucano come un nemico, cercando di svalutarne la figura: “Per me il sindaco di Riace vale zero”. Messaggio risuonato forte e chiaro, finché dalle parole ieri si è passati ai fatti con gli arresti domiciliari (per il sindaco, e divieto di dimora per la sua compagna). Inseguito da avvisi di garanzia e avvertimenti mafiosi, il primo cittadino di un paese quasi morto e ora ripopolato e rinato, è accusato di reati d’ogni specie, contro di lui è stata lanciata una rete a strascico, per trovare comunque una trasgressione alla legge e quindi una ragione per l’arresto. Malversazione, l’accusa più pesante, è stata cassata dal Gip (“non c’è stato nessun arricchimento”), ma sono rimasti altri addebiti, oltre alla madre di tutte le colpe, il “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Il ministro Salvini, eletto in Calabria, vuole fare piazza pulita, di immigrati e di rom, lo ripete ogni giorno, e ancora ieri, da Napoli, arringava la folla dei suoi fan contro le prede della sua caccia grossa. Ma sbaglia quando dice che il sindaco vale zero, come è evidente, se lo devono arrestare significa che è troppo pericoloso, che il suo esempio non deve essere seguito. Va stroncato. Questo governo, con la nefasta accoppiata dei due vicepresidenti, ha fatto terra bruciata dei principi di umanità e di accoglienza, Lega e 5Stelle hanno combattuto l’opera di salvataggio delle Ong (“i taxi del mare”, secondo Di Maio), e ora insieme si scagliano contro il modello Riace. I gialloverdi hanno appena recapitato al Quirinale il loro trofeo, il decreto sulla sicurezza e sull’immigrazione. Prevede, contro gli immigrati, misure punitive come la revoca della cittadinanza in caso di reati legati al terrorismo. In Europa ci aveva provato il socialista Hollande nella fase acuta delle stragi. Ma non gli fu consentito e va detto che in Francia gli immigrati, come nel caso dei parenti del ragazzo ucciso a fucilate nella baraccopoli di S.Ferdinando, vivono con molti problemi ma in dignitose case popolari. Il presidente Mattarella ha tra le sue mani il decreto-Salvini, benzina sull’onda nera ormai dilagante. Non sappiamo se passerà il vaglio degli uffici, ma se non venisse radicalmente cambiato sarebbe un altro brutto segno. Don Rigoldi: “per difendere i diritti umani anche a me è capitato di forzare la legge” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 3 ottobre 2018 “Al netto del caso in cui si sfrutta una situazione per indebito profitto personale (caso questo sempre condannabile, ma qui gli stessi inquirenti lo escludono), bisognerebbe avere un po’ di morbidezza. Capita di forzare la legge, di incorrere in qualche piccolo arrangiamento magari anche penalmente rilevante, se si è di fronte alla disperazione più cupa, al dovere di preservare diritti umani fondamentali e inviolabili che prevalgono su tutto. È capitato anche a me, che pure cerco di rispettare sempre le norme. Se ti ci trovi in mezzo, non ti fermi neanche a pensare. Come il Buon Samaritano lo fai e basta, a fin di bene, nella massima correttezza possibile”. Don Gino Rigoldi, cappellano del carcere Beccaria di Milano, da sempre in prima linea per difendere emarginati e deboli, si definisce turbato dall’arresto del primo cittadino calabro. “Se venissi esaminato con ottuso rigore di legge, un rigore privo di compassione per chi cerco di aiutare, potrei finire anche io nei guai. Sotto questo profilo, piena solidarietà al sindaco di Riace Domenico Lucano”. Il borgo di Riace, che era disabitato e abbandonato, “è rinato grazie ai migranti e alla ricetta alternativa e vincente in materia di accoglienza - continua don Gino. Quel modello di ospitalità è un caso di studio internazionale. Dovremmo andarne orgogliosi, anche se magari è stato condotto con qualche leggerezza, qualche forma di disordine. Qui al contrario, con un arresto sproporzionato, si vuole mettere all’angolo tutto il modello virtuoso d’integrazione”. Con doveroso rispetto per le indagini e per la legge, continua, “è necessario allargare la lettura “chiusa” del codice ad una visione che dà il giusto peso ai diritti umani. Certe storie ti entrano dentro, le senti nella pancia. Non siamo contabili, non siamo aridi computer che controllano il comma di legge senza vedere il contesto. Lucano chiarirà di avere agito nel fermo rispetto dei principi di solidarietà e tutela dei diritti dell’uomo previsti dalla Costituzione - chiude don Gino. Dobbiamo sforzarci di essere umani, restare umani, tornare umani”. “Verdiglione in un ospedale che è peggiore del carcere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 ottobre 2018 “Rischia di morire, è drasticamente peggiorato”. A riferirlo al Dubbio è uno dei difensori del professor Armando Verdiglione, l’avvocato Stefano Pillitteri, che ieri mattina ha visitato il professore nel reparto carcerario dell’Ospedale San Paolo, appena trasferito dal carcere milanese di Opera dove vi era detenuto. “Già giorni fa, quando andai a visitarlo ad Opera - spiega l’avvocato - lo trovai visibilmente dimagrito, ma adesso è diventato qualcosa che fa veramente impressione. È ulteriormente dimagrito ed è allo stremo”. L’avvocato teme per la vita di Verdiglione, che ha perso ormai 24 chili dal 5 settembre. In più, a preoccuparlo, è la struttura del reparto ospedaliero del San Paolo. “È un piccolo reparto che è una vera e propria micro prigione innestata nell’ospedale. Si trova nel piano inferiore e sembra un vero e proprio bunker”. Tutti lo chiamano “repartino”: quello cioè che si prende cura dei detenuti provenienti dalle carceri del nord Italia, quando della loro malattia non possono più occuparsene i centri clinici della struttura. In pratica, si tratta di reparti istituiti nel 1993, come vere e proprie Unità Operative Ospedaliere presidiati dalla custodia della polizia penitenziaria. Le strutture autonome, sia strutturalmente che funzionalmente rispetto all’Ospedale, come il “repartino” sono infatti destinate esclusivamente ai detenuti malati, le cui cure siano necessarie e non possano essere fornite dal carcere. “Eppure Verdiglione - spiega sempre il difensore Pillitteri - non è un pericolo sociale e potrebbe benissimo essere ricoverato in una struttura idonea come l’ospedale del Niguarda dove altri detenuti sono ricoverati e non ricorda un carcere come questo repartino”. Poi l’avvocato sottolinea: “Va preso in considerazione che il professore ha 74 anni, il magistrato di sorveglianza non ha ritenuto conto di sospendere l’esecuzione o comunque di assumere un provvedimento provvisorio in attesa dell’udienza del 13 dicembre, dove il tribunale dovrà valutare l’istanza di detenzione domiciliare”. L’avvocato Pillitteri si riferisce all’articolo 47 ter, comma 1, dell’ordinamento penitenziario dove prevede che la pena detentiva inflitta ad una persona che abbia compiuto i settanta anni di età “può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza”. Ma l’udienza, appunto, ci sarà il 13 dicembre e l’avvocato teme che Verdiglione non ce la faccia ad arrivare vivo, a meno che, nel frattempo, non venga sospesa l’esecuzione essendo incompatibile con il regime carcerario. Ripercorriamo i fatti. Il professor Verdiglione dal 5 settembre si è costituito in carcere per scontare un residuo di pena di 5 anni e otto mesi per reati fiscali. In quel momento si gravemente ammalato. A segnalare il caso è stata Rita Bernardini del Partito Radicale, mettendo in guardia il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede affinché intervenga per lui e tutti gli altri detenuti che versano in condizioni di salute incompatibile con il regime penitenziario. Dopodiché, mercoledì scorso, il deputato del Pd Roberto Giacchetti che, anche in veste di tesserato di lunga data del Partito Radicale, ha voluto verificarne le condizioni nel corso di una visita ispettiva svolta nel carcere milanese. Il deputato ha riferito a Il Dubbio di aver trovato Verdiglione dimagrito di 20 kg in tre settimane e con una voce talmente flebile da non essere udita. Se da un lato i medici hanno riferito al deputato Giacchetti che la situazione del professore era divenuta grave, al punto da averne chiesto il ricovero urgente al “repartino” (Roberto Giachetti ha anche presentato una interrogazione parlamentare a tal proposito), il magistrato di sorveglianza ne ha ritenuto - due giorni fa - invece la compatibilità, aggiungendo che “ha un comportamento non collaborante, perché viene rifiutato il ricovero presso il reparto di medicina Penitenziaria, ha un atteggiamento polemico ed è contrariato dalla carcerazione che definisce ingiusta e conseguenza di errori giudiziari”. Parliamo del rigetto dell’ultima richiesta di differimento provvisorio dell’esecuzione. Ora, come detto, c’è da attendere la valutazione dell’istanza presentata dall’avvocato Pillitteri relativa alla detenzione domiciliare. Ma i tempi si allungano e potrebbero essere fatali per il professore. Il diritto alla salute che dovrebbe essere prioritario rispetto alla punizione è uno dei temi più scottanti che riguardano il sistema penitenziario. Diversi sono i casi che riguardano i detenuti che soffrono dietro le sbarre dove difficilmente possono curarsi. Non solo Verdiglione quindi. D’altronde lo stesso Roberto Giachetti, durante la sua interrogazione parlamentare diretta ai ministri della Giustizia e della Salute sul caso del professore, ha ricordato che “il diritto alla salute è costituzionalmente garantito dall’art. 32 della Costituzione come fondamentale nell’interesse dell’individuo e della collettività e in nessun caso è consentito violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, e ha chiesto se i ministri “abbiano contezza del numero delle morti in carcere per malattia, suicidio o cause non meglio chiarite e non riconducibili al decesso naturale avvenute nello scorso anno e nell’anno corrente”. Tanti, numerosi, sono i casi quindi. Come il detenuto Giuseppe Martena, che da agosto dello scorso anno è in carcere e si trova in una condizione fisica non compatibile con l’ambiente carcerario. A segnalare il caso è Carmelo Musumeci, l’ex ergastolano da poco in libertà condizionale che non si dimentica dei dritti dei detenuti. Martena, l’anno scorso, era stato riportato in carcere per delle violazioni che sono ancora da accertare in tribunale. Oggi è nel carcere di Torino Le Vallette, in una sezione con una igiene scarsa e altamente sconsigliabile per l’utilizzo del catetere, perché ha rischio di infezioni. Nel 2014 era uscito dal carcere proprio per incompatibilità carceraria. Con l’ordinanza di accoglimento della richiesta di arresti domiciliari per infermità fisica, il Tribunale di sorveglianza aveva riconosciuto la sostanziale incompatibilità della malattia con la detenzione in carcere. Si trattava di grave compromissione ai reni, che induceva il Collegio a pensare, in termini di incompatibilità, laddove la detenzione avrebbe potuto condurre al deterioramento definitivo degli organi vitali come i reni, con inevitabile violazione del diritto alla salute di rango costituzionale. Del resto la malattia prevedeva - e prevede ancora oggi - una “cateterizzazione” costante, cioè un impegno assistenziale nella sostituzione di un catetere per più volte in una giornata. Non solo, il Tribunale aveva osservato che la malattia doveva essere curata fuori dal carcere perché serviva un luogo protetto e non un ambiente chiuso non sterile come il carcere. È proprio la precisione, con cui viene indicata l’incompatibilità con la vita carceraria, a collidere con la successiva decisione del collegio di revocare la detenzione domiciliare per violazione selle prescrizioni. Ma è un caso, come quello di Verdiglione, che va a collidere con il recente orientamento della cassazione: trattenere in detenzione in carcere colui che per malattia non possa svolgere a pieno le attività trattamentali, così vanificando il senso della finalità rieducativa della pena, rischia di essere contrario all’art 27 della Costituzione. Basti pensare che questa fu proprio un’argomentazione con cui gli ermelllini “restituirono” al mittente, cioè al Tribunale di Sorveglianza di Bologna, il rigetto su analoga istanza per Totò Riina. È proprio questa sentenza che impone di soppesare i diritti di pari rango costituzionale, da un lato la salute e dall’altro la sicurezza sociale. Strasburgo censura le norme italiane sulle perquisizioni di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2018 Corte europea dei diritti dell’uomo - Sezione I - Sentenza 27 settembre 2018 n. 57278. La Corte europea dei diritti dell’uomo censura la legge italiana sulle perquisizioni. Secondo la prima sezione della Camera semplice (sentenza emessa lo scorso 27 settembre) non ci sono garanzie sufficienti contro possibili abusi di potere o di arbitrarietà da parte delle autorità. Si tratta del caso Brazzi c. Italia (domanda 57278/11), in cui la Corte ha stabilito, all’unanimità, che nel caso sottoposto al suo esame vi era stata la violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione. La vicenda riguarda una perquisizione effettuata dalle autorità fiscali italiane (nel caso di specie la Guardia di finanza) in una casa privata di proprietà di un cittadino avente doppia cittadinanza italiana e tedesca che viveva in Germania iscritto all’Aire. Tale soggetto era proprietario di una casa in Italia dal 2009 dove sua moglie e i suoi figli vivevano durante l’anno scolastico. Nel 2010, il ricorrente fu controllato dalle autorità fiscali italiane, in quanto sospettato di essere residente ai fini fiscali in Italia e di non versare imposte sul reddito o Iva dal 2003. Nel 2010, durante il procedimento amministrativo, il pubblico ministero di Mantova autorizzò la Guardia di finanza ad entrare nella casa dell’indagato in Italia per raccogliere prove. La Guardia di finanza si recò presso l’abitazione dell’indagato, ma lo stesso era assente. Successivamente, nello stesso giorno, la procura della Repubblica di Mantova apriva un’indagine ed emetteva un mandato per una perquisizione della casa e dei veicoli del contribuente indagato al fine di trovare e sequestrare documenti contabili e qualsiasi altro documento che avrebbe potuto dimostrare che aveva commesso il reato di evasione fiscale. Il procedimento fu poi interrotto, poiché l’indagato aveva chiarito la sua situazione fiscale provando, in particolare, che abitava abitualmente in Germania. Lo stesso nel frattempo aveva fatto ricorso alla Corte di cassazione, lamentando l’illegittimità della perquisizione che fu dichiarato inammissibile perché non era possibile esperire ricorso senza che vi fosse stato un sequestro. A seguito dell’esaurimento dei giudizi nazionali il cittadino fece ricorso ai giudici di Strasburgo lamentando la violazione degli articoli 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 6 (diritto alla difesa) e 13 (diritto a un ricorso effettivo) della Cedu. La Corte ha stabilito che nel caso di specie vi è stata una particolare ingerenza del diritto del ricorrente al rispetto del suo domicilio tale da non essere conforme alla legge ai sensi dell’articolo 8 § 2 della Convenzione, perché anche a uno stadio così precoce dell’indagine non aveva avuto il beneficio dell’effettiva supervisione richiesta da uno Stato di diritto in una società democratica. Nessun giudice aveva esaminato la legittimità o la necessità del mandato per la perquisizione della sua casa, né prima né dopo l’ispezione. La legge italiana non avrebbe previsto quindi sufficienti garanzie a monte o a valle contro i rischi di abuso di potere o di arbitrarietà da parte delle autorità, in quanto non sarebbe previsto un effettivo e tempestivo controllo giurisdizionale e quello del Pm non può essere considerato tale, questa circostanza non permetterebbe neanche una riparazione all’eventuale abuso. Possibile ma condizionato l’accesso ai dati telefonici in caso di indagini per reati non gravi Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2018 Cgue - Grande sezione - Sentenza 2 ottobre 2018 causa C207/16. I reati che non sono particolarmente gravi possono giustificare un accesso ai dati personali conservati dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica quando tale accesso non comporta una limitazione grave della vita privata. Lo ha stabilito la Cgue con la sentenza 2 ottobre 2018 nella causa C-207/16. Il caso esaminato - Nel contesto delle indagini su una rapina con sottrazione di un portafoglio e di un telefono cellulare, la polizia giudiziaria spagnola ha chiesto al giudice istruttore competente di accordarle l’accesso ai dati di identificazione degli utenti dei numeri di telefono attivati dal telefono rubato per un periodo di dodici giorni a partire dalla data della rapina. Il giudice istruttore ha respinto tale domanda con la motivazione che, in particolare, i fatti all’origine dell’indagine penale non avrebbero integrato gli estremi di un reato “grave” - vale a dire, secondo il diritto spagnolo, un reato punibile con pena detentiva superiore a cinque anni - posto che l’accesso ai dati di identificazione era in effetti possibile solamente per tale tipo di reati. Il pubblico ministero spagnolo ha interposto appello avverso tale decisione dinanzi alla corte d’appello di Tarragona che ha chiesto alla Cgue di pronunciarsi sulla fissazione della soglia di gravità dei reati a partire dalla quale sia giustificata un’ingerenza nei diritti fondamentali, come l’accesso da parte delle autorità nazionali competenti ai dati personali conservati dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica. La posizione della Cgue - Con la sua sentenza, la Corte ricorda che l’accesso delle autorità pubbliche ai dati personali conservati dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica, nel contesto della fase istruttoria di un procedimento penale, rientra nell’ambito di applicazione della direttiva. Inoltre, l’accesso ai dati che mirano all’identificazione dei titolari di carte SIM attivate con un telefono cellulare rubato, come il cognome, il nome e, se del caso, l’indirizzo di tali titolari, comporta un’ingerenza nei diritti fondamentali di questi ultimi, sanciti nella Carta. Tuttavia, essa dichiara che tale ingerenza non presenta una gravità tale da dover limitare il suddetto accesso, in materia di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento dei reati, alla lotta contro la criminalità grave. La Corte segnala che l’accesso delle autorità pubbliche ai dati personali conservati dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica costituisce un’ingerenza nei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati, sanciti nella Carta, persino in mancanza di circostanze che permettano di qualificare tale ingerenza come “grave” e senza che rilevi il fatto che le informazioni in questione relative alla vita privata siano o meno delicate o che gli interessati abbiano o meno subito eventuali inconvenienti in seguito a tale ingerenza. La direttiva elenca tuttavia gli obiettivi idonei a giustificare una normativa nazionale che disciplini l’accesso delle autorità pubbliche a questi dati e che deroghi pertanto al principio della riservatezza delle comunicazioni elettroniche. Questo elenco ha carattere tassativo, di modo che tale accesso deve rispondere in modo effettivo e rigoroso ad uno di questi obiettivi. La Corte osserva a tal proposito che, per quanto riguarda l’obiettivo di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento dei reati, la formulazione della direttiva non limita tale obiettivo alla lotta contro i soli reati gravi, ma si riferisce ai “reati” in generale. Nella sua sentenza Tele2 Sverige, la Corte ha affermato che soltanto la lotta contro la criminalità grave è idonea a giustificare un accesso delle autorità pubbliche a dati personali conservati dai fornitori di servizi di comunicazione che, considerati nel loro insieme, consentano di trarre conclusioni precise sulla vita privata delle persone i cui dati sono oggetto di attenzione. Tale interpretazione era tuttavia motivata dal fatto che l’obiettivo perseguito da una normativa che disciplina tale accesso deve essere adeguato alla gravità dell’ingerenza nei diritti fondamentali in questione che tale operazione determina. In conformità al principio di proporzionalità, infatti, una grave ingerenza può essere giustificata, in tale ambito, solo da un obiettivo di lotta contro la criminalità che deve essere qualificata come “grave”. Al contrario, qualora l’ingerenza non sia grave, detto accesso può essere giustificato da un obiettivo di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di un “reato” in generale. La Corte sostiene che l’accesso ai soli dati oggetto della domanda in questione non può essere qualificato come un’ingerenza “grave” nei diritti fondamentali delle persone i cui dati sono oggetto di attenzione, poiché questi dati non permettono di trarre conclusioni precise sulla loro vita privata. La Corte ne trae la conclusione che l’ingerenza che un accesso a tali dati comporterebbe può quindi essere giustificata dall’obiettivo di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di “reati” in generale, senza che sia necessario che tali reati siano qualificati come “gravi”. Privacy, sotto tutela tutti i dati che consentono l’identificazione di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2018 Protezione dati personali, adeguamento al Regolamento Ue - Dlgs 101 del 10 agosto 2018 - Gazzetta Ufficiale 4 settembre 2018 n. 205. Il decreto di adeguamento al regolamento Gdpr (Dlgs 101/2018) recepisce in toto la nozione di “dato personale” in continuità con la precedente legislazione Ue. Pertanto, sono da ritenersi attuali le elaborazioni concettuali e le applicazioni maturate prima del Dlgs 101/2018 e del Gdpr, con riguardo all’opinione n. 4/2007 del “Gruppo di lavoro ex art. 29”. L’articolo 4, n. 1, del Gdpr definisce il dato personale come “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile (“interessato”)”. L’identificazione/identificabilità dell’interessato è un requisito essenziale: non basta l’astratto collegamento del dato con una persona, ma occorre che quest’ultima sia singolarmente identificata o almeno possa esserlo; altrimenti, l’informazione rimane anonima e, quindi, estranea alle tutele del Regolamento. Malgrado l’apparente chiarezza della norma, nella pratica quotidiana ci si interroga su cosa vada realmente considerato “dato personale” in un determinato contesto. Per consolidata impostazione, non occorre arrivare a conoscere il nome della persona, ma è sufficiente che questa venga distinta dagli altri membri di un gruppo. Ne deriva l’equipollenza, quanto alla nozione di dato personale, tra nome anagrafico e qualsiasi altro elemento informativo o complesso di elementi informativi - anche se detenuti da titolari diversi - ugualmente dotati di attitudine distintiva (immagini, suoni, codice identificativo, descrizione, “l’uomo vestito di nero al semaforo”). Nemmeno rileva che la persona sia individuabile da chiunque: ciò che determina l’applicazione delle tutele privacy e data protection è, invece, che essa possa essere distinta o riconosciuta con ragionevole probabilità almeno da qualcuno. Inoltre, dalla premessa che solo alcuni soggetti siano in grado di individuare l’interessato non deriva la conseguenza che una certa informazione sia “dato personale” solo rispetto a costoro, e non agli altri: questo implica che il titolare del trattamento potrebbe anche non conoscere l’identità dell’interessato, né avere modo di determinarla. Nelle più complesse ipotesi, il collegamento tra identificativo e persona fisica non si configura in termini di certezza bensì di mera possibilità (ad esempio, l’immagine del volto di un soggetto non ancora identificato, ma che possa esserlo). Secondo l’articolo 4, n. 1, Gdpr “si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente”, ossia, secondo l’interpretazione del Gruppo ex art. 29, attraverso un collegamento dell’identificativo rispetto alla persona fisica di tipo immediato (nome) o mediato (codice fiscale), il quale ultimo consente l’identificazione soltanto attraverso un’operazione ulteriore (confronto con specimen, registri o elenchi). Ai fini della nozione di identificabilità è essenziale il criterio della “ragionevole probabilità”, nel senso che non ha pregio qualsiasi identificazione possibile, bensì, secondo il Considerando n. 26 Gdpr, solo quella a cui si possa pervenire tenendo conto dei mezzi che è probabile verranno utilizzati dal titolare o da un terzo. La “ragionevole probabilità” va intesa come probabilità “qualificata”, ossia con un margine di verificazione apprezzabile. Il legislatore Ue fornisce parametri di riferimento alla stregua dei quali determinare se l’utilizzo dei mezzi di identificazione appaia o no ragionevolmente probabile: per il Considerando n. 26 occorre guardare all’insieme dei fattori obiettivi, tra cui i costi e il tempo necessario per l’identificazione, tenendo conto sia delle tecnologie disponibili, sia degli sviluppi tecnologici. Nella valutazione del rischio, il Gruppo ex art. 29 suggerisce un approccio ex ante, integrato da verifiche periodiche, che tengano conto dello stato dell’arte e del mutamento dei contesti rilevanti: in particolare, per stabilire se le informazioni in suo possesso soggiacciono alla disciplina del Gdpr e della normativa interna, il titolare del trattamento deve valutare in ottica prognostica ogni fattore (tipologia dei dati trattati, finalità del trattamento, interessi di terzi a conoscerli ecc.) potenzialmente idoneo a incidere sulla ragionevole probabilità che altri pervengano all’identificazione dell’interessato. È il caso delle immagini della videosorveglianza, che vanno sempre considerate dati personali in quanto la finalità del trattamento è proprio quella di pervenire all’identificazione degli interessati laddove necessario; e ciò ancorché, nella pratica, non tutti i soggetti ripresi siano identificabili. Umbria: il Sottosegretario alla Giustizia Morrone in visita alle carceri Quotidiano dell’Umbria, 3 ottobre 2018 Jacopo Morrone venerdì 5 ottobre visiterà la Casa Circondariale di Terni e a seguire quella di Capanne a Perugia. Il Sottosegretario di Stato alla Giustizia Jacopo Morrone ha raccolto l’invito e l’appello del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che nei giorni scorsi aveva evidenziato l’invivibilità delle carceri umbre, e il 5 ottobre sarà in visita nei penitenziari di Terni e Perugia. Ne dà notizia Fabrizio Bonino, segretario nazionale per l’Umbria del Sappe, il quale sottolinea che “dopo tutte le nostre segnalazioni e tutti gli eventi critici avvenuti in Umbria nei mesi precedenti, il Sottosegretario Morrone ha deciso di raccogliere il nostro invito a visitare almeno due (per ora e successivamente le altre due) sedi per rendersi conto personalmente dei gravi disagi che vive il personale soprattutto dopo l’accorpamento del Prap Umbria a quello della Toscana e l’emanazione del folle Decreto ministeriale dell’ex Guardasigilli Orlando del 2017 sulle piante organiche che ha penalizzato gli istituti Umbri in misura ancor maggiore rispetto agli altri”. Il Sappe, per voce del Segretario Generale Donato Capece, auspica “che a seguito della visita in Umbria del Sottosegretario alla Giustizia Morrone la Regione avrà l’attenzione istituzionale che merita e che, fino ad oggi, ha voluto solamente dire tagli agli organici ed ai servizi penitenziari”. Lazio: il Sinodo arriverà tra i giovani nelle carceri attraverso l’arte La Stampa, 3 ottobre 2018 Al via il 6 ottobre il progetto “Liberi nell’Arte” che prevede momenti artistici negli istituti penitenziari romani e l’istituzione di borse di studio per il reinserimento dei detenuti. Arriverà anche nelle carceri il Sinodo dei vescovi sui giovani grazie al progetto “Liberi nell’Arte”, iniziativa che vuole favorire la cultura del reinserimento e dell’integrazione sociale dei detenuti. Il progetto sarà presentato il 6 ottobre, nell’ambito dell’incontro tra i padri sinodali e i ragazzi di tutto il mondo che si terrà in Aula Paolo VI alla presenza di Papa Francesco. Promosso dalla stampa cattolica, Ucsi Molise, in collaborazione con Vatican News, ministero della Giustizia e Ispettorato generale dei cappellani, “Liberi nell’Arte” è “un progetto sul tema della giustizia e della tolleranza, per promuovere la cultura del reinserimento attraverso l’arte”, come sottolineano i promotori. Esso si esprimerà attraverso quattro distinti momenti artistici in quattro penitenziari e, al contempo, l’istituzione di tre borse lavoro e due borse di studio finalizzate al reinserimento dei detenuti. Gli eventi in programma sono il 18 ottobre la proiezione, in collaborazione con Sky, delfilm “Michelangelo infinito” al carcere femminile di Rebibbia con la diretta partecipazione dell’attore Enrico Lo Verso e del direttore artistico Cosetta Lagani; il 19 ottobre la presentazione dello show “Giudizio universale” nell’Istituto penale per Minorenni Casal del Marmo; il 20 ottobre il concerto con le Div4s Italians Sopranos nella Casa circondariale “Regina Coeli”, condotto da Lorena Bianchetti; infine il 25 ottobre la proiezione, sempre grazie al supporto di Sky, del film “Caravaggio, l ‘anima e il sangue” alla presenza di Emanuele Marigliano, l’interprete del film, del direttore artistico Lagani e del regista Jesus Garces Lambert, alla Casa di reclusione di Paliano, in provincia di Frosinone. “Anche in una cella di un carcere Dio ascolta la voce di questi giovani”, ha sottolineato durante la conferenza stampa di presentazione don Raffaele Grimaldi, ispettore generale cappellani. “È stato Papa Francesco con la sua attenzione ai carcerati, ai poveri e agli ultimi che ci ha dato lo slancio perché la Chiesa in uscita possa entrare nelle carceri”. “Ciò che si fa non è un evento, ma la tappa di un percorso di iniziative”, ha spiegato monsignor Dario Edoardo Viganò, “le carceri siano il luogo dove mettere alla prova la fede cristiana, che è un’esperienza di misericordia e di speranza”. “L’idea è quella di far conoscere la sofferenza patita dietro le sbarre e superare l’equivoco che porta ad identificare la persona con il suo errore”, ha fatto eco Davide Dionisi, del Dicastero per la comunicazione. “La popolazione carceraria è una sfida per la Chiesa di oggi: non poteva mancare al Sinodo la voce di questi sofferenti”, ha ricordato invece da parte sua Alfonso Cauteruccio, della Segreteria generale del Sinodo. “Portare l’arte all’interno delle carceri permette di far arrivare la voce della comunità ecclesiale, attraverso la comunicazione universale dell’arte, che non ha confini e nessuno può fermare”. Roma: io, padre di una detenuta, vi racconto un’altra Rebibbia Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2018 Ad alcune settimane dalla tragica morte, per mano della mamma, dei due bambini nel carcere di Rebibbia, vorrei raccontare un’altra faccia di quel carcere, un’esperienza che mi ha toccato molto da vicino, perché la mia unica figlia è stata lì dentro per quasi tre anni. Una ragazza giovane, che non ha ancora 23 anni. Non sto qui a spiegare i motivi che l’hanno portata lì, ma l’esperienza per lei non è stata così negativa, anzi, lei stessa dice che il carcere le ha fatto bene. In carcere si è ritrovata. Posso dire con assoluta certezza che ha avuto sostegno in un percorso non facile, anzi certamente lungo e travagliato. Eppure ha avuto supporto psichiatrico e psicologico, medico (ha una seria malattia del sistema immunitario) e personale. Ha infatti avuto, dopo oltre un anno e mezzo, anche l’opportunità di lavorare lì dentro e addirittura di seguire un corso di scrittura tenuto, attraverso una piattaforma e-learning, da 15 grandi scrittori italiani, gente del calibro di Dacia Maraini, Erri De Luca, Pino Corrias, Nicola Lagioia, Andrea Purgatori. Un progetto che è poi sfociato in un libro di racconti cui hanno contribuito 15 detenuti e addirittura in un premio letterario nella splendida cornice del Salone del Libro di Torino. Poi penso alle tragiche conseguenze del gesto disperato di quella mamma, alle due creature innocenti e a tutto quello che ne è scaturito: l’inchiesta giudiziaria, i tanti, forse troppi commenti, la sospensione dei vertici del carcere. Ebbene, ora mi sento in dovere di ringraziare quei vertici, quegli operatori e il personale della Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Rebibbia che per tre anni si sono occupati, e direi molto bene, di mia figlia. Lettera firmata Cagliari: Caligaris (Sdr) “troppi detenuti e un direttore che si fa in quattro” L’Unione Sarda, 3 ottobre 2018 Continuano ad aumentare i numeri di detenuti nel carcere di Uta. La denuncia arriva da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che fa riferimento ai dati diffusi dal ministero della Giustizia relativi alla situazione al 30 settembre scorso. “Il carcere di Cagliari-Uta continua a registrare un incremento di ristretti, nonostante le problematiche relative al personale penitenziario, al numero inadeguato di educatori, all’assenza di un coordinatore sanitario stabile e allo scandalo di un direttore che deve farsi letteralmente in quattro”, spiega la Caligaris. Che poi scende nel dettaglio: “I numeri parlano chiaro. Nel carcere ci sono 573 detenuti (20 donne; 129 stranieri pari al 22,5%). Un dato che evidenzia criticità in quanto si tratta di persone private della libertà oltre il limite regolamentare. I posti-letto infatti sono 561”. Ma a preoccupare è il costante incremento di detenuti. “Il 30 luglio erano infatti 556 (121 stranieri), il 31 agosto 562 (127 stranieri) in due mesi quindi c’è stato un incremento del 12,1% a cui non è corrisposto un analogo adeguamento del personale penitenziario”. Non bastasse, ai numeri si aggiunge la situazione del direttore, Marco Porcu: “Si tratta di un aspetto scandaloso di cui il ministro della Giustizia e il Dipartimento dovrebbero farsi carico con urgenza - afferma ancora la presidente di “Socialismo Diritti Riforme”: Porcu è il responsabile dell’istituto con il più alto numero di detenuti e deve curare anche la colonia penale di Isili, il carcere di Lanusei e garantire efficienza dell’Ufficio Contenzioso del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria”. Poi la situazione degli agenti “sempre in affanno, attualmente risultano diminuiti di una unità anche gli educatori”. Il tutto in “una realtà complessa come quella di Cagliari-Uta, dove si registra un alto numero di persone con problemi psichici legati alle tossicodipendenze, con un alto rischio di atti autolesionistici che spesso impegnano il personale in azioni salvavita, dove è collocata una sezione di Alta Sicurezza, non è più tollerabile il disinteresse dei vertici del Ministero”. Poi la richiesta: “Non è la prima volta che sollecitiamo un intervento che possa dare a chi opera a Uta, ma anche nelle altre strutture penitenziarie isolane, la dignità di un lavoro importante per la collettività perché finalizzato al recupero sociale di chi ha sbagliato, ma le segnalazioni finora non hanno sortito alcun risultato”. Pavia: Sportello Garante, nei tre istituti penitenziari un ufficio per la difesa dei detenuti vigevano24.it, 3 ottobre 2018 “Obiettivo di questo progetto è avvicinare i detenuti all’istituzione che li tutela - ha spiegato Carlo Lio”. La presentazione è prevista per giovedì a Pavia. Si va estendendo la mappa dello Sportello del Garante dei detenuti. Dopo l’attivazione del servizio negli istituti penitenziari milanesi e di Monza, arriva anche nelle carceri di Pavia, di Voghera e di Vigevano lo “Sportello del Garante”. L’inaugurazione ufficiale si terrà giovedì 4 ottobre, ore 11.30, presso la casa circondariale di Pavia (via Vigentina, 85) nel corso di un incontro per la stampa cui parteciperanno Carlo Lio, Difensore regionale di Regione Lombardia (che esercita per legge anche le funzioni di Garante dei detenuti), il Provveditore per l’Amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, la direttrice del carcere pavese, Stefania D’Agostino, la direttrice della casa circondariale di Voghera, Mariantonietta Tucci e del direttore del carcere di Vigevano, Davide Pisapia, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Provincia di Pavia, Vanna Jahier. Lo Sportello presso le tre case circondariali pavesi sarà a disposizione dei detenuti che avranno la possibilità di presentare richieste o istanze rivolgendosi a una figura istituzionale di garanzia. Questo il senso dell’iniziativa, particolarmente innovativa, voluta dal Difensore regionale della Lombardia e dal Provveditorato all’Amministrazione penitenziaria, in collaborazione con il Garante provinciale, che su questo hanno stipulato un accordo. “Obiettivo di questo progetto è avvicinare i detenuti all’istituzione che li tutela - ha spiegato Carlo Lio - aprendo sportelli direttamente accessibili all’interno del carcere. È un segnale di vicinanza e di attenzione da parte della Regione. Il mio intento è portare il lavoro in tutte le carceri della Lombardia, avviando collaborazioni con gli uffici dei Garanti dei cittadini nei Comuni sedi di case di reclusione”. Palermo: apre alle carceri il progetto educativo del Centro Pio La Torre di Davide Mancuso piolatorre.it, 3 ottobre 2018 Prenderà il via il prossimo 9 ottobre il Progetto Educativo Antimafia e Antiviolenza promosso dal Centro Studi Pio La Torre di Palermo e giunto al tredicesimo anno e rivolto agli studenti delle ultime tre classi delle scuole secondarie italiane di secondo grado La prima videoconferenza si terrà al Teatro Don Bosco-Ranchibile di via Libertà 199 a Palermo sul tema “La storia della mafia e dell’antimafia: evoluzione dal dopoguerra ad oggi. A discuterne Giovanna Boda, del Miur, lo storico Salvatore Lupo, dell’Università di Palermo e Vito Lo Monaco, Presidente del Centro Pio La Torre. Le carceri - Per la prima volta, da quest’anno il progetto sarà proposto anche alle Case Circondariali italiane che offrono ai propri detenuti corsi di studi medi-superiori. Già nove gli istituti penitenziari che hanno aderito, tra questi le due carceri di Palermo (Pagliarelli e Calogero Di Bona - Ucciardone), e quelli di Noto, Enna, Catania, Trapani. Adesioni anche dagli istituti penitenziari di Alessandria e Pesaro. Le attività progettuali - Nell’intento di accrescere la conoscenza e la valutazione critica delle mafie, del loro ruolo negativo nelle società nazionali, dei loro rapporti complessi con la realtà economica, sociale, istituzionale, politica, è stata strutturata una indagine sulla percezione delle mafie e della violenza in generale. I risultati di tale rilevazione, che tocca anche la coscienza civica e la condizione giovanile, saranno esaminati da un’equipe di esperti volontari (economisti, statistici, sociologi, giuristi), che sintetizzeranno le loro valutazioni in un rapporto conclusivo. Sarà cura del Comitato scientifico elaborare una specifica indagine per i detenuti studenti. Videoconferenze tematiche - Le sei videoconferenze tematiche previste si terranno dalla sede centrale di Palermo e in video-collegamento con tutte le scuole italiane e i centri provinciali per l’educazione degli adulti nelle Case di reclusione coinvolti nel progetto, in diretta streaming sul Portale legalità dell’Ansa e sul sito www.piolatorre.it, dove sarà possibile trovare anche la registrazione dopo pochi minuti. Questi i temi che saranno trattati: “La storia della mafia e dell’antimafia: evoluzione dal dopoguerra ad oggi; “Ruolo delle mafie: tra restringimento dei diritti, corruzione, violenza, e penetrazione mafiosa”; “L’espansione territoriale delle mafie e la corruzione”; “La Globalizzazione delle mafie”; “Migrazioni del XXI secolo; l’Italia e l’Europa tra disuguaglianza, accoglienza e integrazione”; “L’antimafia della Chiesa”; “Femminicidio e differenze di genere nell’affermazione dei diritti di cittadinanza nella società Italiana”. Le videoconferenze saranno strutturate in più fasi, con una prima parte a cura di docenti universitari, esperti nelle singole tematiche trattate, che affronteranno gli argomenti, con una trattazione divulgativa accompagnata dalla proiezione di immagini, grafici, ecc. A questa prima fase seguirà un’attività ludica-didattica, che coinvolgerà gli studenti attraverso un questionario di verifica proposto con l’utilizzo di un’applicazione web per permettere una fase di verifica dei contenuti appresi nelle videoconferenze. Infine la fase finale accoglierà le domande in un dibattito aperto. Scritture contro la mafia - Gli studenti che seguiranno il progetto saranno sollecitati a produrre liberamente, nella forma e nella sostanza, propri elaborati individuali e collettivi, che saranno pubblicati sul sito del Centro e su “A Sud d’Europa”, la rivista online del Centro, dove potranno pubblicare le loro riflessioni sui temi affrontati nelle videoconferenze o proporre altre tematiche di loro interesse. Teatro contro la mafia - Gli studenti, opportunamente guidati, potranno liberamente utilizzare e rappresentare i testi teatrali stampati dal Centro Studi Pio La Torre, “Orgoglio di Sicilia” di Vincenzo Consolo e “Fango” di Gabriello Montemagno, al fine della produzione di una performance che li rappresenti. Milano: targa davanti a San Vittore per ricordare Stefano Cucchi La Repubblica, 3 ottobre 2018 La mozione in aula. Una targa o un monumento per ricordare la vita “e la tragica morte” di Stefano Cucchi, il 31enne romano morto nel 2009 dopo essere stato arrestato, in circostanze che ancora oggi sono oggetto di un processo davanti alla Cassazione. Una testimonianza per la quale scegliere un luogo simbolo, come i giardini di piazza Filangieri, all’ingresso del carcere di San Vittore, visto che Stefano Cucchi entrò a Regina Coeli il 16 ottobre di nove anni fa, morendo dopo sei giorni nel reparto protetto dell’ospedale Pertini. A chiedere con un ordine del giorno l’intitolazione è il consigliere comunale del Pd Alessandro Giungi, che ha raccolto le firme della maggioranza di Palazzo Marino e del gruppo del Movimento 5 Stelle. La richiesta è al sindaco e alla giunta e ricorda che “Stefano Cucchi è diventato un simbolo, per larga parte dell’opinione pubblica, di coloro che muoiono di cause non naturali in stato di detenzione” e che questa morte “è da ritenersi come una delle più gravi per l’ordinamento di un Paese democratico, stanti le responsabilità dirette in capo allo Stato della sicurezza e della salute della persona reclusa”, come scrive Giungi, chiedendo che possano essere gli stessi detenuti di San Vittore e delle altre carceri milanesi a contribuire alla realizzazione della targa. Roma: a Rebibbia “In campo per la giustizia”; triangolare detenuti, Rai, polisportiva Ansa, 3 ottobre 2018 Atletico Diritti, detenuti di Rebibbia e nazionale giornalisti Rai in campo per la giustizia insieme a Don Luigi Ciotti: il prossimo 11 ottobre a Roma, presso la casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso (via Raffaele Majetti 70), si terrà l’iniziativa “In campo per la giustizia” organizzata da Atletico Diritti, polisportiva nata dall’impegno di Antigone e di Progetto Diritti nel nome dell’accoglienza dei rifugiati e dell’integrazione. A partire dalle ore 10.00, sul campo del carcere, Atletico Diritti affronterà in un triangolare la squadra dei detenuti e la Nazionale Giornalisti Rai. A dare il calcio di inizio saranno Don Luigi Ciotti, presidente di Libera, Don Tonio Dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, Don Sandro Spriano, cappellano del carcere di Rebibbia e Don Armando Zappolini, presidente del Cnca. Interverranno inoltre Luca Pietromarchi, Rettore dell’Università Roma Tre, Alessandro Messina, Direttore Generale di Banca Etica, Emilio Sica e Sara Colombera dello Studio Legale Legence. Sono queste le realtà che hanno deciso di sostenere la squadra. Ci sarà inoltre Fabio Appetiti in rappresentanza dell’Associazione Italiana Calciatori che già in passato ha preso parte ad iniziative promosse da Atletico Diritti. Questa iniziativa rientra nell’ambito delle Football People action weeks lanciate da Fare Network (Football Against Racism in Europe). Le Football People action weeks, cui Atletico Diritti aderisce per il terzo anno consecutivo, sono un movimento internazionale per combattere la discriminazione attraverso il calcio e vedono più di 100.000 persone prendere parte a oltre 2.000 eventi in 60 Paesi diversi. Rieti: “Lo sport entra nelle carceri”, domani si chiude con Npc e Real Il Messaggero, 3 ottobre 2018 Festa finale per il progetto “Lo sport entra nelle carceri”, realizzato da Coni Lazio e Coni Point Rieti con la partecipazione finanziaria della Fondazione Varrone. Domani dalle 10 alle 12.30 nella Casa Circondariale di Rieti, negli stessi ambienti carcerari messi a disposizione per lezioni di basket, calcio a 5, tennis e tennis tavolo svoltesi nei mesi estivi, sono previste alcune partite “speciali”, con la partecipazione di giocatori e tecnici della Npc Rieti tra cui Roberto Feliciangeli, Gianluca De Ambrosi e l’intera squadra del Real Rieti calcio a 5, vittoriosa ieri nella “prima” di campionato contro la Lazio. Sono un centinaio i detenuti che hanno seguito un percorso sportivo di 150 ore sotto la guida dei tecnici Giuliano Buccioli (basket), Roberto Ciancarelli (tennis), Piero Benedetti (calcio a 5) e Giovanni Lanzotti (tennis tavolo) coordinati da Luciano Pistolesi. Saranno presenti con la direttrice Vera Poggetti, il presidente del Coni Lazio Riccardo Viola e la Fondazione Varrone alcuni rappresentanti delle istituzioni come il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia, il Prefetto di Rieti Giuseppina Reggiani, il Questore Antonio Mannoni, il delegato del sindaco, ed ex velocista azzurro, Roberto Donati. Per il secondo anno consecutivo la Casa Circondariale del capoluogo sabino si apre allo sport, elemento fondamentale per creare spirito di gruppo e ridurre i conflitti interpersonali. “Si tratta soprattutto di un diritto universale che non conosce confini né barriere - afferma Viola, che poi ha aggiunto - Portare momenti di distrazione e normalità anche nei luoghi di sofferenza è un segno di civiltà e il nostro obiettivo”. Milano: il palco come libertà, le detenute di San Vittore diventano attrici di Sara Cariglia letteradonna.it, 3 ottobre 2018 Uno spettacolo ispirato al Diario di Frida che trae spunto dalle pagine dell’artista, ma anche dai quaderni delle recluse scritti nelle loro celle. E racconta il carcere. Che, nel bene e nel male, è vita. L’importante è sapere splendere anche quando va via la luce. E qualche sera fa, a dimostralo con i buoni propositi in una mano e la speranza nell’altra, sono state alcune detenute ed ex detenute della sezione femminile del carcere di San Vittore che, si sono esibite - è proprio il caso di dirlo - nella performance teatrale più blindata di Milano. Lo hanno fatto di fronte allo sguardo vigile della polizia penitenziaria, di direttore e comandante, ma anche al cospetto dei 90 ospiti accorsi oltre il muro di cinta, per assistere a Viva la Vida. Uno spettacolo ispirato al Diario di Frida che trae spunto non solo dalle pagine d’appunto dell’artista messicana Khalo, ma anche dai quaderni delle recluse scritti di getto nelle loro celle nel buio dei propri pensieri. “È la prima volta che le attrici ex detenute hanno la possibilità di rientrare a San Vittore”, ci confida Donatella Massimilla, da ben 25 anni regista della casa circondariale, la quale si dice davvero entusiasta di rivedere le sue allieve finalmente riunite. Un ponte tra dentro e fuori dal carcere - La mission? Creare un ponte tra il dentro e il fuori: “È una peculiarità che in Italia esiste solo a San Vittore. Una testimonianza di come questa strana comunità abbia cementato solide relazioni che fa sì che le ex recluse diventino delle testimonial molto vere anche agli occhi delle compagne che sono ancora in prigione a scontare la pena” puntella la direttrice artistica, persuasa dall’idea che il teatro lo si debba portare non solo sui palcoscenici ma soprattutto nelle carceri. E lei Frida, questa donna sibillina dai mille volti e dalle mille risorse, in questa tiepida serata autunnale, ha deciso di accompagnarla nell’unica oasi verde dell’istituto di pena di piazza Filangieri: il giardino segreto del Raggio femminile. Il giardino delle della sezione femminile, come Casa Azul di Frida - Durante il periodo estivo è lui il vero fiore all’occhiello della casa circondariale. È molto intimo e accogliente: il gazebo in ferro battuto che fa capolino tra un arbusto e l’altro e le varietà di piante ornamentali, curate con dedizione dal pollice verde di alcuni detenuti, lo rendono particolarmente suggestivo. “La performance abbiamo deciso di ambientarla proprio qui perché il giardino della sezione femminile ricorda tantissimo l’eden di Frida a Casa Azul, a Città del Messico” dice la Massimilla, in procinto di ritornare dopo 30 anni laddove tutto ebbe inizio: nella patria della pittrice. Ma ora per divulgare il suo progetto artistico: “Lo porteremo nelle galere spagnole e messicane al fine di creare legami di sangue che non si sciolgono mai e al mio ritorno creeremo un nuovo diario che sarà avvalorato da un libro e da un film (maggio 2019). Protagoniste saranno ancora una volta le detenute”, svela la regista sempre più convinta che questo modo antropologico di fare teatro, che dà voce alla detenuta filippina, a quella boliviana, o a quella brasiliana, sia parte della sua natura. Che a ragion veduta ben si sposa con quella del Raggio femminile: cosmopolita per definizione. Dietro le sbarre, dove il tempo è sospeso - A personificarlo è anche Gabriela, attrice ecuadoriana. Ha 43 anni ma ne dimostra dieci in meno. “Forse perché in carcere”, osserva la Massimilla”, il tempo è sospeso, e così sembra che congeli persino i tratti somatici di chi è qui a trascorrere un pezzo della propria vita”. “Ho dovuto scontare una pena abbastanza lunga e ora sono in affido sociale. Come si può notare io e le mie compagne non indossiamo né la tutina arancione né portiamo la palla al piede”, stempera Gabriela che, spiega come teatro sia stato “un sospiro a quella vita così routinaria e così monotona”. Anche lei come Frida si è innamorata dell’uomo sbagliato: “Mi ha portato a vivere la tragedia più grande della mia vita: la reclusione. Ognuno di noi qui al femminile ha un vissuto che si riflette nella storia di quest’artista ed è per questo che nella nostra performance non ci sono né interpreti né protagoniste, ma solo donne, e in ognuna di loro c’è una Frida. Siamo tutte Frida”. Il carcere coercitivo non abbassa la criminalità - Tuttavia per gli ospiti è tempo di godersi lo spettacolo. A proposito di tempo, a scandire quello della casa circondariale è un orologio: “Ha l’età di San Vittore (1879). È stato cambiato solo il meccanismo”, confida un’agente della polizia penitenziaria. Da 150 anni è lui a battere il tempo. Un tempo con cui bisogna fare i conti a San Vittore. Un tempo che va riempito se si vuole abbassare il tasso di recidiva, poiché il carcere coercitivo, quello del buttali dentro e getta via la chiave, è un carcere che non abbassa la criminalità, ma la alza. Perché chi sta dentro in un tempo vuoto, se non va fuori di testa, organizza la rapina successiva. Ed è proprio sotto l’egida di questa importante riflessione che nascono teatro o altre iniziative di questa portata. Quando un po’ di libertà può salvare - A darne prova provata è Ana, ex detenuta, Sudamericana. Il suo arresto risale al 2012: “A salvarmi furono il lavoro e il teatro. Di giorno lavoravo nelle cucine del carcere mentre nel tempo libero recitavo. Stasera, dopo tanti anni sono rientrata a San Vittore e le sensazioni sono state tante e sgradevoli”. D’allora di acqua sotto i ponti ne è passata, eppure, per Ana, alcuni momenti rimarranno scalfiti per sempre nelle pagine della sua storia. Come quello in cui uscì per la prima volta della sua dimora: “Fummo le prime detenute a ottenere il permesso d’uscita. Esordimmo a Palazzo Isimbardi con La casa di Bernarda Alba. Era da più di un anno che non vedevo la mia famiglia e i miei amici. Da una parte fu bello perché ebbi la possibilità di riabbracciarli ma dall’altra non nascondo che provai tanta vergogna”, confessa l’attrice che riuscì a risorgere dalle proprie ceneri solo nel momento in cui capì che nessuno aveva il diritto di prendersi la sua libertà. Una libertà interiore che ancor oggi alcune recluse non hanno del tutto maturato: “Devo rimanere in prigione per ben cinque anni. Sembrava strano per una bimba così vivace non poter uscire dalla stanza, ma per uscire da me stessa trovo il modo di cercarmi un amico immaginario. Solo attraverso di lui posso varcare la soglia di un confine invalicabile” recita Eva, una giovanissima fanciulla carcerata di origine filippina che interpreta le sue stesse parole. Parole che, se non fosse stato per il teatro d’arte sociale targato Cetec, sarebbero rimaste chiuse a chiave per sempre in una delle tante anonime e fredde celle della galera milanese. Il carcere è vita, nel bene e nel male - Tuttavia, sopra quel palco a rubare la scena e il cuore dei presenti è stata più di ogni altra cosa, il moto ridondante e perpetuo di un’altra frase, “anima ferita è questa la mia vita”. Un’espressione, scritta per mano di una galeotta sul suo personalissimo diario di Frida. “Ha ancora tanti anni da scontare. La sua prigione è quella dell’anima ma credo che la cultura, il teatro e lo studio siano uno strumento straordinario di trasformazione e noi quello che vogliamo fare è re-esistere. Lo facciamo nelle carceri, nei luoghi psichiatrici e con le persone audiolese. Insomma, con i pubblici diversi, forse perché anche noi ci sentiamo un po’ diversi”, ha detto in chiusura Donatella Massimilla che ha ceduto la parola al padrone di casa, Giacinto Siciliano, il direttore di San Vittore. Che, quel crescendo di energia e di applausi lo ha dedicato ai “suoi” detenuti: “Perché in fondo abbiamo tutti bisogno di un riconoscimento! Per noi è fondamentale che voi possiate prendere parte a queste iniziative perché vi portate a casa un’esperienza, e la mia richiesta è sempre la stessa: raccontatela, perché la gente fuori non sa, non pensa e non capisce che cosa succede all’interno del carcere. Il carcere è vita. È vita sempre, anche quando ci sono problemi, anche quando la vita va via. Quindi, Viva la Vida”. Torino: “Piano Solo”, Stefano Bollani in concerto per i detenuti lettera21.org, 3 ottobre 2018 Stefano Bollani e il suo “Piano Solo” a Torino a sostegno del Fondo Alberto e Angelica Musy. Da Bach ai Beatles, da Stravinskij ai ritmi brasiliani, dal pop più conosciuto al repertorio italiano degli anni Quaranta, per una serata speciale. L’estro e il talento del compositore e pianista milanese incontrano la sensibilità del Fondo dedicato al ricordo di Alberto Musy, avvocato, docente universitario e consigliere comunale, morto nell’ottobre 2013 in seguito a un attentato sotto casa. Lunedì 19 novembre alle ore 21 presso il Teatro Regio il concerto di Stefano Bollani diventa l’occasione per non rimanere insensibili all’idea che lo studio possa aiutare a costruire una società più giusta, con particolare attenzione al reinserimento delle persone che nel periodo detentivo hanno scelto di dedicarsi agli studi universitari. L’utile del ricavato dall’evento sarà infatti interamente destinato a pagare le borse lavoro per permettere ai detenuti studenti del Polo Universitario del carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino di proseguire la frequenza ai corsi di laurea, per favorirne il successivo reinserimento sociale e lavorativo. I biglietti della platea sono già disponibili su Ticket One e su Piemonte Ticket. I palchi del Teatro possono essere riservati da privati e aziende esclusivamente scrivendo a fondo@fondomusy.it. “La speranza oltre le sbarre”. Viaggio-inchiesta nel carcere di massima sicurezza di Andrea Caprincoli Libero, 3 ottobre 2018 Un’inchiesta nel supercarcere di Sulmona (L’Aquila), il famigerato “penitenziario dei suicidi”, dove scontano l’ergastolo ostativo alcuni dei più efferati criminali italiani, tra cui Domenico Pace, il killer del “giudice ragazzino” Rosario Livatino, e Domenico Ganci, fedelissimo di Totò Riina e corresponsabile degli omicidi di Falcone e Borsellino. Da qui nasce il volume “La speranza oltre le sbarre”. Viaggio in un carcere di massima sicurezza (San Paolo, pp. 180, euro 16), scritto a quattro mani dal teologo Maurizio Gronchi, presbitero della diocesi di Pisa e ordinario di cristologia alla Pontificia Università Urbaniana, e dalla giornalista Rai Angela Trentini. C’è chi chiede perdono, chi nega tutte le verità processuali e si proclama innocente, chi scrive poesie, chi si dà al teatro come atto liberatorio, chi supplica il Santo Padre... Il libro ospita anche le testimonianze dei familiari delle vittime - dal sociologo Nando Dalla Chiesa, figlio del generale ucciso da Cosa Nostra, a Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, e a Maria Falcone, sorella di Giovanni, che punta sulla scuola per sconfiggere la mafia - e di un ex magistrato, Sebastiano Puliga, condannato a oltre tre anni, che denuncia il clima forcaiolo dominante in Italia, perché “se è successo è giusto, e se è stato condannato qualcosa avrà pur fatto”. Per chiudersi con alcuni interventi sui detenuti di papa Francesco commentati da Gronchi. Migranti. Decreto sicurezza, uno strappo alle regole e le sue pericolose ricadute di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 3 ottobre 2018 Per la sospensione di una richiesta d’asilo potrà bastare anche una semplice denuncia. I sospiri di sollievo che stanno accogliendo la versione definitiva della legge dell’ovvero, in uno dei punti qualificanti del cosiddetto “decreto sicurezza” fortemente voluto dal ministro leghista dell’Interno Matteo Salvini, rivelano l’acquiescenza con la quale ormai vengono accettati come normali, e persino quasi nemmeno più percepiti, i progressivi sbriciolamenti di mattoni dello stato di diritto, e gli ulteriori arretramenti di garanzie processuali che (come la presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva, o quantomeno sino a un primo significativo giudicato) si pensavano acquisite una volta per sempre. Diversamente dalla prima versione, che dalla commissione di taluni reati da parte di richiedenti asilo voleva far discendere automaticamente la sospensione della domanda di protezione internazionale, ora il testo definitivo dispone che “la Commissione territoriale competente per il riconoscimento della protezione internazionale” (organo amministrativo nell’orbita del Viminale, composto da un viceprefetto, un funzionario di polizia, un rappresentante di un ente territoriale designato dalla Conferenza Stato-autonomie locali, e un delegato dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati) “provveda nell’immediatezza all’audizione dell’interessato e adotti contestuale decisione”. Se sarà di diniego, determinerà l’immediato allontanamento del migrante dall’Italia, velando così di ipocrita ineffettività la pur teorica possibilità di far poi ricorso ai Tribunali italiani dall’altro capo del mondo. La rinuncia al meccanismo di cieco automatismo, e l’esame invece caso per caso (con audizione della persona), sono certamente un passo avanti. Che però non cancella l’enormità del presupposto, che nella legge resta inalterato: e cioè il fatto che non una condanna definitiva (come avviene oggi), e neanche esclusivamente almeno una condanna di primo grado, ma già solo la semplice denuncia dello straniero alle Procure da parte delle forze dell’ordine potrà fargli rischiare di perdere la domanda di asilo per un catalogo di reati peraltro abbinato a una gassosa nozione di “pericolosità sociale”: catalogo già contemplato dalla legge in vigore in caso di verdetti definitivi, e ora ancor più ampliato dal decreto-sicurezza in maniera disomogenea, ad esempio con l’inserimento (accanto a reati gravi come violenze sessuali o traffico di droga) di un tipo di denunce tanto diffuso quanto per sua natura sempre bisognoso di verifiche come la “minaccia” o la “resistenza a pubblico ufficiale”. L’articolo 10 del decreto, infatti, vale “quando il richiedente asilo è sottoposto a procedimento penale ovvero è stato condannato anche con sentenza non definitiva”. E ovvero, nelle leggi, non ha il significato esplicativo equivalente di ossia, die cioè, ma quello disgiuntivo alternativo di oppure. Il testo del decreto dice quindi che, affinché il richiedente asilo incappi nel rischio dello stop immediato alla sua domanda legato a eventuali reati, i presupposti potranno essere due: o condanna in primo grado o sottoposizione a procedimento penale. E che dunque potrà bastare già la semplice denuncia. Il mero sospetto. Nel decreto-Minniti si era iniziato a togliere ai richiedenti asilo il grado di appello contro i dinieghi dei giudici civili alla protezione, adesso nel decreto-Salvini si inizia a infrangere il tabù della presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva. Se le parole dei testi normativi hanno un senso, non è quindi miope il ministro dell’Interno quando ieri a Napoli vanta il decreto (“Il richiedente asilo commette un reato? Immediata convocazione in Commissione, sospensione ed espulsione: questo accadrà!”): è miope chi non prende sul serio le ricadute (prima o poi anche sugli italiani) delle forzature di norme per ora sperimentate sugli stranieri. Giornata dei migranti a Lampedusa, il Miur non la sostiene più di Alessandra Ziniti La Repubblica, 3 ottobre 2018 Il 3 ottobre si celebra il quinto anniversario della strage, ma per la prima volta il ministero della Pubblica istruzione non dà corso al bando. Alle celebrazioni non va alcun rappresentante istituzionale. I ragazzi ci sono lo stesso ma sono solo 100. Piu’ della metà sono rimasti a casa, per mancanza di fondi e soprattutto perché nessuno ha guardato e valutato gli elaborati ai quali hanno lavorato per tutto l’anno. È cambiato il clima e si sente anche a Lampedusa nei giorni del quinto anniversario del naufragio che il 3 ottobre del 2013 fece 368 vittime. Quest’anno, senza alcuna presa di posizione ufficiale, il Miur, il ministero della pubblica istruzione, si è smarcato e non ha offerto il proprio sostegno all’iniziativa del Comitato 3 ottobre come invece era successo nei due anni precedenti, da quando il Parlamento italiano ha istituito per legge la giornata della memoria e dell’accoglienza. A giugno scorso, così come era stato nei due anni precedenti, il Miur ha pubblicato il bando per la selezione dei partecipanti al progetto “Porte d’Europa” e alle iniziative concomitanti con la celebrazione del 3 ottobre. I ragazzi delle scuole di secondo grado sono stati chiamati a gemellarsi con un liceo europeo e a preparare elaborati e progetti destinati ad essere esposti in questi giorni nella sezione giovani del Museo della fiducia e del dialogo di Lampedusa. Progetti - si legge nel bando - che “ si propongono di sviluppare la cultura della solidarietà, dell’accoglienza e del dialogo fondata sul rispetto dei diritti umani”. Non proprio valori sui quali il governo Conte ha in mente di investire nella formazione delle future generazioni. E dunque non è andata così. Dopo mesi di lavoro le scuole che avevano aderito all’iniziativa hanno atteso invano che il ministero della Pubblica istruzione si pronunciasse sugli elaborati e assegnasse il premio, cioè la partecipazione alle manifestazioni di Lampedusa del 3 ottobre. Il Miur non ha mai neanche insediato l’apposita commissione e dunque al bando non è stato dato alcun corso. Al Comitato 3 ottobre, pressato da decine di scuole che chiedevano di poter andare a Lampedusa, non è rimasto che chiedere il sostegno delle altre sigle aderenti alle iniziative, dall’Unhcr ad alcune Ong e fondazioni che solo in parte hanno supplito alla mancanza di finanziamenti consentendo ad un centinaio di ragazzi di arrivare a Lampedusa. Oggi l’incontro con i superstiti del naufragio che anche quest’anno hanno fatto ritorno nell’isola, domani il corteo (a questo punto ridotto ai minimi termini) fino alla porta della vita. Un’edizione in sordina, senza alcun rappresentante istituzionale che abbia sentito la voglia e la necessità di prendere parte a celebrazioni che negli anni scorsi hanno visto la partecipazione del presidente della Repubblica Mattarella, dell’allora presidente del Senato Grasso, di diversi ministri. L’aria è cambiata anche a Lampedusa. Migranti. Digiuno di giustizia contro chi minaccia la vita di Alex Zanotelli Nigrizia, 3 ottobre 2018 Lo scorso 26 giugno, Matteo Salvini ha incontrato a Tripoli le autorità libiche per affrontare il problema dei flussi migratori. Ha chiesto inoltre di visitare un centro di accoglienza, definito “all’avanguardia” che potrà ospitare mille persone. E ha dichiarato: “Questo per smontare la retorica in base alla quale in Libia si tortura e non si rispettano i diritti umani”. Il ministro ha così scientemente ignorato che: il governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, pesa poco e gestisce solo segmenti di territorio; nel paese agiscono varie milizie, alcune disposte a contrattare con Tripoli, altre fuori controllo; c’è un secondo governo a Tobruk, in Cirenaica, gestito dal generale Haftar; il paese è tutt’altro che sicuro e riconciliato. Salvini inoltre si fa beffa dei rapporti di Amnesty International e delle dichiarazioni dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni che affermano che in Libia i diritti umani non contano nulla. E naturalmente il ministro non presta ascolto ai racconti di chi, ora in Italia, è stato detenuto in uno dei centri libici. In questi mesi, sono rimasto molto perplesso e amareggiato per il silenzio della società civile, e in particolare della Chiesa, di fronte a quello che stava e sta avvenendo con il governo uscito dalle urne del 4 marzo. Anche perché nel solo mese di giugno abbiamo avuto 600 morti nel Mediterraneo. E ciò a causa della “guerra” che il ministro dell’interno Salvini ha dichiarato alle organizzazioni non governative (Ong) e degli ordini di chiudere i porti. Senza dire delle minacce di attuare espulsioni di massa dei migranti senza documenti e di usare i bulldozer per sgomberare i campi nomadi. Sono rimasto impressionato e spaventato dal linguaggio razzista della politica e dalle parole usate anche dalla gente comune. Spaventato, ma non sorpreso. Inutile nascondersi infatti che le scelte e le dichiarazioni di Salvini hanno l’adesione di una parte consistente dell’opinione pubblica. Del resto, lo stesso sta avvenendo negli Stati Uniti con la presidenza Trump. Davanti a questa situazione, che mette in pericolo i fondamenti stessi della nostra democrazia, ho pensato che fosse necessario reagire. Anche con gesti simbolici. Così il 10 luglio siamo partiti con un digiuno a staffetta. Poche persone: monsignor Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta, don Alessandro Santoro a nome della comunità delle Piagge-Firenze, padre Giorgio Ghezzi, suor Rita Giaretta, il gruppo Agesci di Caserta e qualche altro. Per lanciare e rendere pubblico questo digiuno, abbiamo attuato un presidio davanti a Montecitorio fino a fine luglio (presidio sospeso in agosto perché il parlamento è chiuso, e ripreso in settembre). Un’esperienza per me molto forte. Anche per le numerose adesioni arrivate: molte dal campo civile, ma anche sul versante ecclesiale hanno aderito singoli, conventi e comunità religiose. Il digiuno, strumento nonviolento, è una pratica che trova un consenso trasversale nella società. Due fatti ci hanno sostenuto. L’eucaristia celebrata il 21 luglio nella Cappella ungherese delle grotte vaticane, dove abbiamo espresso il nostro grazie a papa Francesco per il suo magistero sui migranti. E poi la dura e ferma presa di posizione della Conferenza episcopale italiana, che ha preso spunto dal volto di Josefa, salvata dopo essere rimasta aggrappata per due giorni a un relitto: “La via per salvare la nostra stessa umanità dalla volgarità e dall’imbarbarimento passa dall’impegno a custodire la vita. Ogni vita”. Abbiamo dunque deciso di proseguire con il digiuno a staffetta anche in questo mese di settembre e di continuare a raccogliere le adesioni che possono essere inviate a questo indirizzo email: digiunodigiustizia@hotmail.com. È il modo che abbiamo scelto per porre domande alla società italiana. Ma quella del digiuno dev’essere una delle tante forme di mobilitazione che possono interagire e crescere. Sono convinto che, pian piano e dal basso, la società civile troverà tante modalità nonviolente per dire a questo governo: “Non ne possiamo più!”. Vorremmo inoltre che parrocchie, case religiose ed enti riconosciuti si dichiarino (come già avviene negli Usa) Sanctuary movement, cioè luoghi dove chi è espulso dall’Italia e rischia la vita nel suo paese di origine possa trovare rifugio. La guerra alla droga è anche guerra alla ricerca di Marco Perduca Il Manifesto, 3 ottobre 2018 Alla sessione inaugurale della 73° Assemblea generale dell’Onu il 26 settembre scorso, Donald Trump ha organizzato un incontro per rafforzare la lotta mondiale al narcotraffico. La dichiarazione finale, sottoscritta anche dall’Italia, è il solito concentrato di generici impegni per la riduzione della domanda e dell’offerta passando per l’aiuto a chi si deve disintossicare o vede in Internet il nuovo spazio dello spaccio mortale. Il testo esclude totalmente ogni riferimento all’uso medico e scientifico delle “droghe” che dall’inizio degli anni Sessanta sono proibite a livello globale se non utilizzate, per l’appunto, per migliorare la salute umana. Nessuno si aspettava che gli Usa si assumessero la responsabilità di promuovere quelle ricerche che, proprio in diversi dipartimenti universitari statunitensi, evidenziano che le sostanze psichedeliche possono, tra le altre cose, rivoluzionare anche la cura di vari disturbi mentali. Ma che gli europei che consentono la prescrizione di cannabis, o paesi che l’hanno legalizzata come il Canada e l’Uruguay, non abbiano sollevato neanche marginalmente il problema conferma che il proibizionismo rimane l’architrave del pensiero, oltre che delle leggi e delle politiche della stragrande maggioranza delle cosiddette democrazie. Un pensiero che a Roma viene incarnato nei suoi risvolti più reazionari dal Ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, mentre la Ministra della Salute Giulia Grillo promuove la cannabis terapeutica ed è a favore della totale legalizzazione della pianta. A fronte di ricerche in stadio molto avanzato, principalmente grazie a finanziamenti privati, i ricercatori sulle sostanze psicotrope e psicoattive devono far molta attenzione a come divulgano le loro conclusioni, o promuovono il proprio lavoro, perché le norme nazionali e internazionali restano particolarmente restrittive e punitive quando si tratta di determinate sostanze. Nei mesi scorsi sono fioccate multe salatissime ad alcune farmacie che informavano sulla possibilità di acquisto di cannabinoidi medici. In attesa di conoscere i dati ufficiali relativi alle prescrizioni di cannabis terapeutica in Italia, non si ha notizia di gravi intossicazioni da Thc o Cbd somministrati sotto controllo medico, mentre cresce il numero di pazienti che affermano di star meglio a seguito dell’assunzione della cannabis. Più luci che ombre quindi, ma con poca letteratura scientifica a sostegno. Nel marzo 2019, a tre anni dalla sessione speciale sulle droghe di New York, gli Stati membri delle Nazioni unite si riuniranno a Vienna per fare il punto sul cosiddetto “sistema internazionale di controllo delle droghe”. Nei documenti preparatori i riferimenti ai farmaci essenziali, tipo la morfina, sono scarsi, mentre nessuno tiene conto dei progressi scientifici che la ricerca medica ha prodotto sulle sostanze contenute nelle tabelle delle tre Convenzioni. Anche il lavoro di “revisione critica” della cannabis promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità è silenziato. C’è il grosso rischio quindi che l’uso medico delle sostanze controllate continui a essere semi-proibito violando, tra gli altri, anche il diritto umano alla scienza su cui l’Onu sta lavorando da un paio d’anni. Il 5 ottobre 2018 all’Università Statale di Milano (via Festa del Perdono 7) dalle 14 alle 16.30, Science for Democracy e l’Associazione Luca Coscioni organizzano un incontro intitolato “Droghe: scienza negata, terapie proibite” su psilocibina e cannabis con esperti e ricercatori italiani ed europei per spiegare quanto “bene” possano fare le “droghe”. Iran. Giustiziata la sposa bambina che uccise il marito Il Dubbio, 3 ottobre 2018 Zeynab Sekanvand aveva denunciato più volte gli abusi dell’uomo. Il Paese sciita è rimasto l’unico al mondo a condannare a morte i minorenni. La 24enne Zeynab Sekanvand è stata giustiziata ieri mattina insieme ad altri due detenuti nel carcere di Urmia, nel nord-ovest dell’Iran. Lo ha reso noto Iran Human Rights (Ihr), che denuncia come la donna sia stata condannata a morte per un reato - l’omicidio del marito - commesso quando era ancora minorenne e fu costretta con la forza a sposare quell’uomo. “Nonostante abbia ratificato diversi trattati internazionali che vietano la pena di morte per reati commessi da minorenni, l’Iran rimane il Paese con il più alto numero al mondo di esecuzioni di criminali con meno di 18 anni”, ha sottolineato in una nota l’organizzazione con sede a Oslo che si batte contro la pena di morte nella Repubblica islamica. La giovane, ha proseguito l’ong, si era sposata a 15 anni e, secondo fonti a lei vicine, avrebbe subito “abusi” dal marito, che Zeinab ha più volte denunciato. Alla denuncia, tuttavia, non c’è stato alcun seguito. Zeinab è stata rinchiusa i primi due anni nel carcere di Khoy, nella provincia dell’Azerbaijan occidentale. Dopo la condanna è stata trasferita nella sezione femminile della prigione di Urmia. La sua esecuzione era stata fissata inizialmente ad ottobre 2016 e poi rinviata. “L’esecuzione di Zeinab Sekanvand, il quinto minorenne giustiziato in Iran nel 2018, e le minacce di condanna a morte con il pretesto di combattere la corruzione non rispettano gli standard minimi di un giusto processo e devono essere condannate a livello internazionale”, ha detto il portavoce di Ihr, Mahmood Amiry- Moghaddam. L’Iran è rimasto l’unico Paese al mondo a mettere a morte minorenni al momento del reato: dal 2005, segnala Amnesty, vi sono state circa 90 esecuzioni nel braccio della morte restano in attesa dell’esecuzione almeno altri 80 minorenni al momento del reato. Turchia. Confermato l’ergastolo per sei giornalisti e scrittori tra cui Ahmet Altan di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 3 ottobre 2018 Confermata in secondo grado la condanna per sei tra giornalisti e scrittori, accusati di “attentato all’ordine costituzionale”, per il fallito golpe del 2016. “Una sentenza che allontana la Turchia dall’Europa”, così il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani aveva commentato lo scorso 16 febbraio la condanna all’ergastolo senza condizionale per sei scrittori e giornalisti molto noti tra cui Ahmet Altan, 67 anni, suo fratello Mehmet, 65 anni, la veterana del giornalismo turco Nazli Ilicak, 74 anni, e altri tre colleghi. In molti all’estero avevano sperato nell’appello e in questi mesi erano state numerose le campagne per la loro liberazione. Ora, però, la doccia fredda: i giudici della corte d’Appello di Istanbul hanno confermato la pena di primo grado per “attentato all’ordine costituzionale” durante il tentato golpe del 15 luglio 2016. Gli imputati hanno proclamato ancora una volta con forza la loro innocenza. “Il pubblico ministero non ha presentato nemmeno una prova sostanziale del perché avrei dovuto sostenere Fethullah Gülen (il predicatore islamico in esilio negli Usa accusato di essere il mandante del golpe fallito, ndr)” ha gridato Ilicak. “Questo processo farsa è iniziato con i messaggi subliminali e ha raggiunto il suo culmine con l’incredibile definizione di minaccia intangibile. È questa la verità che dobbiamo affrontare” ha detto amaro Ahmet Altan che, a settembre, nel libro Ritratto dell’atto di accusa come pornografia giudiziaria aveva scritto: “A parte qualche mio articolo e un’unica apparizione in tv, l’imputazione di golpismo nei nostri riguardi si basa sulla seguente asserzione: si ritiene che noi conoscessimo gli uomini accusati di conoscere gli uomini accusati di essere a capo del colpo di Stato”. Due le dichiarazioni sospette. “Qualsiasi siano stati i motivi che hanno portato in passato ai colpi di Stato militari in Turchia, prendendo le stesse decisioni Erdogan sta seguendo la stessa strada” aveva detto Ahmet in tv il 14 luglio 2016 mentre Mehmet aveva parlato di “un’altra struttura” all’interno del governo pronta ad agire. Parole che i pm e i giudici hanno considerato messaggi in codice per chiamare all’azione i seguaci di Gülen. In attesa di un probabile ricorso in Cassazione, i giudici hanno stabilito che gli imputati rimangano in cella, tranne Mehmet Altan che era stato rilasciato a giugno dopo un clamoroso braccio di ferro. La sentenza prevede un regime di totale isolamento con una sola ora d’aria al giorno, senza possibilità di fare esercizio fisico e con visite limitate dei familiari. Non vedrò mai più il cielo, il libro appena uscito di Ahmet Altan, appare oggi ancora più vero. Afghanistan e Iraq. Le missioni vanno avanti anche con il governo giallo-verde di Francesco Grignetti La Stampa, 3 ottobre 2018 Un lavoro di cesello, ma nel senso della continuità. Il ministro Elisabetta Trenta l’aveva annunciato in Parlamento, anche a costo di suscitare qualche mugugno tra gli attivisti dei Cinque Stelle: con le missioni militari all’estero si va avanti nel senso della continuità. Ora, con il decreto Missioni che andrà in consiglio dei ministri in settimana, è ufficiale: le missioni non si toccano. C’è qualche sforbiciata, ma niente di rivoluzionario. E perciò ci saranno 100 uomini in meno in Afghanistan nel prossimo anno (sui 900 presenti finora), ma la sostanza non cambia. E così con l’Iraq (dopo il picco di 1497 presenze nel corso del 2017 si era scesi a circa 500): una parziale riduzione è già avvenuta nei primi nove mesi dell’anno; altri 50 uomini non saranno rimpiazzati a Mosul, dove avevano il compito di vigilare sul cantiere di manutenzione straordinaria - ad opera della ditta italiana Trevi - di una enorme diga che fornisce acqua a un buon pezzo di Iraq. Per un paio di anni a Mosul c’è stata una guarnigione di 400 soldati italiani, in assetto da guerra, che ha vigilato su uno dei cantieri più pericolosi al mondo. Le milizie dell’Isis erano a pochi chilometri, armate di droni e di artiglieria. Gente che non si preoccupava certo di lesinare sui kamikaze o sull’utilizzo di armi “sporche”. Agli italiani era riservato l’anello più interno. Truppe speciali americane erano di rinforzo poco lontano. E l’anello più esterno era affidato a reparti curdi, che dovevano garantire la tenuta del fronte verso le postazioni dell’Isis. Anche qui, si ridimensionano i numeri. In prospettiva, l’anno prossimo non dovrebbe esserci più nessuno. “È un cambio di passo importante - spiegano fonti della Difesa - in linea con i nuovi interessi strategici del Paese. La riduzione dei 100 uomini in Afghanistan rientra nel graduale disimpegno voluto dal ministro. Considerato l’imminente processo elettorale, abbiamo tuttavia agito con responsabilità anche verso gli alleati. Nel 2019 si procederà ad ulteriori riduzioni, mantenendo sempre la capacità operativa della missione”. A dire il vero, il governo di centrosinistra aveva preventivato un taglio anche più cospicuo, di 200 uomini, ma la Nato, si sa, ad ogni scadenza preme perché si mantenga la stessa capacità operativa dell’anno precedente. Quanto all’Iraq, “continueremo ad addestrare e formare le forze irachene, ma a Mosul non troviamo più la necessità di mantenere un contingente. La riduzione dei 50 serve ad avviare un processo di chiusura della missione che sarà completato entro i primi tre mesi del 2019”. Nessuna rivoluzione, insomma. Il M5S per anni ha contestato queste missioni. “Sull’intervento in Afghanistan siamo sempre stati chiari. Per noi quello è un intervento che per la spesa pubblica italiana è insostenibile”, diceva ad esempio Di Maio nel novembre scorso. Nel frattempo è subentrata una visione molto più pragmatica. E quindi. “Il prima possibile ce ne andremo dall’Afghanistan”, ha poi annunciato un mese fa alla festa del Fatto alla Versiliana di Marina di Pietrasanta. Guatemala. Terra bruciata, verità senza giustizia di Tullio Togni Il Manifesto, 3 ottobre 2018 1982-2018. Quello subito dai popoli indigeni all’epoca di Rios Montt fu genocidio. Ma il generale Mauricio Rodriguez Sanchez, responsabile della tecnica militare nota come “tierra arrasada”, è innocente. Una sentenza choc riapre le ferite della comunità Maya Ixil. Tierra arrasada significa terra bruciata. Succede, con gli incendi, di vederne gli effetti sulla vegetazione: un grande rogo, poi il grigio della cenere nell’aria e ovunque. Non resta nulla, e presto anche la memoria dimentica quel che era prima. Qualcuno dice che il fuoco agevoli la fauna, le permetta di rigenerarsi più forte e rigogliosa. Qualcuno dice che il fuoco è solo un modo efficace per fare pulizia. Terra bruciata, in realtà, non è solo un incendio: è un binomio dal significato intrinseco, un concetto simbolico, una dichiarazione di intenti. Terra bruciata è una tecnica militare. In Guatemala, il generale Rios Montt parafrasò l’espressione con “togliere l’acqua al pesce”. Nel contesto di un conflitto interno che durava da oltre 20 anni, significava annichilire qualsiasi tipo di appoggio logistico e ideologico alla guerriglia, al fine di isolarla dalla base sociale a cui si rivolgeva. Vari furono gli esiti, fra i più conosciuti vi sono il campo di sterminio clandestino Creompaz o il caso di violenza sessuale Zepur Zarco. Oppure quello del 6 dicembre 1982, quando con la giustificazione di voler recuperare 22 fucili sequestrati dai ribelli, 58 militari travestiti da guerriglieri entrarono nella comunità Dos Erres, Petén, Guatemala settentrionale. Gli uomini vennero rinchiusi nella scuola, le donne e i bambini nelle due chiese. I primi furono bendati, torturati e fucilati, mentre alle donne e ai bambini andò anche peggio: violate e seviziate sessualmente fino al giorno dopo, furono infine assassinate. I corpi vennero gettati nel pozzo, poi ricoperto da terra. Soltanto nel giugno del 1994 vennero rinvenute le ossa di 178 persone: la maggior parte erano bambini sotto i 12 anni. All’epoca di Rios Montt, al potere fra il 1982 e 1983, terra bruciata significava eliminare la guerriglia e le comunità indigene sospettate di appoggiarle, il cosiddetto nemico interno. Pulizia etnica, sociale e politica, affinché non rimanesse più alcuna traccia, nemmeno nella memoria. In quel biennio, l’esercito guatemalteco uccise 10 mila persone e firmò 669 massacri, di cui quasi la metà ai danni della popolazione civile indigena Maya Ixil. 448 comunità vennero “cancellate”: non fu nessun incendio, furono i fucili; poi, tierra arrasada, il fuoco e la cenere. Il 10 maggio 2013, a 17 anni dalla firma degli accordi di pace, il Tribunal A de Mayor Riesgo riconobbe José Efrain Ríos Montt responsabile del massacro di 1771 persone e colpevole di genocidio contro la popolazione Maya Ixil, condannandolo a 50 anni di prigione, a cui venivano sommati 30 anni per crimini contro l’umanità. 80 anni di carcere, il riconoscimento del genocidio e l’inizio di un processo di giustizia transizionale. La memoria storica sembrava riprendere piede anche nelle aule dei tribunali, mentre ai famigliari dei desaparecidos e delle vittime, o a chi era stato costretto all’esilio nelle montagne del Chiapas messicano, si palesava l’opzione di credere in un nuovo binomio: verità e giustizia. Ma, si trattava di una memoria breve in una democrazia fragile, e così, soltanto 10 giorni più tardi, la Corte costituzionale annullava la sentenza e posponeva la riapertura del processo a data da definire. Una strategia ben nota in Guatemala, che nel giorno di Pasqua del 2018, lo scorso primo di aprile, permetteva al genocida di morire impune, a 91 anni e senza mai aver pagato per le sue terribili colpe. Il 26 settembre 2018, a 22 anni dagli Accordi di Pace, parte di quel che resta del popolo Maya Ixil presenzia silenziosamente a Città del Guatemala: nella piazza dei Diritti Umani, le autorità ancestrali indigene officiano una cerimonia in memoria delle vittime del genocidio. Per terra alcune candele, tanti fiori e una grande scritta in petali rossi: “Giustizia”. Altre centinaia di persone aspettano di poter entrare nell’aula, dove alle 18.30 ora locale verrà emessa la sentenza. Al banco degli imputati siede Mauricio Rodriguez Sanchez, capo dell’intelligence militare di Rios Montt: il cervello che plasma il concetto, la mente che muove la mano, l’artefice della tierra arrasada. Accusato 5 anni fa insieme a Rios Montt per il genocidio della popolazione Maya Ixil, per crimini contro l’umanità e per il massacro di 1771 persone, ottenne di essere giudicato in un processo separato rispetto al capo di Stato e venne poi assolto per mancanza di prove che lo relazionassero ad azioni di sterminio di un determinato gruppo etnico. Ma il 13 ottobre 2017, il suo caso si è di nuovo aperto e ogni venerdì si sono raccolte perizie e si sono ascoltate testimonianze. Ogni venerdì, Mauricio Rodriguez Sanchez si è seduto al banco degli imputati, mentre una delegazione di sopravvissuti al genocidio, organizzati nell’Associazione per la giustizia e la riconciliazione (Ajr), ha affrontato oltre 10 ore di viaggio per recarsi dalla regione del Quiché, Guatemala centro-settentrionale, alla capitale. Seduti dall’altra parte e fra il pubblico, hanno raccontato quel che hanno visto e vissuto, le torture e i massacri. Quello a cui sono sopravvissuti. La memoria. In quasi un anno di udienze regolari, il Tribunal B de Mayor Riesgo ha ascoltato circa 141 testimoni, accompagnati da 66 perizie di antropologia forense. Giovedì scorso ha emesso il verdetto: ci fu genocidio, ma Mauricio Rodriguez Sanchez è innocente. È una sentenza contraddittoria, emessa per maggioranza (due giudici a favore, una contraria), che sembra volersi scrollare di dosso la portata storica che grava sulle sue spalle. Una sentenza che spacca a metà quel binomio a cui i popoli avevano cominciato a credere: verità, ma nessuna giustizia. La questione del genocidio, da anni divide la società civile: i muri delle città, i cori delle manifestazioni di piazza, i popoli originari, le organizzazioni dei famigliari delle vittime e degli scomparsi, le forze democratiche e la sinistra ripetono a gran voce che in Guatemala ci fu un genocidio. Affermano che quella della terra bruciata è una politica che dimostra la volontà di fare pulizia etnica, politica e sociale. Di sterminare. Dall’altra parte, a negare il genocidio è l’estrema destra, l’esercito, l’associazione dei veterani militari, il generale Otto Perez Molina - presidente del Guatemala fra il 2012 e il 2015 - le lobby economiche e la Fondazione contro il terrorismo, il cui stesso nome è contraddittorio. È Mauricio Rodriguez Sanchez, l dichiararsi innocente. L’argomento di forza è che in Guatemala ci fu un conflitto fra due fazioni opposte, non un genocidio. Anche se la stessa Commissione per il chiarimento storico delle Nazioni unite indica che fra gli oltre 200 mila morti e desaparecidos, l’83,3% era di etnia indigena e il 93% dei casi di violenza fu di responsabilità dello Stato. Una verità senza giustizia, la sentenza che assolve Mauricio Rodriguez Sanchez dai massacri perpetrati dal suo esercito. Come se il capo dell’intelligence militare non fosse stato a conoscenza delle azioni dei suoi soldati, come se non avesse dato gli ordini. Come se fu un genocidio non premeditato, frutto della sfortuna e del caso. Di opinioni divergenti. Come se fosse arrivato il momento di dimenticare le colpe e gli assassini, i morti e gli sconfitti. La democrazia. Terra bruciata. Succede ancora. Succede ogni giorno nel Guatemala paradiso dell’impunità che lascia a piede libero persone responsabili di genocidio e crimini contro l’umanità. Succede ovunque nell’industria dell’estrattivismo, come quando lo scorso 4 di settembre la Corte Costituzionale restituisce la licenza di lavorare all’impresa canadese Tahoe Resources, la terza miniera d’argento più grande al mondo, sospesa a processo per inquinamento e per aver negato l’esistenza della popolazione indigena Xinca. Succede ancora quando 56 ragazze adolescenti vengono lasciate bruciare vive nell’Hogar Seguro Virgen de la Asunción, l’8 marzo 2017. Succede ancora: terra bruciata, fuoco e cenere; le ombre di un genocidio silenzioso.