Non distruggete le attività di Ristretti Orizzonti di Carmelo Musumeci agoravox.it, 31 ottobre 2018 Siamo un Paese che spende 3 miliardi di euro all’anno per l’esecuzione della pena, più di tutti gli altri in Europa, ma siamo il Paese con più alto tasso di recidiva di tutta Europa. Credo che un carcere che accoglie chi infrange la legge e restituisce delinquenti non garantisca sicurezza. Per questo ho sempre affermato che il carcere è il luogo più illegale di qualsiasi altro posto, che nelle nostre “Patrie Galere” due più due fa cinque, che nella stragrande maggioranza dei casi quando si finisce di scontare una pena si esce dalla prigione peggiori di quando si è entrati e che il miglior carcere è quello che non costruiranno mai. Quando però qualcuno mi domanda qual è stata la galera più vivibile dove sono stato nei miei 35 anni di carcere (di cui 27 anni ininterrottamente), non posso non rispondere che è quello di Padova, grazie soprattutto alla mia partecipazione alla redazione di “Ristretti Orizzonti”. Posso affermare che se io ora sono una persona diversa è grazie anche alle attività che ho svolto in quella redazione coordinata dalla giornalista Ornella Favero, una delle poche che ha tentato di informare l’opinione pubblica che una pena che fa male fa più danni alla società che a chi la sconta. Sono ormai due anni che manco dal carcere di Padova e da Ristretti Orizzonti e ho saputo che molte delle attività che svolgeva la redazione sono state ridotte ai minimi termini e ridimensionate, soprattutto quelle di portare dei ragazzi in carcere ad ascoltare le storie dei cattivi. Mi ricordo che venivano intere classi di scuola superiore (migliaia di studenti l’anno) e ascoltavano tre testimonianze fatte da detenuti, con dentro la situazione familiare, sociale e ambientale di dove erano nati e dove erano maturate le loro scelte devianti e criminali, senza però per questo trovare nessuna giustificazione o attenuante. Poi tutto il gruppo dei detenuti della redazione di “Ristretti Orizzonti”, guidato e coordinato dai volontari, rispondeva alle domande dei ragazzi studenti. Non era facile per i detenuti raccontare il peggio della loro vita, ma penso che era un modo per prendere le distanze dal proprio passato e tentare di riconciliarsi con se stessi. Mi ricordo che guardare gli sguardi innocenti dei ragazzi aiutava molto ciascuno di noi a capire quali erano state le ragioni dell’odio, della rabbia, della violenza delle nostre scelte devianti e criminali, più di tanti inutili anni di carcere senza fare nulla guardando le pareti di una cella. Per questo adesso non capisco perché questo importantissimo progetto rieducativo e socializzante è stato ridimensionato a due soli incontri mensili. O, meglio, capisco: il progetto “Scuola-Carcere” funziona e ho visto in questi anni che in carcere quello che funziona davvero spesso va distrutto, forse perché la prigione deve creare recidiva e delinquenti per fare vincere le elezioni a quei partiti che cavalcano l’emergenza criminalità. Una volta un mio compagno di cella mi ha raccontato che la più grande sofferenza per lui non erano stati gli anni di carcere da scontare, ma rispondere alle domande degli studenti che venivano alla redazione di “Ristretti Orizzonti” perché lo facevano sentire colpevole. Lancio un appello a tutti quelli che nell’arco di vent’anni hanno frequentato e conosciuto la redazione di “Ristretti Orizzonti” a difendere questa attività nel carcere di Padova, una delle poche realtà che funzionano nell’inferno delle nostre “Patrie Galere” e che fanno abbassare la recidiva, a favore della collettività. “Giovani adulti”: il conflitto tra riforma penitenziaria e decreto sicurezza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 ottobre 2018 Il prossimo 10 novembre entra in vigore la normativa sull’ordinamento penitenziario. solo alla soglia dei 21 anni il magistrato competente può decidere se applicare la legge ordinaria, mentre il testo approvato a fine settembre il limite è abbassato a 18 anni. Ulteriori tagli e modifiche sostanziali nella riforma dell’ordinamento penitenziario che entrerà in vigore il prossimo 10 novembre. Emerge tra l’altro un “conflitto” tra l’esecuzione penale minorile e il decreto sicurezza recentemente approvato. Sancita l’esclusione della riforma relativa alle misure alternative alla pena e la modifica dell’articolo 4bis che raccoglie diversi reati (quindi non solo relativa a quelli mafiosi) dove il detenuto rimane automaticamente escluso dai benefici della pena. Archiviata definitivamente la riforma sulla giustizia riparativa e l’affettività. Inoltre emerge un ulteriore taglio rispetto al decreto originale, ora cristallizzata sulla Gazzetta Ufficiale, che toglie l’obbligo, da parte del medico, di fotografare un detenuto che risulta pieno di lividi. Per quanto riguarda la vita lavorativa, anche in questo caso esiste una preclusione. Parliamo dei lavori di pubblica utilità dove, nero su bianco, viene indicata l’esclusione di coloro che hanno commesso il reato di associazione di stampo mafioso. “I detenuti e gli internati - così viene riportato nella Gazzetta Ufficiale - per il delitto di cui all’articolo 416bis del codice penale e per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste non possono essere assegnati a prestare la propria attività all’esterno dell’istituto”. Quindi non solo i detenuti, ma anche gli “internati”. Ricordiamo che quest’ultimi sono coloro che hanno finito di scontare la pena, ma vengono raggiunti da una misura di sicurezza da parte del magistrato di sorveglianza. Esclusi, quindi, anche loro dai lavori di pubblica utilità. Altro taglio a sorpresa, sempre per quanto riguarda il lavoro penitenziario, è quello relativo all’aumento degli anni di liberazione anticipata a seguito del buon andamento per i lavori di pubblica utilità. Per quanto riguarda la vita detentiva, rimane esclusa anche quella parte che avrebbe garantito la tutela delle professioni di fede diverse da quella cattolica. Parliamo della pubblicazione, nella Gazzetta Ufficiale n. 250 del 26 ottobre 2018, dei tre decreti relativi alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Il primo riguarda l’ordinamento penitenziario minorile, quindi l’esecuzione penale. Il secondo decreto, invece, è diviso in tre capitoli: l’assistenza sanitaria, la semplificazione dei procedimenti e la modifica in tema di competenze degli uffici locali di esecuzione esterna (Uepe) e della polizia penitenziaria. Il terzo decreto, invece, riguarda la vita detentiva e il lavoro penitenziario. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, rimane sostanzialmente invariato lo schema approvato dalle commissioni giustizia che hanno escluso, rispetto alla riforma originaria, tutto ciò che concerne la salute mentale: quindi nessuna equiparazione con quella fisica e nessuna previsione di sezioni specifiche per i detenuti che durante la detenzione si sono ammalati di patologie psichiche. A tal proposito occorre ricordare, per quanto riguarda i problemi sanitari - e non solo - che affliggono il sistema penitenziario, c’è Rita Bernardini del Partito Radicale che è giunta al quindicesimo giorno dello sciopero della fame per aprire un dialogo con il governo, in particolare con il guardasigilli Alfonso Bonafede, affinché faccia qualcosa di concreto e, soprattutto realizzabile, per risolvere le drammatiche condizioni carcerarie. Basti pensare che siamo giunti a 51 suicidi dall’inizio dell’anno. Un trend che rischia di superare l’anno precedente che si era amaramente concluso con 52 suicidi. Sempre per quanto riguarda il decreto sull’assistenza sanitaria, si aggiunge anche un ulteriore taglio, rispetto allo schema originale. Riguarda le detenute transessuali in fase di transizione e quindi bisognose di una continuità terapeutica. Rimane solo un richiamo generico, ovvero “Ai detenuti e agli internati è garantita la necessaria continuità con gli eventuali trattamenti in corso all’esterno o all’interno dell’istituto da cui siano stati trasferiti”. Per il resto, l’assistenza sanitaria mantiene tutto ciò che era stato elaborato originariamente, come il fatto che il medico non farà parte della commissione di disciplina e avrà quindi la libertà di chiedere l’interruzione di un eventuale situazione di isolamento che non sia compatibile con lo stato psichico fisico della persona. Oppure che i detenuti siano informati in modo completo sul proprio stato di salute. Per quanto riguarda il lavoro penitenziario, la riforma che entrerà in vigore sicuramente evidenzia la sua importanza per la riabilitazione, promuovendo il suo carattere non afflittivo e soprattutto evidenziando il fatto che debba essere remunerato. I detenuti, in considerazione delle loro attitudini, possono essere ammessi a esercitare, per proprio conto, attività artigianali, intellettuali o artistiche, nell’ambito del programma di trattamento, nonché attività di produzione di beni da destinare all’autoconsumo, anche in alternativa alla normale attività lavorativa. Di vitale interesse è il decreto per quanto riguarda i condannati minorenni e i cosiddetti “giovani adulti”, ovvero quelli al di sotto dei venticinque anni. Permane l’esclusione delle misure premiali di comunità, per coloro che rientrano nei reati contemplato dal 4bis. Ma emerge anche un altro particolare. Nella riforma viene cristallizzato che se nel corso dell’esecuzione di una condanna per reati commessi da minorenne sopravviene un titolo di esecuzione di altra pena detentiva per reati commessi da maggiorenne, il pm emette l’ordine di esecuzione, lo sospende secondo quanto previsto dall’art. 656 c. p. p. e trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza per i minorenni. È quindi lasciata al magistrato di sorveglianza la possibilità di far proseguire l’esecuzione secondo le modalità previste per i minorenni. A tal fine l’autorità giudiziaria dovrà tener conto della gravità dei fatti oggetto di cumulo e del percorso in atto e, se il condannato ha compiuto ventuno anni, anche delle ragioni di sicurezza di cui all’art. 24 D. Lgs. n. 272/ 1989. Quindi solo alla soglia dei 21 anni il magistrato competente può decidere se applicare la legge ordinaria (quindi l’esecuzione penale per adulti) nei casi di “particolari ragioni di sicurezza e considerando le finalità rieducative”. Con il decreto sicurezza approvato a fine settembre, il limite dei 21 anni però passa ai 18: età in cui il giudice può decidere di privare un “giovane adulto”, come era stato definito secondo lo spirito di quella che doveva essere la riforma dell’ordinamento penitenziario, della libertà, applicando la legge ordinaria e con essa dunque escludendo dal novero le misure più prettamente rieducative, che caratterizzano la giustizia minorile in favore di quelle certamente più repressive della legge ordinaria. C’è quindi un conflitto che genera una lacuna di certezza: ha valore il nuovo ordinamento minorile dove viene ribadito che il magistrato di sorveglianza deve tenere conto della soglia dei ventuno anni, oppure il decreto sicurezza che l’abbassa ai 18? Giancarlo Coraggio (Consulta): “la soluzione non sta nel costruire più carceri” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2018 Separazione delle carriere, legge Fornero, carcere preventivo da coniugare con la presunzione di innocenza. Non sono i temi di un congresso forense ma i contenuti delle domande decisamente “sentite” che i detenuti del carcere di massima sicurezza Sabbione di Terni hanno fatto al giudice della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio, nel corso di un incontro all’interno della prigione. Due ore di faccia a faccia tra il giudice delle leggi e chi la legge l’ha infranta. Giovanni si avvicina al palco in carrozzina, per sapere se è in linea con il principio di equità la legge Fornero, che prevede la revoca degli assegni sia di disoccupazione sia di invalidità, anche per chi ha lavorato e versato i contributi, in caso di condanna per l’articolo 416-bis e dunque per reati di mafia. Coraggio ammette di essere rimasto colpito da una norma della Fornero che non conosceva, ma di più non può dire: “È un tema davanti al quale mi devo fermare - spiega - perché sono pendenti dei giudizi e la questione arriverà quasi certamente alla nostra attenzione”. Nel carcere di Terni ci sono oltre 450 detenuti; il 60 per cento dei sottoposti al regime di media sicurezza è straniero, mentre l’alta sicurezza, imposta soprattutto per reati di mafia e criminalità organizzata, riguarda gli italiani nella quasi totalità dei casi. Marco, cifre alla mano, affronta il problema del sovraffollamento, sottolineando anche l’altissima percentuale di persone ristrette per reati di droga. Per Coraggio la soluzione non sta nel costruire più carceri: “Non ci si può accontentare di aumentare le strutture - dice - bisogna distinguere tra detenuto e detenuto e tra reato e reato. È assurdo riempire le carceri di drogati e spacciatori. Ma la parola sul punto spetta al legislatore”. Nel penitenziario di Terni oltre 130 carcerati studiano e molti sono arrivati ad un percorso universitario anche grazie a una convenzione con l’università di Perugia. Non mancano dunque i quesiti tecnici. Giuseppe pone il problema della separazione delle carriere. Per il presidente della Consulta è un problema che esiste. “Il sistema andrebbe ricalibrato - afferma Coraggio - anche se non con la separazione delle carriere almeno con una forte circolazione interna”. E sono ancora gli universitari a esprimere perplessità sul diritto allo studio. Un garanzia che spesso resta sulla carta perché i libri costano e chi sta in carcere corre il rischio di dover interrompere i corsi se viene trasferito in una struttura dove l’università non è prevista. “Un trasferimento che impedisca di completare la formazione sarebbe molto grave - dice Coraggio - certamente è una violazione degna dell’attenzione di un giudice. Anche costituzionale”. L’incontro finisce con la proiezione del film “Fuori fuoco”, realizzato da sei detenuti registi, che hanno raccontato la vita tra quattro mura. Il giudice della Consulta non nasconde, anche alla direttrice Chiara Pellegrini, il rammarico e anche l’imbarazzo provato nel dare risposte “inadeguate a domande drammatiche”. Giancarlo Coraggio ricorda ai detenuti l’ammonimento che suo padre aveva fatto a lui: “Mi sono sentito dire, e ripeto ai miei figli, che ciascuno è artefice del proprio destino. Ma questo vale in alcune realtà sociali, ma non vale per molti di voi. Non sono stati rimossi in modo adeguato gli ostacoli all’uguaglianza. Molto cammino è stato fatto dagli anni 70 anche se non è abbastanza. Ma è necessario stare attenti perché si può anche fare marcia indietro”. Hiv. La “riduzione del danno” entra in carcere di Maria Stagnitta* Il Manifesto, 31 ottobre 2018 Si è da poco tenuto a Roma il Convegno finale del Progetto I.Ri.D.E. 2, una ricerca sui modelli di intervento di Riduzione dei rischi di trasmissione di Hiv nella popolazione carceraria, finanziato dal Ministero della Salute. Poiché nel mondo la prevalenza di Hiv, di Infezioni Sessualmente Trasmesse (Ist), di epatite B e C (Hbv, Hcv) tra la popolazione detenuta è almeno doppia rispetto a quella tra la popolazione generale, nel 2013 le agenzie Onu competenti (Unodc e Oms) hanno pubblicato linee guida che raccomandano un’azione comprensiva, attraverso 15 interventi chiave tra i quali la messa a disposizione dei detenuti di siringhe sterili o disinfettanti, nonché di preservativi. Nasce da qui e dal successivo progetto Ue per valutare l’applicazione delle raccomandazioni Onu in alcuni Paesi europei, Italia inclusa, l’idea del progetto I.Ri.D.E., portato avanti da molte Ong (capofila Cnca) in collaborazione con l’Università di Torino. Il progetto si è posto l’ambizioso obiettivo di sperimentare interventi di riduzione del danno e del rischio di trasmissione di Hiv e di altre Ist, che la letteratura scientifica ha mostrato essere efficaci ma che non ancora presenti nel nostro Paese. Ciò nell’ambito di un concetto ampio di salute, in cui l’attenzione all’ambiente e alle condizioni di vita del detenuto, nonché il rispetto dei suoi diritti, hanno un ruolo chiave, insieme all’adeguatezza dell’offerta sanitaria nel principio dell’equivalenza delle cure, dentro e fuori le mura delle prigioni. Il convegno ha presentato alcune esperienze significative, come quella di Barcellona in cui sono attivi programmi di scambio siringhe rivolti a detenuti tossicodipendenti, e di distribuzione di profilattici. O quella italiana di Lecce, dove è stato aperto un laboratorio di tatuaggio: i detenuti hanno potuto apprendere le tecniche appropriate ma soprattutto hanno capito l’importanza di utilizzare strumenti sterili e sicuri. La parte di ricerca, svolta dal dipartimento di Giurisprudenza di Torino su un campione di penitenziari (81 Istituti rispondenti su 167) ha messo in luce alcune carenze, fra cui: non sempre sono garantite l’equivalenza delle terapie e la continuità della cura tra dentro e fuori dal carcere; i comportamenti a rischio sono spesso minimizzati; non sono a disposizione i dati sulla trasmissione di malattie infettive all’interno del carcere; c’è ingerenza di “questioni penitenziarie” sulla cure sanitarie (in un terzo degli istituti si tiene conto del fine pena per decidere il tipo di trattamento da somministrare). Infine, incidono negativamente sulla salute le condizioni ambientali precarie: nel 18% dei casi non sono garantiti i tre metri quadrati a persona (esclusi gli arredi fissi) da regolamento nelle celle, nel 10% dei casi il WC non è in ambiente separato, 9 istituti sono senza riscaldamento. Persistono inoltre tabù culturali e pregiudizi. Uno dei maggiori ostacoli con cui si è scontrato il progetto è lo scetticismo (perfino a volte da parte del personale sanitario) sulla validità degli interventi raccomandati dall’Oms, nonostante le evidenze scientifiche. In diversi casi, la prevenzione Hiv non è considerata fra le priorità della salute in carcere. Ciò nonostante, il progetto ha svolto un’opera di sensibilizzazione importante e laddove si sono svolte sperimentazioni, queste sono state accolte positivamente, in primis dai detenuti. Il progetto ha “aperto” le porte del carcere alla Riduzione del Danno, che ricordiamo essere tra gli interventi raccomandati dal Piano di Azione 2017-2020 della strategia politica sulle droghe dell’Unione Europea. Per spalancarle, sono ora necessari interventi congiunti del Ministero della Salute con quello della Giustizia. *Cnca-Forum Droghe Ancora sul caso di Provenzano di Mauro Rotellini La Croce Quotidiano, 31 ottobre 2018 Una sentenza della Corte europea dei Diritti umani che non ha mancato di diventare terreno di scontro e piazza di bagarre in Italia: i Radicali l’hanno cavalcata per pubblicizzare le loro rivendicazioni volte a “portare il Paese verso lo Stato di diritto”. Ci si può chiedere, se davvero destra e sinistra sono allineate sul 41bis, da dove venga il fatto che alcune decisioni dicano altro. La Corte europea dei Diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per avere rinnovato il regime carcerario del 41bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo del 2016 fino alla morte del boss mafioso. È forse utile ricordare che l’art. 41bis della legge sull’ordinamento penitenziario, prevede la sospensione del regime carcerario ordinario e la applicazione di alcune severe restrizioni, che sono: l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, la riduzione ad uno al mese dei colloqui da svolgersi ad intervalli dì tempo regolari ed in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti; sono poi vietati i colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi, e comunque sono videoregistrati; è prevista poi la limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno; è disposta l’esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati; viene applicata la censura della corrispondenza ed infine introdotte più forti limitazioni alla permanenza all’aperto. È un regime evidentemente molto più duro di quello ordinario. Ma torniamo alla sentenza della Cedu. Secondo la Corte, il ministero della Giustizia ha violato l’articolo 3 della Convenzione, riguardante la proibizione di trattamenti inumani o degradanti, ma non per il trattamento derivante dall’art. 41bis, quanto per il fatto che nelle motivazioni della decisione del Ministero di reiterazione del regime dell’art. 41bis: “non appaiono tracce evidenti di un’esplicita, autonoma valutazione da parte del Ministero della Giustizia delle condizioni di salute del detenuto al tempo in cui la decisione venne presa”. Per questo motivo la Corte ha ritenuto che non vi siano prove sufficienti per sostenere il rinnovo e si ritiene non persuasa dalle giustificazioni del Governo italiano (caso Provenzano contro Italia - numero 55080/13 del 25 ottobre 2018 - punto 156). Conclude la Corte che nel caso di Provenzano non c’è stata la violazione dell’art. 3 della Convenzione con riferimento alle condizioni di detenzione; ma tale violazione sussiste, con riferimento a quanto rilevato e riportato più sopra, in riferimento alla decisione di rinnovare la detenzione speciale assunto dal 2016. Come si vede, non è certo in questione l’art. 41bis, ma un difetto di motivazione in uno specifico atto. Difetto di motivazione che - certamente - avrebbe reso l’atto nullo e quindi avrebbe consentito a Provenzano di non essere più ristretto in regime carcerario duro; ma che - comunque- avrebbe potuto essere superato da un altro atto, contenente le motivazioni necessarie e - questo si - incensurabile da parte della Corte. Ma l’uso di utilizzare la giustizia in un’ottica politica è ben duro a morire. Si sono affastellate quindi le reazioni. Lasciano perplesse le reazioni del Governo che, per bocca del vice premier Di Maio, dopo aver precisato che i comportamenti inumani erano semmai quelli di Provenzano, dichiara che “con la mafia nessuna pietà”; e dell’altro vice premier Salvini che rivendica ancora la autonomia italiana, dicendo “Per l’Italia decidono gli Italiani, non altri”. Non si è fatto nemmeno attendere il commento del Ministro della Giustizia, che ha tenuto a sottolineare che “il 41bis non si tocca”, certo dal ministro competente per materia, forse, sarebbe lecito attendersi una maggiore attenzione al contenuto della sentenza. Dall’altra parte, si ricorda che la posizione del partito “Potere al popolo” (che si presenterà anche alle prossime elezioni europee), prevede la eliminazione dell’art. 41bis. Si leggeva su internet che la sanzione nei confronti dei mafiosi dovrebbe provenire dalla società civile, cui compete “giudicare storicamente i protagonisti (si fa per dire) di grandi vicende criminali”, mentre “la repressione penale non sia un elemento qualificante per la determinazione della lotta alla mafia sui territori. Quella, per l’appunto, va fatta con una coltivazione culturale di una nuova generazione di cittadine e cittadini che non prendano nemmeno in considerazione l’elemento mafioso”. Nessuna deterrenza è riconosciuta all’articolo 41bis. Più ancora i radicali si sono gettati sulla Sentenza. Si legge una dichiarazione in cui degli esponenti della Associazione “Nessuno tocchi Caino” e del Partito Radicale stesso, hanno espresso il loro plauso al merito della sentenza. “Ha fatto bene la Corte Europea a riconoscere come trattamento inumano e degradante quello inflitto a Bernardo Provenzano, fatto morire in regime di 41bis, per una pura logica di rivalsa e una primordiale istanza di giustizia. È incredibile che tutti, a destra e a sinistra, siano allineati con questo regime di 41bis e che nessuno - eccetto il Partito Radicale - veda nell’applicazione di condizioni così inumane e degradanti di detenzione, innanzitutto, il degrado del nostro senso di umanità e la fine dello Stato di Diritto. Speriamo che l’ennesima sentenza della Corte Europea contro l’Italia aiuti a orientare verso i principi e le regole dello Stato di Diritto un Paese ormai travolto dalla demagogia e dal conformismo, obnubilato dalla retorica dell’antimafia e soggiogato dai sui totem, come quello del 41bis, simbolo monumentale di un’emergenza che non si vuole abbia mai fine. Come Partito Radicale e Nessuno tocchi Caino non ci rassegniamo e continuiamo a lottare per la transizione del nostro Paese verso lo Stato di Diritto, anche con le proposte di legge di iniziativa popolare contro il regime, tra cui la riforma del 41bis, proposte che rappresentano un’alternativa al potere della Mafia e alla mafia del Potere, e perciò sono coperte da una spessa coltre di censura e omertà dal regime italiano dell’informazione”. Ci siamo soffermati un po’ più a lungo sulle idee portate avanti dai Radicali, perché questo ci consente di far riferimento all’articolo di fondo de Il Messaggero del 27 ottobre scorso. In quella sede Luca Ricolfi parla di quanto accaduto a Desirèe a San Lorenzo, chiede che: “lo Stato sia messo in condizione di fare lo Stato. Questo, spiace dirlo, dipende in misura minima dal Ministro dell’Interno, e in sommo grado dal Parlamento. Che può continuare con la vecchia linea: depenalizziamo tutto il possibile; riserviamo il carcere ai crimini più gravi (e, barbarie, ai presunti innocenti in attesa di giudizio); per migliorare le condizioni di detenzione svuotiamo le carceri con indulti e amnistie. Oppure può trovare il coraggio di fare macchina indietro, e di riappropriarsi dello strumento dell’incapacitazione: cambiando le norme penali, limitando il ricorso alle pene alternative, destinando qualche miliardo all’edilizia carceraria”, per concludere che così agendo, “forse i cittadini ricomincerebbero ad avere fiducia nello Stato, a non sentirsi stupidi se rispettano le leggi”. Ecco, vi chiedo, chi dobbiamo allora ringraziare del fatto che in ambito penale il Parlamento segua invece la vecchia linea? Se sia la destra che la sinistra - come dicono i radicali - sono allineati con il significato del 41bis, da dove viene il fatto che le decisioni non sono conseguenti a questa premessa? Davvero può dipendere tutto da un lato dalla necessità di aumentare la produttività della magistratura diminuendo i casi in il cittadino può agire per tutelarsi in sede penale e dall’altro di diminuire l’affollamento carcerario perché “ce lo chiede l’Europa”? O non ci sarà un disegno ed una volontà ulteriore e nascosta, che rende i radicali e le loro istanze ben più rilevanti di quanto appaiano? Decreto sicurezza, fronda 5S all’attacco: “Votiamo contro” di Carlo Lania Il Manifesto, 31 ottobre 2018 Nugnes, Mantero e Fattori si oppongono anche a un’eventuale fiducia: “Il problema è Salvini”. Il leghista: “Adesso basta polemiche”. A dare un’immagine che bene illustra il malessere vissuto in questi giorni da molti grillini ci pensa nel pomeriggio la senatrice Paola Nugnes: “Stiamo diventando come il Pd”, si sfoga con i giornalisti la dissidente napoletana. Per chi ha creduto nel Movimento non ci potrebbe forse essere insulto peggiore che il paragone con il partito del più volte contestato ex premier. Eppure è così che la senatrice vede le cose: “Per anni abbiamo criticato il Pd, li vedevamo in aula che si piegavano ai diktat di Matteo Renzi che annullava il senso del parlamento e oggi noi facciamo lo stesso”. Il riferimento è al decreto sicurezza e alle pressioni esercitate dai vertici del movimento perché passi senza troppi problemi. Provvedimento che invece divide i grillini fin dal giorno in cui stato varato dal consiglio dei ministri (“è nato male”, insiste Nugnes) e adesso che sta per raggiungere i suoi primi traguardi - il voto della Commissione Affari costituzionali e poi dell’aula di palazzo Madama - i nodi stanno venendo al pettine con la piccola ma agguerrita pattuglia di dissidenti che minaccia di mettersi di traverso. Se il testo non cambierà la stessa Nugnes insieme ai colleghi Elena Fattori e Matteo Mantero hanno già dichiarato che voteranno contro e, nel caso, di non votare la fiducia se, come sembra sempre più probabile, il governo dovesse metterla. A questi tre potrebbe aggiungersi poi il senatore Gregorio De Falco, un altro che non mai risparmiato critiche anche dure al decreto, e due senatori non ancora usciti allo scoperto ma che sarebbero in Commissioni Affari costituzionali, dove Lega e M5S possono contare su una maggioranza risicata di appena un voto. Se alla fine i due grillini dovessero portare fino in fondo il loro dissenso, per il decreto, e di conseguenza per la tenuta del governo, le cose potrebbero davvero mettersi male. Ipotesi che, al momento, sembra però quasi fantascientifica, al punto che proprio Nugnes in serata ammette che una volta in aula il decreto potrebbe avere “tutti i voti” necessari per essere licenziato. La tensione tra i parlamentari cinque stelle resta comunque alta. “Il problema è sicuramente Salvini, perché a noi non sarebbe mai venuto in mente di fare un decreto del genere”, spiegava ieri la senatrice Fattori, convinta che non è certo attraverso le misure previste dal decreto che si dà maggiore sicurezza ai cittadini: “Avremmo dovuto fare ben altre cose per le città e le periferie degradate”. Ieri in soccorso di Luigi Di Maio, che due giorni ha minacciato sanzioni contro i ribelli, è intervenuto anche Giuseppe Conte: “È legittimo presentare osservazioni critiche - ha detto il premier - ma poi c’è un momento in cui bisogna tirare le fila di queste posizioni critiche e concentrarsi sull’obiettivo che spetta al parlamento, ovvero la conversione del decreto legge”. Lo stesso concetto lo esprime anche Matteo Salvini, anche se i toni usati dal ministro leghista sono decisamente meno diplomatici e non nascondono il fastidio per le resistenze mostrate dagli alleati: “Il decreto sta viaggiando spedito al Senato, basta polemiche”, manda a dire dal Qatar il vicepremier. In realtà tanto spedito il decreto non marcia, Ieri i lavori non sono potuti proseguire per la mancanza dei pareri della commissione Bilancio sulla copertura economica di alcune misure quando ci sono ancora circa 70 emendamento da esaminare. Problemi tecnici e non politici che per la senatrice Loredana De Petris tradiscono però il modo di lavorare della maggioranza giallo verde: “Sono dei pasticcioni”, dice l’esponente di Liberi e Uguali. “Ogni loro provvedimento presenta dei problemi tecnici, fanno errori su errori su tutto. E fosse solo quello: gli emendamenti più brutti e sostanziali al decreto sono quelli presentati dalla Lega e i cinque stelle non li contrastano minimamente votando tutto senza praticamente discutere”. Sicurezza o morte di Valerio Valentini Il Foglio, 31 ottobre 2018 “Chi non vota la fiducia è fuori”, ci dice Patuanelli (M5s). “Di Maio vuole solo mercenari”, replica il ribelle Mantero Roma. Dacché, evidentemente, non vuole essere da meno del suo accusatore, Matteo Mantero non disdegna il dibattito storico che, in seno al Movimento, si è aperto intorno alla “testuggine”. “Raccolgo la metafora”, dice il senatore savonese. “E dico però a Luigi Di Maio che, se gli piace davvero la storia antica, dovrebbe ricordarsi che l’impero romano è entrato in crisi non perché ci fossero dei disertori, ma perché nell’esercito erano stati assunti dei mercenari. Se ha deciso di servirsene per rinforzare le sue truppe, non conti su di me”. Parla con una serenità impensabile, Mantero: di chi attende senza troppa ansia che si compia la sua sorte. Di certo più sprezzanti sono le parole del suo collega Gianluigi Paragone, che al solo sentirsi nominare la grana dei dissidenti, sbuffa d’insofferenza: “C’è chi vuole semplicemente piantare delle bandierine personali: non si può assecondare questo atteggiamento”. Ce l’ha con Mantero, certo, e anche con Elena Fattori, e anche con Gregorio De Falco e con Paola Nugnes e con Virginia La Mura: i cinque senatori che si oppongono al decreto sicurezza, che arriverà nell’Aula di Palazzo Madama lunedì prossimo. “Credo sia giusto dare un segnale chiaro, tirare dritti”. Anche con la fiducia? “Anche con la fiducia”, dice Paragone. A pochi metri da lui, il suo capogruppo Stefano Patuanelli allarga le braccia, come rassegnato all’ineluttabilità di certe dinamiche politiche: “Dura lex sed lex”, dice. E aggiunge: “Se si metterà la fiducia e i cinque dissidenti non la voteranno, vorrà dire che si saranno messi fuori dal Movimento da soli, perché diventerà evidente che non credono più in questo governo”. Ma la fiducia, per adesso, è un’ipotesi. “A noi interessa solo portare a casa il provvedimento”, sorride Massimiliano Romeo mentre mastica un pasticcino alla buvette. “Rispettiamo il dibattito interno ai nostri alleati”, prosegue il presidente dei senatori leghisti con l’aria di chi cerca la concordia. “Spero che alla fine i figlioli prodighi tornino a casa”, aggiunge. Ma loro, i ribelli, di cedere non hanno alcuna voglia. E anzi, tanto per rasserenare il clima, Mantero decide di depositare una proposta di legge a favore dell’eutanasia. Non esattamente un modo per favorire la distensione con la Lega. “Non importa. Era doveroso dare seguito allo stimolo arrivato dalla Consulta dopo il caso di Dj Fabo”, spiega. Poi aggiunge: “È inaccettabile questo ricatto morale per cui se non si vota un decreto si sta automaticamente facendo il tifo per il ritorno del Pd e di Forza Italia al governo. Non è proprio di un leader politico che ha a cuore i valori del proprio movimento arrivare con un testo scritto da un altro partito e dire ai propri parlamentari: o così o niente, o sei dentro o sei fuori”. Paragone però non ci sta, dice invece che “la sintesi tra le diverse sensibilità delle due forze sta già nel contratto di governo, di cui anche questo decreto sicurezza è emanazione”. E insomma sì, “meglio la fiducia”. “Deciderà Salvini se metterla o no”, confessano i leghisti. “No”, s’impunta Patuanelli. “La scelta spetta al ministro per i Rapporti col Parlamento, Riccardo Fraccaro”. E di certo i numeri conteranno, nella maturazione di questa scelta. Patuanelli fa di conto, mostrando una consuetudine con le cifre che tradisce l’angoscia di questi giorni: “La fiducia al governo fu votata da 171 senatori. Lega e M5s, da soli, arrivano a 167. Se venissero meno i cinque nostri, si andrebbe a un solo voto di margine sulla maggioranza assoluta”. Prova a sfoggiare sicurezza: “Comunque le opposizioni non vanno oltre 151”. Ma il ricordo del Prodi II, quel governo appeso alla presenza dei senatori a vita, deve avercelo bene in mente. E infatti appena glielo si evoca, subito si schermisce: “Vabbè, ma il raffreddore può venire anche a quelli della minoranza, mica per forza solo ai nostri”. Ci sarebbe, a quel punto, da coinvolgere magari Fratelli d’Italia, ma farlo significherebbe inasprire ancora di più, ed espanderla, la rabbia di quella parte del M5s che denuncia la torsione destrorsa del governo. “Se i senatori di Giorgia Meloni volessero votare la fiducia, non potremmo certo impedirglielo. Ma il loro ingresso in maggioranza non è nei nostri piani”, ragiona Patuanelli. Senza contare che gli stessi meloniani, con cui peraltro il capitano De Falco continua ad avere discreti rapporti (“Ce li ha sempre avuti”, dicono in FdI), al momento non danno per scontato un loro soccorso alla maggioranza traballante. “Ci ignorano per mesi, non accolgono un nostro emendamento né sul decreto dignità né sulla manovra, e poi pretendono che gli diamo una mano? No, a scatola chiusa non si compra nulla”, dice il deputato Walter Rizzetto, che in FdI è arrivato dopo essere stato espulso dal M5S. “Ai grillini dissidenti che si sentono ricattati dal capo do un caldo benvenuto nel club dei reietti”. Ma non è di eventuali sanzioni che i dissidenti hanno paura. “Se dovessi accorgermi di non essere più utile alla causa, mi farò da parte”, dice Mantero. “Di certo, però, non starò a guardare in silenzio che i nostri valori vengano stravolti”. E a immaginarselo così, in un manipolo di dissenzienti consci, essi solo, della tragedia in arrivo, sembra quasi rassomigliare al protagonista del suo recente libro. “È un romanzo distopico”, spiega. “Racconta di un’eclissi catastrofica e di tre persone che sono le uniche a vederla, mentre il presidente della nazione descrive una ripresa economica che non c’è e ripete il suo ritornello: produci, consuma, sorridi”. Al che banalizzare non si vorrebbe, ma le analogie s’impongono quasi inevitabili. Se non fosse che l’autore dissuade dal tentare di vedere i Mantero e le Fattori nei ribelli del suo libro, e Di Maio nel presidente fanfarone. “L’ho scritto tre anni fa, anche se è uscito solo ora”. Bonafede annuncia: il blocco della prescrizione va nel ddl “spazza-corrotti” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 31 ottobre 2018 Un emendamento del Guardasigilli cambia i connotati al Ddl già poco gradito alla Lega. La clamorosa modifica in arrivo prevedrà che i termini di estinzione di tutti i reati vengano bloccati “dopo la sentenza di primo grado, a prescindere che sia di assoluzione o di condanna”. Sono già moltissimi gli emendamenti al disegno di legge “spazza-corrotti”, il provvedimento che nelle intenzioni del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dovrebbe assestare un colpo mortale ai tangentisti, ponendo l’Italia fra i Paesi maggiormente all’avanguardia nel contrasto alla corruzione. Ma un emendamento sarà sponsorizzato dallo stesso Guardasigilli, ed è quello che riguarda la prescrizione che, “per tutti i reati verrà interrotta dopo la sentenza di primo grado, a prescindere che sia di assoluzione o di condanna”. Da quanto si è potuto apprendere, la maggior parte delle proposte di modifica sono state presentate, oltreché da Forza Italia, dalla Lega. Ciò confermerebbe le “perplessità” che fin dall’inizio l’alleato di governo aveva manifestato su questo testo. Fra i punti principali del ddl, il “daspo” per i corrotti e la possibilità di utilizzare anche per i reati contro la Pa l’agente sotto copertura. Il daspo, una delle misure-bandiera del M5s, prevede il divieto di partecipare ad appalti con la PA per chi abbia riportato una condanna per reati di corruzione superiore a due anni: il daspo va da un minimo di 5 anni fino all’interdizione perpetua, non revocabile per almeno 12 anni neppure in caso di riabilitazione. Nel caso di condanne inferiori ai due anni, invece, la durata del daspo va da 5 a 7 anni. Non è previsto nessuno sconto per chi patteggia o ottiene la sospensione condizionale della pena. Più difficile sarà anche l’accesso ai benefici penitenziari, in quanto i reati contro la Pa saranno equiparati ai reati di mafia. Previsto, poi, un generale innalzamento delle pene e la confisca dei beni anche nel caso di amnistia o prescrizione intervenuta in gradi successivi al primo. Fra i favorevoli al provvedimento, durante le audizioni in Commissione, il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, le forze di polizia. Fra i contrari, il Consiglio nazionale forense, Confindustria, il mondo universitario. In particolare, tutti i professori di diritto e procedura penale consultati hanno evidenziato che molte delle proposte di riforma, a partire dal daspo, presenterebbero profili di manifesta incostituzionalità. “L’idea secondo cui chi sbaglia una volta debba pagare per sempre è figlia di un Paese illiberale”, ha dichiarato l’onorevole di Forza Italia Giusi Bartolozzi, segretaria della Commissione giustizia della Camera. “Questo provvedimento - prosegue - rappresenta l’ennesimo spot elettorale dei 5S. Sono norme inutilmente repressive ed orientate a snaturare i rapporti interpersonali, per il “sospetto continuo” che ingenera tra dipendenti pubblici e tra cittadini e la Pa”. “L’intenzione da parte di Bonafede di presentare un emendamento per bloccare la prescrizione dopo il primo grado rappresenta poi la violazione degli elementari diritti di difesa dei cittadini che saranno costretti a subire il processo eterno”, ha poi aggiunto la parlamentare azzurra. “La proposta di Bonafede di bloccare la prescrizione dopo il primo grado renderà eterni i processi. Non ci sarà più nessuna fretta di celebrare il giudizio di appello, in cui peraltro il 48% delle sentenze di primo grado viene riformato”, rincara Enrico Costa, deputato di Forza Italia. Il golpe giustizialista del M5S: garanzie via, processi infiniti di Patricia Tagliaferri Il Giornale, 31 ottobre 2018 Il ministro Bonafede vuol interrompere la prescrizione dopo il primo grado: “Ma i tribunali avranno più soldi”. Lo aveva già detto la scorsa estate che avrebbe stretto i cordoni della prescrizione nei processi, come previsto dal contratto di governo. E adesso, dopo aver aperto alla riforma della legittima difesa, per il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è arrivato il momento della svolta, da più parti considerata giustizialista, destinata ad alzare il livello dello scontro politico sui temi della giustizia. Il Guardasigilli presenterà oggi un emendamento al ddl anticorruzione che prevede l’interruzione della prescrizione per tutti i reati dopo la sentenza di primo grado, a prescindere che sia di assoluzione o di condanna. Lo ha annunciato ieri ad un incontro a San Giuliano di Puglia con il Comitato delle vittime delle stragi alla vigilia del sedicesimo anniversario del crollo della scuola Jovine, che nel 2002 provocò la morte di 27 bambini e della loro maestra. Una sollecitazione a intervenire sulla prescrizione nei processi per le grandi stragi e calamità era venuta proprio dal Comitato Nazionale “Noi non dimentichiamo”, che riunisce tutte le associazioni delle vittime delle stragi in Italia. Accogliendo il loro appello, lo scorso agosto, Bonafede aveva spiegato che la legge si sarebbe chiamata “Legge Viareggio”, in memoria della tragedia ferroviaria del 2009 nella quale morirono 32 persone e per la quale è in corso un processo in cui il prossimo novembre andranno prescritti molti reati per alcuni dirigenti di aziende legate alle Fs. Ancora non si sa se sarà il governo a presentare l’emendamento oppure se verrà firmato dai deputati del M5s. La proposta di modifica è già stata inviata e oggi sarà resa pubblica. “Poi seguirà il suo percorso - ha spiegato Bonafede - saranno fatte proposte, controproposte, esamineremo tutto, ma per me era importante dare il segnale di un lavoro concreto e che non si sottrae mai al confronto. Nel contratto di governo era previsto che la prescrizione fosse ancorata a maggiori investimenti nella giustizia, perché se dall’oggi al domani cambia si potrebbe avere un sistema che non riesce a reggere il carico delle cause che non cadono più in prescrizione. Quindi avevo detto che avrei presentato una proposta di riforma della prescrizione legata a investimenti nella giustizia, e ora questi investimenti ci sono, 500 milioni nella legge di bilancio”. Il golpe giustizialista del Guardasigilli non piace all’opposizione. Enrico Costa, deputato di Forza Italia e responsabile del Dipartimento Giustizia del movimento azzurro, considera “forcaiola” la proposta del ministro a Cinque Stelle. “Bloccare la prescrizione dopo il primo grado - attacca - renderà eterni i processi. Non ci sarà più nessuna fretta di celebrare il giudizio di appello, in cui peraltro il 48 per cento delle sentenze di primo grado viene riformato. L’impugnazione non avrà più valore, sarà come abolire l’appello e il ricorso in Cassazione”. Per il collega forzista Francesco Paolo Sisto, dirigente nazionale del Dipartimento Affari costituzionali, “la giustizia in versione grillina significa ergastolo processuale”. “Da Bonafede - spiega il deputato azzurro - arrivano solo danni: per il processo, per i cittadini, per la Costituzione. Bloccare la prescrizione al primo grado di giudizio significa calpestare, con incoscienza e autoreferenzialità, l’articolo 111 della Carta”. Critico anche Pierantonio Zanettin, di Forza Italia, componente della Commissione Giustizia a Montecitorio: “Così si dilateranno a dismisura i tempi dei dibattimenti, determinando un fine processo mai, in frontale violazione del principio costituzionale della ragionevole durata dei processi”. Brescia: tra le urgenze in carcere c’è il mediatore culturale di Carlo Alberto Romano Corriere della Sera, 31 ottobre 2018 Dalle pagine del Corriere della Sera di Brescia, qualche giorno fa la direttrice degli Istituti penali cittadini, rivolgeva un accorato appello al mondo politico e istituzionale per il reperimento di mediatori culturali, considerati dalla dottoressa Lucrezi la necessità di maggior evidenza nel contesto carcerario locale. Il congresso nazionale della società italiana di Criminologia, tenutosi nei giorni scorsi, ha ribadito che questa è una vera emergenza cui occorre dare risposte in tempi rapidi prima che la situazione sfugga di mano. Se già a livello nazionale il valore numerico dei detenuti appartenenti a culture differenti raggiunge dimensioni allarmanti, superiori a un terzo del totale dei reclusi, a livello locale vi sono realtà nelle quali il numero degli stranieri raggiunge valori ragguardevoli, oltre la metà, oltre i due terzi e financo l’80 %, come, in certi momenti, è avvenuto anche nella struttura circondariale di Brescia, dove tuttora il numero di stranieri è assai più elevato rispetto al valore nazionale. Più volte abbiamo detto come tale dato non sia in alcun modo esplicativo della presunta maggior tendenza all’atto delinquenziale degli stranieri rispetto agli italiani, che continuano a delinquere più degli stranieri. E del resto una popolazione, quella degli stranieri, che non raggiunge il 10 % dei residenti, a livello nazionale, difficilmente potrebbe commettere più reati in termini assoluti, rispetto agli autoctoni. Ma anche in termini relativi, soltanto in alcune specifiche categorie di reato gli stranieri insidiano, senza mai oscurarla, la supremazia italiana. Gli stranieri popolano massicciamente il carcere perché meno facilmente ne escono; questa apparente ovvietà descrive una modalità di funzionamento del nostro sistema cautelare e sanzionatorio, tendente a favorire il detenuto collocato in una cornice relazionale e ambientale affidabile e quindi a privilegiare gli italiani rispetto agli stranieri nella concessione di misure esterne, prima e dopo la condanna. Per ovviare a questa situazione, talvolta oggettivamente discriminatoria, e comunque per gestire meglio la complicata quotidianità carceraria, fatta di lingue, religioni, stili alimentari e culture differenti, la figura professionale del mediatore culturale costituisce la risposta più indicata; nonostante ciò la presenza di queste figure nelle patrie galere è assai risicata e quasi sempre riconducibile a felici intuizioni progettuali espresse dal territorio. Se ne è finalmente accorto anche il Governo il quale nell’Atto con cui presenta al Parlamento una proposta di riforma dell’Ordinamento penitenziario, per tre volte cita i mediatori culturali: collocandoli fra le categorie degli esperti che possono essere chiamati a lavorare in carcere. Ci pare questo uno degli elementi di maggior pregio di una proposta per altri versi molto discutibile; non ci resta che attenderne l’iter di attuazione auspicando tempi brevi e risorse finanziarie certe; come diceva la direttrice ne abbiamo bisogno fin da subito, se vogliamo che il carcere possa assolvere il compito che la Costituzione gli affida o, più semplicemente, se vogliamo che il carcere produca meno recidiva. Sondrio: colpa e rinascita, se i detenuti vanno a scuola da Platone di Anna Dichiarante La Repubblica, 31 ottobre 2018 Il processo a Socrate per capire il rapporto tra cittadino e legge, l’Iperuranio di Platone per comprendere l’imperfezione umana; e poi l’amicizia, la solidarietà, lo scorrere del tempo. Lezioni di filosofia peri detenuti della casa circondariale di Sondrio. Lezioni per aiutarli ad analizzare il disvalore delle azioni commesse in passato, ma anche per trovare il senso della vita e della rinascita. Ad avere l’idea è stata la direttrice dell’istituto, Stefania Mussio, che, grazie alla disponibilità della professoressa Fausta Messa, ex insegnante di materie letterarie e latino del liceo “Piazzi-Perp enti” di Sondrio, è riuscita a organizzare un laboratorio a cui ha partecipato un gruppo selezionato di detenuti. Un ciclo di incontri che si è svolto nel corso dell’anno e che si concluderà il prossimo 3 novembre con un seminario tenuto nella biblioteca del carcere dal professor Umberto Curi, emerito di Storia della filosofia presso l’Università di Padova. “Simposio” è il titolo della serata, perché Curi parlerà proprio del famoso dialogo di Platone. Ma al suo intervento si mescoleranno le performance di sette detenuti, stacchi di musica dal vivo con un quartetto jazz e domande da parte del pubblico presente (compresa una delegazione di liceali e rappresentanti delle istituzioni cittadine). E, nello spirito autentico del simposio, ci sarà anche un momento di convivialità: una cena durante la quale sarà servita la pasta gluten free prodotta all’interno della stessa casa circondariale. “Tutti coloro che hanno potuto seguire le lezioni hanno mostrato grande entusiasmo - racconta la direttrice Mussio - con la sua bravura e la sua esperienza, la professoressa Messa ha saputo coinvolgere persino qualcuno che di solito preferisce restare in disparte”. Ma le lezioni di filosofia sono solo l’ultima delle iniziativa che Mussio è riuscita a organizzare per le circa trenta persone che si trovano nella casa circondariale. Già, perché la direttrice è convinta che al principio della rieducazione proclamato dalla nostra Costituzione si debba dare corpo e concretezza. “In una piccola realtà come la nostra - spiega - si può ancora fare”. Così, nel suo carcere “ai confini del regno”, come usa dire ironizzando sulla sua posizione geografica, ha sempre cercato di creare spazi adeguati per gli incontri con le famiglie, oltre a occasioni di studio e di lavoro. Come il pastificio, appunto. O come il corso di panificazione, il progetto di pet therapy, l’attività di pulizia del verde pubblico. Riuscendo spesso a contare sul sostegno esterno da parte di privati o istituzioni locali, perché il reinserimento e il riscatto sociale dei detenuti fa bene a tutto il territorio. Bari: lettura e teatro per i figli dei detenuti bariviva.it, 31 ottobre 2018 Presentato il progetto “Si va in biblioteca” per il carcere di Bari. Attraverso il gioco, la lettura e il teatro d’animazione, è possibile creare un clima sereno anche in un ambiente estraneo al bambino come il carcere. A questo mira il progetto “Si va in biblioteca”, organizzato dal Soroptimist International Club Bari in sinergia con la Casa Circondariale di Bari e la scrittrice e drammaturga Teresa Petruzzelli Le finalità e i dettagli del progetto, che intende “aprire”, attraverso la lettura e il teatro, il Carcere di Bari ai figli dei detenuti, sono stati illustrati, oggi in Comune alla presenza della presidente del Municipio I Micaela Paparella, da Michela Labriola Maria Antonietta Paradiso, rispettivamente past president e attuale presidente del Soroptimist International Club Bari, e dalla la regista, scrittrice, drammaturga e attrice Teresa Petruzzelli. Alla conferenza stampa ha partecipato anche Valeria Pirè direttrice della Casa circondariale di Bari. L’associazione Soroptimist donerà al carcere strumenti didattici per i bambini, tra qui anche quelli utili per i due spettacoli, “Bimbe e orco” e “Pietrino”, che saranno rappresentati nella sala visite da Teresa Petruzzelli, regista, scrittrice, drammaturga e attrice impegnata dal 1988 con tutoring e progetti culturali all’interno delle carceri. Il teatro è un contenitore perfetto per superare blocchi emotivi e ansia, la lettura ad alta voce rinsalda l’autostima e la percezione del sé oltre a favorire la crescita culturale dei bambini il cui target di età varia dai pochi mesi alla preadolescenza. Per questo gli interventi saranno variegati e mirati e la stessa oggettistica abbraccerà competenze e abilità dalla prima infanzia in su. La messa in scena di spettacoli favorirà poi la creazione di un clima armonioso, oltre che creare un ambiente favorevole a predisporre la capacità metacognitive di ciascun partecipante al rituale artistico. Il teatro, la creatività e l’arte, da sempre potenti mediatori della comunicazione e veicoli di resilienza, avranno il compito e l’opportunità di trasformare un contesto doloroso in una finestra aperta dalla quale respirare gioia, serenità e speranza. “Questo progetto - ha detto Micaela Paparella - testimonia il valore del lavoro portato avanti con grande generosità dalle donne di Soroptimist International di Bari che, grazie alla disponibilità della direzione del carcere di Bari e al coinvolgimento di Teresa Petruzzelli, aprono uno dei luoghi preclusi per antonomasia alla vista e alla percezione della maggior parte dei cittadini. Personalmente, trovo sia un fatto estremamente positivo l’essersi posti il problema dell’approccio dei figli e delle figlie dei detenuti nei confronti di uno spazio negato, e segnato dal dolore e dalla sofferenza. Attraverso la lettura, il gioco e il teatro questi bambini, che inevitabilmente soffrono una separazione coatta e dolorosa dai genitori, potranno elaborare in maniera nuova il proprio vissuto, e condividere con i familiari una dimensione differente, fatta di condivisione, di gioco e di libertà espressiva. L’amministrazione appoggia quindi in pieno un percorso importante per i minori, che devono sentirsi parte di una comunità, e non discriminati a causa delle scelte e degli errori dei propri familiari”. “Vogliamo portare all’attenzione della collettività - ha spiegato Michela Labriola - quella che è una realtà non confinata nel perimetro carcerario ma che si estende all’esterno, a scuola, nella vita di tutti i giorni. È lì che vogliamo accendere un faro. Siamo molto contenti di aver portato a Bari il progetto Si va in Biblioteca, promosso dal Soroptimist International, che vuole incentivare la lettura nelle fasce più deboli della popolazione. In questo senso abbiamo pensato di rivolgerci nello specifico ai minori che vanno a trovare i loro papà in carcere e che sono costretti a sostare in spazi del tutto inadatti a loro. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza la collaborazione con Teresa Petruzzelli e con il carcere di Bari. Ma non ci si ferma qui. Soroptimist monitorerà l’andamento delle attività anche per implementarle con percorsi successivi”. “Accolgo questa bellissima eredità dalla past president del Club di Bari - ha continuato Maria Antonietta Paradiso -. Un progetto che si inquadra perfettamente nelle linee guida della nostra associazione, tese a favorire il dibattito insieme ad un’ampia e diversificata circolazione di idee che permette la creazione di progetti e service efficaci”. “Il mio impegno in carcere parte dal 1988 con diversi progetti, tra cui “Caffè ristretto” - ha detto Teresa Petruzzelli -. Questa volta, però, sta succedendo qualcosa di straordinario: abbiamo unito il gioco del teatro alla lettura per accogliere nella casa circondariale di Bari i figli dei detenuti. Nella presala dei colloqui con i loro papà ci sarà un simpatico orco a dargli il benvenuto, dei pennarelli con fogli bianchi su cui disegnare, libri e vestiti di scena con cui giocare a travestirsi. L’obiettivo è rendere meno traumatico il momento della visita e i controlli, ma non solo dare a loro dei supporti didattici che possano portare a casa. Ho scelto proprio questi bambini come miei primi spettatori della messa in scena di “Pietrino”, spettacolo tratto dal mio ultimo racconto”. “L’obiettivo del progetto, in sintonia con l’associazione Soroptimist Club di Bari - ha concluso Valeria Pirè, mira ad accogliere e a relazionarsi con i bambini in un contesto doloroso favorendo l’incontro e il proseguimento del rapporto intra-familiare, ponendo attenzione alla continuità affettività e alla dimensione della genitorialità. Un obiettivo non trascurabile sarà il rapporto positivo che s’instaura tra minori, famiglie e personale carcerario, la cui presenza e lavoro sono fondamentali per rendere l’ingresso in carcere dei bambini meno traumatico possibile. Il progetto si realizzerà grazie alla messa a disposizione di risorse professionali a mezzo della creatività e dell’arte, da sempre potenti mediatori della comunicazione”. Vasto (Ch): colletta alimentare per detenuti e poveri Il Centro, 31 ottobre 2018 Raccolti 13 quintali di prodotti per la comunità di San Lorenzo e la parrocchia dei Salesiani. Pasta, latte, caffè, biscotti, riso, legumi, bottiglie di pomodoro, farina, zucchero, succhi di frutta, omogeneizzati, brioche e detersivi per un totale di 13 quintali di prodotti alimentari che dai carrelli del supermercato sono finiti nelle dispense delle famiglie bisognose della città. La solidarietà dei vastesi è andata in scena sabato scorso al centro commerciale Conad di via Cardone, dove i volontari dell’associazione “Il buco nel tetto”, coadiuvati dagli scout, hanno organizzato la raccolta alimentare, un importante momento di coinvolgimento e sensibilizzazione della società civile al problema della povertà in costante aumento. Non fa eccezione Vasto. È il quarto anno di fila che il sodalizio locale, guidato da Luciana Salvatorelli, imprenditrice vastese sensibile alle problematiche sociali, promuove l’iniziativa che ha riscosso ancora una volta successo. I tanti prodotti raccolti grazie alla generosità dei vastesi sono stati devoluti alla comunità educativa Cec di San Lorenzo dell’associazione Papa Giovanni 23° e alle tante famiglie indigenti della parrocchia dei Salesiani. “Un piccolo gesto per aiutare chi ha bisogno”, questa la scritta che campeggiava sulla locandina allestita per l’occasione dall’associazione vastese. Un piccolo gesto che ha commosso non solo gli organizzatori, ma anche i destinatari della raccolta. Un particolare ringraziamento è arrivato da Franco Di Nucci, responsabile della comunità di San Lorenzo che ha espresso la sua gratitudine ai tanti vastesi che, spontaneamente, hanno raccolto l’invito destinando una parte della loro spesa a quelle famiglie meno fortunate. Soddisfatta Luciana Salvatorelli che ha partecipato di persona, insieme ad una decina di volontari, alla raccolta alimentare, toccando con mano la generosità dei vastesi. “Abbiamo voluto organizzare questa iniziativa in città in anticipo rispetto alla giornata nazionale della raccolta alimentare che si tiene sabato 24 novembre”, precisa la presidente, “ringraziamo i tanti vastesi che hanno donato parte della loro spesa e la direzione del centro commerciale Conad”. L’associazione “Il buco nel tetto” è un sodalizio molto attivo in città. Lo scorso mese di maggio ha donato sedie e poltroncine al reparto di Oncologia del San Pio e di recente ha fatto installare un gioco per bambini disabili all’interno della villa comunale. Trieste: nel carcere presentazione del libro “Oggi è un bel giorno” di Antonio Roma di Paola Pini Ristretti Orizzonti, 31 ottobre 2018 Presentare un libro è un avvenimento ormai molto comune, dagli esiti sempre inattesi dipendendo non soltanto dal genere o dagli argomenti trattati, né dal carattere dell’autore (quando presente) o del relatore, ma anche e soprattutto dalla platea con la quale testo e scrittore si trovano, di volta in volta, a confrontare. Certo, può ridursi alla semplice ripetizione di un “copione” sempre uguale a se stesso, quasi una routine, ma quando capita che chi invita gli ascoltatori alla lettura si ponga in ascolto attento e partecipe di chi ha di fronte a sé spinto da un reale desiderio di condivisione, tutto cambia. Grazie all’iniziativa dei garanti dei diritti dei detenuti di Trieste e di Udine, gli avvocati Elisabetta Burla e Natascia Marzinotto (quest’ultima in collaborazione con i volontari del gruppo bibliotecario dell’Associazione Icaro), il 12 e il 13 ottobre scorsi è stato possibile realizzare tutto ciò quando, nelle Case Circondariali di competenza, è stato presentato il romanzo breve “Oggi è un bel giorno” di Antonio Roma, giovane scrittore novarese che ha scelto per la sua opera prima un’ambientazione non semplice ma di grande impatto emotivo in cui un numero ristretto di personaggi si muove di volta in volta evocando un recente passato tragico, vivendo un presente complesso e aspirando a un futuro connotato da una speranza insopprimibile: Sarajevo, crocevia di culture, etnie, religioni, luogo di scontri furibondi e vili, ma anche di impensabile solidarietà, di morte subita e procurata, ma anche di desiderio infinito di vita da riprendere ricucendo lo strappo a causa del quale la convivenza si era interrotta. Il mondo occidentale si inserì in modo ambivalente in questo equilibrio instabile così simile a quel che avviene nell’animo di ogni individuo e si dimostrò, a seconda dei momenti o piuttosto del carattere individuale o collettivo, spettatore disattento, fomentatore più o meno celato, cinico profittatore, ma anche concreto e solidale costruttore iniziati con piccoli e al contempo grandissimi gesti consapevoli ad opera di singoli cittadini provenienti dalle tante nazioni europee e non solo. I partecipanti alle presentazioni offerte ai detenuti dei due carceri non sono stati passivi ascoltatori; in entrambi i casi, e con modalità diverse, hanno offerto generosamente il proprio contributo. Alcuni di loro si erano trovati immersi nella Guerra dei Balcani in qualità di soldati, altri in quanto appartenenti a una delle tante etnie coinvolte, altri ancora perché si sono trovati loro vicino. Antonio Roma non ha trascurato nessuno, ha risposto a ogni domanda, ha ascoltato attentamente i tanti commenti, ha integrato i discorsi emersi con la propria esperienza di volontario nella ricostruzione della Bosnia a partire dal 2013, per la quale è tutt’ora attivo e in contatto con i residenti di quella regione. Tale esperienza, originata da un libro coinvolgente e sviluppatasi fuori da esso, ha fatto emergere un concetto la cui necessità è presente in chiunque si sia trovato di fronte a un bivio, a una scelta forte da cui sia derivata della sofferenza, provocata o subita non importa. Al di là di qualsiasi scelta fideistica, la richiesta di perdono rivolta a una vittima risulta priva di senso se non è preceduta da un sincero e convinto processo di consapevolezza da parte di chi ha agito contro di lei. Per essere perdonati bisogna, prima di tutto, riuscire a perdonare se stessi e, attraverso tale azione, ricongiungersi profondamente alla parte migliore dell’essere, tutti, umani. “Oggi è un bel giorno” di Antonio Roma - ed. Lampi di stampa - 2016. L’adattamento teatrale di “Oggi è un bel giorno” è andato in scena in molte città, sia nei teatri che in alcune carceri. Modena: carcere e Csi, quando lo sport unisce anche oltre le sbarre modena2000.it, 31 ottobre 2018 Sabato 27 ottobre la squadra di mamme “Free volley” dell’a.s. Corlo si è resa protagonista di una sfida amichevole con le detenute della Casa circondariale Sant’Anna, nell’ambito del progetto in carcere “Il mio campo libero” che il Centro Sportivo Italiano di Modena porta avanti da diversi anni nelle strutture penitenziarie attraverso l’organizzazione di attività sportive e corsi di formazione, per offrire a queste persone uno spazio educativo e formativo nell’ottica del reinserimento nella società civile. Prima dell’estate le Seven Fighters di Formigine, sabato scorso le mamme del Corlo: un’altra volta, un’esperienza che dimostra come lo sport possa unire anche oltre le sbarre, e farsi esperienza di incontro. “Un’esperienza particolare - sottolineano le mamme stesse - che ha visto la tenace formazione di mamme, allenata da Alessia Bevini, farsi portabandiera dei colori dell’As Corlo; in questa iniziativa di solidarietà nell’ambito del Csi Modena. Una sfida vissuta dalle nostre ragazze con divertimento e spirito di solidarietà, anche se ovviamente sul campo outdoor del Sant’Anna la sfida è stata agguerritissima”. Al termine della partita, il terzo tempo con un momento conviviale assieme alle detenute, con le torte portate dalle giocatrici stesse. Reggio Calabria: “Canestri di Libertà”, premiazione del torneo amatoriale Asi basket ilmetropolitano.it, 31 ottobre 2018 L’A.S. Team Arghillà - formazione composta da detenuti - si è aggiudicato il trofeo in palio per il torneo amatoriale a 6 squadre “Canestri di libertà”, promosso dall’Asi e svoltosi a cavallo dei mesi di settembre e ottobre presso il Palaboccioni e nel campo allestito in tempi record all’interno della casa circondariale. La compagine di Arghillà si è imposta nella finale per un solo canestro sulla squadra del il Metropolitano. Le altre squadre partecipanti sono state la Fiamma All Blacks, i Warriors, i Fighters e Villa S. Giovanni. Questa manifestazione - si legge in una nota dell’Ente nazionale di Promozione Sportiva - si inquadra nel contesto di un più ampio progetto messo in campo dall’Asi, curato dai dirigenti nazionali Tino Scopelliti e Giuseppe Agliano, supportati dalla Direzione Nazionale e dai Comitati Regionale e Provinciale dell’Ente. Il progetto, reso possibile grazie alla disponibilità della Direzione della casa di pena guidata dalla dott.ssa Maria Carmela Longo, all’impegno del pool di educatori diretti dal dott. Speranza e alla professionalità del Corpo della Polizia Penitenziaria, prevede un intenso programma di iniziative, attività ed eventi di carattere sportivo, culturale e di spettacolo che si stanno svolgendo a cadenza periodica all’interno della struttura carceraria già dal mese di maggio. Oltre al torneo, infatti, nel corso di questi mesi si sono alternati momenti di cultura, con conferenze di professori universitari e scrittori, accompagnati dall’arricchimento della biblioteca con decine di volumi di vario genere; spettacoli con la partecipazione di artisti locali e nazionali; azioni prettamente legate alla pratica sportiva quali la fornitura di attrezzature e macchinari per le palestre e per i campi di basket e calcetto. Il torneo, conclusosi nei giorni scorsi, ha regalato sensazioni inaspettate a tutti i partecipanti che hanno potuto interagire con una realtà ai più poco conosciuta e che rimarrà un caro e indelebile ricordo per coloro i quali hanno avuto il privilegio di prendere parte all’iniziativa sportiva. Alla cerimonia di premiazione hanno preso parte anche Sindaci, Assessori, Consiglieri comunali in carica e non dell’area della Città Metropolitana che, unitamente al Presidente Nazionale dell’Asi sen. Claudio Barbaro e all’on. Gianni Alemanno, hanno premiato arbitri, segnapunti, cronometristi, medici, dirigenti, allenatori e atleti. Prima dell’apoteosi finale, che ha visto la consegna del trofeo alla formazione vincitrice, sono stati assegnati anche premi individuali ai migliori giocatori del torneo. La misura del bene, il Terzo settore va alla prova dei numeri di Pier Luigi Vercesi Corriere della Sera, 31 ottobre 2018 “Valutazione di impatto sociale”: è questo il criterio (necessario) per capire se un intervento funziona o meno. I finanziatori devono poter verificare i risultati e confrontarli. E il più grande fondo Usa ha scritto alle imprese: non chiedeteci soldi se non incidete positivamente sul mondo. Quando si cominciò a pensare di misurare il “valore” della cooperazione internazionale e delle attività non profit la gran parte degli interessati si scandalizzò. Ma come, si vogliono applicare le regole del profitto a chi cerca di riparare alle diseguaglianze generate da un sistema economico dove il denaro conta più degli esseri umani? Poi si comprese che la valutazione d’impatto serviva a non disperdere energie e ad aiutare in maniera più efficace chi ne aveva necessità. Diciamo che da un “buonismo” generico si passava a progetti di ingegneria sociale: si ponevano le basi per un ripensamento del Terzo settore, la cui riforma, non a caso, ha inglobato criteri di misurazioni piuttosto generici, perché non è possibile individuare formule standard applicabili a tutti i campi di intervento. Non limitandosi all’apparenza del dibattito in corso, spesso travisato da preconcetti e semplificazioni, ci si accorge che il problema della misurazione d’impatto è la punta emergente di un iceberg in movimento foriero, per fortuna, di buone notizie. Il Terzo settore, la Cenerentola relegata nell’angolo di un mondo affannato a massimizzare i profitti, sta lentamente ibridando le economie di tutto il mondo. La scorsa primavera, per esempio, l’amministratore del più grande fondo d’investimenti Usa ha scritto una lettera di questo tenore: non venite da noi a chiedere soldi se non dimostrate l’impatto sociale delle vostre attività. Nella dichiarazione ci sarà pure un calcolo di marketing, ma resta il fatto che intercetta e detta un orientamento. Il professor Mario Calderini del Politecnico di Milano (direttore di Tiresia, il centro di ricerca che si occupa di tecnologia, innovazione e impatto sociale) spiega che tra profit e non profit si sta creando, a livello planetario, un’area vastissima in cui i due tipi di attività si incontrano. Alcuni esempi? A Boston è stata realizzata una piattaforma su cui vengono segnalati gli esuberi di cibo nei vari locali. Vanno a recuperarli migrati con richiesta d’asilo e li portano in un ristorante dove, sotto la guida di grandi chef, cucinano donne vittime di violenza. Il ristorante ha due sezioni, una dove i prezzi sono alti e chi li paga sa di contribuire a un progetto sociale, l’altra dove i senzatetto possono sfamarsi con un dollaro. Bene, questo modello produce utili che possono essere reinvestiti. Così come ne producono le imprese di ciechi che offrono sul mercato la loro capacità di muoversi nel buio; o l’impresa che assume persone autistiche richieste dalle aziende per le loro specifiche competenze (grande capacità di concentrazione e precisione nel replicare certi gesti); o ancora quell’impresa che, con un algoritmo, confeziona pacchetti turistici per ragazzi disabili: fa utili perché si comporta come una normale agenzia di viaggio, però ha un importante impatto sociale. “In Italia - spiega Calderini - ci sono molti finanziatori disposti a investire denaro rinunciando agli interessi di mercato a patto di migliorare le condizioni di vita dei più disagiati. Succede perché da noi ci sono molti ricchi con sensibilità sociale ma non abbastanza da diventare filantropi. Non è uno scandalo se il non profit fa ricorso a finanziamenti privati, anzi. Faccio un esempio: un’impresa che si occupa, con successo, di abbandono scolastico in una provincia e decide di intraprendere la stessa attività in tutta la regione, deve trovare necessariamente finanziamenti. Allora si rivolge al pubblico e trova le porte chiuse. Che fa? Va da un privato che gli presta il denaro, a cui però deve garantire la restituzione e l’impatto sul territorio. La valutazione allora diventa necessaria, e prenderà piede indipendentemente da leggi che la impongano”. Dello stesso parere è Elisa Ricciuti, dell’università Bocconi: “Nei prossimi anni una ricchezza immensa passerà in mano a una nuova generazione di imprenditori, giovani che hanno un approccio socialmente più responsabile e trasparente, abituati da Internet a verificare ogni cosa prima di prendere una decisione. Quindi più attenzione alla persona ma anche la necessità di un’evidenza dei risultati”. Ora il problema è come valutare attività per loro natura non monetizzabili. “La misurazione è sempre una negoziazione tra chi la fa e chi la riceve”, sostiene Calderini, perché l’unico modo di operare è quello di partire da un’idea di cambiamento. “Per noi i criteri applicabili al Terzo settore - continua - sono gli stessi adottati per le imprese profit interessate all’impatto sociale. Ovvero: intenzionalità (il mutamento che si intende operare deve essere esplicitato fin dall’inizio), addizionalità (deve avvenire in luoghi e settori dove non opera chi è interessato al profitto) e misurabilità (si devono concordare i criteri con i quali si andrà a verificare l’impatto). Fino a ieri, chi agiva nel sociale non si è mai posto il problema e quindi il primo passo verso la valutazione è quello di insegnare a rilevare i dati e a renderli confrontabili. Federico Mento, direttore di Human Foundation e segretario generale di Social Value Italia, precisa che la valutazione non deve essere mai sanzionatoria: “L’obiettivo è di aiutare a migliorare l’erogazione dei servizi. Spesso il mancato raggiungimento degli obiettivi dipende non dalle buone intenzioni ma da una carente organizzazione. La valutazione ha più valore come raccomandazione, individuazione dei fattori critici che non come giudizio in sé. Per questo i metodi sono sempre articolati: è la domanda di valutazione che determina il metodo”. “Il più banale - continua Ricciuti - è quello contro-fattuale: si selezionano due gruppi di persone, a uno si applica il cambiamento e all’altro no; poi si testano le differenze prodotte. Ma non sempre si può fare e spesso solleva problemi morali, perché si trattano gli uomini come cavie”. Poi c’è il problema dei tempi, continua Mento: “Per testare gli effetti occorrono periodi lunghi, ma in Italia si ha sempre fretta e l’indotto generato nel medio periodo è difficilmente afferrabile”. Dalle valutazioni fatte finora si sono individuati interventi negativi? “Certo. Per esempio: investimenti fatti in un Paese africano per migliorare una scuola secondaria - racconta Calderini - hanno prodotto un’eccellenza che ha richiamato i migliori professori e studenti; poi ci si è accorti che le altre scuole dell’area sono praticamente morte perché vi erano rimasti solo chi non aveva mezzi o era meno dotato. Saldo finale: si è creata una piccola élite che se la sarebbe comunque cavata bene e si è lasciato indietro chi aveva più bisogno di aiuto”. Anche per questo la “teoria del cambiamento” è il punto di partenza per una corretta valutazione e va sempre presa in considerazione in sede di budget: si devono analizzare tutti gli eventuali effetti negativi prima; dopo è troppo tardi. “Tenga presente - spiega Ricciuti - che quando parliamo di non profit ci riferiamo a interventi che per loro natura sono sperimentazioni. Per produrre grandi cambiamenti occorre l’intervento del pubblico”. Quindi misurare gli effetti prodotti dai pionieri è ancora più importante perché poi, in teoria, dovrebbe arrivare la “cavalleria” dello Stato che mette in pratica le soluzioni migliori. “Ma questa è un’illusione. I privati - conclude Calderini - possono anche fare meglio, hanno già compreso la lezione. La politica invece non fa alcuno sforzo per valutare l’effetto delle proprie azioni: ecco a chi dovrebbero essere applicati i criteri di valutazione”. L’innovazione sociale in Italia è a portata di mano ma è difficilmente narrabile in uno slogan elettorale. Eppure il modo più efficace per misurare un progetto rimane quello di porsi la domanda: quanti soldi fa risparmiare al contribuente mentre risolve un problema sociale? Dj Fabo. Perché dopo la Consulta è venuto meno il divieto assoluto di aiuto al suicidio di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2018 Casi speciali talvolta spingono la Corte Costituzionale a percorrere vie non battute. Era accaduto pochi anni fa con la legge elettorale, accade oggi con la norma sull’aiuto al suicidio. Ci si attendeva l’annuncio di una sentenza, ma è apparso uno strano essere, sconosciuto agli studiosi e senza precedenti, almeno in Italia: un comunicato che informava della prossima pubblicazione di una ordinanza di rinvio del processo al prossimo settembre “per consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina”. Infatti, per la Corte, “l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”. La via, certo originale, pare permeata di saggezza. La Corte riconosce che l’attuale normativa, che punisce ogni forma di agevolazione al suicidio, non realizza un ragionevole bilanciamento tra i molti interessi e diritti coinvolti, ma preferisce fare un passo di lato, investendo il Parlamento del compito di trovare un corretto equilibrio. La Corte dà così la prima parola alle Camere, perché raccolgano questa sfida: del resto, in materia non vi sono scelte costituzionalmente obbligate ma una pluralità di opzioni politiche, purché capaci di conciliare i diversi valori in gioco. Inoltre, soltanto un legislatore può predisporre un impianto normativo complesso che preveda non solo i casi in cui l’agevolazione al suicidio non costituisca reato, ma anche le procedure, le garanzie sulla genuinità della scelta e la gratuità dell’aiuto e molto altro. Del resto, non mancano esempi recenti di leggi, quale quella sul testamento biologico del 2017, che su temi delicati e controversi hanno saputo trovare soluzioni equilibrate. Né mancano casi, fuori dai confini nazionali, di dialoghi proficui tra corti e assemblee elettive proprio sulla materia dell’aiuto al suicidio. Ad esempio, la Corte suprema canadese, in un caso assai simile a quello di Fabiano Antoniani, nel 2015 ha dichiarato l’incostituzionalità del divieto di assistenza al suicidio, sospendendo gli effetti della decisione per qualche mese; il legislatore è intervenuto prontamente, introducendo una disciplina organica sul fine vita, che ne prevede modalità, condizioni e limiti. Passo di lato non significa però passo indietro, abdicazione alla propria funzione. La Corte, infatti, affida al Parlamento il compito di regolare la materia, ma non si fida, scottata da una lunga serie di moniti ignorati dal legislatore. Né vuole abbandonare Marco Cappato al suo destino, con il rischio di una condanna, se la legge non dovesse arrivare o arrivasse troppo tardi. Ed è per questo che si riserva l’ultima parola, preannunciando un suo intervento forte in caso di inerzia del Parlamento. Una Corte dunque innovativa nel metodo, ma nel merito ancorata ai grandi principi costituzionali, che pongono il giudice costituzionale, riprendendo la bella espressione di Roberto Bin, come “ultima fortezza” del sistema, specie quando sono in gioco i diritti fondamentali della persona. A questo punto, quali possono essere gli scenari? È difficile immaginare se il Parlamento legifererà o se lascerà ancora una volta al giudice il compito di intervenire in un tema così delicato e politico; se interverrà con una normativa equilibrata, o se, come nel caso della legge sulla procreazione assistita, prevarranno le posizioni ideologiche. Altrettanto complicato, almeno prima di leggere l’ordinanza, è capire che cosa farà la Corte di fronte a un legislatore muto. Potrebbe dichiarare l’illegittimità del reato di aiuto al suicidio o provvedere in modo meno drastico, magari definendo le condizioni che rendono tale comportamento non punibile. Più facile forse predire l’esito del processo penale a carico di Marco Cappato: le poche parole del comunicato della Corte fanno intravedere un esito fausto, sia nel caso che il legislatore agisca con equilibrio, sia che taccia e parli la Corte. Certo è che da ieri, in sostanza, è venuto meno il divieto assoluto di aiuto al suicidio, scolpito nel Codice penale del 1930 in nome del primato dello Stato sulla persona e rimasto in età repubblicana in ragione di una concezione paternalista che considera la vita come un bene da proteggere sempre e comunque, anche nei confronti dello stesso individuo. Un risultato non scontato, che salutiamo con favore. Droga e adolescenti, il Sert dedicato funziona e può diventare un modello di Eleonora Camilli Redattore Sociale, 31 ottobre 2018 Caso Desirèe Mariottini, come prevenire l’uso di sostanze e aiutare i ragazzi più giovani? A Trieste da anni si sperimenta un servizio per gli under 25. Equipe specializzate, educatori, formatori, psicologi, per ascoltare i ragazzi e le loro famiglie. La responsabile: “Tanti colleghi vengono perché vorrebbero replicare l’idea, ma mancano risorse”. C’è chi bussa alla porta su consiglio di un amico, chi arriva convinto dai genitori, chi viene inviato dai servizi. Tutti giovani o giovanissimi, per la maggior parte ragazze, sanno di trovare in questa struttura a pochi passi da piazza dell’Unità, al centro di Trieste, un aiuto per la dipendenza da sostanze stupefacenti. In particolare da quelle che oggi fanno più paura, come l’eroina, gli oppiacei, le nuove droghe sintetiche. Lo spazio si chiama “Androna Giovani” e all’interno non compare mai la scritta Sert, ma nei fatti è il primo servizio dedicato agli under 25 con problematiche connesse all’uso di droghe. Una sperimentazione nata nel 2012, che funziona e che oggi può diventare un modello replicabile su scala nazionale, soprattutto dopo che gli ultimi casi di cronaca che hanno coinvolto ragazze (Desirèe Mariottini e Pamela Mastropietro) finite giovanissime nella dipendenza da sostanze e poi barbaramente uccise. Abbiamo chiesto a Roberta Balestra, direttrice del dipartimento delle dipendenze dell’Azienda sanitaria universitaria integrata di Trieste, quali sono gli strumenti di prevenzione che si possono adottare per aiutare i ragazzi, prevenire l’abuso e contrastare le ricadute. Un’équipe specializzata (con educatori e psicologi) pensata per i ragazzi. “Noi abbiamo pensato un servizio dedicato che prenda in carico i ragazzi fino ai 25 anni - spiega a Redattore sociale -. La specificità è innanzitutto quella di avere un équipe potenziata sul piano educativo e pedagogico, rispetto a un Sert per adulti abbiamo cioè più educatori e più psicologi. Inoltre la sede è stata voluta e pensata come non connotata, quindi non appare da nessuna parte la scritta ‘Sert’ per facilitare l’accesso da parte dei ragazzi e delle loro famiglie, evitando così lo stigma e la paura ad essere etichettati tossicodipendenti”. La gran parte degli utenti arriva volontariamente, con il passaparola o tramite la famiglia, un’altra parte attraverso la segnalazione dei servizi, come il pronto soccorso pediatrico o quello dell’ospedale per adulti. I problemi sono legati al consumo problematico di sostanze o alla dipendenza da droghe. Nella struttura si fa attività di cura e prevenzione, nel 2017 sono stati presi in carico 177 ragazzi. L’obiettivo non è la stabilizzazione clinica ma rimettere in carreggiata i ragazzi. “In proporzione vediamo che c’è un’utenza femminile più elevata rispetto agli adulti, le ragazze cioè vengono di più. Questo perché ormai c’è una parità nei consumi, ci sono meno freni inibitori e hanno più coraggio di venire - spiega Balestra. L’altro aspetto interessante è il tempo di latenza da quando si inizia a usare le sostanze a quando si chiede aiuto, che nei ragazzi è di 2 anni. Negli adulti, invece, si parla di 6, 7 anni. La latenza più breve facilita l’ottenimento di obiettivi più soddisfacenti”. In alcuni casi, spiega la direttrice, vengono rilevate problematiche di natura psichiatrica e si lavora con il reparto di neuropsichiatria infantile e con il dipartimento di salute mentale. “La depressione, i disturbi comportamentali o della personalità fino a casi psicotici nei ragazzi si manifestano con modalità diverse dagli adulti”. C’è poi un investimento forte anche sulla prevenzione e diagnosi di patologie correlate (epatite C, hiv) con un ambulatorio che fa screening e prelievi. “Oltre a questo abbiamo pensato un’attività di intervento e di accompagnamento, che prevede anche percorsi formativi, di reinserimento o recupero scolastico. Quest’anno, anche grazie alle ripetizioni intensive, quotidiane, alcuni hanno preso la maturità – aggiunge. Il nostro obiettivo non è la stabilizzazione clinica, ma rimettere in carreggiata questi ragazzi, il consumo di sostanze per noi va inserito nel percorso adolescenziale del singolo. Il nostro focus è sempre sull’adolescenza piuttosto che sulla malattia. In questa logica vengono riusciamo anche ad analizzare i comportamenti a rischio per fare prevenzione”. Tra gli utenti giovani l’eroina e gli oppiacei sono la sostanza primaria prevalente. Anche se le modalità di assunzione sono diverse: alla somministrazione in vena si arriva quando la dipendenza è molto forte, nella norma si predilige l’assunzione per bocca. In quasi tutti i casi vengono assunte più sostanze. “Il poli-consumo è un fenomeno che riscontriamo spesso e che da quanto sappiamo riguarda molti ragazzi adolescenti - spiega Balestra. A livello nazionale c’è allarme anche rispetto alla presenza sul mercato di sostanze sempre più pure, più pericolose e più economiche. Parliamo di oppiacei, eccitanti e stimolanti. Oggi il mercato sta costruendo il consumo e questo fa paura. Per questo bisogna far di tutto per ridurre il danno. Sappiamo che i ragazzi che hanno problemi di dipendenza sviluppano un rapporto di fiducia con il servizio, e questo garantisce una protezione. Noi portiamo avanti sia terapie farmacologiche che psicologiche per prevenire il ricorso alle sostanze, la ricaduta. Inoltre pensiamo a momenti informativi su che sostanze si usano e quali sono le cautele da tenere rispetto al mercato. Si lavora molto anche con la famiglia. Che i ragazzi rimangano nel sommerso deve fare preoccupare, il mercato oggi è sempre più aggressivo e bisogna pensare a come proteggere i ragazzi”. Un modello replicabile che fatica a imporsi per mancanza di risorse. Il modello di Trieste, primo nel suo genere, in questi anni sta facendo scuola ma fatica ad imporsi a livello nazionale soprattutto per la mancanza di risorse dedicate ai servizi per le dipendenze. “Tanti colleghi vengono, c’è grande interesse sul progetto e molti ci dicono di voler aprire servizi di questo tipo, ma spesso si fanno all’interno di Sert per adulti. Non è la stessa cosa ovviamente, perché la struttura completamente dedicata ai più giovani permette una presa in carico diversa. Spesso però non si può fare altrimenti: le risorse sono poche, sui servizi per le dipendenze si investe poco - conclude Balestra -. A questi servizi andrebbero affiancate le unità di strada per la riduzione del danno, noi lo facciamo con un intervento nei locali notturni”. Sono tutti interventi che devono viaggiare sullo stesso binario, spiega ancora la direttrice: “il ventaglio di azioni deve andare dalla prevenzione nelle scuole ai servizi dedicati per la riduzione danno, ci deve essere tutta la filiera e si deve lavorare con tutti i servizi che si occupano di età evolutiva. I minorenni vanno seguiti con équipe specializzate, non dobbiamo offrire subito l’identità di tossicodipendente a un ragazzino. Noi lavoriamo perché questi ragazzi restino a scuola, continuino a frequentare i coetanei. Restare nella normalità serve anche a superare la dipendenza dai servizi”. Francia. 150 difensori dei diritti umani insieme contro razzismo e discriminazioni Redattore Sociale, 31 ottobre 2018 Termina oggi il Summit che riunisce un gruppo di persone in prima linea nella battaglia per giustizia, libertà ed eguaglianza. Amnesty: “L’evento arriva in un momento in cui quasi ogni giorno un difensore dei diritti umani viene ucciso, in cui la criminalizzazione e la diffamazione sono diventati un rischio ordinario”. In occasione del 20esimo anniversario della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani e del 70esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, più di 150 difensori dei diritti umani provenienti da tutto il mondo si riuniscono a Parigi per pianificare i prossimi 20 anni di passi avanti per i diritti umani e la lotta per il cambiamento contro la repressione, il razzismo e la discriminazione. Il Summit mondiale dei difensori dei diritti umani (29-31 ottobre) riunisce un gruppo eterogeneo di persone che sono in prima linea nella battaglia per la giustizia, la libertà e l’eguaglianza. “Il Summit mondiale dei difensori dei diritti umani 2018 arriva in un momento in cui quasi ogni giorno un difensore dei diritti umani viene ucciso - ricorda Amnesty International -, in cui la criminalizzazione e la diffamazione sono diventati un rischio ordinario e in cui i governi stanno fallendo gli impegni presi nel 1998 di rispettare e proteggere i difensori dei diritti umani”. “In tutto il mondo - continua l’organizzazione -, persone comuni prendono la parola con enorme passione per la giustizia e l’uguaglianza nelle loro vite. Questi difensori dei diritti umani sono insegnanti, operai, giornalisti e avvocati; sono padri e madri, sorelle e fratelli. A guidarli, la profonda convinzione che le persone, ovunque, dovrebbero essere in grado di godere ed esercitare i propri diritti. Rappresentano una sfida ai funzionari autoritari e corrotti e a quelli che antepongono il profitto alla protezione delle risorse naturali e al diritto alla terra delle comunità”. “I governi, le aziende e altre realtà di potere attaccano, spiano, imprigionano, torturano e addirittura uccidono i difensori dei diritti umani, solamente per aver difeso i diritti umani delle loro comunità”, ha dichiarato Andrew Anderson, direttore generale di Front Line Defenders, per conto delle organizzazioni presenti che guidano il Summit mondiale dei difensori dei diritti umani. “La sicurezza dei difensori, già indeboliti da ineguaglianza, esclusione e forme interconnesse di discriminazione, è messa a rischio ogni giorno di più dal lavoro che portano avanti”, ha aggiunto Cindy Clark, attivista femminista e condirettrice esecutiva dell’Associazione per i diritti delle donne nello sviluppo, sempre a nome dei partecipanti. Il Summit. Durante il summit verranno sviluppate strategie per affrontare gli ostacoli e le sfide che essi affrontano nella loro battaglia contro la repressione, il razzismo, la discriminazione, le uccisioni e le sparizioni forzate. Lavoreranno per presentare un piano d’azione per i principali interlocutori - inclusi governi, enti, istituzioni finanziarie internazionali, paesi donatori e altri - per assicurare il rispetto e la sicurezza dei difensori dei diritti umani. Fra loro, il giornalista vincitore del premio Pulitzer Matthew Caruana Galizia, che chiede giustizia per sua madre Daphne Caruana Galizia, uccisa un anno fa a Malta; Anielle Franco, che anima con coraggio la campagna per sua sorella Marielle Franco, attivista brasiliana eletta al consiglio comunale uccisa da colpi d’arma da fuoco nella sua macchina sette mesi fa; Hina Jilani, avvocata per i diritti umani e fondatrice della Commissione diritti umani del Pakistan, che lavora per un sistema legale libero dalla corruzione in Pakistan. Ricorda Amnesty International: “Venti anni fa, il primo Summit mondiale dei difensori dei diritti umani mai tenuto, ebbe luogo al Palais de Chaillot, a Parigi. In quell’anno, i governi adottarono quella che è conosciuta come Dichiarazione sui difensori dei diritti umani, per rendere noto il ruolo chiave dei difensori. Gli stati si impegnavano a riconoscere e proteggere tutte le persone impegnate nella difesa dei diritti umani - chiunque esse fossero e ovunque si trovassero. Venti anni dopo, nonostante i progressi in alcune aree, molti governi continuano a non essere all’altezza degli impegni presi. Nel 2017, almeno 312 difensori dei diritti umani sono stati assassinati, il doppio del 2015, quasi tutti con l’impunità dei loro aggressori”. Michel Forst, il Relatore Speciale per le Nazioni Unite sulla situazione dei difensori dei diritti umani, ha sottolineato: “Questo summit rappresenta un’opportunità chiave per i difensori dei diritti umani del mondo, che affrontano denigrazione e attacchi sempre più numerosi, a unirsi e discutere i prossimi passi alle loro condizioni”. Dubai. Italiano rischia la vita in carcere, l’appello della compagna di Alessandra Rocchi thesocialpost.it, 31 ottobre 2018 Un italiano di 53anni è in carcere a Dubai e versa in gravi condizioni di salute. La compagna lancia un appello disperato. Lei si chiama Monia e dal 5 marzo sta vivendo un incubo. Il suo compagno Massimo è in carcere a Dubai da quel giorno e verte in condizioni di salute disperate. La donna, che non sa più cosa fare per aiutarlo, ha deciso di lanciare un appello disperato raccontando la sua storia in esclusiva a TgCom 24. Massimo rischia una condanna a 15 anni di galera negli Emirati Arabi; la storia. Secondo quanto raccontato dalla donna a TgCom 24, Massimo è innocente ed è in attesa di un giudizio per un crimine che non ha commesso. I fatti risalgono allo scorso marzo, quando Maurizio, residente negli Emirati Arabi dal 2013 dove ha aperto un’agenzia di consulenza e ristrutturazione, finisce nei guai a causa di una bustina di cocaina. Stando al racconto di Monia, Maurizio si trovava con un suo amico e i due stavano passando la serata insieme. I due amici avrebbero bevuto un bicchiere di troppo e sarebbero finiti su una spiaggia in evidente stato di ebrezza, quando sono stati avvicinati da un uomo sconosciuto che ha dato loro una bustina contenete cocaina. Una volta rientrati in casa, poche ore più tardi, la polizia si è presentata nella casa e durante una perquisizione ha trovato la droga. Maurizio e l’amico sono stati arrestati. Sempre secondo il racconto della donna, sia il compagno sia l’amico sono stati interrogati per diverse ore dalla polizia di Dubai. Alla fine ad entrambi è stata estorta una confessione. L’amico di Maurizio avrebbe firmato una un verbale redatto in lingua araba, nel quale identificava nell’imprenditore lo spacciatore che gli aveva dato la droga. L’uomo è stato rimpatriato lo scorso 6 luglio, mentre Massimo è stato dapprima incarcerato per 7 mesi presso la stazione di polizia di Al Barsha, successivamente è stato trasferito nella prigione federale di Al Sadal 4 ad Al Wathba. Massimo ora rischia da 15 anni di detenzione fino ad arrivare alla pena capitale. Gli Emirati Arabi hanno una legge che agisce duramente contro i reati legati alla droga. Inoltre, a peggiorare la situazione, le terribili condizioni di salute dell’uomo. Maurizio è affetto da una patologia che nel corso degli ultimi mesi si è aggravata, la splenomegalia da leucostasi. Una malattia che causa l’ingrossamento della milza con annesse gravi conseguenze per organi vitali, se mal curata. Durante l’intervista a TgCom24, Monia si è detta disperata ed entrambi sono pronti ad accettare persino una condanna per un reato che non c’è, pur di ottenere l’estradizione in Italia e scontare la pena qui, in prigione o agli arresti domiciliari. La donna ha raccontato di come abbia speso tutti i soldi per pagare le medicine e un avvocato. Monia ha usato gli ultimi soldi in suo possesso per un biglietto di ritorno in Italia, dove però continua a vivere nell’angoscia. Inoltre spiegato di come nelle carceri degli Emirati Arabi siano assenti ogni preoccupazione o politica per le condizioni di salute dei carcerati. Le medicine del mattino gli vengono somministrate al pomeriggio, se capita, le medicine a Dubai costano 7 volte di più che in Italia, ogni giorno Maurizio mangia riso e pollo e non varia la sua dieta. Secondo quanto riportato, la Farnesina sta lavorando al caso e Maurizio è stato oggetto di una visita da parte del console italiano per valutare le sue condizioni di salute. Il processo si aprirà il prossimo 14 novembre. Stati Uniti. “Via lo ius soli”: l’ultimo attacco alle origini dell’America moderna di Marina Catucci Il Manifesto, 31 ottobre 2018 Nuova minaccia di Trump ai migranti per guadagnare consenso a due settimane dal voto di medio termine: con un ordine esecutivo il presidente vuole stracciare uno dei pilastri del paese e della costituzione. Dure critiche dai democratici, dubbi dagli esperti: serve la maggioranza del Congresso. La strategia elettorale di Donald Trump continua a dispiegarsi sulla pelle dei migranti, la carta su cui sta giocando la propria credibilità a una settimana dalle elezioni di medio termine. Tre giorni fa Trump aveva annunciato l’invio di oltre 5.200 soldati a protezione del confine con il Messico, un dispiegamento paragonabile al contingente militare Usa in Iraq, per fermare la carovana di migranti che sta attraversando il Messico diretta verso gli Stati uniti. Probabilmente nella percezione di Trump questa mossa non è sufficiente a rassicurata la sua base. Ha quindi rincarato la dose ieri mattina, parlando della volontà di cancellare lo ius soli tramite un ordine esecutivo. Secondo il 14esimo emendamento della costituzione statunitense, “tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati uniti e soggette alla sua giurisdizione sono cittadini degli Stati uniti e dello Stato in cui risiedono”. In un’intervista ad Axios in onda sul network Hbo, the Donald ha dichiarato: “Siamo l’unico paese al mondo dove una persona viene, ha un figlio e il bimbo è un cittadino con tutti i relativi benefici. Deve finire”. Più soggetti hanno fatto notare che la modifica della costituzione richiede l’approvazione di una maggioranza del Congresso, ma pare che i legali della Casa bianca abbiano trovato un escamotage legale per mettere in atto un piano che non sia incostituzionale: il passaggio “È soggetto alla loro giurisdizione” può far interpretare la norma come riferita solo ai figli di immigrati legali, possessori di Green card e non valida anche per i figli di irregolari o con visti temporanei. Insomma, come ha affermato sempre ad Axios John C. Eastman, professore di diritto costituzionale alla Chapman University di Orange, California, e membro del partito repubblicano, “la Costituzione è stata applicata male negli ultimi 40 anni o più”. Per molti questa è una mera sparata elettorale che arriva per arginare una popolarità in discesa e un esito di votazioni del midterm che non sembra andranno benissimo per il partito repubblicano. “Non possiamo permetterci di essere divisi dall’isteria xenofoba e anti-immigrati di Donald Trump e di molti repubblicani - ha scritto su Twitter Bernie Sanders - Dobbiamo contrastare il razzismo e l’afflato reazionario e stare al fianco degli immigrati mentre si promuove una riforma totale dell’immigrazione”. “Con un colpo di penna Trump vuole imporre la sua autorità e minare la protezione, uguale e garantita dalla Costituzione, e da solo porre fine allo ius soli - gli ha fatto eco Phil Murphy, governatore democratico del New Jersey - Come nazione di immigrati, non saremo al suo fianco mentre attacca i nostri valori fondamentali”. Reazioni più che sdegnate sono arrivate da Nancy Pelosi, leader della minoranza democratica della Camera dei rappresentanti, e da candidati alla prossima corsa elettorale che della multiculturalità e dell’accoglienza sono una bandiera vivente e ne hanno fatto un cavallo di battaglia della loro campagna elettorale. Come il caso della palestinese-americana, Rashida Tlaib, che corre in Michigan e potrebbe diventare la prima donna musulmana al Congresso insieme alla somala-americana Ilhan Omar in Minnesota. Il piano di Trump ha sollevato reazioni anche tra gli attivisti per i diritti civili, tra cui Omar Jadwat, direttore del progetto per i diritti degli immigrati della American Civil Liberties Union, Aclu: “Il presidente non può cancellare la costituzione con un ordine esecutivo - ha detto. È un tentativo chiaro e incosciente di seminare la divisione e di soffiare sulle fiamme dell’odio anti-immigrati nei giorni del midterm”. Russia. Multe esorbitanti agli attivisti, l’ultimo attacco alla libertà d’espressione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 ottobre 2018 Amnesty International ha denunciato l’ultimo assalto ai diritti umani in Russia attraverso una campagna coordinata di multe ingiuste, eccessive e dall’effetto soffocante emesse nei confronti dei media indipendenti, Ong e attivisti per i diritti umani. L’ultimo destinatario di questi attacchi mirati è il settimanale “Tempi nuovi”, uno degli organi di stampa più critici della Russia: il 26 ottobre contro la rivista è stata elevata una multa di 22.250.000 rubli (circa 290.000 euro) per “non avere fornito informazioni sui fondi ricevuti”. Si tratta della multa più alta finora emessa nei confronti dei media in Russia. Nel 2017 “Tempi nuovi” era stato costretto a interrompere la diffusione dell’edizione cartacea per il crollo delle inserzioni pubblicitarie, dopo che la rivista era stata definita sleale nei confronti del governo. Ora, con questa multa, il settimanale è vicino alla bancarotta. Sempre il 26 ottobre la Fondazione Andrey Rylkov, un noto organismo che chiede riforme nelle politiche di contrasto alla droga, è stato multato di 800.000 rubli (circa 10.400 euro) per aver “fatto propaganda a sostanze narcotiche” in una pubblicazione che si occupa di accesso ai servizi sanitari per le persone che usano droghe (nella foto, un’attivista della Fondazione). Pochi giorni fa un tribunale ha imposto una multa insolitamente alta (un milione di rubli, equivalenti a 13.000 euro) a Transparency International Russia, giudicata colpevole di aver diffamato una persona molto vicina al presidente Putin. “Tempi nuovi”, la Fondazione Andrey Rylkov e Transparency International Russia stanno subendo crescenti pressioni da parte delle autorità russe, soprattutto perché ricevono fondi dall’estero. L’articolo 13.15.1 del codice dei reati amministrativi, usato contro “Tempi nuovi”, è entrato in vigore nel 2015 nel contesto di una campagna contro gli organi d’informazione indipendenti, costretti a ricorrere a fondi esteri a causa dell’insufficienza dei finanziamenti nazionali disponibili in loro favore. La Fondazione Andrey Rylkov è stata inserita nel 2016, da parte del ministero della Giustizia, nell’elenco degli “agenti stranieri”. Da allora, il suo bilancio si è fortemente ridotto a causa dell’insufficienza delle fonti di finanziamento interne. Niger. Tra le spose bambine che lottano per la vita dei loro piccoli di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 31 ottobre 2018 Il piano della Commissione europea per il Paese con il record di figli per donna: 7 e quello di 3 mogli minorenni su 4. Ora grazie alla pasta di arachidi e al training delle mamme la mortalità dei bambini si è dimezzata. Abiba se ne sta sotto un albero in attesa del responso dei medici. Il suo bambino di 14 mesi è in osservazione ormai da qualche ora. Lo ha portato che bruciava di febbre quello scricciolo. Saidou, come molti piccoli pazienti qui, ha il corpo coperto di macchie bianche, lesioni provocate da un sistema immunitario in tilt per mancanza cronica di cibo. Dopo due settimane di dissenteria e febbre alta, Abiba se l’è caricato sulla schiena e ha lasciato il suo villaggio, nel sudest del Niger: “Ho camminato per due ore - dice - per arrivare qui”, in questo ambulatorio per bambini gravemente malnutriti a Dogo, regione di Zinder. Abiba aspetta. Il viso segnato, dimostra più dei suoi 25 anni. A casa ha lasciato altri tre piccoli che ora devono cavarsela da soli. “Mio marito è via in Ciad o in Algeria, non so, fa lo stagionale. Avevo altri due figli, sono morti due anni fa di malaria. Anche Saidou è in pericolo, ma non ho paura, se Dio vuole prenderselo ne avrò altri” dice con una serenità sconcertante. “Mi sono sposata a 14 anni, ma - tiene a precisare - ho scelto io mio marito. Ci sono notti in cui le ragazze escono da sole e si riuniscono a danzare. Lui l’ho conosciuto in uno di questi raduni”. Ritrovi autorizzati da famiglie desiderose di far accasare quanto prima le proprie figlie: nel secondo Paese più povero al mondo le nozze sono un modo per sbarazzarsi di una bocca da sfamare. Non stupisce che il Niger abbia il più alto tasso di spose bambine: 3 su 4 convolano prima dei 18 anni. E se l’età minima qui è 15 anni, molte, come Abiba, ne avevano persino meno. Nel capannello di mamme intorno a lei spicca Firdaoussi: trucco marcato, vestito con decolleté in pizzo rosa. Sembra pronta per una festa invece è qui per far visitare il suo bambino di 14 mesi. “Ho 16 anni - dice - e sto cercando marito”. Il secondo. Con il primo si era unita a 14 anni. Mentre ci parla, si intravede Abiba salire su un’ambulanza con suo figlio. Lo accarezza ma lui non le sorride, è grave, deve essere portato in un “Creni”, reparto per i casi più complicati, con la malnutrizione associata ad altre malattie, soprattutto malaria. Piccoli che lottano tra la vita e la morte - In uno stanzone in cui rimbombano voci e vagiti, Abiba e il suo piccolo dividono ora il letto con un’altra donna che ha un bambino di un anno ma sembra di tre mesi. Lotta tra la vita e la morte ma il medico è fiducioso, la spunterà, dice. Nascosto dietro alla tenda c’è un piccolo con il volto coperto da un lenzuolo. Lui purtroppo non ce l’ha fatta. È l’unico angolo del reparto dove il brusio si spegne. “Queste donne si rivolgono prima al guaritore tradizionale del villaggio - lamenta un’infermiera, Madougou Hawaou - e arrivano qui troppo tardi. A volte purtroppo ne perdiamo qualcuno”. Il tasso di mortalità tra i piccoli pazienti è del 5 per cento. Si crea un maledetto circolo vizioso: sono malnutriti e quindi più vulnerabili e quando di ammalano diventano inappetenti. Questo è il periodo peggiore, con picchi di ricoveri: la stagione di magra prima del raccolto coincide con quella delle piogge e delle zanzare che trasmettono la malaria. Mortalità infantile dimezzata - Eppure, tra mille difficoltà, il Niger è tra i Paesi che più sono riusciti a ridurre la mortalità infantile: il tasso si è più che dimezzato in pochi anni. Morire prima dei 5 anni: nel 1992 accadeva a 1 bambino su 3, nel 2012 a 1 su 8, nel 2017 a 1 su 21, ben sopra la media africana di 1 su 13. Un andamento incoraggiante, in mezzo a tanti record negativi. Il Niger “vanta” il maggior numero figli per donna (7,2), ha una crescita demografica tra le più alte al mondo (3,4 per cento l’anno) ed è tra i più militarizzati d’Africa, minacciato com’è da Boko Haram a sud e dai jihadisti del Mali a est: destina il 17 per cento del suo piccolo budget alla sicurezza, il triplo che alla sanità. Il traguardo - A dare un grande contributo è stato l’approccio innovativo sostenuto da Echo, il braccio umanitario della Commissione Europea. Il suo obiettivo è attrezzare i villaggi, così da raggiungere più bambini e più velocemente. Con due strumenti principali: la distribuzione di terapie pronte all’uso come il Plumpynut,la pasta di arachidi che salva la vita dei piccoli a casa loro e consente di limitare i ricoveri ai casi complicati; e poi il training delle mamme. La maggior parte di loro ignora per esempio che fino a sei mesi ai bambini va dato solo latte e per combattere il caldo considerano normale dare loro acqua, che spesso non è potabile. L’addestramento avviene durante i controlli previsti fino ai 24 mesi del bambino con il progetto “Mille giorni”. Si fa prevenzione e diagnosi precoce nelle “case di salute” dei villaggi. Come in quella di Lingui, sempre nella zona di Zinder: qui un’operatrice sta monitorando i bambini con il Muac, un braccialetto usato per misurare la circonferenza del braccio e valutare in tempo il dimagrimento del piccolo. Ma tra qualche mese il progetto finanziato da Echo finirà e non si sa se tutto questo andrà avanti. “Noi ci occupiamo di emergenza - precisa David Kerespars, capo di Echo in Niger - ora tocca ad altre istituzioni finanziare in modo stabile progetti che si sono rivelati efficaci, ormai gli strumenti per la prevenzione ci sono e costano poco, si tratta di renderli disponibili su larga scala a più persone”. Nonostante il numero dei piccoli trattati sia cresciuto di parecchio, i tassi di malnutrizione restano altissimi: ne soffre almeno il 40 per cento dei bambini e i casi gravi superano la soglia di allarme del 10%. Inoltre soltanto il 20 per cento dei bambini malnutriti accede alle cure in Niger. Le strutture sanitarie sono aumentate ma fanno fatica a tenere il passo con una crescita demografica vertiginosa. Soltanto un terzo dei neonati viene registrato all’anagrafe, osserva con amarezza un’infermiera: “Molti muoiono nei villaggi e nessuno lo sa”. Pakistan. La Corte Suprema assolve Asia Bibi, dopo 10 anni di carcere La Stampa, 31 ottobre 2018 La donna cristiana era stata condannata a morte per blasfemia nel 2010 provocando proteste a livello internazionale. Il partito islamista sta organizzando proteste di massa contro il verdetto. “La pena di morte viene annullata. Asia Bibi è assolta delle accuse”, ha dichiarato il presidente della Corte suprema, Saqib Nisar, nella lettura del verdetto che ha sancito l’assoluzione di Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte nel 2010 per blasfemia con l’accusa di aver insultato il profeta Maometto nel 2009. Il supremo magistrato che ha parlato in un aula del tribunale blindata dalla polizia in tenuta antisommossa per il timore di proteste ha poi aggiunto: “Se non ci sono altre accuse contro di lei, può essere liberata”. Bibi, madre di cinque figli, fu arrestata dalla polizia nel suo villaggio di Ittanwali, nella provincia del Punjab, nel 2009 in seguito alla denuncia di altre donne di fede musulmana per blasfemia dopo un presunto reato contro il profeta Maometto durante una discussione. L’anno dopo venne condannata a morte suscitando proteste a livello internazionale. La donna cristiana perse il ricorso dinanzi alla Corte di Lahore, capitale del Punjab nel 2014 ma l’anno dopo la Corte suprema decise di fermare l’esecuzione dopo aver accettato di studiare il suo fascicolo. L’assoluzione è stata motivata anche perché “ci sono contraddizioni nelle testimonianze”. Fuori dal tribunale e in tutto il paese la tensione sta crescendo. Gli attivisti per i diritti umani e la e comunità cristiana hanno accolto con favore il verdetto finale della Corte suprema. Khadim Hussain Rizvi, a capo del partito islamista Tehreek-e-Labbaik Pakistan (Tlp), sta invece organizzando una protesta nazionale contro l’assoluzione della donna. L’organizzazione politica, infatti, in passato aveva minacciato “conseguenze pericolose” se i giudici avessero dichiarata innocente Asia Bibi.