In Gazzetta la riforma dell’Ordinamento penitenziario. Le novità introdotte di Veronica Manca* quotidianogiuridico.it, 30 ottobre 2018 Con l’ultima deliberazione del Consiglio dei Ministri del 27 settembre 2018, sono stati emanati due decreti legislativi (uno recuperato dall’iter parlamentare) in relazione alla tanto auspicata riforma penitenziaria, rispettivamente il D.lgs. n. 124 e 123 del 2 ottobre 2018, pubblicati in Gazzetta Ufficiale lo scorso venerdì sera, il 26 ottobre 2018. I provvedimenti entreranno in vigore il prossimo 10 novembre. Il Consiglio dei Ministri, anche se con ulteriori modifiche sostanziali dell’ultimo minuto, salva una buona parte della riforma penitenzia, delineata in due decreti legislativi separati: uno - quello che verrà analizzato in questo contributo - in materia di assistenza sanitaria, semplificazione delle procedure, modifiche parziali in tema di revoca di misure alternative e di vita penitenziaria; l’altro, decisamente innovativo - tenuto conto che il resto del disegno complessivo (dalla giustizia riparativa, all’implementazione delle misure alternative, alla rimozione delle preclusioni per i detenuti di cui al 4-bis O.P.) è stato definitivamente espunto da parte delle logiche parlamentari, con la rinuncia ad un ripensamento strutturale della disciplina penitenziaria che avrebbe potuto rendere realmente effettive ed efficaci le modifiche rimaste salde - avente ad oggetto principale il potenziamento delle possibilità lavorative per i detenuti sia all’interno dell’istituto penitenziario sia all’esterno, con previsioni importanti in relazione agli aspetti contributivi, assistenziali e previdenziali. Con l’ultima deliberazione del Consiglio dei Ministri del 27 settembre 2018, sono stati finalmente emanati i decreti legislativi attuativi della “Riforma penitenziaria”. Una scelta singolare di emanare due decreti legislativi distinti: l’uno in materia di assistenza sanitaria, vita penitenziaria, semplificazione delle procedure esecutive (il D.lgs. n. 123/2018); l’altro in relazione alla disciplina dell’attività lavorativa penitenziaria (il D.lgs. n. 124/2018). Tuttavia, non possono non esprimersi forti perplessità nella scelta del Governo di aver apportato ulteriori modifiche sostanziali nelle more della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale: in limine infatti sono state eliminate modifiche sostanziali (come, ad es., in materia di lavoro penitenziario la previsione dell’aumento di scomputo della pena a titolo di liberazione anticipata a seguito del buon andamento dei lavori di pubblica utilità in carcere ai sensi del nuovo art. 20-ter O.P.). Definitivamente archiviate poi le proposte di riforma sulla disciplina delle misure alternative e sull’eliminazione delle preclusioni per i detenuti di cui all’art. 4-bis O.P. e in tema di giustizia riparativa. L’archiviazione della parte di riforma in materia di misure alternative sicuramente rappresenta un grande errore ed una sconfitta per tutte le compagini sociali che si sono battute fino all’ultimo per l’attuazione di una riforma che avrebbe davvero potuto essere un momento storico importante e significativo, al pari della legge attuativa del 1975. Tuttavia, ad uno sguardo complessivo, il potenziamento delle possibilità lavorative, il riconoscimento di determinati diritti (per tutti, i documenti e la residenza anagrafica) potrebbero - se attuati nel modo corretto da parte di chi di dovere, in primis, di tutte le amministrazioni penitenziarie - rappresentare dei momenti importanti di accesso (o quanto meno di facilitazione) all’accesso alle misure alternative alla detenzione. La sfida vera sarà quella di rendere possibile l’attuazione di tali possibilità, dato che - come noto - l’assenza di personale, la mancanza di risorse, non sempre rende possibile riconoscere ciò che la legge riconosce. Con riguardo all’analisi delle norme modificate nel dettaglio del decreto legislativo n. 123/2018, rispetto al precedente schema di decreto legislativo esaminato alle Camere, poche sono le interpolazioni apportate. Il testo è sempre suddiviso in 4 Capi, per 12 articoli complessivi: la prima parte (art. 1) è dedicata all’assistenza sanitaria; la seconda (artt. 4-8) riguarda la semplificazione procedurale del processo esecutivo; la terza parte (art. 9-10) in tema di attività di verifica e controllo dell’esecuzione della pena all’esterno da parte degli U.E.P.E. e della polizia penitenziaria; la quarta parte (art. 11) dedicata alle regole di vita penitenziaria; con l’art. 12 di chiusura per le disposizioni finanziarie. Positiva, quindi, la parte relativa alle previsioni in materia di assistenza sanitaria: all’art. 1 del testo che modifica l’art. 11 O.P., infatti, si mantiene ferma la necessità di effettuare la prima visita di ingresso all’istituto penitenziario (prassi già esistente, ma non ancora normativizzata a livello generale), in modo tale che, fermo l’obbligo di referto all’autorità giudiziaria, il medico annoti nella cartella clinica del detenuto, anche mediante documentazione fotografica, ogni informazione relativa a segni o indicazioni che facciano apparire che persona possa aver subìto violenze o maltrattamenti e darne comunicazione al direttore dell’istituto e al magistrato di sorveglianza. Di rilievo, rimanendo immutata rispetto alla precedente formulazione proposta, la previsione che i detenuti siano informati in modo completo sul proprio stato di salute. Si evidenzia l’importanza che l’assistenza sanitaria venga prestata “indipendentemente dalle richieste degli interessati” e che si uniformi “ai princìpi di globalità dell’intervento sulle cause di pregiudizio della salute, di unitarietà dei servizi e delle prestazioni d’integrazione dell’assistenza sociale e sanitaria e di garanzia della continuità terapeutica”. Si prescrive inoltre che il medico di servizio debba garantire quotidianamente la visita degli ammalati e di coloro che ne fanno richiesta. Viene meno invece la possibilità che i detenuti, con in corso un programma terapeutico di transizione sessuale, continuino il proprio percorso, anche con il supporto psicologico degli esperti: tale possibilità così esplicita nelle versioni precedenti è qui presente nella più generica espressione di “Ai detenuti e agli internati è garantita la necessaria continuità con gli eventuali trattamenti in corso all’esterno o all’interno dell’istituto da cui siano stati trasferiti”. Numerose le interpolazioni al testo dell’art. 678 c.p.p., per cui si indicano una serie di materie in cui la procedura da seguire è quella semplificata, di cui all’art. 667, co. 4 c.p.p. Si prevede, inoltre, che, rispetto ad istanze pervenute ex art. 656, co. 5 c.p.p., laddove la pena da espiare non sia superiore ad anni 1 e mesi 6, che il presidente del tribunale di sorveglianza, acquisiti i documenti necessari e le informazioni utili al caso, designa un magistrato che potrà - qualora ne sussistano i presupposti - adottare provvisoriamente tutti i provvedimenti concessivi di misure alternativi (con ordinanza de plano); agli interessati viene riconosciuto un termine di dieci giorni per proporre opposizione dinanzi al tribunale di sorveglianza; la decisione rimane sospesa fino al provvedimento definitivo del tribunale di sorveglianza, che potrà confermare la decisione del magistrato di sorveglianza, ovvero dare avvio al rito ordinario (ex artt. 666 e 678 c.p.p.). Si torna ancora ad occuparsi, al co. 3 dell’art. 667 c.p.p., della pubblicità dell’udienza: si assicura, infatti, su richiesta dell’interessato, la pubblicità dell’udienza coram partibus, che costituisce il “cuore” del procedimento di sorveglianza (salva l’applicabilità allo stesso rito degli artt. 471 e 472 c.p.p.). All’art. 5 del decreto legislativo si sanciscono le modifiche per gli artt. 51-bis e ter O.P.: con riguardo all’art. 51-bis O.P. si stabilisce che, in caso di titolo esecutivo sopravvenuto, il pubblico ministero informa immediatamente il magistrato di sorveglianza formulando contestualmente le proprie richieste. Il magistrato di sorveglianza se rileva, tenuto conto del cumulo delle pene, che permangono le condizioni di applicabilità della misura in esecuzione, ne dispone con ordinanza la prosecuzione; in caso contrario, ne dispone la cessazione e ordina l’accompagnamento del condannato in istituto. Con riferimento all’art. 51-ter O.P. inoltre la riforma prevede che il magistrato - in caso di sospensione cautelativa di misure alternative in corso - dia immediata comunicazione al tribunale di sorveglianza affinché decida in ordine alla prosecuzione, sostituzione o revoca della misura. Con decreto motivato, il magistrato di sorveglianza può disporre la sospensione provvisoria della misura alternativa ed ordinare l’accompagnamento del trasgressore in istituto. Il provvedimento tuttavia perde di efficacia se non interviene nei trenta giorni successivi la decisione del tribunale di sorveglianza. In relazione all’art. 51-quater O.P. si prevede che, in caso di applicazione di una misura alternativa alla detenzione, siano messe in esecuzione anche le pene accessorie, salvo che il giudice che ha concesso la misura disponga la loro sospensione, qualora la stessa sia funzionale a salvaguardare le esigenze di reinserimento sociale del condannato. Si chiarisce, peraltro, che, in caso di revoca della misura alternativa, qualora fosse disposta l’applicazione delle pene accessorie in costanza di esecuzione della misura alternativa, l’esecuzione sia sospesa e riprenda ad essere eseguita la pena detentiva; in ogni caso, il periodo di esecuzione delle pene accessorie va computato ai fini della loro durata. Sulle modalità di accesso alle misure alternative, l’art. 57 O.P. prescrive che l’istanza può essere avanzata dal condannato, dall’internato, dai prossimi congiunti, dal difensore ovvero dal gruppo di osservazione e trattamento. All’art. 58, si chiarisce che alle attività di controllo, ove richiesta, partecipi la polizia penitenziaria, secondo le indicazioni del direttore dell’U.E.P.E. e previo coordinamento con l’autorità di pubblica sicurezza. Al Capo III, risulta significativa l’interpolazione suggerita all’art. 72 O.P., in relazione alle competenze degli U.E.P.E. (art. 9 dello schema e del decreto emanato). Tale modifica si rivela quanto mai decisiva, dato che si consente agli operatori degli U.E.P.E. di formulare delle osservazioni anche sul comportamento serbato dal richiedente; si allarga pertanto lo spettro delle valutazioni sulla situazione dell’istante mediante il coinvolgimento di un’equipe multidisciplinare, ricalcata sul modello operante all’interno del carcere e capace di esprimere pareri anche sui dati comportamentali del condannato. Notevolmente indicativo il Capo IV, che contiene disposizioni in tema di vita penitenziaria. L’art. 1 O.P., così come modificato, andrà a contenere i riferimenti alla dignità della persona, al divieto di discriminazione in relazione all’orientamento sessuale, nonché il chiaro rinvio ai concetti fondamentali della responsabilità, dell’autonomia, della socializzazione e dell’integrazione; si ribadisce come il trattamento debba tendere al reinserimento sociale e dovrebbe essere attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei reclusi. Rimane il chiaro obbligo di identificare i reclusi con il loro nome, con il definitivo abbandono dei c.d. processi di infantilizzazione, che sono ad oggi diffusi nella prassi trattamentale; ad ogni persona devono inoltre essere garantiti i diritti fondamentali ed è vietata ogni forma di violenza fisica e morale in suo danno. Si ribadisce la modifica all’art. 9 O.P. in materia di alimentazione, per cui ai detenuti deve essere assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione e al clima; ai detenuti che ne fanno richiesta è garantita, ove possibile, un’alimentazione rispettosa del loro credo religioso. Fondamentale che, all’art. 10 O.P., si innalzi ad un minimo di quattro ore giornaliere il tempo da trascorrere all’aria aperta; durata, che, tuttavia, può essere ridotta, fino a due ore; gli spazi destinati alla permanenza all’aria aperto devono offrire possibilità di protezione dagli agenti atmosferici. All’art. 13 O.P. viene invece dettagliato il contenuto del trattamento penitenziario che deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto, devono essere incoraggiate le attitudini personali e devono essere valorizzate le competenze che possono rivelarsi funzionali al reinserimento sociale. Nell’ambito dell’osservazione scientifica, si chiarisce come debba essere offerta l’opportunità al detenuto di affrontare un percorso di responsabilizzazione rispetto al fatto criminoso commesso e ad i suoi rapporti con la vittima del reato (in tal caso, viene trasposta dall’art. 27 del reg. penit., la regola per cui l’osservazione scientifica deve basarsi su “riflessioni sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato e per la vittima del reato nonché sulle possibili azioni di riparazione”). Se tale disposizione risulta importante per il potenziamento di valore e di contenuti da attribuire all’osservazione scientifica, nulla però si dice in merito alla competenza e alle possibilità in termini di risorse da predisporre per rendere realmente effettive le valutazioni circa il percorso criminale e la rielaborazione del passato della persona reclusa in una prospettiva di riscatto sociale. L’osservazione dovrebbe essere effettuata ad inizio esecuzione e proseguita nel corso di essa; la prima formulazione dovrebbe essere redatta entro sei mesi. Anche in questo caso, di rilievo è la precisazione delle tempistiche che si impongono all’area educativa ed all’equipe trattamentale per effettuare la prima valutazione circa la personalità del detenuto: ma senza risorse di personale (in media 1 educatore per 100 detenuti, assenza di specialisti, il sovraccarico di lavoro per psicologi e medici, con poche ore e poche garanzie contrattuali, mancanza di assistenti sociali già in sovraccarico rispetto all’esecuzione esterna della pena, ecc.) sarà davvero una tempistica attuabile? E quale potrebbe essere la conseguenza di tale inosservanza, che potrebbe dipendere da molteplici fattori? All’art. 14 O.P., rimane fermo il principio della territorialità dell’esecuzione della pena detentiva, per cui si sancisce il diritto per i detenuti ad essere collocati in un istituto penitenziario più vicino alla stabile dimora della famiglia o, se individuabile, al proprio centro di riferimento sociale, salvo specifici motivi contrari. Si stabilisce un criterio di separazione per le donne detenute, che devono essere ospitate in istituti separati da quelli maschili o in apposite sezioni in numero tale da non compromettere le attività trattamentali. Alle madri è consentito tenere con sé i figli con età inferiore ai tre anni; per la cura e l’assistenza dei minori devono essere allestiti asili nido (su tale previsione non è pensabile non esprimere delle forti criticità, sia perché in carcere non dovrebbe transitare in alcun caso i bambini sia perché ad oggi non esistono asili nido nelle carceri, se non in rari casi ed in ogni caso sono gestiti con grandissime difficoltà, le difficoltà insite nella reclusione forzata di bambini in carcere; tale disposizione potrà avere un’attuazione solo con la predisposizione razionale di risorse organiche e strutturali). All’art. 15 O.P. si chiarisce inoltre che il trattamento del condannato e dell’internato si svolge “avvalendosi principalmente dell’istruzione, della formazione professionale, del lavoro, della partecipazione a progetti di pubblica utilità, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”. Fondamentale quindi il passaggio (e l’aggiunta per quanto riguarda i lavori di pubblica utilità) dell’inclusione nel programma trattamentale dell’istruzione e del lavoro oltre che l’agevolazione dei contatti con il mondo esterno e la famiglia. Notevole, inoltre, la sensibilità mostrata nei confronti dei soggetti c.d. a rischio: come era stato, infatti, rappresentato nella relazione illustrativa, si vuole garantire che soggetti fragili e vulnerabili - come le donne, di cui sopra, ma soprattutto gli omossessuali e le persone transessuali - vengano collocati secondo categorie omogenee in istituti o sezioni a ciò adibite, su tutto il territorio nazionale previo consenso dell’interessato, altrimenti scatta la collocazione nelle sezioni ordinarie (in altri termini, si vuole evitare la prassi per cui gli omosessuali e i transessuali vengano collocati nelle sezioni protette dei c.d. sex offenders indipendentemente dal fatto che abbiano commesso reati di natura sessuale). Fermo il diritto di colloquio per il detenuto con il proprio difensore, sin dall’inizio della misura o della pena; così come si salva il diritto di conferire con i garanti dei diritti dei detenuti, che, quindi, con la riforma trova piena legittimazione a livello normativo. Si precisa poi che i locali destinati ai colloqui con i familiari devono favorire, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio ed essere collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto; particolare attenzione dovrà essere dedicata all’incontro con i minori degli anni quattordici (anche su questo punto, importante sarà il ruolo attivo delle direzioni degli istituti penitenziari, che - in base alle risorse e ai locali disponibili - dovranno impegnarsi per rendere tale disposizione il più attuabile possibile). Di rilievo, inoltre, la precisazione di cui all’art. 18 O.P., dove si esplicita altresì il diritto di informazione e di espressione delle proprie opinioni; l’informazione è garantita mediante l’accesso ai quotidiani e siti informatici; si semplifica inoltre la competenza per le autorizzazioni ai colloqui telefonici, prima della sentenza di primo grado, del giudice competente, dopo il passaggio in giudicato, sempre del direttore (anziché del magistrato di sorveglianza). Ritorna nuovamente anche all’art. 19 O.P. la delicata questione delle pari opportunità per le detenute donne: si mostra una particolare attenzione, infatti, per la parità di accesso alle proposte culturali e professionali delle donne e degli uomini detenuti, senza discriminazioni in base al sesso e l’impegno di agevolare l’integrazione degli stranieri anche mediante l’insegnamento della lingua italiana e della conoscenza dei princìpi costituzionali. Sono agevolate la frequentazione scolastica e l’accesso all’università con apposite convenzioni e protocolli d’intesa. Ancora. Si interviene sull’art. 27 O.P., per valorizzare la figura del mediatore culturale: se ne prevede così l’inserimento tra i componenti della commissione istituita in materia di attività culturali, sportive e ricreative. All’art. 31 O.P., si prevede poi che nella costituzione delle rappresentanze dei detenuti e degli internati venga inserita anche una detenuta donna. Per quanto riguarda l’art. 33 O.P. in materia di regime di isolamento, il testo della riforma suggerisce di porre delle limitazioni garantistiche e difensive alla durata dell’isolamento che deve essere specificata nel provvedimento dell’autorità giudiziaria procedente. Si incide anche sull’art. 36 O.P. in fatto di sanzioni disciplinari, per cui nella fase esecutiva si deve tener conto del trattamento penitenziario in corso, al fine di non ostacolare il processo di recupero. Un’attenzione particolare è stata infine dedicata alla questione trasferimenti, i quali devono essere eseguiti, prediligendo le esigenze familiari o comunitarie del detenuto, tenendo conto anche delle ragioni di studio, formazione, lavoro o salute (art. 42 O.P.). All’art. 43 O.P., inoltre, si specifica che i detenuti e gli internati devono essere dimessi con i documenti di identità validi: per questo l’amministrazione penitenziaria, su cui ricade tale onere, si avvale della collaborazione con gli enti locali. All’art. 45 O.P. si stabilisce altresì che il detenuto privo di residenza anagrafica sia iscritto - su segnalazione del direttore - nei registri della popolazione residente del Comune dove è ubicata la struttura. Al condannato quindi sarà chiesto di optare tra il mantenimento della precedente residenza anagrafica e quella presso la struttura dove è recluso. Tale opzione potrà essere in ogni tempo modificata. Tali disposizioni, oltre che alle norme di principio sopra descritte, rappresentano il vero elemento innovativo della riforma: prescrizioni forse sottovalutate o che non danno il senso di una vera e propria rivisitazione della disciplina penitenziaria, ma che nella prassi e nella vita quotidiana del singolo detenuto rappresentano dei veri punti di svolta nei diritti civili delle persone recluse. La semplice possibilità - sulla cui effettività dovrà aspettarsi la risposta della prassi - che il detenuto venga dismesso con documenti di validità validi rappresenta un passo in avanti significativo per il reinserimento dello stesso nel mondo del lavoro e dei suoi diritti civili (un onere che dovrà incombere sull’amministrazione penitenziaria e sulle realtà territoriali di riferimento); così come rilevante è la disposizione della residenza anagrafica presso il Comune in cui è sita la stessa struttura penitenziaria, dato che tale opportunità discendono conseguente fondamentali per i diritti assistenziali e previdenziali del detenuto e del suo nucleo familiare. Insomma, ad uno sguardo complessivo, si saluta positivamente la riforma penitenziaria, perché - nonostante le continue modifiche, interpolazioni, nonostante i numerosi tagli rispetto all’impianto originario, alle diverse versioni di schemi di decreti legislativi comparsi e riscomparsi dai passaggi alle Camere - il testo consegna agli operatori del sistema penitenziario degli strumenti importanti per fornire condizioni di detenzioni migliori: tali strumenti se attuati nel miglior modo possibile potrebbero contribuire davvero risultare incisivi nel potenziamento dei diritti dei detenuti e delle possibilità di accesso alle misure alternative, tramite il lavoro e la formazione, anche se la strada è in salita, se le risorse sono poche, i detenuti sempre di più. *Avvocato in Trento e Dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Trento Modifiche alle norme sull’ordinamento penitenziario in tema di lavoro penitenziario studiomarini.ca.it, 30 ottobre 2018 Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.Lgs. n. 124/2018, recante la riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario e contenente, tra l’altro, modifiche in tema di lavoro previdenziale. La novella legislativa conferma che negli istituti penitenziari e nelle strutture ove siano eseguite misure privative della libertà, devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. A tal fine, all’interno e all’esterno dell’istituto possono essere organizzati e gestiti, anche direttamente da enti pubblici o privati, lavorazioni e servizi con l’impiego di prestazioni lavorative dei detenuti e degli internati, nonché corsi di formazione professionale organizzati e svolti dai medesimi enti. Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato. Presso ogni istituto penitenziario è istituita una apposita Commissione che provvede a formare due elenchi, uno generico e l’altro per qualifica, per l’assegnazione al lavoro dei detenuti e degli internati, tenendo conto esclusivamente dell’anzianità di disoccupazione maturata durante lo stato di detenzione e di internamento, dei carichi familiari e delle abilità lavorative possedute, e privilegiando, a parità di condizioni, i condannati, con esclusione dei detenuti e degli internati sottoposti al regime di sorveglianza particolare. In ogni caso, l’oggetto e le condizioni di svolgimento dell’attività lavorativa, la formazione e il trattamento retributivo, senza oneri a carico della finanza pubblica, vanno disciplinate da apposite convenzioni, le cui proposte sono pubblicate a cura del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sul proprio sito istituzionale. I soggetti privati disponibili ad accettare le proposte trasmettono al Dipartimento i relativi progetti di intervento unitamente al curriculum dell’ente. I detenuti e gli internati, in considerazione delle loro attitudini, possono essere ammessi a esercitare, per proprio conto, attività artigianali, intellettuali o artistiche, nell’ambito del programma di trattamento, nonché attività di produzione di beni da destinare all’autoconsumo, anche in alternativa alla normale attività lavorativa. La durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalla normativa vigente in materia di lavoro e sono garantiti il riposo festivo, il riposo annuale retribuito e la tutela assicurativa e previdenziale. Ai detenuti e agli internati che frequentano i corsi di formazione professionale e svolgono i tirocini è garantita, nei limiti degli stanziamenti regionali, la tutela assicurativa e ogni altra tutela prevista dalle disposizioni vigenti. Infine, per la costituzione e lo svolgimento di rapporti di lavoro nonché per l’assunzione della qualità di socio nelle cooperative sociali non si applicano le incapacità derivanti da condanne penali o civili. Riformata la disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni ilpenalista.it, 30 ottobre 2018 Il d.lgs. 121/2018 introduce una normativa speciale per l’esecuzione della pena nei confronti dei condannati minorenni e dei giovani al di sotto dei venticinque anni (c.d. giovani adulti) al fine di adattare la disciplina dell’ordinamento penitenziario alle specifiche esigenze di tali soggetti, con particolare riguardo al peculiare percorso educativo e di reinserimento sociale di cui gli stessi necessitano in ragione della giovane età. L’esecuzione della pena nei confronti del minorenne deve essere volta a “favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato. Tende altresì a favorire la responsabilizzazione, l’educazione e il pieno sviluppo psico-fisico del minorenne, la preparazione alla vita libera, l’inclusione sociale e a prevenire la commissione di ulteriori reati, anche mediante il ricorso ai percorsi di istruzione, di formazione professionale, di istruzione e formazione professionale, di educazione alla cittadinanza attiva e responsabile, e ad attività di utilità sociale, culturali, sportive e di tempo libero” (art. 1, comma 2, d.lgs. n. 121/2018). La pena detentiva diventa l’extrema ratio, qualora via sia il pericolo che il condannato si sottragga all’esecuzione o commetta altri reati, e vengono introdotte le misure penali di comunità: - l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 4); - l’affidamento in prova con detenzione domiciliare (art. 5); - la detenzione domiciliare (art. 6); - la semilibertà (art. 7). La durata delle misure penali di comunità è corrispondente alla durata della pena da eseguire (art. 2, comma 6) e l’esecuzione avviene principalmente “nel contesto di vita del minorenne e nel rispetto delle positive relazioni socio-familiari” (art. 2, comma 7). Il Capo III, “Disciplina dell’esecuzione”, all’art. 10 regola la particolare ipotesi in cui siano in esecuzione pene concorrenti per fatti commessi da minorenne e da adulto, ipotesi sinora non disciplinata in modo specifico ma solo dalla regola generale di cui all’art. 665, comma 4, c.p.p.. La nuova disciplina prevede dunque che se nel corso dell’esecuzione di una condanna per reati commessi da minorenne sopravviene un titolo di esecuzione di altra pena detentiva per reati commessi da maggiorenne, il P.M. emette l’ordine di esecuzione, lo sospende secondo quanto previsto dall’art. 656 c.p.p. e trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza per i minorenni. È quindi lasciata al magistrato di sorveglianza la possibilità di far proseguire l’esecuzione secondo le modalità previste per i minorenni. A tal fine l’autorità giudiziaria dovrà tener conto della gravità dei fatti oggetto di cumulo e del percorso in atto e, se il condannato ha compiuto ventuno anni, anche delle ragioni di sicurezza di cui all’art. 24 d.lgs. n. 272/1989. Infine, l’ultimo Capo è dedicato alla riorganizzazione degli istituti penali per minorenni e all’intervento educativo. In particolare: - deve essere assicurata la separazione dei minorenni dai giovani adulti e quella degli imputati dai condannati (art. 15); - la permanenza all’aria aperta deve essere di almeno 4 ore al giorno, salvo che specifici motivi non rendano necessaria una riduzione dell’orario (art. 17); - i detenuti sono ammessi a frequentare all’esterno dell’istituto corsi di istruzione, di formazione professionale e di istruzione e formazione professionale (art. 18); - in un’ottica di tutela dell’affettività, il detenuto ha diritto a otto colloqui mensili e alla possibilità di usufruire ogni mese di quattro visite prolungate tra le 4 e le 6 ore con congiunti ovvero con persone con le quali sussiste un significativo legame affettivo (art. 19); L’art. 22 stabilisce che “salvo specifici motivi ostativi anche dovuti a collegamenti con ambienti criminali, la pena deve essere eseguita in istituti prossimi alla residenza o alla abituale dimora del detenuto e delle famiglie, in modo da mantenere le relazioni personali e socio-familiari educativamente e socialmente significative”. Il progetto di intervento educativo, a cui deve conformarsi la permanenza nell’istituto penale, deve essere predisposto entro 3 mesi dall’inizio dell’esecuzione e deve essere ispirato ai principi della personalizzazione delle prescrizioni, alla flessibilità e assicurare la graduale restituzione di spazi di libertà. Al detenuto è assicurato il supporto psicologico e il progetto educativo deve essergli presentato con linguaggio comprensibile (art. 14). Carceri, nella riforma scompare il riferimento alle foto dei detenuti pestati di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2018 “Ma per i medici c’è obbligo di referto”. Lo schema del decreto giunto alle commissioni giustizia il 7 settembre scorso prevedeva che “nella cartella clinica del detenuto il medico annota immediatamente, anche mediante comunicazione fotografica, ogni informazione relativa a segni o indicazioni che facciano apparire che la persona possa aver subìto violenze”. Riferimento cancellato dalla norma pubblicata in gazzetta ufficiale dopo i rilievi di Regioni e Sanità. I personale sanitario resta obbligato a segnalare fatti che possano far ipotizzare reati. Erano quattro semplici parole e avrebbero consentito espressamente ai medici di fotografare quei detenuti con segni sul corpo che fanno pensare a violenze o pestaggi subiti. Come Stefano Cucchi, solo per citare uno dei casi recentemente tornati al centro della cronaca. Solo che quelle quattro parole sono scomparse dai decreti legislativi di riforma dell’ordinamento penitenziario, pubblicati in Gazzetta Ufficiale del 26 ottobre 2018. A scoprirlo è stata Susanna Marietti di Antigone. Lo schema del decreto (leggi sul sito della Camera) era giunto alle commissioni giustizia di Montecitorio e Palazzo Madama il 7 settembre scorso. All’articolo 7 delle disposizioni per la riforma dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario era previsto chiaramente che “nella cartella clinica del detenuto o internato il medico annota immediatamente, anche mediante comunicazione fotografica, ogni informazione relativa a segni o indicazioni che facciano apparire che la persona possa aver subìto violenze o maltrattamenti e, fermo l’obbligo di referto, dà comunicazione al direttore dell’istituto e al magistrato di sorveglianza”. Una novità importante che infatti era citata anche dalla relazione di accompagnamento della legge: “È previsto che il medico che compie l’ispezione debba annotare, avvalendosi di rilievi fotografici se necessari, tutte le informazioni riguardo ad eventuali maltrattamenti o violenze subite, dandone comunicazione al direttore dell’istituto e al magistrato di sorveglianza”. Le commissioni di Camera e Senato dovevano discutere il provvedimento e fornire al governo il proprio parere. Quello favorevole di Palazzo Madama era stato accordato il 25 settembre. Sei giorni prima, anche Montecitorio aveva dato il via libera alla riforma ma con un’osservazione: “Valuti il Governo l’opportunità di recepire le proposte emendative formulate dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome in materia di modalità di erogazione dell’assistenza sanitaria negli istituti penitenziari per adulti”. Regioni e province erano state interpellate perché competenti sulla sanità. E tra gli emendamenti proposti chiedevano la cancellazione di quel riferimento alle fotografie di detenuti probabilmente vittime di pestaggi. “Appare del tutto improprio e incongruo il compito assegnato al sanitario di documentare con ‘fotografiè eventuali lesioni sospette per i nuovi giunti, sussistendo già l’obbligo di legge dell’obbligo del referto che deve essere completo ed esaustivo circa la descrizione dello stato di fatto del paziente”, si legge nei rilievi della Conferenza della Regioni allegati dalla commissione giustizia al suo parere. “Non si è discusso di quella parte sulle fotografie. Il Pd ha però chiesto di allegare alla documentazione le proposte della Conferenza delle Regioni, cosa che abbiamo fatto. Ma se qualcosa andrà modificato lo faremo”, dice Giulia Sarti, presidente della commissione giustizia della Camera. Il governo ha dunque recepito i pareri di Regioni e ministero della Salute. “Quel riferimento sembrava una ripetizione essendo vigente l’obbligo di referto: per questo sono stati recepiti e inseriti nella riforma i pareri di Regioni e del ministero della Salute”, spiega il sottosegretario alla giustizia, Vittorio Ferraresi. Al parere delle Regioni, infatti, si è aggiunto anche quello del ministero retto da Giulia Grillo, sollecitato sul tema dallo stesso dicastero di via Arenula. Il senso dell’obiezione è legato al fatto che l’obbligo di referto vincola il personale sanitario a segnalare tutti i casi che possono presentare i caratteri di un delitto. Insomma: se un medico visita un detenuto e scopre delle ferite che possono fare pensare a una violenza subita, deve per forza segnalare la vicenda all’autorità giudiziaria. Con o senza fotografie: nessuno vieta espressamente al personale sanitario di immortalare il paziente. Aver inserito un riferimento in tal senso, però, sembrava un primo passo avanti per obbligare i medici a fotografare tutti i detenuti con segni di percosse sul corpo. Materiale che poteva essere fondamentale per documentare eventuali abusi delle forze dell’ordine. D’altra parte il recente passato è pieno di casi simili. Quel riferimento di quattro parole, però, dalla riforma è scomparso. Le foto dei medici possono far emergere altri casi Cucchi. Che senso ha togliere quelle parole? di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2018 Un medico che lavora in un carcere e che, visitando un detenuto, si accorge di segni sul suo corpo che lasciano presagire abbia subito violenze, deve o no fotografare le ferite o che per loro? O deve limitarsi a refertare per iscritto? Seppur fosse il medico più scrupoloso e onesto al mondo, la descrizione scritta è sempre frutto della sua singola interpretazione. Inoltre, rende senz’altro un’idea meno chiara di quanto non facciano descrizione e immagini insieme. Infine, se il medico dovesse essere meno scrupoloso o meno onesto, potrebbe documentare in maniera parziale i segni rinvenuti. Sembrerebbe banale. Stefano Cucchi sarebbe rimasto una delle tante vittime sconosciute e prive di giustizia senza quelle fotografie che scossero l’Italia. Eppure… Sono usciti in Gazzetta Ufficiale i tre decreti governativi di riforma dell’ordinamento penitenziario. Il lavoro di riflessione su norme più moderne che potessero sostituire quelle nel 1975 e portare l’esecuzione della pena al passo di un mondo oramai cambiato era cominciato diversi anni fa, all’indomani di quella cosiddetta sentenza Torreggiani con cui la Corte di Strasburgo aveva condannato l’Italia per il trattamento inumano e degradante ricevuto dalle persone detenute nel nostro Paese. Si è capito con il passare del tempo che mancavano il coraggio e la volontà per portare avanti un ripensamento profondo di un’idea di pena che, a giudicare dalle statistiche sui tassi di recidiva, non sta funzionando molto bene. È mancato il coraggio al vecchio governo che, giunto troppo in prossimità delle elezioni politiche, ha mandato al macero un anno e mezzo di lavoro dei tantissimi esperti chiamati a raccolta nella grande consultazione che va sotto il nome di Stati Generali dell’esecuzione penale. È mancata la volontà al nuovo governo che, dietro uno slogan ben poco chiaro invocante certezza della pena (e perché, un nuovo modello di pena significa una pena più incerta?), non si è voluto confrontare con idee che andassero appena un po’ al di là dell’ovvio. I decreti pubblicati in Gazzetta - sulla vita penitenziaria in generale, sul lavoro in carcere, sugli istituti di pena per minorenni - sono la versione tagliuzzata e sbiadita di quanto si era sperato. Dopo oltre quarant’anni dalla vecchia legge, viene operata una riforma che nulla ha di epocale e che somiglia a un piccolo aggiustamento di rotta in corsa. Avremo modo di commentarli e già lo abbiamo fatto durante il loro tormentato percorso. Un particolare voglio invece qui far notare. Un particolare che mi ha colpito e che non so in quanti abbiano notato. Nell’acquisire e nel conformarsi ai pareri delle competenti Commissioni parlamentari, i decreti hanno subito alcune modifiche. Ad esempio, è sparito l’articolo che intendeva tutelare le professioni di fede diverse da quella cattolica. Niente di rivoluzionario. Si diceva solamente che i detenuti hanno la libertà di professare il culto che vogliono e che l’amministrazione deve agevolarne la pratica. Chiunque abbia studiato il fenomeno concorda sul fatto che chi in carcere mostra tendenze alla radicalizzazione religiosa lo fa come reazione a diritti violati. Detto banalmente: se un detenuto straniero non capisce perché è in carcere in quanto nessuno gli traduce i documenti rilevanti, viene fatto vivere in una cella fatiscente e sovraffollata, non riesce a telefonare ai parenti perché nessuno si fa carico della relativa burocrazia, gli si nega il diritto alla propria religione c’è allora qualche possibilità che reagisca con pensieri stereotipati e violenti verso il mondo occidentale. Ma non è neanche di questo che volevo parlare. Mi ha colpito come qualcuno si possa essere preso la briga di cancellare quattro paroline che comparivano nella bozza di decreto fino a pochi giorni fa. Leggevamo infatti: “Nella cartella clinica del detenuto o internato il medico annota immediatamente, anche mediante comunicazione fotografica, ogni informazione relativa a segni o indicazioni che facciano apparire che la persona possa aver subito violenze o maltrattamenti”. L’inciso relativo alla comunicazione fotografica è oggi scomparso. Se non fosse mai stato inserito sarebbe stato diverso. La legge non lo vieta e il medico può pensarci da solo. Ma che si sia pensato esplicitamente a toglierlo mi pare inquietante. La versione precedente della norma intendeva rendere obbligatoria la documentazione fotografica in casi di possibili violenze. Sembrerebbe del tutto ragionevole. Se mai si dovrà andare a un processo, ciò sarà probabilmente molto tempo dopo. Di quei segni, auspicabilmente, non ci sarà più traccia sul corpo della persona. La documentazione fotografica potrà allora essere preziosa. Dirimente. Se così non sarà, si saranno solo usati pochi minuti in più e qualche scatto di cellulare inutilmente. Che senso ha toglierne la menzione? Visto che, contemporaneamente, qualcuno propone di togliere il reato di tortura - appena introdotto - dal codice penale italiano, qualche dubbio mi viene. Lega le mani alle forze dell’ordine, sostiene Fratelli d’Italia. Le forze dell’ordine che io stimo e che voglio non sono quelle che usano la tortura. Sono invece quelle che chiedono verità nel processo per la morte di Stefano Cucchi. E sono quelle che chiederebbero a gran voce a un medico di eseguire in ogni circostanza una perizia il più completa possibile. *Coordinatrice associazione Antigone Lo Stato italiano riuscirà mai a superare la condanna a vita? di Evelina Cataldo ilsussidiario.net, 30 ottobre 2018 A seguito dell’importante riforma della giustizia penale vaticana attuata da Papa Francesco, Evelina Cataldo evidenzia l’assenza di dibattito sul tema da parte dello Stato italiano. Lo Stato del Vaticano, mosso dalla decisione di Papa Francesco, inasprisce le pene previste per condotte devianti e abusi su minori da parte dei rappresentanti della chiesa, contestualmente riconosce il reato di tortura e abolisce la pena dell’ergastolo che, sebbene disapplicata, viene rimodulata a circa un trentennio di pena. Sulla quaestio “pena infinita” o “condanna a vita in carcere”, sembra che i rappresentanti politici dello Stato italiano abbiano arenato confronti e discettazioni etico-giuridiche sul tema. Nel 1998 si era aperta una parentesi caratterizzata da una proposta abolizionista che obbligò tuttavia alla ritirata quando la Consulta sancì la legittimità della norma. Decisione giustificata dal ritaglio possibilista di applicazione della liberazione condizionale dopo ventisei anni di carcere scontato. Negli anni 70 lo statista Aldo Moro si oppose fermamente alla pena dell’ergastolo. Nel corso delle sue lezioni agli studenti evidenziava: “La pena perpetua, priva com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento, appare crudele e disumana, non meno di quanto lo sia la pena di morte”. In effetti, l’ergastolo confligge con il principio positivo di rieducazione del condannato e del suo possibile reintegro sociale. Con un’azione spontanea e personale, Papa Francesco si è assunto la responsabilità dell’abolizione della pena infinita conformandosi anche alle inversioni di tendenza registratesi nell’ambito della Corte Europea dei diritti dell’uomo che, ultimamente e attraverso la sentenza Vinter del 9 luglio, ha evidenziato confliggenza rispetto al corollario dei diritti umani garantiti dalla Cedu. In specie si è determinato che I “fine pena mai” sono compatibili con la Cedu solo se per il recluso risulta prevista almeno una possibilità di liberazione o revisione. Tra l’altro, il paradosso risiede nella circostanza di uno Stato che tenta di educare o rieducare a un principio che non sia vendicativo per debellare quei valori di vendetta e di ritorsioni personali che mantengono in essere le associazioni delinquenziali ma al contempo tenta esso stesso di vendicare mediante pene inumane, degradanti congelando il tempo a privazione illimitata e indeterminata nelle possibilità esistenziali. Una morte dell’esistenza gestita dallo Stato con il contagocce non può essere considerata pena giusta o pena utile. Essa nega il concetto stesso di crisi, o meglio, di processo di crisi, da intendersi nella sua accezione positiva e nella sua molteplicità di significato: giudizio, scelta, separazione ma anche punto di svolta. Riconoscere una pena infinita significa condannare le identità soggettive al presente deprivandole di quella crisi positiva come punto decisivo del cambiamento o, così come definito dal filosofo Galimberti “momento della vita caratterizzato dalla rottura dell’equilibrio precedentemente acquisito e dalla necessità di trasformare gli schemi consueti di comportamento che si rivelano non più adeguati a far fronte alla situazione presente”. L’ergastolo, dunque, congela quel naturale processo dinamico di sviluppo della personalità e delle identità sociali che sono di per sé, così come riconosciuto dalle scienze umane, sempre in fieri. Nel 2008 si conteggiavano 1408 presenze di ergastolani nelle nostre carceri, oggi ce ne sono 1582, a ciò si aggiunga che alcuni sono cittadini stranieri e privi di riferimenti sul territorio, per cui ancora più arduo per la magistratura decidere per un’apertura ai permessi premio o alla liberazione condizionale. L’ergastolo riproduce sempre le stesse giornate, un po’ come accade nel film Ricomincio da capo in cui il protagonista, Bill Murray, resta intrappolato in uno strano loop temporale che lo obbliga a vivere quotidianamente lo stesso identico giorno; eppure, a seguito di vicissitudini non propriamente positive, il finale evidenzierà un uomo cambiato e migliore. Vaticano ed Europa hanno ritagliato le linee guida. Ora spetterebbe allo Stato -nel riproporsi come stato di diritto e nell’evidenza di un obbligo alla civiltà - superare la condanna a vita affinché anche gli operatori impegnati in processi di cambiamento sociale in carcere possano continuare ad essere testimoni significativi di vita e non di morte. La tolleranza zero arriva in Parlamento: niente sconti di pena per gli ergastolani di Chiara Giannini Il Giornale, 30 ottobre 2018 Chi sarà condannato all’ergastolo potrebbe non avere più la facoltà di usufruire del rito abbreviato che prevede, in caso di condanna, la riduzione della pena di un terzo. Il prossimo 5 novembre sarà infatti votata alla Camera una proposta di legge, a firma del sottosegretario all’Interno, Nicola Molteni e la cui relatrice sarà la deputata leghista Annarita Tateo. Subito dopo il tutto passerà al Senato. L’avvocato Elisabetta Aldrovandi, presidente dell’Osservatorio nazionale sostegno vittime, lancia un appello “a tutte le forze politiche affinché votino questa proposta che non è una battaglia politica, ma di giustizia”. Nel concreto, dopo le modifiche apportate dalla legge 16 dicembre 1999, numero 479 (la cosiddetta legge Carotti) il giudizio abbreviato è stato esteso anche ai delitti più gravi, tra cui, appunto, l’ergastolo. Ecco perché la proposta prevede la modifica dell’articolo 438 del codice di procedura penale con cui si specifica che “il rito abbreviato non si applica ai reati che prevedono la pena dell’ergastolo”. Inoltre, si modifica l’articolo 442 che stabilisce che la “pena della reclusione a vita sia sostituita con quella della carcerazione per 30 anni, mentre a quella dell’ergastolo con isolamento diurno è sostituita quella dell’ergastolo”. “Sullo stupro e l’omicidio di Desirée - spiega ancora l’avvocato Aldrovandi - si chiede una pena esemplare che potrebbe non esserci nella realtà, perché con le attuali norme in vigore gli imputati anche per reati gravissimi possono accedere al rito abbreviato: se chiesto va concesso e comporta lo sconto di pena di un terzo, beneficio di cui, se vorranno, potranno godere anche i carnefici di Desirée. Per fortuna - prosegue - qualcosa, con questo nuovo progetto di legge, sta cambiando: alla Camera è in discussione il disegno di legge, importantissimo, che rappresenta un primo e concreto passo verso la certezza della pena e il riconoscimento dei diritti delle vittime”. Nel nuovo progetto sarà inserita, però, la dicitura “in caso di condanna per reati diversi da quelli per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche ove l’imputato abbia presentato la richiesta ai sensi dell’articolo 438, commi 5, 5 bis o 6, la pena determinata tenendo conto di tutte le circostanze aggravanti, è diminuita di un terzo”. Con l’introduzione della norma del 1999 era venuta a mancare, infatti, qualsiasi limite di natura oggettiva per l’applicabilità di questo rito speciale, “definendosi così anticipatamente anche processi aventi ad oggetto imputazioni per reati molto gravi”. Qualora la proposta fosse accettata e passasse in Parlamento per i responsabili di crimini cruenti non ci sarebbe più la possibilità di ottenere i vergognosi sconti di pena su cui, fino a oggi, molti hanno contato e che hanno consentito ad assassini e responsabili di crimini efferati di poter uscire in anticipo rispetto ai tempi stabiliti dalla condanna. Decreto sicurezza, il M5S pronto a processare i dissidenti interni di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 30 ottobre 2018 Pronti i deferimenti ai probiviri. E la fronda rischia di diventare rivolta. De Falco: “Se restano gli articoli incostituzionali al decreto sicurezza, voto no”. Fattori: se avessero saputo cosa avremmo fatto, gli elettori ci avrebbero inseguito con i forconi. Pronti i deferimenti ai probiviri E la fronda rischia di diventare rivolta. Punirne tre per educarne 330. Elena Fattori, Paola Nugnes e Gregorio De Falco non potrebbero essere più diversi, per convinzioni politiche, provenienze e cultura. Ma di fronte a quella che considerano una sudditanza alla Lega in materia di sicurezza, hanno deciso di saldarsi in un fronte comune e ribellarsi. Per questo non sembrano particolarmente spaventati dalla minaccia che circola dietro le quinte, cioè quella di essere deferiti ai probiviri da Luigi Di Maio e si dicono pronti a non votare il decreto. La loro rivolta rappresenta l’ultima di una serie di episodi che allarma il gruppo dirigente. E che ripropone un tema, quello delle espulsioni, che ha tenuto banco nella scorsa legislatura. Allora sono stati una quarantina i reietti, espulsi. In questa non ci sono stati sanzioni, ma le prospettive sono inquietanti: più si va avanti nella legislatura, più molti parlamentari, già alla seconda legislatura e quindi non rieleggibili, si sentiranno autonomi dalla testuggine dimaiana. Il giallo emendamento - A metà pomeriggio arriva in agenzia la notizia che i tre avrebbero ritirato l’emendamento all’articolo 14 del decreto Sicurezza, che prevede la revoca della cittadinanza per chi ha riportato condanne definitive per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione. Un gesto di distensione, un tentativo di evitare la rottura? Fake news, come usano dire i M5S e come spiega De Falco nel caso: “Mai ritirato nessun emendamento, è stato solo bocciato. Anzi, se il provvedimento resta incostituzionale, voterò contro”. Nel frattempo, Elena Fattori mette nero su bianco (nel suo blog sull’Huffington) il pensiero di molta base 5 Stelle: “Se qualche mese fa avessimo detto in un comizio che avremmo detto sì alla Tap, sì all’Ilva, che avremmo fatto un condono fiscale ed edilizio e che ci saremmo alleati con la Lega usando la parola contratto, ci avrebbero rincorso con i forconi”. De Falco conferma: “Ha ragione, non credo che il problema siano i nostri emendamenti”. Come a dire, Di Maio sta cercando un diversivo per dare compattezza alla testuggine e trovare capri espiatori. De Falco fa sapere a Di Maio che si è candidato “in un partito non in un esercito”. E lui, che è il comandante più famoso d’Italia, sa bene la differenza. Fisco e Tap - Se il fronte sicurezza è caldissimo, non lo è meno quello del fisco. Qualche giorno fa è arrivata come una bomba la nota con la quale Carla Ruocco e Elio Lannutti hanno spiegato che “molte delle disposizioni del decreto fiscale sono contrarie ai nostri valori”. La Ruocco, si sussurra, è arrabbiata perché non sta passando alla Consob un uomo a lei vicina, Marcello Minenna. Le maldicenze corrono leggere: “De Falco ha bisogno di soldi - si lascia cadere - per questo vuole sganciarsi”. Macchina del fango? Gli scricchiolii sono ovunque. Roberto Fico ogni tanto tira una frecciata a Salvini: “Meglio l’amore delle ruspe”, dice sulla ragazza uccisa a San Lorenzo. Meno sentimentali e più furenti i senatori Lello Ciampolillo e Saverio De Bonis e la deputata Sara Cunial, che si scagliano contro il premier Giuseppe Conte per la decisione sulla Tap. Rischi del mestiere, se è vera la definizione data Emilio Carelli di Conte, “scudo umano”. La maggioranza e Fdi - Lo scontro tra il massimalismo “diciannovista” dei puri e la ragione di stato (anzi, di governo), rischia di fare vittime. E Salvini ride. Pronto a incunearsi nelle contraddizioni dell’alleato e a spolparlo. La maggioranza del Senato è fragile, solo sei senatori. I tre dissidenti potrebbero decidere di votare contro o non votare. Nessun pericolo per la maggioranza, perché sulla sicurezza Fratelli d’Italia è pronta a dare una grossa mano. Ma il segnale sarebbe devastante per M5S. Che non appare solido neanche nella maggioranza. Carelli, che non ha mai messo in discussione Di Maio, difende i giornali vituperati e dice sì al Terzo Valico (che ieri i deputati M5s definivano “importante solo per la lobby del cemento”). Barbara Lezzi messa sotto accusa dal “popolo”, se la prende con il “Fatto”. Se le fronde si saldassero, insieme al nervosismo dei vertici, la stabilità del Movimento, e quindi del governo, sarebbe a rischio. Le interdittive prefettizie antimafia: inutili, punitive e antieconomiche di Andrea Cuzzocrea* Il Dubbio, 30 ottobre 2018 Non capita spesso che qualcuno abbia l’ardire di organizzare un convegno sul tema delle interdittive prefettizie antimafia. A questo argomento sono stati dedicati i lavori dell’ultima sessione delle “Giornate Repubblicane”, evento organizzato dal partito dell’edera a Reggio Calabria con l’ambizioso appellativo “Il tempo della politica responsabile”. Da uditore mi è sembrato, però, che sia rimasto sottotraccia proprio il tema del limite di un istituto che, lungi dal raggiungere l’obiettivo per cui è stato pensato, è ormai da ritenere, a mio avviso, una delle principali cause della drammatica condizione economica in cui versa la provincia di Reggio Calabria. Tutti i relatori hanno meritoriamente denunciato le conseguenze estremamente negative che hanno sotto il profilo economico certi modi di applicare determinate misure di prevenzione antimafia senza, peraltro, contribuire in termini di efficacia sul versante repressivo. Ed è emerso in tutta la sua evidenza un grande paradosso: l’interesse generale ad affrontare la questione è inversamente proporzionale all’incidenza che essa ha in termini di soffocamento di legittime iniziative imprenditoriali. Certo, il dibattito avrebbe potuto fornire gli elementi sostanziali per la comprensione della misura delle interdittive prefettizie in relazione alla loro genesi fondativa, alla loro originaria funzione e, soprattutto, in relazione all’evoluzione che nel tempo la misura ha subito stravolgendone gli obiettivi. A partire da un principio che la dottrina e la giurisprudenza che nel tempo si sono occupate della materia non hanno mai perso l’occasione di ribadire: l’informativa prefettizia non dovendo dimostrare l’intervenuta infiltrazione, essendo sufficiente la sussistenza di elementi dai quali sia desumibile un semplice tentativo di ingerenza, deve sempre essere orientata al mantenimento di un giusto equilibrio tra due interessi contrapposti. Da un lato la presunzione di innocenza (art. 17 della Cost.) e soprattutto la libertà di impresa (Art. 41 Cost.) e dall’altro un’efficace repressione della criminalità organizzata. È la continua ricerca del contemperamento di queste due esigenze, la continua ricerca di un punto di equilibrio, che dovrebbe guidare la mano degli attori chiamati a pronunciarsi sulla delicata materia. A questo punto la domanda sorge spontanea: di questo equilibrio si tiene conto nella prassi applicativa? È essa improntata a principi di cautela? O i fatti dimostrano che lo strumento, lungi dall’essere preventivo, per come era stato pensato, si è nel tempo trasformato in uno strumento esclusivamente punitivo? Basta guardare in faccia con approccio laico e principio di realtà cosa è successo in questi anni. Nella prassi applicativa, peraltro per nulla omogenea, i presupposti valorizzati dalle Prefetture per comminare la misura interdittiva si sono via via allargati fino al punto che oggi la giurisprudenza del Consiglio di Stato li definisce un “catalogo aperto”. Non solo, mentre un tempo, le “libere indagini” svolte da un Prefetto dovevano quantomeno fare riferimento ad un quadro indiziario composito oggi, (si badi bene, a legislazione invariata) è sufficiente persino un solo elemento, anche risalente nel tempo, soggettivamente interpretato in perfetto stile inquisitorio, senza contraddittorio, ad essere giudicato sintomatico di un “tentativo” di infiltrazione mafiosa. Tentativo che potrebbe persino essere ordito alle spalle dell’imprenditore. Al punto che ormai siamo in regime di assoluta indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto, che gode di discrezionalità pressoché arbitraria, di emettere le interdittive. Ed in numero talmente elevato da apparire davvero poco sostenibile in un ordinamento democratico che rifugga da antichi spettri di diritto di Polizia e di pene del sospetto. D’altronde basta guardare i numeri resi (per la prima volta) pubblici dalla relazione che la Dia ogni anno trasmette al Parlamento; 197 interdittive in Calabria nel corso dell’anno 2017 a fronte delle 60 della Campania presa come metro di paragone per la presunzione di analoga pervasività delle organizzazioni mafiose. Parametrando il valore assoluto al numero di abitanti delle due Regioni è come se in Calabria ci fossero state il 900% in più di interdittive rispetto alla Campania a definitiva dimostrazione, da un lato, della totale discrezionalità che avvolge la materia, dall’altro, di quanto sia influente, sul thema decidendum, la retorica narrazione antimafia che prevale nel dibattito dalle nostre parti. Con la nefasta conseguenza che il destinatario del provvedimento prefettizio finisce con l’essere esposto all’arbitrio dell’organo amministrativo competente a rilasciare la informativa correndo il rischio di vedere dissolti in un istante sulla base di una decisione potestativa unilaterale i sacrifici di una vita. Ed ancora si può davvero tollerare che una misura così restrittiva di libertà fondamentali dell’imprenditore, così gravida di effetti devastanti sulla sua situazione economico patrimoniale, nonché sulla situazione occupazionale dei suoi dipendenti, sia lasciata ad una decisione arbitraria del Prefetto a causa di una disposizione di legge che non indica neanche sommariamente i presupposti e che lascia nelle sue mani poteri investigativi e poteri decisionali? Ecco perché non è più procrastinabile una coraggiosa azione di sistema, con maggiore senso di consapevolezza e responsabilità. Ed ecco la necessità di sostenere con maggiore determinazione l’iniziativa del Partito Radicale e di “Mezzogiorno in Movimento” di raccolta firme per le otto proposte di Legge di iniziativa popolare tra cui le due che si propongono di modificare in senso più democratico e liberale le Leggi sulle interdittive antimafia e sullo scioglimento dei Comuni. Fa davvero specie che in questo scenario non ci sia una forte e responsabile presa di posizione delle associazioni di categoria, dei sindacati, del Sindaco della città metropolitana. È così complicato capire che impegnarsi tutti insieme per mettere fine a queste ingiustizie non significa affatto fare il gioco delle mafie quanto piuttosto impegnarsi nella costruzione di una società più giusta, più aderente ai principi costituzionali, persino più forte per combattere davvero ogni forma di illegalità e di criminalità? *Presidente Mezzogiorno in Movimento Processi lumaca, non basta prevedere maggiori risorse di Giovanni Verde Il Mattino, 30 ottobre 2018 L’organizzazione del nostro processo penale mi fa pensare a una squadra di calcio che gioca a centrocampo e non riesce a fare gol (nessun riferimento - per carità! - al Napoli di ieri) ed il presidente della Corte di appello, nell’intervista comparsa su questo giornale, mi ha ricordato l’allenatore che, in questa situazione, chiede giocatori di rinforzo. Poniamo che il Csm trovasse domani quindici volontari disposti a sacrificarsi per la causa e a venire a Napoli per essere massacrati di lavoro e di responsabilità (oltre tutto senza nessun tornaconto), che cosa potrebbero fare i nuovi arrivi di fronte ad un arretrato di quindicimila processi, oltre quelli in corso di definizione, e di fronte a 142 maxiprocessi? Si dirà, sempre meglio di niente, così che in luogo di quindicimila probabili pronunce di prescrizione, se ne avrà qualche migliaio in meno. E non sarebbe poco. Ma il problema resta e il gioco che era a centrocampo rimane improduttivo e fine a sé stesso. I pubblici ministeri, che nel paragone, sono i centrocampisti, macinano gioco con encomiabile solerzia e buona volontà, ma è come se mestassero nell’acqua, non essendoci chi è in grado di segnare. Così che il problema da porsi non è esclusivo della situazione napoletana; costituisce una sorta di iceberg di cui la realtà napoletana rappresenta la parte terminale più evidente. Non si creda che il problema sia nuovo. Per il passato fronteggiavamo l’accumulo di arretrato con le amnistie. Il furore etico di Tangentopoli produsse una riforma dell’art. 79 della Costituzione, per la quale indulto e amnistia devono essere approvate a maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna Camera (e si precisa: “in ogni suo articolo e nella votazione finale”), così che di fatto oggi non se ne fa ricorso. E guai se lo si facesse, perché alti si leverebbero i lamenti di coloro che in questi strumenti vedono un attentato alla giustizia, quella con la “G” maiuscola che sempre più sembra essere l’araba fenice. Oggi, in luogo dei provvedimenti di clemenza abbiamo le prescrizioni, che ogni anno si contano a decine di migliaia. E la nostra coscienza etica è soddisfatta, pur se abbiamo sostituito ad un sistema deflattivo con il quale si applicava una legge uguale per tutti, un sistema maltusiano affidato ai provvedimenti organizzativi delle Procure, quanto all’esercizio dell’azione penale (per così dire, obbligatoria) o dei Capi degli uffici giudiziari, per ciò che riguarda i giudizi (rispetto ai quali, per così dire, la legge dovrebbe essere eguale per tutti). Che ne dite del provvedimento organizzativo che congela processi come quello contro Fabio Furlan, condannato a 25 anni per omicidio dai giudici di merito con sentenze che la Corte di cassazione ha cassato, rinviando alla Corte di appello, il quale, scarcerato, oggi lavora in Spagna? O come quello per la devastazione di Pianura? Mi guardo bene dall’innalzare un peana alle amnistie e agli indulti, che dovrebbero essere provvedimenti di clemenza giustificati da ragioni specifiche ed eccezionali; e non certo misure deflattive. E, tuttavia, è indubbio che, se questa deve essere la funzione degli eccezionali provvedimenti di clemenza, bisogna organizzare un sistema di giustizia penale che non punisca alla cieca o chi è più “sfigato” degli altri (e la “sfiga” molte volte si accompagna alla notorietà della persona o al ruolo che svolge). È un problema di risorse. Quindi, come non dare ragione il presidente De Carolis quando chiede che siano coperti i vuoti della pianta organica della Corte di appello? Si tratta, tuttavia, di una richiesta minima. La verità è che, quando si creano nuovi tribunali, che hanno come riferimento una Corte di appello (come è avvenuto per Nola, Torre Annunziata e Napoli Nord), si creano le condizioni perché alla Corte di appello affluiscano impugnazioni in misura maggiore in rapporto alla aumentata produzione dei giudici di primo grado. Di conseguenza, chi è preposto all’organizzazione dovrebbe prevedere un adeguamento delle strutture (che non è dato soltanto dall’aumento dei magistrati, ma di tutto ciò che serve per fare funzionare una macchina delicata, quale è un ufficio giudiziario). Ma chi è preposto all’organizzazione? Qui scontiamo un equivoco, perché i giudici, che hanno diverse e specifiche competenze, sono gelosi dell’organizzazione e vogliono metterci becco (e lo fanno tramite il Csm e tramite i magistrati che presidiano alcuni dei posti chiave del Ministero della giustizia). Ma non risulta che essi ci sappiano fare al riguardo. Così che la prima riforma necessaria sarebbe quella di affidare a chi ha competenze in tema di organizzazione per verificare come si possa rendere adeguata, anche dal punto di vista economico, l’organizzazione degli uffici giudiziari, non senza nasconderci l’estrema difficoltà di operare in un campo nel quale ogni misura che incida sulla organizzazione esistente comporta delicati problemi di trattamento del contenzioso pregresso. Senza ricordare ciò che è successo quando si è voluto mettere mani alle circoscrizioni giudiziaria, mi limito ad un esempio: a quel che so, si è istituito il Tribunale di Napoli nord con un organico ridotto, perché cominciava ad operare libero da arretrati; ben presto si sono accumulate pendenze per le quali l’organico è diventato inadeguato, così che in una struttura nuova si è subito determinata una situazione di inefficienza eguale o maggiore rispetto a quella di strutture preesistenti. Problemi di organizzazione e di soldi da spendere, ma non solo. Non ho mai avuto simpatia per il diritto penale e, quindi, so di potere dire sciocchezze. Ho, però, avuto qualche rapporto con le magistrature di altri Stati, nei quali i maxiprocessi sono esperienze del tutto rare, per cui da sempre mi domando quali sono le specificità della situazione italiana e, in particolare, di quella napoletana, tali da creare la frequente necessità di questi processi, le cui difficoltà di corretta gestione sono evidenti anche ai profani. E sempre da profano, mi chiedo, se la condanna dell’imputato deve essere pronunciata quando si è certi della sua responsabilità (l’enfatico “oltre ogni ragionevole dubbio” della cultura anglosassone), come sia possibile che si assista spesso a contrasti di verdetti, che incidono sul fondamentale diritto di libertà delle persone. Sono domande dietro le quali si nascondono anche i problemi dell’organizzazione, perché le risposte o le non risposte che diamo incidono - eccome! - sulla loro risoluzione. Di fatto, il cittadino è legittimato a domandarsi se i soldi che spendiamo per il processo penale siano spesi bene e, qualora non sia possibile fare altrimenti, se non sia il caso di dirottarne una parte sulla giustizia civile, che, allo stato, si trova nell’incomodo ruolo di cenerentola. Processo penale, la delega orale basta per la sostituzione di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 30 ottobre 2018 La pronuncia della Suprema Corte prevede che non sia più necessaria la forma scritta per la nomina del sostituto da parte del difensore di fiducia. Non sarà più necessaria la forma scritta per la nomina di un sostituto da parte del difensore di fiducia nel processo penale. Lo ha stabilito la prima sezione della Corte di Cassazione, presidente Maria Stefania Di Tomassi, relatore Francesco Centofanti, con la sentenza n. 48862 del 2 ottobre scorso. La decisione riprende peraltro - un commento in tal senso dell’Ufficio studi del Consiglio nazionale forense del 19 giugno di quest’anno alla sentenza n. 26606 del precedente 26 aprile della quinta sezione della Corte di Cassazione che aveva, invece, ritenuto fosse sempre necessaria la delega scritta. Con questa pronuncia l’Italia si pone al pari di altri Paesi con ordinamenti giuridici sia di civil law come Belgio e Francia, che di common law come Inghilterra e Galles, che non prevedono la forma scritta per la nomina del sostituto processuale. Da ora in avanti, quindi, sarà sufficiente che il difensore sostituto, fisicamente presente in udienza, dichiari oralmente a verbale che sta sostituendo per l’udienza il difensore titolare. Questa nuova interpretazione della Corte di Cassazione si fonda sull’abrogazione tacita dell’articolo n. 9 r. d. l. n. 1578 del 1933, che prevedeva la necessità che il sostituto fosse munito di delega scritta del difensore titolare consegnata al giudice o trasmessa per raccomandata o che, altrimenti, la designazione del sostituto fosse effettuata oralmente dal difensore titolare presente all’udienza. Tale procedura derivava dall’impostazione della legge professionale forense all’epoca vigente. La nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, prevista dalla legge n. 247 del 2012, ha invece stabilito che il difensore possa farsi sostituire con un incarico “verbale”. Una semplificazione delle procedure e, soprattutto, il riconoscimento del principio dell’affidamento dell’ordinamento “nell’avvocato quale custode dei valori della professione che deve assicurarne l’esercizio responsabile”. Oltre a questo importante principio, come detto, vi è stata da parte della Corte di Cassazione l’esigenza di armonizzare sul punto l’ordinamento nazionale con quello vigente in ambito europeo. I giudici di piazza Cavour hanno, di fatto, tacitamente abrogato ogni disposizione che contrasti con la possibilità del difensore titolare di farsi sostituire - per un atto processuale da compiere o per partecipare all’udienza - attraverso il conferimento di un incarico anche soltanto orale al collega sostituto. Così, ad esempio, risulta abrogata la necessità per il difensore titolare di essere fisicamente presente in udienza per dichiarare che l’udienza verrà discussa da un sostituto. È solamente necessario che l’avvocato in sostituzione dichiari al giudice che il titolare lo ha designato come sostituto e che la dichiarazione venga scritta a verbale. La Corte di Cassazione non omette, ovviamente, di ricordare che restano ferme, in capo al difensore sostituto, le responsabilità di ordine penale, civile e deontologico, per il caso di dichiarazione falsa o mendace. In particolare, rimane dunque efficacie la previsione dell’articolo n. 483 del codice penale, in tema di “falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico”. Civitavecchia (Rm): suicidio di un detenuto malato e in attesa di giudizio radioradicale.it , 30 ottobre 2018 Il 51° suicidio in carcere dell’anno reso noto da Riccardo Arena nel corso della trasmissione Radio Carcere. Si è ucciso Simone Roca, di 36 anni, detenuto in attesa di giudizio e affetto da un disagio mentale, che il 16 settembre si è impiccato in una cella di isolamento del carcere di Civitavecchia. Cella di isolamento dove Simone doveva essere sorvegliato a vista per evitare che si facesse del male. Viterbo: niente tv di notte ai detenuti in regime di 41bis, nonostante l’ok del giudice di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 ottobre 2018 Il Magistrato di Sorveglianza ha accolto il reclamo di Francesco Madonia contro la Circolare del Dap. Il Magistrato di Sorveglianza ordina di disapplicare una misura inutilmente afflittiva al 41bis, ma la direzione del carcere di Viterbo non esegue. A denunciare l’accaduto è l’avvocata Francesco Vianello, riferendosi al reclamo vinto dal suo assistito, Salvatore Madonia - figlio dello storico boss di Cosa Nostra Francesco Madonia, che si trova in carcere dal 1991 e condannato al 41bis dal 10 luglio del 1992. “Abbiamo vinto un reclamo dinanzi il Tribunale di sorveglianza di Roma - spiega l’avvocata Vianello a Il Dubbio - che ha ordinato di disapplicare la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nella parte in cui dispone lo spegnimento della tv dalle 24 alle 07 ma, nonostante questo, non stanno eseguendo l’ordinanza e hanno detto al detenuto di fare richiesta di ottemperanza”. Non di rado accade, in generale nelle carceri, che se c’è una decisione di segno negativo, quella viene eseguita immediatamente, al contrario, quando raramente i reclami vengono accolti, arrivano delle resistenze. A Viterbo, così è accaduto. Questi i fatti. Tutto nasce lo scorso febbraio con le olimpiadi invernali che, per il fuso orario, in Italia andavano in diretta di notte. Madonia quindi ha fatto un’istanza al magistrato di sorveglianza Viter- bo per chiedere di fare un’eccezione, per quel periodo, e di poter accendere la tv oltre gli orari stabiliti dalla circolare del Dap. La richiesta viene rigettata la richiesta e Madonia decide di fare un ulteriore reclamo, questa volta chiedendo, in generale, e quindi in qualsiasi occasione, di dover disapplicare la circolare che ordina lo spegnimento della tv a mezzanotte. La ragione del divieto del Dap è quello di non disturbare il riposo degli altri detenuti. Quindi non è un motivo di sicurezza, quello previsto dalla ratio del 41bis, visto che i canali sono già limitati e i telecomandi sono piombati. A sorpresa, il magistrato di sorveglianza Vittoria Stefanelli, questa volta di Roma, accoglie il reclamo. La motivazione è degna di nota. Osserva che il magistrato di Viterbo aveva rigettato l’istanza ritendendo che la circolare non limitava l’esercizio del diritto all’informazione, data la possibilità al detenuto di poter vedere le repliche e di ricevere aggiornamenti relativi agli eventi sportivi attraverso i principali canali televisivi nel corso della giornata. A quel punto, rammenta, che Madonia ha proposto il tempestivo reclamo per far valere il diritto all’informazione, costituzionalmente tutelato, che si assume leso dalla regola penitenziaria denunciata. Il magistrato di Roma, nell’ordinanza, osserva che il diritto all’informazione è tutelato dall’articolo 21 (il diritto di informare e il diritto di informarsi) e articolo 2 (inviolabilità del diritto della personalità) della Costituzione. “Ciò detto - scrive il magistrato Stefanelli nell’ordinanza -, appare indubbio che sussiste il diritto del detenuto ad informarsi attraverso la visione, anche in orario notturno, di programmi televisivi, non solo sportivi, ma anche di intrattenimento ovvero a contenuto politico, che spesso, come è noto, vanno in seconda serata”. Il magistrato ricorda che il 41bis, oltre a prevedere in dettaglio la sospensione di talune regole trattamentali, consente all’amministrazione l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna atte ad impedire i contatti con organizzazioni criminali. “Pertanto - sottolinea sempre il magistrato se la ratio del carcere duro, comportante la limitazione di diritti soggettivi, è quella appena indicata, deve chiedersi se il divieto di cui si lamenta Madonia - che incide sul suo diritto all’informazione - sia funzionale a detta ratio”. Il magistrato prende atto che tale divieto non risponde all’esigenza di evitare contatti con organizzazioni criminale. In sostanza, si tratta di una misura inutilmente afflittiva. “Inoltre - aggiunge il magistrato del tribunale di sorveglianza di Roma, i detenuti ristretti in regime differenziato sono allocati in camera detentiva singola, con porta blindata chiusa per tutto l’arco della notte, che inibisce la diffusione della luce prodotta dallo schermo della televisione e attutisce notevolmente il volume audio, che, tra l’altro, potrebbe essere tecnicamente contenuto”. Dunque, il magistrato di sorveglianza respinge anche la giustificazione del divieto, “d’altra parte - scrive, non è dettata alcuna limitazione oraria in ordine d’ascolto della radio, che, teoricamente, potrebbe costituire elemento di disturbo al pari dell’ascolto della tv”. In conclusione la dottoressa Vittoria Stefanelli ordina la disapplicazione della circolare del Dap che limita temporalmente la visione della tv. Ma, come denunciato dall’avvocata Francesca Vianello, il carcere di Viterbo continua ad applicare il divieto. Come mai non viene rispettata l’ordinanza di un magistrato che dovrebbe essere eseguita all’istante? Terni: la Corte costituzionale “entra” in carcere umbriaon.it, 30 ottobre 2018 La visita, lunedì mattina, del giudice Giancarlo Coraggio a Sabbione: incontro con la direzione e i detenuti. “Vi siamo vicini”. Ha fatto tappa in Umbria il viaggio nelle carceri italiane intrapreso dalla Corte costituzionale: lunedì mattina il giudice Giancarlo Coraggio ha visitato la casa circondariale di massima sicurezza di Sabbione, a Terni, dove è stato ricevuto dalla direttrice della struttura, Chiara Pellegrini, dal provveditore del dipartimento amministrazione penitenziaria Toscana-Umbria, Antonio Fullone, e dal comandante della polizia penitenziaria, Fabio Gallo. Le finalità - La visita è stata l’occasione per il giudice di un vero e proprio faccia a faccia con i detenuti, che nel teatro del carcere hanno assistito ad una lezione che si è sviluppata attorno al frammento di Costituzione “Rimuovere gli ostacoli”, e poi hanno posto direttamente a lui delle domande. Dopo l’incontro, il giudice ha visitato gli spazi detentivi. Secondo Coraggio le visite nelle carcere sono “un segno di attenzione verso i detenuti ed una naturale evoluzione del giro svolto nelle scuole”. “I detenuti - ha continuato - sono cittadini che attraversano un momento debole della loro vita, il carcere deve essere utile a permettere loro il reinserimento nel contesto sociale”. Gli altri incontri - Il progetto “Viaggio nelle carceri” è stato deliberato dalla Corte l’8 maggio scorso e, in continuità con il ‘Viaggio nelle scuolè, risponde all’esigenza di aprire sempre di più l’istituzione alla società per diffondere e consolidare la cultura costituzionale. Con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la “cittadinanza costituzionale” non conosce muri perché la Costituzione “appartiene a tutti”. Dopo Rebibbia Nuovo complesso, San Vittore, Nisida minorile e Terni, il ciclo di incontri proseguirà fino al 16 novembre nelle strutture Genova-Marassi e Lecce femminile. Il ‘viaggio’ proseguirà poi nel 2019, come quello nelle scuole. Voghera (Pv): sospeso servizio sanitario notturno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 ottobre 2018 Per protesta i detenuti hanno iniziato da una settimana la battitura delle sbarre. I detenuti del carcere di Voghera hanno iniziato, dal fine settimana scorso, la battitura delle sbarre per manifestare contro la decisione delle Aziende Socio Sanitarie Territoriali di sospendere il servizio sanitario interno, nelle ore notturne e nel fine settimana, a partire dal prossimo 1 novembre. A darne notizia è l’associazione “Yairaiha Onlus”, che da oltre 10 anni è impegnata per i diritti dei detenuti. La protesta dei detenuti fa eco a quella del personale medico delle carceri di Voghera, Pavia e Vigevano, che già da alcuni giorni sono in agitazione per via dei tagli sugli stipendi partiti già nel 2017 ed oggi ridotti al punto che nessun medico ha partecipato all’ultimo bando per il rinnovo del contratto rifiutando di continuare ad operare in condizioni capestri. “Oltre al chiaro disagio dei 22 sanitari penitenziari che rischiano di perdere il lavoro - denuncia la Presidente Sandra Berardi - quelli che subiranno principalmente le conseguenze delle scellerate scelte dell’Azienda sanitaria saranno proprio i detenuti per il quali la presenza del personale medico all’interno della struttura rappresenta un presidio di fondamentale e vitale importanza”. L’associazione Yairaiha sottolinea che il presidio che assume una valenza ancora maggiore se si considera che la vita delle persone detenute è affidata non solo al personale medico ma anche alla disponibilità del personale penitenziario nei casi in cui si rende necessario il trasferimento in ospedale. “È del tutto evidente - spiega sempre Berardi - che la sospensione del servizio sanitario nelle ore serali e notturne e nei fine settimana, proprio quando il personale penitenziario è fortemente ridotto, mette a repentaglio la vita delle persone detenute molte delle quali soffrono svariate e gravi patologie, per le quali anche 1 minuto di ritardo nell’intervento può assumere conseguenze drammatiche”. Ai colloqui per il rinnovo (annuale) del contratto, che si sono tenuti negli uffici di viale Repubblica a Voghera, si sono presentati solo dieci medici, sui diciotto in scadenza; la precedente intesa era valida fino al giugno scorso ed è stata poi prorogata di tre mesi fino al 31 ottobre. Dal 1° novembre, dunque, il personale medico delle carceri si riduce a 10 unità, rispetto all’organico teorico di 22. Catanzaro: inaugurata al carcere la Stanza della Genitorialità calabriamagnifica.it, 30 ottobre 2018 È stata inaugurata oggi nella Casa Circondariale di Catanzaro la camera della genitorialità, presentata durante la conferenza “Sprigioniamo la genitorialità, padri oltre le sbarre”. La degna conclusione di un progetto nato dalla collaborazione delle associazioni Domino, dal Centro di ascolto Stella del Mare e da I sentieri della legalità che hanno operato insieme per dare voce all’esigenza di poter fare i padri anche dall’interno del carcere. È stata riqualificata una stanza, dipinta e animata dagli allegri personaggi dei cartoni animati, dai classici della Walt Disney ai personaggi di film di animazione più recenti come i famosissimi Minions. Il tutto per dare nuova luce ad uno spazio grigio quale quello delle mura carcerarie. L’idea nasce dalla lettura di un tema in cui un bambino racconta proprio la sua esperienza di visita in carcere, in quella “casa di sbarre” come viene definita. “Il percorso prende vita anche grazie ad un precedente progetto attuato dall’associazione Domino nella Casa Circondariale di Locri, dove sono stati effettuati diversi corsi sulla prevenzione della recidiva, laboratori di lettura e scrittura creativa sul tema della violenza di genere e corsi di formazione di volontari per i centri di ascolto e di aiuto” - spiega la Presidente dell’associazione Jessica Tassone. Presente anche la Dott.ssa Stefania Mandaliti che ci tiene a sottolineare l’importanza dell’ascolto, ascolto delle esigenze dei detenuti, ma anche educazione non solo dei figli, ma anche dei genitori che non smettono di essere padri anche dietro le sbarre. Nel pentolone bollono anche future proposte di progetti come quello di tentare di potenziare il contatto in lontananza attraverso l’istituzione di una stanza Skype, atta alle videoconferenze, per andare incontro a tutti quei detenuti fuori regione o con figli disabili, per poter garantire loro lo stesso diritto ad essere padri. L’intento specifico è anche quello di sfatare quei pregiudizi che spesso attaccano ed etichettano i detenuti ed il carcere in genere, “un carcere sempre sentito comunemente come ambiente di perdizione e di vendetta piuttosto che come laboratorio riabilitativo e riqualificante” conclude il vicepresidente della sezione Catanzaro di I sentieri della legalità, Michele Varcasia. Fermo: protocollo d’intesa Comune-Casa di reclusione su lavori di pubblica utilità tuttonews.eu, 30 ottobre 2018 Sulla base di una convenzione sottoscritta fra Comune, Casa di Reclusione e Fermo Asite da oggi un detenuto ha iniziato ad occuparsi, a titolo gratuito, per quattro ore al giorno, dalle ore 7 alle 11, della cura delle strade e del verde pubblico nelle vicinanze della Casa di reclusione di Fermo. “La convenzione fra Comune e Casa di Reclusione è stata rinnovata nei giorni scorsi ed ha già visto in precedenza altri detenuti svolgere lavori di pubblica utilità. Un progetto che - fa sapere il Comune - si rinnova e che vede ancora una volta come obiettivo quello di dare la possibilità ai detenuti della casa di reclusione di Fermo di svolgere lavori di pubblica utilità all’esterno della struttura. Il contenuto della convenzione (la prima era stata sottoscritta nel 2015, cui ne sono seguite altre) fra Amministrazione Comunale e Casa di Reclusione, concretizza quanto contemplato da un protocollo d’intesa nazionale fra il Ministero della Giustizia e l’Anci del 2012 e prevede che l’Amministrazione Comunale di Fermo metta a disposizione dei detenuti della struttura penitenziaria di Fermo opportunità per lo svolgimento di lavori all’esterno (art. 21 dell’ordinamento penitenziario) di pubblica utilità. I detenuti vengono scelti per i loro comportamenti e la loro condotta ed i nominativi individuati e proposti al magistrato di sorveglianza che ne autorizza e approva il coinvolgimento in questo progetto”. Ad incontrare il detenuto questa mattina sindaco di Fermo Paolo Calcinaro, la direttrice della Casa di Reclusione Eleonora Consoli, l’assessore alle Politiche Sociali Mirco Giampieri, l’assessore all’ambiente Alessandro Ciarrocchi, il responsabile dell’area trattamentale Nicola Arbusti, il comandante della Polizia Penitenziaria, il commissario capo Loredana Napoli e Alice Andrenacci, vice Presidente della Fermo Asite. “Una progettazione che continua e che si rafforza - ha detto il sindaco Paolo Calcinaro - per questo c’è il grande ringraziamento ad Asite e Casa di Reclusione. Credo che questo sia la possibilità di far sì che ci sia anche una restituzione da parte di alcuni reclusi che già hanno dimostrato una condotta più che eccellente, una logica insomma restituiva rispetto alla comunità e d’altra parte anche una possibilità che si dà seppur gratuitamente, seppure senza retribuzione, però di riprendere un contatto con la vita all’esterno dell’istituto. Credo che questo sia l’ennesimo passo, già sono stati fatti in precedenza con un servizio reso molto bene con grande soddisfazione dei residenti nei dintorni, con un rapporto umano che si era andato ad instaurare in maniera molto positiva”. “Esprimo soddisfazione per questo protocollo, nell’ambito del programma di recupero e reinserimento elaborato dall’istituto penitenziario, che si rinnova e auspico di incrementare anche con altre forme e progetti i rapporti di collaborazione con il Comune” le parole, in chiusura, della direttrice Consoli. Palermo: carcere dell’Ucciardone, il premio “Emanuela Loi” alla direttrice Rita Barbera di Stefania Brusca meridionews.it, 30 ottobre 2018 “Il carcere come laboratorio dove scoprire di avere talento”. Da 35 anni, di cui otto trascorsi all’istituto di pena palermitano, la dirigente gestisce realtà complesse, cercando di tutelare al contempo i diritti dei detenuti e la sicurezza del personale. Senza trascurare quella che dovrebbe essere la funzione primaria di un istituto di pena: la rieducazione per il reinserimento. Da 35 anni dirige carceri. Da otto è impegnata all’Ucciardone e gestisce realtà complesse, cercando di tutelare al contempo i diritti dei detenuti e la sicurezza del personale. Tutto senza trascurare quella che dovrebbe essere la funzione primaria di un istituto di pena: la rieducazione per il reinserimento in società. Negli anni ha infatti aperto le porte del carcere a numerose attività, anche culturali. Queste le motivazioni per le quali Rita Barbera è tra le 16 donne che sabato hanno ricevuto il Premio coraggio Emanuela Loi 2018. Tra le siciliane premiate anche Claudia Loi, sorella di Emanuela, Magda Scalisi imprenditrice che si è ribellata al pizzo e Lidia Vivoli, scampata a un femminicidio. Presente anche il questore di Palermo Renato Cortese. Un riconoscimento dedicato a un angelo della scorta “all’agente della polizia morta tragicamente al fianco del giudice Paolo Borsellino. Una donna che con coraggio ha abbracciato la sua missione”, afferma Angela Fundarò Mattarella, presidente del Pool anti violenza e per la legalità. A premiare Rita Barbera, Antonino Balsamo, presidente della I Sezione della Corte di Assise presso il Tribunale di Caltanissetta. “È bello ricevere un riconoscimento, non pensavo di tenerci più di tanto e invece fa piacere ricevere un riconoscimento per il lavoro svolto - dice la dirigente della Casa Circondariale. La situazione è migliorata oggi rispetto a un passato in cui c’era un sovraffollamento disumano. Da un po’ di anni a questa parte, dalla sentenza Torreggiani con la quale la Corte europea dei Diritti umani ha condannato l’Italia per lo stato delle sue carceri, il problema si è un po’ attutito. La cosa difficile da colmare è la mancanza di personale che possa aiutare i detenuti ad avere un percorso di riabilitazione e rieducazione. Inoltre anche il territorio è poco preparato all’accoglienza degli ex detenuti, verso i quali c’è un pregiudizio che blocca il loro eventuale reinserimento. Certo è difficile in tempi come i nostri. Viviamo un periodo in cui non c’è lavoro nemmeno per i ragazzi che studiano e che sono costretti ad andare via. Ma è vero che esiste anche un dovere rispetto alla prevenzione, per mettere chi ha avuto delle difficoltà nelle condizioni di non avere alibi per sbagliare di nuovo”. In tanti anni ci sono stati tanti casi difficili da gestire, i problemi più seri da affrontare “sono le aggressioni nei confronti del personale o alcuni detenuti autolesionisti, con gravi disturbi - aggiunge la direttrice del carcere -. Da una parte c’è un essere umano sofferente, ancorché aggressivo, e dall’altra parte l’esigenza di tutelare il personale: ormai il carcere è una discarica sociale”. L’Ucciardone non ha una sezione dedicata a questo tipo di disturbi, “tendiamo all’integrazione - aggiunge - anche se ci stiamo organizzando per trovare soluzioni umane e accettabili per questo tipo di detenuti, anche perché non ci sono strutture nel territorio in grado di accoglierli”. Tante, si diceva, sono le iniziative messe in piedi in questi anni: “Abbiamo la ludoteca e un’area verde dove si incontrano genitori e figli. Una sezione è piena di aule scolastiche: la mattina sembra più una scuola che un carcere e ne sono orgogliosa. Il carcere diventa un laboratorio dove ciascuno può scoprire delle predisposizioni, dei talenti e un’intelligenza che non sapeva di avere, in linea con la funzione rieducativa della pena. Corsi di formazione come giardinaggio, ristorazione, operatori socio-assistenziali, sono stati approvati ma non partono, speriamo che la Regione possa sbloccare la situazione al più presto. C’è anche la realtà ormai consolidata del pastificio, il Giglio Lab, che sta esportando pasta secca e stiamo per attivare una sartoria artigianale”. Pescara: con “Libriamoci” letture classiche per i detenuti-studenti abruzzoweb.it, 30 ottobre 2018 Due sono stati i momenti di lettura interpretata che l’Istituto “Aterno-Manthonè” ha vissuto nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Libriamoci. Giornate di lettura nelle scuole”, promossa dal Centro per il libro e la lettura. Per i ragazzi dei corsi del mattino, la scuola, diretta da Antonella Sanvitale, ha proposto, venerdì 26, brani dell’Arminuta, il romanzo dell’abruzzese Donatella Di Pietrantonio, premio Campiello 2017, con la partecipazione dello showman Vincenzo Olivieri, che ha letto alcuni brani del suo libro Sorridi, se hai tempo. I docenti di italiano, Fabio Pavone e Raffaella Taddeo, hanno coordinato l’incontro e hanno accolto e coinvolto anche gli alunni degli Istituti comprensivi 1, 2 e 7 di Pescara e del comprensivo “Galilei” di San Giovanni Teatino. Giovedì 25, invece, il progetto lettura è stato rivolto ad alcune classi serali e carcerarie dell’Istituto tecnico statale “Aterno - Manthoné” di Pescara che hanno aderito al filone tematico incentrato sulla libertà. “Leggere come conquista della libertà interiore e di apertura a mondi nuovi”, questi sono stati gli obiettivi del progetto Libriamoci che ha creato un confronto tra gli studenti del corso per adulti dell’Istituto, con i detenuti-studenti della Casa circondariale di Pescara. Le insegnanti coinvolte sono state Mariadaniela Sfarra, docente di italiano del corso serale e referente del progetto, Roberta Polimanti docente di lingua inglese, corso serale e scuola carceraria, Anna Di Zio docente di lingua francese del corso serale, Assunta Pelatti, docente di italiano scuola carceraria, Marina Di Crescenzo, responsabile del corso serale e della scuola carceraria dell’Aterno-Manthonè, in stretta collaborazione con la struttura carceraria e, in particolar modo, con Anna Laura Tiberi, educatrice responsabile dell’area pedagogico-didattica della Casa circondariale “San Donato” di Pescara, diretta da Franco Pettinelli. Il materiale scelto: la novella Il treno ha fischiato, di Luigi Pirandello, alcuni dialoghi di Aspettando Godot, di Samuel Beckett, recitati in lingua inglese, alcune delle Lettere dal carcere, di Antonio Gramsci e la poesia Liberté, di Paul Éluard, recitata in lingua francese. Campobasso: “Liberi nell’arte” continua con borse di lavoro e borse di studio per i detenuti informamolise.com, 30 ottobre 2018 Si è concluso nel carcere di Paliano l’itinerario artistico per favorire la cultura del reinserimento. Il volto sociale del Sinodo dei giovani, durante il Sinodo, un cammino nelle realtà intra murarie che ha dato la possibilità ai detenuti di quattro Istituti Penitenziari del Lazio, di essere a contatto con il Buono e il Bello e, attraverso l’arte, veicolare un messaggio di rinascita, speranza e libertà. Una conclusione temporanea che consentirà agli organizzatori di proseguire il percorso d’arte ‘Liberi nell’Artè, promosso dall’UCSI Molise col patrocinio del Sinodo, in collaborazione con Vatican News e Ministero della Giustizia Ispettorato Generale Cappellani delle Carceri. Come fa sapere la presidente UCSI del Molise, Rita D’Addona, il prossimo tour prenderà il via proprio dalla casa circondariale di Campobasso. “Siamo particolarmente soddisfatti - ha detto D’Addona - del percorso compiuto in queste settimane insieme ai detenuti. Li abbiamo visti emozionarsi e riflettere di fronte a esperienze artistiche che hanno portato la luce i luoghi di sofferenza, che hanno restituito la libertà interiore a chi, della libertà ne è prigioniero. Una restituzione di amore e benessere”. Liberi nell’arte ha voluto portare gocce di prossimitànei luoghi di reclusione e di disagio affinché “nessuna pena sia senza speranza”. Prossimità, integrazione e speranza che diventano concetti tangibili nelle cosiddette Opere Segno, alle quali, nelle quattro case di reclusione interessate dal progetto pilota, Liberi nell’Arte proseguirà nel tempo. L’istituzione di tre borse lavoro e due borse di studio consentirà, infatti, di facilitare il reinserimento sociale dei detenuti. Opere queste, rese possibili grazie ai prestigiosi partner dell’iniziativa. Nello specifico: il pastificio La Molisana che ha istituito una borsa lavoro per una detenuta del carcere di Rebibbia. Consorzio di Libere Imprese che ha, invece, promosso la borsa lavoro in favore di un detenuto di Regina Coeli. Non essendo possibile prevedere la medesima iniziativa per la casa circondariale di Paliano, che vede la presenza di collaboratori di giustizia, sempre il Consorzio di Libere Imprese, quest’ultimo istituto di pena, ha predisposto l’acquisto di un forno, così come concordato con la struttura. D’intesa con il Ministero della Giustizia e le amministrazioni penitenziarie e l’Ispettorato dei Cappellani sarà un regolamento a individuare, sia per le borse lavoro che per le borse di studio, tutti i criteri e i requisiti di assegnazione che tengano conto sia delle finalità delle singole Opere Segno, sia delle naturali inclinazioni del soggetto beneficiario. Liberi nell’Arte si conferma, dunque, un progetto che ha saputo creare una forte sinergia di intenti, e ha riscontrato e continua a riscontrare l’interesse mondo ecclesiastico che vorrebbe riproporre l’iniziativa nelle realtà delle carceri campane della Sicilia, al carcere di Padova, di Torino e di Milano é oltre i confini nazionali, così come confermato lo scorso 20 ottobre a Regina Coeli dal vescovo Johannes de Jong, della Diocesi di Roermond (Olanda). Attenzione e sensibilità nei confronti dell’iniziativa sono state manifestate anche da numerose realtà imprenditoriali che vogliono diventare protagoniste nella diffusione di un messaggio di speranza. Ecco perché, facendo proprie le parole espresse dal ministro Bonafede, promotori del progetto a cui l’esponente del Governo ha voluto dedicato una lettera, garantiscono “il massimo impegno per promuovere insieme e valorizzare sempre più esperienze di questo tipo, nell’auspicio che possano trovare una diffusione via via maggiore così da coinvolgere un numero crescente di detenuti, con una particolare attenzione per quelli minori”. Roma: detenuti-redattori, a Rebibbia nasce il giornale “Beccati a scrivere” di Corrado Giustiniani leurispes.it, 30 ottobre 2018 La redazione è un’ampia stanza della Terza Casa di Rebibbia e i dodici redattori sono tutti detenuti. Due riunioni alla settimana attorno a un tavolone centrale, con un solo computer in dotazione. Ma tanta soddisfazione, tanto orgoglio, di essere protagonisti di quel mensile dal titolo ironico, “Beccati a scrivere”, che è stato presentato in pompa magna, nei saloni della Federazione della Stampa. A guidarli è Fabio Venditti, già inviato speciale del Tg2, poi caporedattore a Mediaset, quindi regista di “Socialmente pericolosi”, un film sui ragazzi difficili dei Quartieri spagnoli a Napoli. “Lavorare con loro è una soddisfazione impagabile - racconta il direttore - Sono grati e felici del fatto che degli uomini liberi gli dedichino del tempo e qualche energia”. Oltre al direttore, sono presenti due volontarie, la figlia Margherita e l’amica Flavia Alfonsi, che si occupa della parte grafica. Dei detenuti, in tre soltanto sono potuti uscire da Rebibbia per presentarsi in pubblico. I giovani sono Januz Miha, albanese, e Azim Soleman, egiziano, più il cinquantenne Vincenzo La Neve, pugliese, e vengono scortati dalle guardie carcerarie. Gli altri nove, tra molti mugugni, sono dovuti rimanere dentro. Sono stati tutti arrestati per reati di droga, o predatori, con questa collegati. Ma hanno un grande privilegio, rispetto a tutti gli altri, quello cioè di vivere nella Terza Casa di Rebibbia. Dove si arriva se non si hanno condanne superiori agli otto anni, e soprattutto compiendo un percorso specifico che viene valutato dalle relazioni delle educatrici che li seguono. Cosa ha di diverso la Terza Casa, lo raccontano loro stessi, in un articolo contenuto nel primo numero di “Beccati a scrivere”: “Tutti noi abbiamo provato il carcere vero, e le differenze, sono enormi. Tanto per cominciare qui si sta chiusi in cella soltanto la notte, dalle 22,30 alle 7,30. Già questo è un passo avanti gigantesco. E le nostre, neppure possono essere chiamate celle: sono stanze vere e proprie di 35 metri quadri, dove dormiamo in due. Le finestre sono grandi e con sbarre molto sottili, che fanno meno prigione. E sono in basso, così possiamo vedere la strada, l’autobus che fa la fermata e le persone che camminano. Possiamo osservare un po’ di vita…” Sono 40, in tutto, gli ospiti della Casa, diretta con grande impegno da Annunziata Passannante; hanno la doccia in camera, la possibilità di incontrare i familiari all’aperto, nell’area verde, e l’obbligo di studiare e di lavorare nel carcere, oltre la possibilità di fare volontariato all’esterno, ma anche controlli, cui sottostanno senza preavviso, per verificare che non abbiano assunto droga. “Ma noi non siamo fessi, non vogliamo rimetterci”. In questo regime di custodia attenuata, anche i rapporti con il personale di Polizia penitenziaria sono più rilassati e più umani. “La mia convinzione è che tutto funzioni meglio, nel carcere, se proponi dei progetti che impegnino la testa - spiega Fabio Venditti -. Nel 90 per cento dei casi, le persone che finiscono dentro hanno studiato, infatti, poco o per nulla. È il carcere duro e afflittivo che aumenta il pericolo di recidiva, la scuola o le misure alternative, come l’affidamento in prova, garantiscono invece il recupero. Ce lo ha detto anche Gherardo Colombo, nell’intervista che apre il primo numero della rivista”. Un’intervista condotta in questo modo: i redattori hanno posto in riunione tutte le domande, il direttore le ha annotate e ha trascritto poi le risposte di Colombo. Il titolo è esplosivo: “Il carcere è una fabbrica di criminali” e, indirettamente, condanna anche il provvedimento sulla legittima difesa, con vari inasprimenti di pena, or ora approvato da un ramo del parlamento, il Senato. Da pubblico ministero, Colombo, credeva molto nella reclusione sic e simpliciter di chi ha commesso un reato, ora, invece, ritiene indispensabile un processo di rieducazione e di recupero, che comincia con il lavoro in carcere, per passare all’affidamento all’esterno, ma dubita fortemente che il Governo attuerà in questa direzione la riforma del sistema penitenziario. In un altro articolo, il primo di una serie, intitolato “Ma una volta era molto peggio”, è il detenuto anziano Vincenzo La Neve, una vita passata dietro le sbarre, con piccole boccate d’ossigeno di libertà, a spiegare come funzionavano le cose un tempo. “Negli anni ‘80 non si dava importanza alle condizioni di vita dei carcerati e alla loro dignità, tanto che venivano ammassate, nei cosiddetti cameroni, fino a 40 persone, con brande a castello che arrivavano anche al quarto piano”. Tutti insieme, nessuna distinzione tra reati minori e reati più gravi, tra detenuti in attesa di giudizio e condannati, tra giovani e vecchi, e allora ci si divideva in bande: “Ai ragazzi che si trovavano in questi cameroni veniva insegnato a duellare con i coltelli”, per difendersi dalla fazione opposta. Vincenzo adesso ha conquistato lo status di volontario, e può uscire dal carcere. Quando la presentazione del giornale è finita, le guardie carcerarie riportano a Rebibbia i due giovani, e lui va a consolare il padre di uno di loro, scoppiato in lacrime. “Beccati a scrivere” non gode di alcun finanziamento. Il computer di redazione è stato donato dalla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici Cgil. La stampa del primo numero, in 400 copie, è stata offerta dalla libreria “Universitaria”. Adesso bisogna trovare i soldi per il secondo, che uscirà il 24 novembre. “Questo è il nostro unico costo - conclude Fabio. Ma Beppe Giulietti, il presidente della Federazione nazionale della stampa, ha promesso che ci darà una mano”. Livorno: gli attori-detenuti in “Ubu Re” al Teatro delle Commedie livornosera.it, 30 ottobre 2018 L’opera scritta da Alfred Jarry è una denuncia contro la tirannide. Il Nuovo Teatro delle Commedie presenta, sabato 3 e domenica 4 novembre alla 21.30, lo spettacolo “Ubu re” che lega l’arte scenica alla detenzione: sul palco di via Terreni infatti saliranno gli attori-detenuti del carcere di Castelfranco Emilia e di Modena insieme agli attori del Teatro dei Venti. Inserito all’interno dello Sharing Lab Festival ideato da Pilar Ternera e NTC, “Ubu re” è tratto dall’opera dello scrittore francese Alfred Jarry vissuto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Ubu è un personaggio creato da Jarry nel corso della sua adolescenza. Questa figura a cui Jarry diede connotati fisici, con numerosi disegni e con cui finì per identificarsi, è il cardine della sua opera teatrale, caratterizzata da una rottura radicale con il linguaggio e le convenzioni sceniche tradizionali. Pubblicata nel 1896 “Ubu re” si lega al concetto di uomo e potere. Padre Ubu è un uomo che cerca di raggiungere il potere politico ed economico con ogni mezzo. Spinto anche dalla moglie, Ubu riesce a sottrarre il potere al re Venceslao e a instaurare un regime crudele con il solo intento di arricchirsi. Una denuncia contro la tirannide del mondo, un testo ancora molto attuale. Ingresso 7 euro. Biglietti acquistabili anche online. Info e prenotazioni 05861864087 - info@nuovoteatrodellecommedie.it. Prigioni, i depositi delle nostre paure di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 30 ottobre 2018 Istituzioni totali: al Salone sociale dell’editoria, domenica 4 novembre verrà presentato il libro di Giada Ceri “La giusta quantità di dolore”, in uscita per Exòrma. L’universo carcerario costituisce un elemento imprescindibile della società contemporanea. Sul piano dell’immaginario, le prigioni sono il vero e proprio depositario delle paure collettive, che pretendiamo di risolvere, ma in realtà rimuoviamo, ogni volta che si evocano misure restrittive più afflittive. La frase “rinchiuderli e buttare via la chiave”, e il successo che riscuote, ne è forse l’esempio più calzante. Se spostiamo il punto focale sul piano razionale, le differenze non sono moltissime. Magistrati, forze dell’ordine, esponenti politici, e la pletora degli altri attori che gravitano nella sfera penale, non riescono a pensare e a pensarsi se non in termini punitivi, dove il contenimento e l’afflizione, declinando un approccio retribuzionista che tarda a morire, rimangono le uniche soluzioni proposte per rispondere ai conflitti sociali, chiedendo alla penalità risposte che ormai non è più in grado di dare. Come descrivere e analizzare il carcere e gli apparati di controllo sociale al tempo della contraddizione tra crisi forse irreversibile del sistema penale e domanda crescente di sicurezza? Giada Ceri, nel suo libro La giusta quantità di dolore, pubblicato da Exòrma (pp.150, euro 14,90), cerca di fornire una risposta originale. Attraverso la stesura di un pastiche che include le caratteristiche del progetto di ricerca, del diario di bordo, del racconto senza essere compiutamente nessuno delle tre cose, Ceri disvela, attraverso un percorso che ricorda il gioco dell’oca, le contraddizioni della penalità odierna. La prima dimensione riguarda il continuo richiamarsi tra carcere e società. Se la sfera penale mira all’incapacitazione collettiva delle classi pericolose, allora va espunta dal tessuto sociale. Per questo motivo vengono costruite carceri super moderne nelle aree periferiche, come il caso di Sollicciano, a richiamare il nesso tra marginalità sociale e carcerizzazione. Dall’altro lato, i vecchi istituti di pena situati nei centri storici, come le Murate a Firenze tendono a essere riconvertiti in centri polivalenti, veri e propri non-luoghi privi di identità, che richiamano la carcerizzazione sotto altre forme. La circolarità tra pena e società, che Bauman e Foucault hanno individuato come uno dei cardini della modernità, trova nel caso fiorentino la sua incarnazione. La frammentazione, cifra della società postmoderna, non può non riguardare il carcere, e qui entriamo nel secondo significativo spunto che il libro fornisce. Il sovraffollamento, i tagli alla spesa pubblica, l’incapacità ad affrontare la complessità contemporanea demandata alla penalità, trasformano la riabilitazione in lettera morta, deteriorando le condizioni di vita e rendendo le strutture penitenziarie fatiscenti. In questo contesto, l’implementazione del rispetto dei diritti fondamentali, è appannaggio dei volontari, di direttori illuminati, degli organismi di vigilanza. OPPURE, come nel caso dei paesi scandinavi, di una cultura della tolleranza che fa delle carceri responsabilizzanti, con libertà di circolazione, affettività condizioni di vita decenti. Il frutto di quello che la sociologia penitenziaria definisce l’eccezionalismo penale, in quanto rappresenta un approccio del tutto singolare rispetto alle tematiche del carcere e della detenzione. Tuttavia, e questo è l’ultimo spunto di riflessione che il libro ci fornisce, a lungo andare l’universo penitenziario finisce per essere una rete che cattura tutti i suoi attori, anche quelli animati da propositi di riabilitazione e di implementazione dei diritti. I depositi di potere, di cui ci parlava Stanley Cohen, fanno sì che anche le associazioni di volontariato finiscano, loro malgrado, per vedere la crisi come un’occasione per nuovi campi d’azione, ovvero di progetti assistenziali, che vede coinvolti ex detenuti, reduci degli anni settanta, lavoratori espulsi dal ciclo produttivo nel corso della recente recessione. In fondo, l’esistenza del carcere, legittima rendite di posizioni e occasioni di lavoro, e trasforma le parole d’ordine riabilitanti in un orpello ideologico. All’interno di questo irretimento collettivo, i diritti dei detenuti passano in secondo piano. Meglio pensare ad abolirlo il carcere, forse… Scheda - Il Salone dell’Editoria Sociale terrà la sua decima edizione dal 2 al 4 novembre presso il quartiere Testaccio di Roma. Domenica 4, in sala B, alle ore 18, Giada Ceri, autrice di “La giusta quantità di dolore” per Exòrma dialogherà con Stefano Anastasia (tra i fondatori di Antigone) e Christian Raimo (giornalista e scrittore) sul tema delle carceri. Dedicato ad Alessandro Leogrande, il Salone proporrà una riflessione e un confronto sui “tempi difficili” che stiamo attraversando. Tra le presentazioni, “Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo” (Terra Nuova), “Afrotopia” di Felwine Sarr, edizioni dell’Asino, “Sconfinate”, a cura di Emanuele Giordana, “1947”, incontro con Elisabeth Åsbrink, “Malaterra, come hanno avvelenato l’Italia” di Marina Forti per Laterza. L’internamento di massa, strategia del capitale di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 30 ottobre 2018 A più di 40 anni dalla sua prima edizione, torna un classico della letteratura sociologica, “Carcere e fabbrica” di Dario Melossi e Massimo Pavarini, edito dal Mulino. C’è più di un modo per interpretare la crisi della democrazia e dello stato di diritto in cui siamo precipitati. Ci si può affidare a modelli economici, a tecnicalità giuridiche, ad approfondimenti geo-politici oppure leggere (o rileggere) uno straordinario classico della letteratura sociologia e penologica contemporanea quale è Carcere e fabbrica di Dario Melossi e Massimo Pavarini (Il Mulino, pp.336, euro 15). A tre anni dalla scomparsa di Massimo Pavarini, e a più di quaranta dalla prima edizione del saggio risalente all’oramai lontano 1977, il volume arriva nelle librerie, nelle università e nelle biblioteche italiane in un momento nel quale abbiamo eccezionalmente bisogno di strumenti critici approfonditi di analisi. Nella postfazione, lo stesso Massimo Pavarini scrive che “Carcere e fabbrica appartiene a quel movimento revisionista che legge il carcere e la cultura correzionalistica come necessità della modernità”. Il libro si presenta come esplicitamente revisionista nei confronti di quella letteratura filosofico-giuridica che ha tradizionalmente invece letto la pena carceraria come evoluzione positiva di meno evoluti e democratici modelli punitivi. Il carcere, per gli autori, è prima di tutto strumento di disciplina e controllo sociale. Tutto ciò è particolarmente evidente oggi, in un mondo in preda a una deriva nazionale e identitaria. Gli Stati, avendo oramai rinunciato a politiche inclusive welfariste, si affidano all’ossessione securitaria, e dunque all’eccezionale retorica della reclusione per produrre il risultato complesso, nella sua ingiustizia e tragicità classista, di neutralizzazione selettiva delle persone che vivono ai margini del sistema economico e sociale. Una neutralizzazione, dunque, funzionale alla normalizzazione capitalistica. Così come recita il sottotitolo, il volume va alle origini del sistema penitenziario, tornando indietro di alcuni secoli per spiegare il rapporto tra universo punitivo e ideologia della produzione. Troppo spesso di questi tempi siamo abituati ad accontentarci di spiegazioni semplici, unidimensionali per dare senso a questioni di eccezionale complessità. Si pensi a quanto sta accadendo a proposito del tema universale e gigantesco delle migrazioni, dove gli speculatori politici usano politiche e parole banali, nonché la pratica e la retorica del controllo, della deportazione e dell’internamento per contenere i flussi migratori e porsi a difesa delle ricchezze occidentali. Anche la questione migratoria dunque sta dentro il più ampio rapporto tra privazione della libertà (in senso ampio) e organizzazione capitalistica. Non si può comprendere con chiarezza l’internamento di massa avvenuto negli ultimi decenni, a partire dagli Stati Uniti d’America, senza andare a fondo nelle intersecazioni possibili tra pena, lavoro e capitale. Gli oltre due milioni di detenuti nelle carceri americane possono avere molte spiegazioni, che non necessariamente si escludono a vicenda. Ognuna di essa però a sua volta richiede uno sguardo al passato del sistema penitenziario disciplinare ottocentesco americano di Auburn e Filadelfia. Nella Prefazione al volume Jonathan Simon, uno dei più grandi studiosi contemporanei della penalità, noto in Italia per lo straordinario saggio Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America (Raffaello Cortina, 2008), assegna all’analisi di Melossi e Pavarini una funzione strategica di comprensione del presente, in quanto il libro viene ripubblicato in un periodo storico molto particolare, quando sia il carcere che il capitalismo hanno raggiunto quelle che lui definisce “condizioni di egemonia globale”. Un’egemonia che sta progressivamente mettendo in discussione non solo la tenuta del modello penale o di quello più genericamente giuridico ma anche la tenuta dello stesso modello democratico. Chiunque nella società e nelle università si intenda occupare criticamente di politiche criminali, ideologia del controllo, carceri e potere punitivo deve obbligatoriamente avere nei suoi scaffali alcuni volumi imprescindibili e tra questi non può non esserci Carcere e fabbrica. I torti e le origini del rancore di Mariangela Mianiti Il Manifesto, 30 ottobre 2018 Pochi mesi fa da questa rubrica ho parlato dei venditori di odio e di come sia più facile e produttivo smerciare schifezze piuttosto che promuovere analisi e ragionamenti che aiutino a capire la complessità delle cose. Pochi mesi fa da questa rubrica ho parlato dei venditori di odio e di come sia più facile e produttivo smerciare schifezze piuttosto che promuovere analisi e ragionamenti che aiutino a capire la complessità delle cose. In questo arco di tempo i suddetti falsari hanno lavorato così bene che si sta espandendo come un’infezione il prodotto di quel lavorìo, ovvero il rancore. Dice il Devoto Oli alla voce Rancore: “Sostantivo maschile che indica risentimento, avversione profonda, tenacemente covata nell’animo in seguito a un’offesa o a un torto subito. Dal latino rancor rancoris che a sua volta deriva da rancidus, rancido, inacidito, guasto, andato a male”. Amo i vocabolari che in tre righe dicono il significato profondo di una parola e la sua origine. Amo pure il latino, la nostra lingua madre, che in un solo vocabolo ti rimanda alla radice di un termine, e capire le radici, a volte, serve molto più di tante analisi o discorsi. Dunque, stiamo precipitando nel rancidume del rancore, una melma marciscente che altera lo stato d’origine di un tessuto per trasformalo in cibo per vermi, muffa, coltura per batteri. Non è una morte definitiva, ma una mutazione, un cambio di condizione, un disgregamento di qualcosa che diventa qualcos’altro. Chiunque, di fronte a un cibo andato a male prova ribrezzo e si allontana d’istinto perché non vuole avere a che fare con qualcosa di infetto e immangiabile. Il cattivo odore manda un campanello d’allarme al nostro corpo, gli dice che quella roba lì è pericolosa perché rischia di avvelenarlo e farlo ammalare. Tuttavia, ciò che funziona perfettamente per le cellule del nostro corpo biologico non avviene in modo altrettanto automatico per i ragionamenti e i comportamenti del corpo sociale. Torniamo al Devoto Oli e alla definizione di rancore laddove dice che è un risentimento tenacemente covato per un’offesa o un torto subito. La risposta sana, e risolutiva, a un’ingiustizia sarebbe la ribellione, sputare fuori dal corpo e prima possibile la rabbia, il dissenso, il Io non ci sto. Per riuscirci servono consapevolezza, autodeterminazione, possibilità di alternative, non sentirsi soli nella battaglia. Se questo non avviene, o viene frustrato, si finisce col soffrire in silenzio ed è lì che cominciano a maturare nel profondo insofferenza, odio, rancore appunto. L’effetto si vede bene in certe famiglie dove le risposte taglienti, il guardarsi in cagnesco, il sarcasmo sono una modalità di relazione che rende la convivenza un inferno. Se ciò si trasporta in quel complesso di elementi che compongono la vita e la cosa comune (casa, lavoro, istruzione, cure, diritti, salari) allora è il corpo sociale ad ammalarsi di rancore. Chi prova rabbia e frustrazione dovrebbe prima di tutto farsi una domanda. Quali sono le vere cause del disagio e dei problemi? Davvero c’è qualcuno disposto a credere che la mancanza di lavoro, i salari bassi, la precarietà, la crescente disuguaglianza fra l’1% più ricco che detiene il 42% delle ricchezze e il 99% che deve accontentarsi del resto sia colpa degli immigrati, come qualcuno vorrebbe farci credere? E come la mettiamo con le malattie ataviche di questo paese che sono corruzione, mafie, assenza di meritocrazia, ipocrisia, menefreghismo, disprezzo del bene comune? Davvero c’è qualcuno che ha il coraggio di dire che anche tutto ciò è colpa di chi viene da fuori? Il rancoroso ha sempre torto e per due ragioni. Non è stato capace di ribellarsi. Non è capace di fare autocritica perché trova più comodo dare la colpa delle sue disgrazie a qualcun altro. E intanto non si accorge che sta marcendo. Migranti. Papa Francesco: c’è un’ondata di chiusura verso lo straniero, è un suicidio di Iacopo Scaramuzzi La Stampa, 30 ottobre 2018 “Oggi c’è un’ondata di chiusura verso lo straniero” e “ci sono tante situazioni di tratta di persone straniere”: è la denuncia che Papa Francesco ha pronunciato ricevendo i missionari scalabriniani, da sempre accanto a migranti e rifugiati, sottolineando che “il benessere è suicida” perché porta a “un inverno demografico” e alla “chiusura delle porte”, e ricordando che anche l’Europa “non è nata così, ma è stata fatta da tante ondate migratorie durante i secoli”. “È più facile ricevere uno straniero che essere ricevuto”, ha detto il Papa parlando a braccio agli scalabriniani, “e voi dovete fare ambedue le cose, voi dovete insegnare ad aiutare a ricevere lo straniero, dare tutte le possibilità alle nazioni che hanno di tutto o sono sufficienti per usare queste quattro parole (pronunciate precedentemente dal superiore degli scalabriniani: accogliere, promuovere, proteggere, integrare, ndr). Come ricevere uno straniero… colpisce tanto la parola di Dio, già nell’antico testamento, sottolinea questo: ricevere lo straniero, ricordati che tu sei stato straniero. È vero - ha sottolineato Francesco - che oggi c’è un’ondata di chiusura verso lo straniero, e anche ci sono tante situazioni di tratta di persone straniere: si sfrutta lo straniero. Io sono figlio di migranti e ricordo nel dopoguerra - ero ragazzino e avevo 10 o 12 anni... - quando dove lavorava papà sono arrivati i polacchi a lavorare, tutti migranti, e come erano accolti bene. L’Argentina ha questa esperienza di accogliere, perché c’era lavoro, e c’era anche bisogno. L’Argentina, la mia esperienza, è un cocktail di ondate migratorie, voi lo sapete meglio di me. Perché i migranti costruiscono un Paese, come hanno costruito l’Europa, che non è nata così ma è stata fatta da tante ondate migratorie durante i secoli”. “Lei - ha proseguito il Papa rivolto al superiore della Congregazione dei Missionari di San Carlo - ha usato una parola “brutta”, il benessere: ma il benessere è suicida, perché ti porta a due cose: a chiudere le porte, perché non ti disturbino, soltanto quelle persone che servono per il mio benessere possono entrare. E dall’altra parte per il benessere si arriva a non essere fecondi: e noi abbiamo oggi questo dramma di un inverno demografico e di una chiusura delle porte. Questo deve aiutarci a capire un poco meglio di ricevere lo straniero. Sì, è uno estraneo, non è dei nostri, ma come si riceve uno estraneo? Questo è il lavoro che voi fate, creare le coscienze per farlo bene, e di questo vi ringrazio”. Papa Francesco ha ringraziato gli scalabriniani per quel che fanno, ricordando di averli conosciuti “da prima di essere arcivescovo di Buenos Aires, i vostri studenti studiavano nella nostra facoltà: sono stati bravi! Poi come arcivescovo ho avuto l’aiuto vostro, in quella città che aveva tanti problemi di immigrazione: grazie tante. E grazie (adesso) per averci dato uno dei due sottosegretari per i migranti (padre Fabio Baggio, sottosegretario della Sezione Migranti e rifugiati del Dicastero vaticano per lo Sviluppo umano integrale, insieme al gesuita Michael Czerny, ndr) che lavorano tanto bene tutti e due”. Il Papa ha parlato a braccio “dal cuore” ma ha consegnato al padre generale un discorso scritto preparato, nel quale, tra l’altro, ricorda che “di fronte all’odierno fenomeno migratorio, molto vasto e complesso”, la Congregazione religiosa fondata dal beato Giovanni Battista Scalabrini “attinge le risorse spirituali necessarie dalla testimonianza profetica del Fondatore, quanto mai attuale, e dall’esperienza di tanti confratelli che hanno operato con grande generosità dalle origini, 131 anni fa, fino a oggi. Oggi come ieri, la vostra missione si svolge in contesti difficili, a volte caratterizzati da atteggiamenti di sospetto e di pregiudizio, se non addirittura di rifiuto verso la persona straniera. Ciò vi sprona ancora di più a un coraggioso e perseverante entusiasmo apostolico, per portare l’amore di Cristo a quanti, lontani dalla patria e dalla famiglia, rischiano di sentirsi lontani anche da Dio”. Oggi, in particolare, “quante storie ci sono nei cuori dei migranti! Storie belle e brutte. Il pericolo è che vengano rimosse: quelle brutte, è ovvio; ma anche quelle belle, perché ricordarle fa soffrire. E così il rischio è che il migrante diventi una persona sradicata, senza volto, senza identità. Ma questa è una perdita gravissima, che si può evitare con l’ascolto, camminando accanto alle persone e alle comunità migranti. Poterlo fare è una grazia, ed è anche una risorsa per la Chiesa e per il mondo”. Introducendo l’udienza, il nuovo superiore generale degli scalabriniani, il brasiliano Leonir Chiarello, eletto nel corso del quindicesimo capitolo in corso in questi giorni a Roma, ha sottolineato che “viviamo in un tempo in cui l’esplosione del fenomeno migratorio si pone come sfida nuova e impegnativa per il nostro carisma. La novità non si riferisce solo all’aumento massiccio dei flussi ma anche alla natura sostanzialmente diversa di questi movimenti: se fino ad alcuni decenni fa le persone migravano verso destinazioni più o meno precise, verso terre in cui rimanere in modo stabile, oggi per la natura forzata delle migrazioni sempre più frequentemente il viaggio è senza fine e senza meta precisa, è uno spostamento continuo e a causa delle congiunture avverse e delle logiche criminali si trasformano in vere tragedie umane”. “D’altra parte - ha sottolineato il superiore - le società chiamate ad accogliere con generosità, in nome della giustizia e della solidarietà, si chiudono sempre più in se stesse preoccupate di salvaguardare il proprio benessere, impaurite da una continua e martellante propaganda che presenta il migrante e il rifugiato come un pericolo, una minaccia per la sicurezza nazionale o l’identità culturale”. In questo contesto, ha aggiunto, “riteniamo che il nostro carisma ci chieda, oggi come ieri, di farci compagni di viaggio di tutti i migranti e rifugiati, e al tempo stesso compagni di viaggio delle Chiese locali, chiamate ad accoglierli, promuoverli, proteggerli e integrarli”. “In un mondo sempre più polarizzato e spinto ad abbracciare gli estremismi xenofobi e intolleranti, il nostro carisma ci spinge a essere sale e luce, lievito di conversione e seme di vera convivialità fraterna, affinché la Chiesa possa riflettere sempre più la luce di Cristo che con la sua morte e risurrezione ha abbattuto il muro che separava i popoli”. Da qui un ringraziamento infine al Papa per “la costante attenzione e il continuo richiamo rivolto al mondo circa la necessità di condividere il nostro viaggio con i migranti”. Migranti. Rilascio permessi umanitari, salve le procedure in corso di Antonino Porracciolo Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2018 Anche dopo l’entrata in vigore del Dl 113/2018, il giudice può riconoscere il diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari in favore degli stranieri che avevano presentato domanda per lo status di rifugiato prima del 5 ottobre 2018. Lo afferma il Tribunale di Firenze (giudice Liliana Anselmo) in un’ordinanza dello scorso 14 ottobre. Con provvedimento del novembre 2015 la Commissione territoriale aveva respinto la richiesta di un cittadino straniero di riconoscimento di qualsiasi forma di protezione internazionale. Dal canto suo, il Tribunale di Firenze ha escluso, innanzitutto, che al ricorrente si possa attribuire lo status di rifugiato, non essendo stato dimostrato il rischio, per lo stesso ricorrente, di persecuzione per ragioni politiche o per l’appartenenza a un gruppo sociale o a una razza o per motivi religiosi. Neppure, secondo il giudice toscano, sussistono le condizioni per la protezione sussidiaria, giacché il ricorrente non ha provato di essere ricercato dalla polizia del suo Paese. Resta, allora, da valutare se ricorrano i presupposti per la protezione umanitaria. Sul punto, il tribunale osserva che il decreto sicurezza, in vigore dal 5 ottobre, nel modificare il comma 6 dell’articolo 5 del Dlgs 286/1998, ha di fatto abrogato la norma che ammetteva il rilascio del permesso di soggiorno in presenza di “seri motivi, in particolare di carattere umanitario”. Tuttavia, la riforma - si legge nell’ordinanza - non si applica ai procedimenti in corso, giacché la legge dispone per l’avvenire e dunque non ha effetto retroattivo (articolo 11 delle preleggi). Inoltre, una diversa conclusione determinerebbe “una irragionevole discriminazione” tra i cittadini stranieri che hanno inoltrato la domanda di protezione o presentato il ricorso giurisdizionale prima del 5 ottobre 2018, giacché per i casi già definiti si è applicata la normativa precedentemente in vigore, mentre quelli ancora pendenti andrebbero decisi in base al testo del Dl 113/2018. Così il tribunale, ritenuta ancora esistente una “gravissima situazione” nel Paese di provenienza del ricorrente, ha disposto la trasmissione degli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Quella del Tribunale di Firenze è tutt’altro che una posizione isolata. Nello stesso senso, infatti, si è già espresso anche il Tribunale di Milano. Mentre il Tribunale di Palermo (presidente Ciardo, relatore Lo Forte), in un’ordinanza dello scorso 11 ottobre, ha osservato che l’articolo 1, comma 9, del Dl 113/2018 dispone che nei procedimenti in corso, in cui la Commissione territoriale ha ritenuto sussistenti gravi motivi di carattere umanitario, allo straniero sia rilasciato un permesso di soggiorno con l’indicazione “casi speciali”. Il giudice siciliano ha quindi dichiarato il diritto al soggiorno per motivi umanitari in favore di uno straniero, che aveva presentato domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato prima dell’entrata in vigore del Dl 113/2018; ma ha precisato che, in base a quanto previsto dalla nuova disciplina, si tratta del diritto a “un permesso di soggiorno “per casi speciali”. Africa. La crisi delle ex colonie e le nostre responsabilità di Antonio Armellini Corriere della Sera, 30 ottobre 2018 La nostra presenza nel continente ha fallito perché era uno specchio delle carenze del Paese: uno stato debole con un’amministrazione inefficiente e boriosa. L’Italia sta dando l’impressione di essere più presente sulla scena africana, ma la nostra voce resta flebile. La recente visita di Giuseppe Conte ad Addis Abeba ed Asmara per celebrare la fine della guerra fra Etiopia ed Eritrea, una delle più sanguinosamente inutili del continente africano fra due nostre ex colonie (ma in realtà anche per cercare aiuto sull’immigrazione clandestina) è passata pressoché sotto silenzio; del pasticcio libico vediamo le ricadute quasi ogni giorno. Forse non è inutile guardare alle ragioni per cercare di capire cosa fare. Sulla vicenda coloniale dell’Italia, iniziata sul finire dell’Ottocento, è stata operata una rimozione salvifica che l’ha sovrapposta a quella del fascismo, unendo entrambe nella medesima condanna e prendendo al tempo stesso le distanze dalle responsabilità dell’Italia democratica. Questa lettura è stata a volte recepita dagli stessi Paesi ex coloniali, con effetti anche bizzarri. Nell’Etiopia del dittatore Menghistu la vittoria di Adua veniva ricordata con sfilate di carri allegorici sulle violenze degli aggressori italiani; per rendere meno indigesta la cosa a noi il generale Baratieri e i suoi uomini venivano vestiti in camicia nera. Divenuta così fascista, Adua poteva essere condannata da tutti senza problemi. Le nostre ex colonie sono diventate i punti di crisi più intrattabili del continente: la Somalia è un “failed state” in preda a bande rivali; la situazione in Libia è sotto i nostri occhi ogni giorno; l’Eritrea è nelle mani di un dittatore sanguinario - prodotto malriuscito dell’università italiana - in un Paese da cui chi può fugge; l’Etiopia oscilla fra temporanei aggiustamenti e instabilità. Anche gli altri hanno la loro quota di Paesi devastati da conflitti, ma l’Italia è l’unica in cui il disastro coinvolga tutti ed è legittimo chiedersi come mai. Inglesi, francesi, tedeschi hanno cercato di massimizzare, come tutti, lo sfruttamento coloniale utilizzando strumenti derivati da modelli nazionali che erano espressione di culture amministrative e dello stato solide. All’atto dell’indipendenza, i nuovi Paesi hanno affrontato il difficile e spesso drammatico passaggio dalla dipendenza all’autonomia con una ossatura di governo che, per quanto dettata da logiche estranee, ha permesso di svilupparne la dimensione identitaria e di preservare una relativa omogeneità amministrativa (e linguistica) attraverso le crisi. L’Italia coloniale era uno stato debole con una amministrazione boriosa e inefficiente e tale è il modello che ha applicato; sta qui la prima spiegazione della fragilità delle strutture di governo e dello stesso carattere statuale dei territori che ha amministrato. Due eccezioni confermano l’assunto: il Somaliland è sopravvissuto alla decomposizione del resto della Somalia perché era stato una colonia britannica; l’Etiopia, era già da prima del nostro breve interregno uno stato più o meno funzionante. La nostra presenza è stata soprattutto fisica, nel costruito: strade, case, piani urbanistici ed agricoli, hanno lasciato una traccia forte, al di là della retorica “imperiale” smargiassa del fascismo; è stata la rappresentazione di un paese contadino ed operaio che usava gli strumenti che gli erano abituali per una colonizzazione vista anche come volano per l’emigrazione, le cui conseguenze solo la brevità dell’occupazione ci ha permesso di contenere (se il progetto mussoliniano di trasferire decine se non centinaia di migliaia di persone nella “Romagna d’Etiopia” sull’altopiano amarico fosse andato in porto, ci saremmo ritrovati fra le mani un po’ di anni dopo una seconda Algeria). I piani regolatori elaborati con enorme dispendio (chissà se un giorno si saprà quanto) per tutte le maggiori città etiopiche sono rimasti lettera morta, ma in Eritrea - l’unica colonia italiana propriamente detta - una stratificazione architettonica e urbanistica ricca e variata è entrata a far parte del patrimonio nazionale; un caso tanto interessante quanto raro di una interposizione coloniale che diventa fattore condiviso di identità. Ma sul nation building no, non ci siamo stati. Ci sono voluti storici come Angelo Del Boca per squarciare il velo della retorica - questa sì, soprattutto fascista - degli italiani “brava gente”, colonizzatori onesti, attenti al benessere delle popolazioni sottomesse e così via. Ci siamo resi responsabili di atrocità e violenze come gli altri e la nostra colonizzazione ha fallito non (solo) perché era fascista, ma perché era uno specchio delle carenze del paese. Abbiamo mostrato di saper costruire, ma non di saper governare, il che spiega come mai della nostra presenza amministrativa, culturale e linguistica non sia rimasto quasi nulla (in Namibia, dove la Germania è rimasta poco più di un ventennio, il tedesco è ancora lingua veicolare). La rimozione non aiuta a ricostruire una presenza in un continente che resta fondamentale per il nostro futuro. Stati Uniti. Carovana dei migranti, schierati 5.200 soldati al confine con il Messico Corriere della Sera, 30 ottobre 2018 Confermate le indiscrezioni dei giorni scorsi. Il presidente Usa: “Questa è un’invasione, i militari vi stanno aspettando”. Gli immigrati al confine tra Guatemala e Messico. È la più grande carovana di migranti mai vista in Messico. Sono migliaia, i cittadini del Centro America che stanno provando a sfondare il confine. Il dipartimento della difesa americana ha annunciato che invierà 5.200 soldati alla frontiera in vista del loro arrivo, confermando così le anticipazioni del Wall Street Journal. Il generale Terrence O’Shaughnessy ha riferito ai reporter che 800 militari sono già in viaggio e che il resto delle truppe sarà alla frontiera entro la fine della settimana. Una massiccia muraglia militare si trova già schierata lungo il confine, dove circa 2.000 guardie nazionali stanno lavorando per fornire assistenza alle autorità messicane sopraffatte dall’ondata di persone. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump nelle ultime settimane ha più volte affermato che sono necessarie ancora più truppe per rafforzare la sicurezza delle frontiere. Secondo il commissario Usa per la protezione delle frontiere Kevin McAleenan le autorità americane stanno rintracciando un gruppo di circa 3.500 persone che viaggiano verso nord attraverso l’area del Chiapas-Oaxaca, nel sud del Messico. Sotto osservazione altre 3.000 persone a un passaggio di confine tra il Guatemala e il Messico. Lunedì sera Trump ha assicurato che la sua amministrazione costruirà delle tendopoli per i migranti che raggiungono il confine e chiedono asilo: “Se fanno richiesta di asilo, li terremo in sospeso fino al momento in cui avranno l’esito. Li terremo, costruiremo tendopoli dappertutto - ha detto il presidente in un’intervista a Fox News. Loro saranno molto gentili e aspetteranno, ma se non ottengono l’asilo non potranno entrare”. Moltissimi migranti hanno attraversato il fiume Suchiate, dal Guatemala in Messico, su zattere fatte con pneumatici per autocarri o formando catene umane per evitare di essere travolti dalla corrente: tra loro famiglie intere, con bambini piccoli. Per il commissario Usa McAleenan è “una crisi umanitaria”, gli agenti di frontiera - ha aggiunto - nelle ultime tre settimane hanno arrestato circa 1.900 persone al giorno che tentano di attraversare illegalmente: “Più della metà di questi arrivi - ha detto - sono nuclei familiari e minori non accompagnati che si sono messi nelle mani di violenti contrabbandieri umani, pagando 7.000 dollari a persona per il viaggio”. Su Twitter Trump ha ribadito che non intende in nessun modo accettare “una invasione” del proprio Paese, rivolgendosi direttamente ai migranti: “Tornate indietro, non sarete ammessi negli Stati Uniti a meno che non lo facciate seguendo la via legale. Questa è una invasione del nostro paese e i nostri militari vi stanno aspettando”. Brasile. Bolsonaro e l’attacco ai diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 ottobre 2018 Chiuse le urne, in Brasile è iniziata la sfida: difendere i passi avanti fatti nel campo dei diritti umani dalla fine della dittatura militare, di fronte a un presidente eletto, Jair Bolsonaro, che non fa mistero di provarne nostalgia. Bolsonaro ha portato avanti una campagna elettorale con un programma apertamente ostile ai diritti umani e ha spesso fatto dichiarazioni discriminatorie su vari gruppi sociali. Se questa retorica velenosa e tossica si trasformerà in azioni politiche, la sua elezione a presidente del Brasile potrebbe rappresentare un enorme rischio per le popolazioni native e le quilombolas (le comunità dei discendenti dagli schiavi), le comunità rurali tradizionali, le persone Lgbti, i giovani neri, le donne, gli attivisti e le organizzazioni della società civile. In campagna elettorale Bolsonaro ha promesso leggi più elastiche sul controllo delle armi e una licenza di uccidere a priori per i funzionari di polizia. Queste proposte, se realizzate, peggiorerebbero il già tragico contesto di violenza letale in un paese in cui si verificano 63.000 omicidi l’anno, di cui più del 70 per cento a causa delle armi da fuoco, e nel quale la polizia commette approssimativamente 5.000 omicidi l’anno, molti dei quali sono di fatto esecuzioni extragiudiziali. Ancora, Bolsonaro ha minacciato le terre delle popolazioni native, attraverso la modifica delle procedure di demarcazione dei terreni e l’autorizzazione a progetti per lo sfruttamento delle più importanti risorse naturali. In tal senso, ha anche parlato di allentare le norme sulla salvaguardia dell’ambiente e ha criticato le agenzie di protezione ambientale del Brasile, mettendo in pericolo il diritto di tutte le persone di godere di un ambiente sano. Il Brasile ha uno dei tassi più alti di uccisione di difensori dei diritti umani e attivisti del mondo: decine di loro vengono assassinati ogni anno per aver difeso diritti che dovrebbero essere garantiti dallo stato. In questo grave contesto, le dichiarazioni di Bolsonaro sul voler porre fine all’attivismo e dare un giro di vite ai movimenti sociali organizzati rappresentano una minaccia concreta ai diritti alla libertà d’espressione e di assemblea pacifica garantiti dalle leggi nazionali e internazionali. Bolsonaro e il suo vice presidente Mourão, entrambi militari riservisti, hanno pubblicamente difeso i crimini commessi durante il precedente regime, inclusa la tortura. Si preannunciano tempi bui per il Brasile.