Bambini dietro le sbarre. Case famiglia, alternativa valida ma non finanziata dallo Stato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 ottobre 2018 Il costo per la loro realizzazione è a carico di comuni ed enti no profit. A differenza degli Icam, che il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha dichiarato di voler potenziare, non prevedono la detenzione, ma sono alternative al carcere, destinate alle donne che non hanno un luogo dove poter scontare gli arresti domiciliari. Nella seconda parte del nostro viaggio “Bambini dietro le sbarre” abbiamo parlato dell’Icam, l’istituto a custodia attenuata per detenute madri previste dalla legge del 2011. Ad oggi ce ne sono 5: Torino “Lorusso e Cutugno”, Milano “San Vittore”, Venezia “Giudecca”, Cagliari e Lauro (in Campania). Ne funzionano 4, perché l’Icam di Cagliari è tuttora priva di ospiti. La stessa legge prevede l’istituzione delle case famiglia protette, un’alternativa ritenuta valida da diverse associazioni, tipo “A Roma Insieme”, e non per ultimo dal garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Ad oggi, grazie a diversi sforzi dell’amministrazione locale e gli enti disposti a metterci i soldi, esistono solo due case famiglia: una a Roma e l’altra a Milano. Perché sono solo due e realizzate con non poche difficoltà? Recentemente il Gruppo Crc (il gruppo di lavoro per l’infanzia) ha presentato il terzo rapporto supplementare - relativo all’anno 2016/ 2017 - alle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia, alla cui redazione hanno contribuito 144 operatori delle 96 associazioni del network. Nella sezione dedicata ai figli di genitori detenuti, il Gruppo Crc raccomanda al ministero della Giustizia di destinare parte delle risorse previste per gli Icam agli enti locali a cui è in carico la titolarità delle Case Famiglia Protette. Come mai lo Stato finanzia gli Icam e non le case famiglia? Andiamo a vedere cosa dice il decreto dell’8 marzo del 2013 che va a specificare i requisiti. Si legge che le strutture residenziali case famiglia protette previste dalla Legge n. 62 del 21 aprile 2011, delle quali potranno fruire solo soggetti per i quali non vengano ravvisate esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, o soggetti nei confronti dei quali, nel caso di concessione di misure alternative previste, non sussista grave e specifico pericolo di fuga o di commissione di ulteriori gravi reati, e risulti constatata l’impossibilità di esecuzione della misura presso l’abitazione privata o altro luogo di dimora debbono rispettare i criteri organizzativi e strutturali previsti dall’articolo 11 della Legge 328/ 2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, e dal Dpcm 21 maggio 2001, n. 308, nonché dalle relative normative regionali in materia tenendo presente le seguenti caratteristiche tipologiche: le case famiglia protette sono collocate in località dove sia possibile l’accesso ai servizi territoriali, socio-sanitari ed ospedalieri, e che possano fruire di una rete integrata a sostegno sia del minore sia dei genitori; le strutture hanno caratteristiche tali da consentire agli ospiti una vita quotidiana ispirata a modelli familiari, tenuto conto del prevalente interesse del minore; ospitano non oltre sei nuclei di genitori con relativa prole; i profili degli operatori professionali impiegati e gli spazi interni sono tali da facilitare il conseguimento delle finalità di legge; le stanze per il pernottamento e i servizi igienici dei genitori e dei bambini dovranno tenere conto delle esigenze di riservatezza e differenziazione venutesi a determinare per l’estensione del dettato della legge 62/ 2011 anche a soggetti di sesso maschile; sono in comune i servizi indispensabili per il funzionamento della struttura (cucina etc...); sono previsti spazi da destinare al gioco per i bambini, possibilmente anche all’aperto; sono previsti spazi, di dimensioni sufficientemente ampie, per consentire gli incontri personali, quali: i colloqui con gli operatori, i rappresentanti del territorio e del privato sociale, nonché gli incontri e i contatti con i figli e i familiari al fine di favorire il ripristino dei legami affettivi; Il servizio sociale dell’amministrazione penitenziaria interviene nei confronti dei sottoposti alla misura della detenzione domiciliare secondo quanto disposto dall’art. 47 quinques, 3°, 4° e 5° comma dell’Ordinamento penitenziario; Il ministro della Giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, può stipulare con gli enti locali convenzioni volte a individuare le strutture da utilizzare come case famiglia protette. L’ultimo punto è quello chiave. La politica ha riconosciuto un ruolo primario agli Icam. Mentre per quest’ultimi è sotto la responsabilità del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (quindi c’è lo stanziamento di fondi), per le case famiglia invece la responsabilità è degli enti locali o privati. Quindi lo Stato non partecipa. La distinzione più importante tra l’Icam e la casa protetta è proprio il fatto che la prima è una forma detentiva a tutti gli effetti, mentre la seconda è una misura alternativa al carcere, destinata maggiormente alle donne che non hanno un luogo dove poter scontare una pena agli arresti domiciliari. Ed è proprio questa caratteristica che “giustifica” la mancanza di fondi statali. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha dichiarato che vuole proseguire per questa strada e potenziare gli Icam, prevedendone una struttura per ogni regione. Attualmente, come già detto, di casa famiglia ce ne sono solamente due: una a Milano e l’altra a Roma. Entrambe realizzate con l’accordo degli Enti territoriali (Comune, Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Tribunale di Sorveglianza) e gestite da enti del Terzo Settore. Ognuna di esse può ospitare 6 donne e 7 bambini. La casa famiglia protetta di Roma “La casa di Leda” è stata aperta nell’ottobre 2016, a seguito del Protocollo di intesa tra il comune di Roma, la Fondazione Poste Insieme Onlus, la Cooperativa Cecilia Onlus (capofila), l’Associazione “A Roma, Insieme - Leda Colombini”, la Cooperativa Pid e l’Associazione di volontariato Ain Karim. È realizzata con il sostegno della Fondazione Poste Insieme Onlus e del Dipartimento Politiche sociali, sussidiarietà e salute del Comune di Roma. A Milano un analogo Protocollo di intesa - grazie alla volontà dell’avvocato e consigliere di Milano del Partito Democratico Alessandro Giungi - è stato siglato nel 2016 da Prap, comune di Milano, magistratura di Sorveglianza, magistratura Ordinaria e Associazione Ciao, a riconoscimento della casa famiglia protetta esistente. Anche questo progetto è sostenuto da Poste Insieme Onlus. A Firenze qualcosa si sta muovendo. Don Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano, e il membro del Partito Radicale e presidente Progetto Firenze, Massimo Lensi, propongono una soluzione per Firenze: “Le madri detenute nel carcere fiorentino di Sollicciano sono in esecuzione di pena per piccoli reati, o in custodia cautelare. Per porre fine alla situazione di stallo che dal 2010 blocca la realizzazione dell’Icam in via Pietro Fanfani a Firenze, a questo punto, quindi, si potrebbe ipotizzare per queste donne e i loro bimbi la soluzione della Casa Famiglia Protetta”. Ma come mai c’è questa necessità di non dividere i figli dalle madri che sono in carcere? E negli altri Paesi come funziona? Ne parleremo alla quarta parte del reportage. Una madre racconta cosa vuol dire crescere un figlio in carcere di Manuela D’Alessandro agi.it, 2 ottobre 2018 La storia di una ragazza di 25 anni, finita a San Vittore al sesto mese di gravidanza. “Ho dimostrato a me stessa che ero in grado di farcela. Anche se era tutto complicato: per esempio, quando mi serviva il latte per la bimba di notte a volte la porta della cucina era chiusa a chiave e dovevo chiedere a chi dormiva di aprirmela”. Roberta ha 25 anni e due figli avuti da padri diversi: uno in Brasile che ha sette anni e una bimba di due che vive con lei in una comunità milanese per madri detenute dopo un periodo passato in carcere. Della piccola dice: “Ha già vissuto tantissima vita”, un’espressione potente che racchiude il senso della sua maternità da donna dentro mura insuperabili. Ora si definisce “serena”, con tutti i limiti di orari e movimento di chi sta scontando una misura alternativa alla galera. Ma c’è stato un prima che, dice, “solo chi ci è passato può capire fino in fondo”. Una situazione, quella delle mamme detenute con i figli (circa 60 in Italia), venuta prepotentemente alla luce con i suoi problemi e le sue criticità, dopo il caso di Rebibbia, dove una donna ha ucciso i suoi due figli. Non tutte le storie però parlano di disperazione. Rinascere è possibile. È il caso di Roberta che ha accettato di raccontarsi. “Sono arrivata in Italia due anni fa da Bahia - racconta all’Agi - una città per turisti ricchi dove per chi ci è nato non c’è nulla. Ero rimasta da poco vedova del padre di mia figlia, avevo le idee confuse e sono caduta in un brutto giro di traffico internazionale di droga. Appena ho messo piede all’aeroporto di Malpensa sono stata arrestata. Ero incinta di sei mesi”. Roberta viene portata nel carcere di San Vittore. “Gli ultimi tre mesi di gravidanza sono stati molto faticosi, stavo male, avevo delle nausee forti ma in carcere non ci si può lamentare più di tanto”. L’arrivo all’Icam - Quando nasce Teresa (nome di fantasia), per mamma e figlia si aprono le porte dell’Icam, acronimo che sta per Istituto a custodia attenuata per detenuti madri, quello, per intenderci dove soggiornò per un periodo, prima che il Tribunale le togliesse il figlio, anche Martina Levato, la giovane autrice delle aggressioni con l’acido assieme all’allora compagno Alexander Boettcher. “Un carcere anche questo, seppure senza sbarre e i muri colorati, con tantissime regole. Per noi brasiliani le regole non esistono, all’Icam invece ero obbligata a rispettarle. Dopo sole due settimane dal cesareo stavo ancora male ma dovevo alzarmi alle sette per pulire la stanza del capo del carcere, cucinare per tutti due volte alla settimana, contribuire a tenere pulita la struttura e prendermi cura di mia figlia. Potevo uscire solo dalle due alle cinque per stare in giardino”. Tutto in un ambiente poco sereno “con litigi tutti i giorni tra le donne, perché ognuna ha il suo carattere e convivere è difficile”. “Nessuno mi aiutava con la piccola - ricorda Roberta - mi dicevano “sei tu la mamma, devi prendertene cura tu, dimostraci che sei capace”. Eppure questa disciplina da caserma ora la rievoca con gratitudine: “Mi è servito tantissimo avere delle regole e delle responsabilità. Ho dimostrato a me stessa che ero in grado di farcela. Anche se era tutto complicato: per esempio, quando mi serviva il latte per la bimba di notte a volte la porta della cucina era chiusa a chiave e dovevo chiedere a chi dormiva di aprirmela”. La pena più straziante - La pena più straziante però non era privare Teresa di un’infanzia libera ma non poter comunicare con l’altro figlio, che vive col papà a Bahia: “Potevo chiamare solo due volte al mese in Brasile perché era una chiamata interurbana. Ma preferivo parlare con mia mamma perché la telefonata durava solo dieci minuti e non volevo che Francesco (nome di fantasia, ndr) stesse male quando mettevo giù, si emozionava troppo quando parlavamo. È stato bruttissimo stare così tanto senza sapere come cresceva. Anche suo padre sta scontando una condanna, non è in carcere ma deve presentarsi in caserma per firmare, ho paura che torni dentro”. Teresa ora gioca con altri bambini in una stanza della casa famiglia dell’associazione Ciao, gestita da due coniugi, Andrea Tollis ed Elisabetta Fontana. È la prima nata in Italia negli anni Novanta e da qui sono passate circa 400 mamme detenute. “È una bimba vivace e intelligente. Parla bene, si fa capire e ha voglia di andare all’asilo, di stare coi bambini della sua età”. Roberta adesso ha dei progetti e degli enormi timori: “A maggio del 2019 terminerò di scontare la pena e poi voglio restare in Italia e far venire qua Francesco. Non voglio che i miei figli crescano in Brasile, farebbero la mia stessa fine. Ma poi mi chiedo se troverò un lavoro e ce la farò e ho un po’ paura”. L’allarme dei 260 cappellani: “In carcere povertà dilagante” Metropolis, 2 ottobre 2018 I religiosi dei penitenziari a confronto per tracciare il piano pastorale “I detenuti non sanno come ricominciare dopo aver scontato la pena”. I 260 cappellani presenti nei 195 istituti di pena italiani si ritroveranno a partire dai prossimo 22 ottobre per tre giorni a Montesilvano, Pescara, per tracciare le linee guida della pastorale penitenziaria per il prossimo biennio. “Il primo problema che stiamo riscontrando nelle carceri è una povertà sempre più dilagante: abbiamo persone che dopo aver scontato la pena non sanno cosa fare, dove andare, come ricominciare”, spiega l’ispettore generale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi, che per tantissimi anni ha prestato servizio nell’istituto napoletano di Secondigliano. “L’operosità della fede, la fatica della carità, la fermezza della speranza”: è questo il tema del confronto non solo tra i cappellani ma anche tra le centinaia di persone - provenienti dal mondo del volontariato e dagli ordini religiosi - che ogni giorno prestano il loro servizio negli istituti e che svolgono un azione di sostegno non solo ai reclusi ma anche ai loro familiari. “In alcuni istituti, soprattutto del nord, è sempre più alto il numero di stranieri reclusi e sono questi i più poveri”, ha detto ancora don Grimaldi e “noi, come comunità di fedeli, dobbiamo interrogarci su come facilitare il reinserimento nella società di quanti lasciano il carcere dopo aver scontato la pena”. Nel corso dei lavori è previsto anche l’intervento di don Fortunato di Noto, fondatore dell’associazione Mater. Il caso di Ciro Rigotti, malato terminale, detenuto nel carcere di Poggioreale, è un drammatico esempio del fallimento della sanità in Campania e, particolarmente, dell’Asl Napoli 1 Centro, che non riesce a garantire l’assistenza sanitaria ai detenuti di questo istituto penitenziario”. È quanto ha affermato il segretario federale di Sud Protagonista, Salvatore Ronghi, che questa ieri mattina ha tenuto una conferenza stampa davanti alla sede del Tribunale di Napoli, insieme con il portavoce cittadino, Luigi Ferrandino, e il presidente dell’Associazione ex detenuti, Pietro Ioia. Hanno partecipato alla conferenza stampa la figlia di Rigotti, che ha chiesto alla magistratura di consentire al proprio padre “di morire a casa sua, tra i propri affetti, e non tra le pareti di un carcere”. “La Regione - ha aggiunto Ronghi - non può continuare ad ignorare le gravi carenze della sanità nel carcere di Poggioreale, che sembra essere un luogo nel quale vengono vanificati i diritti fondamentali e, quindi, la dignità dei detenuti, anziché un istituto penitenziario in grado di garantire la rieducazione e il reinserimento sociale del detenuto. Per questo, il nostro movimento ha lanciato la campagna sociale e politica per la chiusura del carcere di Poggioreale e l’edificazione di nuove strutture carcerarie a misura d’uomo, una battaglia di giustizia e di civiltà che chiediamo a De Luca e De Magistris di condividere”. Intanto, prenderà il via il prossimo 9 ottobre il progetto educativo Antimafia e Antiviolenza promosso dal Centro Studi Pio La Torre di Palermo, giunto al tredicesimo anno e rivolto agli studenti delle ultime tre classi delle scuole secondarie italiane di secondo grado. Per la prima volta, da quest’anno il progetto sarà proposto anche alle Case Circondariali italiane che offrono ai propri detenuti corsi di studi medi-superiori. Già nove gli istituti penitenziari che hanno aderito, tra questi gli istituti di Palermo (Pagliarelli e Calogero Di Bona - Ucciardone), quelli di Noto, Enna, Catania, Trapani e anche da Alessandria e Pesaro. Don Grimaldi: “bisogna avere il coraggio di investire sui detenuti” Un appello al mondo dell’imprenditoria e dell’economia “ad avere il coraggio di investire su chi, per svariati motivi, ha sbagliato ed è in carcere” è stato lanciato oggi da don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, che ha preso parte alla conferenza stampa di presentazione di “Liberi nell’arte”, un progetto di reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti attraverso l’arte. Questa iniziativa, ha spiegato, “offre una risposta concreta e rappresenta una provocazione affinché i sogni di reinserimento dei carcerati non siano seppelliti”. L’iniziativa infatti, oltre a promuovere quattro momenti artistici all’interno di istituti di pena, minorili e non, prevede l’istituzione di borse di studio e di lavoro. Si tratta, ha sottolineato don Grimaldi, “di un messaggio forte a coloro che hanno la possibilità di fare una scelta coraggiosa perché non abbiano paura di investire su questi giovani”. Anche i detenuti, ha ricordato il sacerdote, “portano in sé dei sogni che vorrebbero realizzare e hanno bisogno di qualcuno che scommetta su di loro, che sono fasce deboli”. Don Grimaldi chiama in causa tutti, in primis la Chiesa. “Con il Sinodo, la Chiesa vuole interrogarsi su cosa i detenuti chiedono alla comunità ecclesiale”, ha detto l’ispettore generale dei cappellani, evidenziando che “una Chiesa in uscita deve entrare nelle carceri”. E il Sinodo, ha concluso, “è per anche per chi è fuori dal recinto della Chiesa ed è alla ricerca del vero volto di Dio”. Giustizia, patria dei diritti (umani) di Angela D’Arrigo Corriere della Sera - Buone Notizie, 2 ottobre 2018 Cinque milioni in arrivo da Bruxelles per il programma “Justice” inviato a magistrati, avvocati e operatori. L’iniziativa promuove lo scambio tra realtà di “Paesi diversi”, anche per far sì che un “caso Cucchi” non si ripeta più. Viviamo o no in uno Stato di diritto? È la domanda che in tanti si pongono ripercorrendo la storia di Stefano Cucchi attraverso il film “Sulla mia pelle”, in cui si ricostruisce come medici, infermieri, giudici, guardie e avvocati abbiano potuto “non vedere”, girarsi dall’altra parte e lasciar correre, fino alla morte di un ragazzo la cui fragilità il nostro sistema ha trasformato in colpa. La sua storia mostra comunque, al di là del tema dovere e dell’etica professionale di ciascuno, come esista anche un tema di formazione delle figure professionali coinvolte nel settore giustizia, di tutte le persone che entrano in gioco dal fermo fino all’eventuale condanna. Un problema non solo italiano, purtroppo, al quale l’Europa cerca di dare soluzioni promuovendo un bando con più di 5 milioni di euro. Siamo nell’ambito del programma “Justice” e l’avviso si rivolge a partenariati di organizzazioni del terzo settore e enti pubblici provenienti da almeno due diversi Paesi europei. Sono numerosi i profili per i quali organizzare corsi di formazione e aggiornamento: giudici, pubblici ministeri, funzionari e ufficiali giudiziari, avvocati, notai, praticanti e mediatori di insolvenza, nonché interpreti giudiziari e traduttori, personale dell’amministrazione penitenziaria in tutte le sue forme, all’interno delle carceri e fuori, con l’obiettivo di contribuire all’applicazione del diritto dell’Ue nei settori civile, penale, e più in generale in quello dei diritti fondamentali, dell’etica giudiziaria e dello stato di diritto. I progetti possono creare occasioni di scambio di buone pratiche o proporre corsi e momenti di incontro, seminari, anche di lingue straniere o informatica, offrendo una proposta originale, che non sia il duplicato di esperienze già realizzate. Possono riguardare la formazione iniziale dei professionisti, per esempio corsi specifici per giovani avvocati, o l’aggiornamento continuo nel corso della carriera. Si possono inserire anche visite di studio nei tribunali d’Europa per capire le differenze procedurali e di metodo e prevedere una quota di budget per le traduzioni di materiale informativo. I progetti, della durata massima di 3o mesi, vanno presentati online attraverso il portale dei partecipanti ai bandi della Commissione Europea, a cui si accede tramite il link https://ee.europa.euiresearch/participants/portal. Il Csm non può mai essere “governativo” di Giovanni Bachelet Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2018 Venerdì Marco Lillo ha ricordato mio padre e il Csm del 1976, riportando fedelmente lunghi stralci di un mio intervento del 2010. Lo ringrazio. All’epoca, da parlamentare Pd, speravo di far cambiare idea a Bersani su uno dei candidati laici al Csm da lui indicati, a mio avviso troppo connotato politicamente (al momento dell’elezione era capogruppo dell’Udc alla Camera) e troppo poco accademicamente (non era né professore ordinario di Diritto né famoso come avvocato). Non ci riuscii e, per protesta, votai nel segreto dell’urna non lui ma Gustavo Zagrebelsky. Lillo però, citando la chiusa di quel mio articolo, immagina che giovedì scorso l’elezione di David Ermini a vicepresidente Csm mi abbia deluso. Su questo si sbaglia: la sera di giovedì ho mandato a David Ermini un sms di sincere congratulazioni e auguri. Certo Ermini, candidato Pd, non è un avvocato famoso come il vicepresidente Csm del 1996, Carlo Federico Grosso. Tuttavia anche il candidato grillino, Alberto Maria Benedetti, non era un ordinario di chiara fama come Conso o Capotosti (altro vicepresidente Csm diventato poi presidente della Corte costituzionale), ma solo un professore ordinario noto per diversi incarichi politico-amministrativi in Liguria (avuti dal Pd!). Il fatto è che l’elezione del vicepresidente Csm avviene quando ormai i suoi membri (per due terzi togati e un terzo “laici”) sono stati eletti dai magistrati o dal Parlamento, quali che fossero i loro meriti politici e/o professionali. In questa seconda elezione la saggezza dei Padri costituenti volle che i magistrati avessero la maggioranza del Csm (due terzi). In tal modo, anche se la Costituzione stessa prevede che il vicepresidente sia uno dei “laici” (avvocati o giuristi eletti dal Parlamento), l’ago della bilancia sono i magistrati: sia che votino compatti, sia che nel voto si dividano. Negli ultimi quarant’anni la loro maggioranza ha sistematicamente privilegiato autonomia e indipendenza della Magistratura: in generale dalla politica, ma anzitutto dal governo in carica. In questo senso mi pare sia andata anche l’elezione di giovedì scorso di David Ermini, che a me ha ricordato piuttosto quella del 2002 di Virginio Rognoni (ordinario di diritto oltre che più volte ministro). Il guardasigilli di allora, Castelli, la commentò come “un voto contro il governo” con la stessa stizza con cui il ministro Bonafede, anziché accettare britannicamente il risultato, ha dichiarato giovedì che “una parte maggioritaria di magistrati ha deciso di fare politica”. Un Csm come quello che oltre a mio padre e Conso vedeva consiglieri del calibro di Pietro Barcellona o Mario Almerighi, Ettore Gallo o Marco Ramat, sarà difficile da eguagliare: quel sogno è stato interrotto non da Renzi, ma dal tragico 1978. Possiamo però augurarci che Ermini, come mio padre, riesca fin dal giorno dopo l’elezione a ricucire la spaccatura e lavorare insieme a tutto il Consiglio per il bene del Paese e per l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Così i pm sono diventati i protagonisti dei processi. La lezione di Canzio di Massimo Bordin Il Foglio, 2 ottobre 2018 Il dibattimento, dove la prova doveva formarsi di fronte ai giudici attraverso la parità delle parti in causa, è ormai marginalizzato non solo mediaticamente, dall’indagine preliminare. Una significativa ricostruzione dei problemi del processo penale nel nostro paese è stata proposta, in un seminario organizzato a Roma dalla Unione delle camere penali, da Giovanni Canzio. L’ex primo presidente della Corte di cassazione ha analizzato i problemi causati dalla “fragile perfezione” della riforma del codice di procedura penale di cui ricorre ormai il trentesimo anniversario. Il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio fu un momento storico, che aggredì il “monolite autoritario” (la definizione è di Franco Cordero) del codice fascista. Trent’anni dopo la già tardiva riforma, il presidente Canzio prende a prestito dalla cultura industriale il termine “delocalizzazione” per descrivere la sorte attuale del processo. Il dibattimento, dove la prova doveva formarsi di fronte ai giudici attraverso la parità delle parti in causa, è ormai marginalizzato non solo mediaticamente, dall’indagine preliminare, vero luogo di produzione del processo, governato non dal giudice ma dal pubblico ministero. La delocalizzazione ha conseguenze, prosegue implacabile il ragionamento di Canzio, non solo sul singolo atto giudiziario ma per così dire sull’intera catena produttiva. Per esempio, sulla questione della prescrizione che nel 70 per cento dei casi scatta già nelle indagini preliminari e dunque è governata dai pm molto più che dai giudici così come il tipo di procedura, che discende dal capo di imputazione che la procura propone. Per Canzio la soluzione sta nel rafforzamento del ruolo del giudice terzo nella fase delle indagini, piuttosto che nella separazione delle carriere. Una soluzione diversa da quella proposta dagli avvocati ma una analisi altrettanto critica. Autocertificazioni penali light. Condanne, dati conservati per 100 anni di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 2 ottobre 2018 Autocertificazioni penali alleggerite: nessun obbligo di auto-dichiarare contravvenzioni punibili con ammenda o provvedimenti di messa alla prova o di non punibilità per tenuità del fatto. A stabilirlo è il decreto legislativo di revisione del casellario giudiziale, approvato definitivamente dal consiglio dei ministri del 27 settembre 2018, che ha anche stabilito in cento anni il tempo massimo di conservazione dei dati sulle condanne. Il provvedimento, nell’attuare la legge delega 103/2017, unifica in un unico modello (certificato “del casellario”) i tre tipi di certificati attualmente previsti (generale, penale e civile) e introduce certificati del casellario selettivi a disposizione della pubblica amministrazione: conterranno le informazioni pertinenti al singolo procedimento. La scelta è di far acquisire certificati specifici in relazione alle verifiche che la pubblica amministrazione è chiamata a fare, di volta in volta, sulla onorabilità delle persone. Ma vediamo di illustrare gli aspetti più importanti. Viene sostituito il limite finale di conservazione delle iscrizioni, attualmente individuato nel compimento, da parte del soggetto intestatario delle stesse, dell’ottantesimo anno di età, con quello del decorso di cento anni dalla nascita del medesimo. Inoltre è stata prevista l’eliminazione della iscrizione anche anteriormente alla scadenza del termine dei cento anni dalla nascita, decorsi quindici anni dalla morte, fatto sempre salvo il rispetto del limite massimo dei cento anni dalla nascita. In materia di carichi pendenti, l’eliminazione delle iscrizioni è prevista in ipotesi di decesso del soggetto intestatario delle stesse. Si alleggerisce il contenuto del certificato per l’interessato, prevedendo che in esso non si faccia menzione né dell’ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova, né della sentenza che dichiara estinto il reato per esito positivo della stessa. Allo stesso modo non figurano più nemmeno i provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale per particolare tenuità del fatto. Conseguentemente si prevede espressamente che l’interessato che rende dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà relative all’esistenza nel casellario giudiziale di iscrizioni a suo carico, non è tenuto a indicare la presenza di quelle di cui si prevede espressamente la non menzione. Viene ridefinito il contenuto della certificazione per le pubbliche amministrazioni. Le nuove disposizioni prevedono due tipi certificato: quello selettivo, riportante le sole condanne per i reati ostativi rilevanti ai fini dei procedimenti amministrativi di competenza; quello generale, contenente invece tutte le iscrizioni presenti nel casellario giudiziale a nome di una determinata persona, qualora la selezione delle iscrizioni pertinenti e rilevanti non sia consentita dal tenore delle norme che disciplinano i procedimenti stessi. L’accertamento della moralità selettiva implica una diminuzione dell’effetto negativo delle iscrizioni al casellario e costringerà anche a verificare, caso per caso, quali siano le informazioni rilevanti. Le innovazioni previste sono anche di carattere organizzativo, in quanto si prevede che le pubbliche amministrazioni potranno avere accesso diretto e gratuito previa stipulazione di una convenzione con il ministero della giustizia. Il decreto legislativo, sul punto, rafforza la privacy delle persone, con una regola ispirata al principio di minimizzazione dei dati e di pertinenza rispetto alle finalità: i dati acquisiti dalle amministrazioni pubbliche e dai gestori di pubblici servizi, si legge nell’articolato, sono trattati nel rispetto delle norme in materia di protezione dei dati personali e solo ai fini del procedimento amministrativo cui si riferisce la richiesta. Le pubbliche amministrazioni trattano dati per molti scopi, in relazione, per esempio, a procedure di appalto oppure in occasione di concorsi pubblici per l’assunzione di personale o per la verifica della onorabilità di aspiranti a determinate cariche o funzioni. La limitazione dell’utilizzo implica l’impraticabilità dell’utilizzo per finalità ulteriori. Peraltro occorrerà approfondire se sia o meno possibile un utilizzo riferito ad altre esigenze istituzionali, dal momento che da parte dell’ente pubblico sia stata acquisita una notizia rilevante. Class action senza retroattività. La Camera prepara le modifiche di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2018 Uno spiraglio sulla retroattività. Ieri si è chiusa la discussione generale in Aula alla Camera sul disegno di legge di riforma della class action. E alcune possibilità di cambiamento, dopo le relazioni di maggioranza (Angela Salafia, Movimento 5 Stelle) e di minoranza (Giusi Bartolozzi, Forza Italia), e l’intervento del rappresentante della Lega Luca Paolini, sono emerse. In particolare, sul tema della retroattività sembra possibile una convergenza tra maggioranza e opposizione, con Paolini che, nel suo intervento, ha sottolineato qualche perplessità su quella finestra di dieci o cinque anni, a seconda della natura dell’illecito, che permetterebbe un’applicazione anche per eventi passati. Da oggi inizierà l’esame degli emendamenti, per un’approvazione che potrebbe arrivare tra domani e giovedì, anche perché i tempi di discussione sono stati contingentati, dopo che in commissione la maggioranza aveva acconsentito alla richiesta di svolgimento di audizioni. Tutti, a parole, elogiano il lavoro svolto in commissione e aprono a miglioramenti del testo ma, in concreto, oltre alla retroattività, l’unico altro tema “sensibile” sul quale potrebbero arrivare novità è quello delle spese, che la versione attuale del testo addossa all’impresa soccombente sia sul versante della remunerazione dei rappresentanti della classe, con possibile effetto volano sul contenzioso, sia su quello delle perizie. Giulia Sarti, Movimento 5 Stelle, presidente della commissione Giustizia, ricorda che “si tratta comunque di un testo che ha ripreso e migliorato la proposta di legge approvata alla Camera all’unanimità nella scorsa legislatura e successivamente bloccata per ben tre anni al Senato. Il testo vuole tutelare maggiormente i diritti dei cittadini insieme alle imprese sane, è dunque uno strumento di regolamentazione del mercato che assicura procedimenti rapidi, escludendo i proponenti che avanzano azioni non fondate”. Restano in ogni caso sul tappeto alcuni nodi di particolare rilevanza. Due in particolare: quella della possibilità di ingresso nella classe anche dopo la pronuncia di merito. Previsione che, nei fatti, potrebbe, dopo un verdetto di condanna dell’impresa, allargare in maniera assolutamente considerevole la dimensione della classe, ignorando il rischio di soccombenza. E rendendo, nei fatti, assolutamente arduo il tentativo di transazione che l’azienda potrebbe volere intavolare. Un aspetto sul quale pare però che la chiusura della maggioranza sia assoluta. Come pure sullo spostamento della disciplina dell’azione di classe dal Codice del consumo al Codice di procedura civile, trasformandola da strumento tipico della tutela consumeristica a rimedio generale di tutela di diritti individuali. Con la conseguenza di estendere l’area dei destinatari della tutela collettiva, che sarebbero individuati non più solo nei consumatori e utenti, ma anche in altri soggetti, tra cui imprese, pubbliche amministrazioni e associazioni di categoria. Ecco l’arma segreta contro i corrotti della Pubblica amministrazione di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 2 ottobre 2018 È nata la piattaforma “WhistleblowingPA”. I dipendenti pubblici possono segnalare casi di corruzione senza esporsi: il software dà la garanzia assoluta dell’anonimato. I dipendenti pubblici possono segnalare casi di corruzione senza esporsi e senza rischiare. Transparency International Italia e il Centro Hermes per la Trasparenza e i Diritti Umani Digitali hanno lanciato oggi il progetto “WhistleblowingPA”, che mette a disposizione di tutti gli enti pubblici, società controllate e partecipate una piattaforma informatica gratuita per ricevere e gestire le segnalazioni di corruzione. Un anno fa il Parlamento ha introdotto in Italia una legge sul whistleblowing che prevede maggiori tutele per coloro che nell’interesse pubblico decidono di segnalare illeciti o irregolarità nell’ente in cui lavorano. Tra i nuovi obblighi previsti per le PA c’è anche quello di introdurre sistemi di segnalazione tecnologici, in grado di garantire maggiore sicurezza e confidenzialità del processo di segnalazione e protezione dell’identità per chi segnala. Il progetto WhistleblowingPA va esattamente incontro a queste esigenze di tutela dei segnalanti, favorendo la diffusione in tutti gli enti pubblici di una piattaforma adeguata. “In Italia abbiamo più di 22.000 enti pubblici, la maggior parte dei quali di piccole dimensioni che non necessariamente hanno le risorse umane ed economiche per attivare una piattaforma informatica in maniera autonoma. Per questo abbiamo deciso di mettere in campo l’esperienza maturata in questi oltre dieci anni di attività sul tema, per offrire a tutte le PA uno strumento facile da usare, e soprattutto a costo zero, in grado di tutelare al massimo l’identità del segnalante”, ha dichiarato Giorgio Fraschini, esperto di whistleblowing di Transparency International Italia. “WhistleblowingPA offre un’importante opportunità per i responsabili anticorruzione che devono adempiere agli obblighi di legge, aiutando inoltre a diffondere sempre più tra i cittadini l’importanza di segnalare questi fatti che altrimenti rischiano di non venire mai alla luce. Le stesse PA ne beneficeranno nel breve e nel lungo periodo grazie ai i risparmi generati dalla scoperta degli illeciti”. Il whistleblowing si sta dimostrando uno strumento sempre più utilizzato. Come dimostrano i dati dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac) nel terzo rapporto pubblicato a giugno, il trend è in costante crescita: 621 nei primi 5 mesi del 2018 rispetto a 893 di tutto il 2017. Una media mensile nell’anno in corso di circa 66 segnalazioni, il doppio rispetto al 2017 quando la media era di 30. La piattaforma informatica si basa sul software libero e open source Globaleaks che continuiamo a sviluppare ormai dal 2011 e che migliaia di enti e organizzazioni nazionali e internazionali utilizzano già per ricevere le segnalazioni, come l’Autorità Anticorruzione della Catalogna, Il Sole24ore, la Corte Penale Internazionale dell’Aia oltre a centinaia di PA locali. Il vantaggio principale di questo software è la garanzia dell’anonimato tecnologico: non sarà possibile per nessuno risalire all’identità di chi segnala a meno che il whistleblower stesso non decida di rivelarlo” ha dichiarato Fabio Pietrosanti, Presidente del Centro Hermes. 3,2 milioni di dipendenti pubblici italiani potrebbero beneficiare di questa iniziativa. Ma non solo loro, la nuova legge prevede tutele anche per i collaboratori, i consulenti e i lavoratori delle imprese che forniscono beni o servizi all’ente e che decidono di segnalare. I dati di ANAC infatti evidenziano che le segnalazioni arrivate nel 2018 sono soprattutto di dipendenti pubblici (188), ma quest’anno, grazie agli effetti della nuova legge che allarga le tutele a nuovi soggetti, sono aumentate le segnalazioni da parte di dipendenti di imprese fornitrici. Belluno: il Provveditore Sbriglia “verso il trasloco dei detenuti malati psichiatrici” Il Gazzettino, 2 ottobre 2018 Il dirigente rassicura e la polizia penitenziaria sospende lo sciopero. “Prendo positivamente atto che le organizzazioni Sindacali della Polizia Penitenziaria hanno deciso di porre termina all’astensione della fruizione del servizio di mensa gratuito per il personale avente diritto”. Esordisce così il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto, Enrico Sbriglia, dopo l’astensione degli agenti scattata in queste settimane sul problema dell’Articolazione di salute mentale nel carcere di Baldenich, ma ora rientrata. “Mi pare un segno di responsabilità e di fiducia verso l’Amministrazione - prosegue Sbriglia. Continuare la protesta, ancorché effettuata in modo civile e con grande dignità, null’altro poteva aggiungere a ciò che già, da parte di questo ufficio, era stato fatto”. E il provveditore ricorda il lavoro svolto per il trasferimento della sezione che ospita 6 detenuti malati di mente: “Ho sollecitato il mio Dipartimento in Roma, al fine di ricevere il più veloce riscontro alla proposta formulata di trasferimento dell’Articolazione di Salute Mentale da Belluno a Padova, e lo farò ancora più convintamente, per mostrare come non si sia inteso deludere le aspettative dei poliziotti penitenziari bellunesi. Ciò detto, però, è doveroso sottolineare come difficoltà analoghe si registrino, in verità, nella generalità degli istituti del Triveneto e a livello nazionale”. “Non sono abituato ad assumere impegni che poi non onori fino in fondo - prosegue il provveditore, però non voglio neanche affermare che tutto sarà facile e veloce per Belluno: le carte possono essere anche tempestive, le mie decisioni pure, però la partita di cui stiamo parlando richiede la discesa in campo di altri giocatori istituzionali. Personalmente sono sicuro che quest’ultimi non rimarranno inerti, però i tempi non potrò certamente dettarli io”. “Nell’occasione - conclude - preciso che l’Amministrazione Centrale si era espressa in termini negativi per una prima soluzione, ma nel contempo ha mostrato di considerare fattibile una ulteriore ipotesi che era stata suggerita dal mio ufficio e per la quale stiamo aspettando, ad oggi, una ricognizione ad hoc”. Verona: tra cavalli e catene di montaggio “lavorare dà dignità ai detenuti” di Marianna Peluso Corriere Veneto, 2 ottobre 2018 Il carcere offre chance di reinserimento. Bregoli: no ai pregiudizi. L’ultima cosa che ci si aspetterebbe di trovare in carcere è un gregge di pecore. Eppure non è così raro che accada nella casa circondariale di Montorio, dove gli animali sono impiegati per la pet therapy. “Ci sono anche cani, cavalli e conigli - ha spiegato l’assistente della polizia penitenziaria che ha fatto da guida ai 92 veronesi che hanno aderito all’iniziativa “Domenica: carceri porte aperte” - occuparsi degli animali aiuta a sedare l’aggressività, ad affrontare la disintossicazione da stupefacenti e a instaurare nuovi legami affettivi”. I detenuti si occupano degli animali a turno, dedicando loro circa 5 ore diurne oltre le due ore d’aria. E il resto del tempo studiano in una delle 11 aule adibite alla formazione, leggono in biblioteca, partecipano a corsi sportivi o d’arte, guardano film nella sala cinema, lavorano e pregano. “Ci sono tre locali di culto, per soddisfare la fede di 40 nazionalità differenti - ha spiegato Fra Beppe Prioli dell’Associazione “La Fraternità”, che da 50 anni partecipa attivamente alla vita dei carceri italiani. Non voglio convincere nessuno a credere in quello in cui credo io: sono qui ogni giorno solo per ascoltare e accogliere”. Quella che si apre dietro le sbarre di via San Michele 15 è città in miniatura di 50.000 mq, dove l’assenza della libertà individuale è compensata da un ricco ventaglio di spunti, stimoli scolastici e proposte lavorative. Dei 420 detenuti totali (di cui 370 uomini e 50 donne), in 75 lavorano per l’amministrazione penitenziaria, occupandosi delle pulizie, della cucina, del sopravvitto e della manutenzione del fabbricato, mentre altre 67 sono assunte con contratti regolari a tempo determinato o indeterminato (dove per indeterminato, in questo caso, s’intende fino a fine pena) per conto terzi. “Lavorare dà dignità - ha proseguito l’agente - la maggior parte delle persone che entrano in carcere non ha mai lavorato, quindi è indispensabile l’alfabetizzazione per chi non conosce la lingua, la scolarizzazione per chi vuole intraprendere o concludere un percorso di studi e la formazione professionale, in vista di un reinserimento della società”. Se la cooperativa sociale Riscatto dà il nome a una linea di pelletteria made in carcere in vendita nella boutique Cordovano del centro, non è da meno il Progetto Quid che conta un laboratorio sartoriale nella sezione femminile e uno in quella maschile. “Abbiamo deciso di lavorare in carcere dopo aver conosciuto il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Margherita Forestan - ha raccontato Federica Collato, cofondatrice di Reverse, impresa sociale di falegnameria ecosostenibile. Grazie alla legge Smuraglia godiamo di sgravi fiscali per ogni contratto, ma a noi non basta: abbiamo appena chiuso un accordo con la Cisl nazionale per garantire maggiore qualità al lavoro dei detenuti”. Uno spazio della casa penitenziaria è dedicato alle catene di montaggio della srl “Lavoro & futuro” che prende in appalto commesse industriali e artigianali di costruzione e assemblaggio. “Profumi, bollini dei supermercati, interruttori, timer per forni, carrelli d’uso agricolo: da noi passano le più svariate tipologie di prodotto” ha illustrato il socio Giovanni Lugoboni. “Il carcere fa parte della società - ha concluso la direttrice Maria Grazia Bregoli. La comunità deve entrarvi per superare i pregiudizi. A giudicare ci pensa la magistratura, a noi compete solo il rispetto”. Napoli: malato terminale ma ancora detenuto nel carcere di Poggioreale cronachedellacampania.it, 2 ottobre 2018 “Il caso di Ciro Rigotti, malato terminale, detenuto nel carcere di Poggioreale, è un drammatico esempio del fallimento della sanità in Campania e, particolarmente, dell’Asl Napoli 1 Centro, che non riesce a garantire l’assistenza sanitaria ai detenuti di questo istituto penitenziario”. È quanto afferma il Segretario Federale di Sud Protagonista, Salvatore Ronghi, che, stamani, ha tenuto una conferenza stampa, davanti alla sede del Tribunale di Napoli, insieme con il portavoce cittadino, Luigi Ferrandino, e il presidente dell’Associazione ex detenuti, Pietro Ioia. Hanno partecipato alla conferenza stampa la figlia di Rigotti, che ha chiesto alla magistratura di consentire al proprio padre “di morire a casa sua, tra i propri affetti, e non tra le pareti di un carcere”. “La Regione non può continuare ad ignorare le gravi carenze della sanità nel carcere di Poggioreale, che sembra essere un luogo nel quale vengono vanificati i diritti fondamentali e, quindi, la dignità dei detenuti, anziché un istituto penitenziario in grado di garantire la rieducazione e il reinserimento sociale del detenuto. Per questo, il nostro movimento ha lanciato la campagna sociale e politica per la chiusura del carcere di Poggioreale e l’edificazione di nuove strutture carcerarie a misura d’uomo, una battaglia di giustizia e di civiltà che chiediamo a De Luca e De Magistris di condividere”- ha aggiunto Ronghi. “Non ci stancheremo mai di sottolineare l’ovvio, che tanto ovvio, nei fatti, non è: un detenuto deve pagare il proprio debito con la giustizia ma i suoi diritti devono essere tutelati, in primis il diritto alla salute, e ad una assistenza sanitaria adeguata e di qualità, soprattutto quando si verificano gravi patologie, come quella che ha colpito Rigotti. Tutto ciò a Poggioreale non accade. Da mesi denunciamo suicidi e malasanità all’interno delle carceri, e particolarmente a Poggioreale, e il dramma è che nessuno, sia sul piano nazionale che su quello locale, interviene per porre fine a tutto ciò e garantire un carcere giusto ed umano”. “La pena va espiata in un contesto di dignità, di recupero e di reinserimento sociale e non come avviene oggi in quelle carceri che hanno problemi strutturali come quello di Poggioreale” - ha aggiunto Ferrandino - per il quale “il Sindaco di Napoli e il Presidente della Regione Campania non possono continuare a girarsi dall’altra parte di fronte alla violazione dei diritti dei detenuti”. Napoli: a Nisida il Premio “Carlo Castelli” per la solidarietà farodiroma.it, 2 ottobre 2018 Il concorso che premia i detenuti che vogliono cambiare vita. Imparando dagli errori del passato si può aprire un nuovo capitolo della propria esistenza e si può davvero fare qualcosa di buono ed utile non solo per se stessi, ma anche per gli altri. A scrivere sono centinaia di reclusi che ogni anno partecipano con le proprie opere al Premio “Carlo Castelli” per la solidarietà, concorso letterario destinato ai detenuti delle carceri italiane promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli con la collaborazione del Ministero della Giustizia ed il patrocinio di Camera e Senato. Il tema dell’undicesima edizione, che quest’anno si tiene a Napoli, presso l’Istituto penale per minorenni di Nisida, è: “Un’altra strada era possibile: che cosa cambierei nella società e nella mia vita”. Alla cerimonia di assegnazione dei premi seguirà un convegno dal titolo: “Strade sbagliate, vie alternative”, con la presenza di esperti relatori, tra cui Luigi Accattoli, Maria Rita Parsi, Laura Nota, Ettore Cannavera e la partecipazione del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio on. Vincenzo Spadafora. È importante sottolineare il ruolo pedagogico del carcere, che non deve essere solo punitivo ma riabilitativo: “Scrivere - ha commentato il Presidente nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli Antonio Gianfico - è un modo per restituire almeno ciò che è possibile alla società, a chi è rimasto offeso, vittima di reati e di crimini. Per questo motivo abbiamo deciso di coinvolgere ancora di più i detenuti affinché con le loro testimonianze producano frutti non solo all’interno del carcere, ma anche all’esterno”. Sono oltre 230 gli elaborati pervenuti alla giuria. Tra questi Tra i numerosi elaborati pervenuti alla giuria da molti istituti penitenziari di tutt’Italia, tre sono stati premiati, dieci segnalati e tutti dieci sono stati segnalati raccolti nell’antologia: “Alla ricerca della strada perduta”, insieme alle prime tre opere premiate. La formula del concorso è particolare, perché si basa sulla solidarietà nella condivisione dei premi che vengono suddivisi tra il vincitore e una buona causa nel sociale, per permettere a chi ha sbagliato nella vita di riscattarsi offrendo un contributo alla società. Imparando dagli errori del passato si può aprire un nuovo capitolo della propria esistenza e si può davvero fare qualcosa di buono ed utile non solo per se stessi, ma anche per gli altri. A scrivere sono centinaia di reclusi che ogni anno partecipano con le proprie opere al Premio “Carlo Castelli” per la solidarietà, concorso letterario destinato ai detenuti delle carceri italiane promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli con la collaborazione del Ministero della Giustizia ed il patrocinio di Camera e Senato. Il tema dell’undicesima edizione, che quest’anno si tiene a Napoli, presso l’Istituto penale per minorenni di Nisida, è: “Un’altra strada era possibile: che cosa cambierei nella società e nella mia vita”. Alla cerimonia di assegnazione dei premi seguirà un convegno dal titolo: “Strade sbagliate, vie alternative”, con la presenza di esperti relatori, tra cui Luigi Accattoli, Maria Rita Parsi, Laura Nota, Ettore Cannavera e la partecipazione del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio on. Vincenzo Spadafora. È importante sottolineare il ruolo pedagogico del carcere, che non deve essere solo punitivo ma riabilitativo: “Scrivere - ha commentato il Presidente nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli Antonio Gianfico - è un modo per restituire almeno ciò che è possibile alla società, a chi è rimasto offeso, vittima di reati e di crimini. Per questo motivo abbiamo deciso di coinvolgere ancora di più i detenuti affinché con le loro testimonianze producano frutti non solo all’interno del carcere, ma anche all’esterno”. Sono oltre 230 gli elaborati pervenuti alla giuria. Tra questi Tra i numerosi elaborati pervenuti alla giuria da molti istituti penitenziari di tutt’Italia, tre sono stati premiati, dieci segnalati e tutti dieci sono stati segnalati raccolti nell’antologia: “Alla ricerca della strada perduta”, insieme alle prime tre opere premiate. La formula del concorso è particolare, perché si basa sulla solidarietà nella condivisione dei premi che vengono suddivisi tra il vincitore e una buona causa nel sociale, per permettere a chi ha sbagliato nella vita di riscattarsi offrendo un contributo alla società. Reggio Calabria: bimbi in carcere con le madri, dibattito sulla detenzione femminile di Serena Guzzone strettoweb.com, 2 ottobre 2018 “Mai più bimbi in carcere”: a Reggio Calabria il dibattito pubblico promosso dall’Associazione Culturale Bene Sociale Biesse. Si comincia giorno 11 ottobre ore 17.00 presso Spazio Open via Filippini a Reggio Calabria: dopo il caso Rebibbia si discuterà della condizione della donna madre all’interno delle carceri italiane. “Un tema di cui si parla poco e che invece merita maggiore attenzione, questo ci ha spinto-dice La Presidente Biesse Bruna Siviglia- ad accendere i riflettore su un argomento molto delicato e complesso”. A parlarne importante addetti ai lavori, tra cui: il Garante dei diritti dei detenuti de Comune di Reggio Calabria, Avv. Agostino Siviglia, l’Avv. Giampaolo Catanzariti, Referente Territoriale Osservatorio Carcere e componente della Camera Penale, il Giornalista e Capo Ufficio Spampa dell Consiglio Regionale della Calabria Romano Pitaro, che modererà il dibattito. Ad aprire i lavori la Presidente Biesse Bruna Siviglia, che afferma: “queste sono le vere battaglie civili per le donne e i bambini, nessun bambino dovrebbe essere privato di una propria libertà e della possibilità di vivere in un ambiente favorevole per la propria crescita umana, mai più bambini in carcere”. Palermo: giovani detenuti in barca a vela per circumnavigare la Sicilia palermotoday.it, 2 ottobre 2018 Progetto di recupero per 9 ragazzi che salperanno dal porto di Palermo. Il viaggio durerà 20 giorni: “Opportunità di riscatto di vita ma anche strumento per sviluppare nuove competenze e imparare le manovre principali per collaborare attivamente alla conduzione dell’imbarcazione”. Il mare come scuola di vita, come luogo senza barriere e senza filtri, capace di raccontare e custodire le storie di giovani che proprio su quel mare ritrovano l’autostima e vincono le sfide, accettando le regole e osservando la terra da un nuovo punto di vista. Sono le storie di nove ragazzi del circuito penale minorile, coinvolti nel nuovo progetto “Vento da Sud”, il viaggio di circumnavigazione in barca a vela promosso da Centro Koros ed Eterotopia Laboratorio Navigante in collaborazione con l’Unione italiana vela solidale, che salperà domani dal porto di Palermo. “Quasi un mese di navigazione a vele spiegate nel segno della legalità e dell’inclusione sociale, che attraverserà una Sicilia sconosciuta e nascosta agli occhi dei ragazzi, con l’obiettivo di attivare percorsi di cambiamento - si legge in una nota. Undici tappe durante le quali il gruppo prenderà parte a numerose iniziative associative e imprenditoriali del territorio. La barca a vela diventerà opportunità di riscatto di vita per i giovani, ma anche strumento per sviluppare nuove competenze e imparare, con il supporto di psicoterapeuti, skipper e operatori di vela solidale, le manovre principali per collaborare attivamente alla conduzione dell’imbarcazione”. La prima tappa di questo viaggio controcorrente, che vedrà un primo gruppo di 5 minori, sarà San Vito lo Capo (Trapani), per poi proseguire verso Favignana (5 ottobre), Sciacca (7 ottobre), Licata e Portopalo (8-9-10-11 ottobre). L’imbarcazione farà poi rotta verso Siracusa (13 ottobre), dove verrà imbarcato il secondo gruppo, continuando verso Catania (14 ottobre), Reggio Calabria (15-16 ottobre), Lipari (17 ottobre). Dopo il giro alle Isole Eolie, ‘Vento da Sud’ ormeggerà a Cefalù (19-20 ottobre) e Termini Imerese (21 ottobre), ultima tappa di questo lungo itinerario, terminando la sua rotta a Palermo il 23 ottobre. Napoli: “Danze orientali in carcere”, un libro sulle detenute di Pozzuoli La Repubblica, 2 ottobre 2018 Martedì 2 ottobre 2018, alle 17, l’incontro della Fondazione premio Napoli con le autrici Annalisa Virgili e Ornella d’Anna. Cosa vuol dire per una donna essere “libera”? E cosa accade alle “diversamente libere” che sono rinchiuse in una casa circondariale? A queste e ad altre domande prova a rispondere il volume “Danze orientali dall’interno del carcere - Cinque anni nell’harem di Pozzuoli” (Grafica Elettronica, 2017). Curato da Annalisa Virgili e Ornella d’Anna, con prefazione dello scrittore Maurizio de Giovanni e postfazione di Piero Avallone, magistrato del Tribunale per i minorenni di Napoli, il libro sarà presentato martedì 2 ottobre alle 17 nella sede della Fondazione Premio Napoli, all’interno di Palazzo Reale, con un incontro introdotto da Domenico Ciruzzi e Alfredo Contieri, rispettivamente presidente e vice della Fondazione. Interverranno Annalisa Virgili, Ornella d’Anna e Piero Avallone. Tra il 2012 e il 2016 nella Casa circondariale femminile di Pozzuoli è stato attuato con le detenute un progetto basato su corsi e spettacoli di danze orientali, organizzati con la partecipazione delle ospiti della struttura. Da quell’esperienza ha origine un testo che vuole raccontarne le difficoltà, le emozioni e i risultati, indagando con l’aiuto di quanto detto dai vari rappresentanti del mondo istituzionale anche le possibili soluzioni alternative alla pena detentiva e gli eventuali percorsi di reinserimento sociale. Attraverso interviste, disegni e immagini il libro ripercorre le storie delle donne rinchiuse e di chi le osserva “dal di fuori”. Non ci sono dita puntate né barricate: è un susseguirsi di emozioni e sentimenti propri a tutti gli esseri umani. “Attraverso”, un documentario che racconta quant’è dura la difesa dei diritti di Greta Marchesi Il Dubbio, 2 ottobre 2018 Il reportage sul ruolo sociale dell’avvocato nella tutela dei diritti dei rifugiati. Funzione sociale e ruolo dell’Avvocato. La difesa come diritto di ciascun essere umano. Tutela dei diritti dell’uomo. Cultura della legalità e comune coscienza dei principi fondanti la nostra Repubblica e le moderne democrazie. Questi i lati dell’ideale cornice posta dall’Ordine degli Avvocati di Trento all’interno della quale realizzare un reportage su un tema di dolente attualità: migrazioni, rifugiati e accoglienza. Il documentario è stato voluto per significare la necessaria funzione dell’Avvocatura, garante della tutela dei diritti violati di donne, uomini, minori e più in generale di soggetti deboli ai margini della società e, in parallelo, il ruolo concorrente di Istituzioni, terzo settore e parte della cittadinanza attiva nel dare sostanza alle politiche per l’accoglienza sul territorio trentino. Il reportage “Attraverso”, di Federico Betta, è stato realizzato per rivolgersi in particolare alle nuove generazioni e venire proposto dall’Ordine forense soprattutto agli istituti superiori, nel contesto di un ampio programma di Alternanza scuola lavoro che vedrà la partecipazione anche della Fondazione Museo Storico. Questo progetto, condiviso con Fondazione Caritro, Cinformi, Consorzio dei Comuni trentini, in piena coerenza all’impegno del Consiglio Nazionale Forense, si cala saldamente nel solco delle numerose iniziative promosse a favore della comunità da parte dell’avvocatura trentina, per promuovere una corretta informazione e una diffusa coscienza civile, in questo caso sul tema dei migranti richiedenti protezione internazionale e di coloro che ne tutelano i diritti. Oggi, infatti, un certo modello di comunicazione nevrotica, fatta di slogan suggestivi quanto seducenti, ha infettato quindi intossicato molte coscienze individuali e collettive. Una comunicazione cinica che, grazie ad abili imprenditori del con- senso, sfrutta e al tempo stesso amplifica quel diffuso senso di insicurezza sociale che alimenta violente “demagogie del nemico”. Un linguaggio divisivo, che nel mortificare - azzerandolo - il dialogo sui temi di più stringente rilevanza per le sorti della società, offre il campo all’affermazione di nuovi populismi. Per questo, dobbiamo lavorare per invertire la rotta, non dimenticando le future generazioni: i diritti fondamentali dell’uomo non sono merce; non sono opinioni; non sono negoziabili. Il documentario racconta la realtà con un linguaggio sobrio, né pietistico o trionfalista: una realtà che, seppur perfettibile, è fatta da persone che con impegno quotidiano cooperano per la tutela dei diritti. L’obiettivo è mostrare come sia necessario che integrazione e inclusione siano i fattori necessari per fronteggiare il drammatico fenomeno migratorio. Sullo sfondo, invece, questioni complesse sollecitano politica e società, facendo tremare finanche le basi dell’Unione europea. Il tema giuridico centrale, affrontato con riti spesso sommari da accusatori e difensori non sempre in buona fede, è quello del capire come gestire l’enorme carico di richieste di protezione, da un lato garantendo tutela a chi ne ha diritto, dall’altro evitando che solo alcuni Paesi siano coinvolti da un fenomeno globale. Attraverso è stato realizzato nel 2017 ma oggi, seppur nel contesto di differenti rapporti fra Italia e Libia, è di ancor più stringente attualità, viste le quotidiane cronache che mettono a nudo le profonde debolezze di un’Europa incapace di trovare una comune soluzione e sempre più bloccata dai nazionalismi. L’obiettivo del lavoro è stato spiegato dal regista Federico Betta: “Oggi il problema dell’accoglienza di chi sbarca sulle nostre coste è percepito come altamente critico. Attraverso vuole invece mostrare la possibilità di un incontro tra i rifugiati e le comunità che li ospitano. Mostrando dall’interno come si svolgono i processi di accoglienza nella Provincia di Trento, dalla città alle valli più nascoste, dai grandi centri di accoglienza fino alle case che accolgono piccoli gruppi di migranti, Attraverso è un viaggio tra i corpi e i racconti di chi sta vivendo quell’esperienza sulla propria pelle. Per conoscere, comprendere e forse smettere di avere paura”. In questo contesto, ha aggiunto il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Trento, Andrea de Bertolini, “l’avvocato è titolare di un significato emblematico: fra i diritti di ciascun individuo, vi è anche, senza incertezza, il diritto di ogni richiedente protezione a potersi difendere presentando le proprie ragioni in un giusto procedimento; il diritto ad essere trattato come persona, non come un numero fra le molte procedure pendenti. Nell’autentico spirito dell’art. 3 della Costituzione, l’Avvocato funge da presidio nel pretendere che ad ogni vita umana sia riconosciuta la medesima dignità e rispetto”. Presentato a giugno in anteprima dall’Ordine trentino in coincidenza con la firma del protocollo alternanza scuola lavoro, Attraverso è stato proposto al pubblico al Festival delle Resistenze di Trento e Bolzano, evento culturale che promuove il concetto di cittadinanza attiva e consapevole con un focus specifico teso alle politiche giovanili. Ed è notizia di questi ultimissimi giorni l’esser stato inserito nella Selezione Ufficiale dell’ottava edizione del Foggia Film Festival che si svolgerà dal 18 al 24 novembre. “Sono molto felice per la selezione ha commentato il regista Betta non è scontato che un documento dedicato alle scuole rientri nella Selezione Ufficiale di un Festival Nazionale”. Soddisfatta l’Avvocatura trentina e de Bertolini: “A Foggia. Oltre i nostri confini. Questo probabilmente anche in termini simbolici, in modo circolare, dà forza e svela ancor più la polisemia del titolo e dell’intero progetto: Attraverso. Quindi “Oltre”. Due termini simbiotici dalla densa carica di contenuti e di fiducie prospettiche. Per progredire verso una società identitaria in cui la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo sia davvero assunta dalle coscienze civili a patrimonio collettivo. Per la democrazia peggio delle false notizie ci sono le false verità di Glauco Giostra La Lettura, 2 ottobre 2018 Non solo “fake news”: occorre difendersi dalle “fake truth”, informazioni corrette su fatti reali che tuttavia, se diffuse in sequenza, possono dare una percezione distorta dei fenomeni. A vantaggio delle spinte demagogiche. Per una democrazia liberale il bene più prezioso è l’informazione: il diritto di partecipazione alla cosa pubblica, infatti, conserva effettivo significato soltanto in presenza di un’informazione attendibile e plurale; quando questa viene manipolata, tale diritto si riduce alla possibilità di esprimere opinioni eterodirette. A ragione, pertanto, si dibatte molto su come contrastare il preoccupante fenomeno delle fake news. Beninteso, gli “inventori di verità” sono sempre esistiti, talvolta causando drammatici epiloghi: basterebbe ricordare la diceria degli untori di manzoniana memoria. Oggi si è aggiunta la straordinaria proliferazione delle notizie false, la loro capillare diffusività per la forza moltiplicatrice dei social e la loro “permanenza telematica”. L’attuale saturazione informativa induce - con un meccanismo che i massmediologi chiamano di “risparmio cognitivo”-a far propri in modo acritico i messaggi perentoriamente assertivi, sebbene non sostenuti da alcun argomento o riscontro. La vita sociale diviene un mare torbido in cui il cittadino avido di notizie può facilmente abboccare a esche informative senza avvedersi dell’amo della menzogna. Fenomeno che si fa ancora più pericoloso quando le esche vengono posizionate secondo una precisa strategia da entità che mirano a sviare l’opinione pubblica dal suo fisiologico orientamento. Nonostante le controindicazioni del rimedio, si sta facendo strada l’idea di istituire un’Autorità indipendente in grado di bonificare l’offerta informativa dalle notizie false. Comunque, anche a prescindere da questa contromisura “istituzionale”, è sempre possibile, anche se in concreto non facile, che il “consumatore” svolga accertamenti per sbugiardare il prodotto conoscitivo che gli viene offerto. Esistono invece informazioni rispetto alle quali anche il più attrezzato e diffidente spirito critico risulta praticamente disarmato: sono le notizie vere, quando vengono enfaticamente proposte con incalzante successione. I riflettori dei media, orientati dalle leggi del mercato o dalla politica, seguono di volta in volta determinate tipologie di eventi che, nello specchio deformante dell’informazione, si ingigantiscono a dismisura. Non molto tempo fa, le notizie di alcuni casi di meningite fulminante, date con il clamore e con l’insistenza imposte dalle leggi della concorrenza mediatica, hanno determinato un’ansia collettiva che ha condotto a un’impennata dei vaccini del 30%, benché le autorità sanitarie avessero rassicurato sull’assoluta normalità statistica del fenomeno. Fenomeno che poi è tornato nel cono d’ombra del disinteresse dei media, nonostante queste manifestazioni patologiche continuino dolorosamente a verificarsi. Per venire all’attualità e su ben altro versante, si pensi al problema dell’immigrazione: avendovi la politica e i mezzi di comunicazione “appoggiato” una lente di ingrandimento, si registra una percezione del fenomeno sino a quattro volte superiore alla sua consistenza effettiva. Queste folate di insistita e talvolta morbosa attenzione mediatica inducono una percezione collettiva distorta dei problemi reali. Se si dà con molta enfasi la notizia di due ravvicinati episodi di mancato rientro di detenuti dal permesso premio, si induce l’impressione di un sistema lassista e fallimentare, nonostante la percentuale dei mancati rientri non raggiunga nella realtà l’uno per mille dei permessi concessi. In simili, frequentissime evenienze, si verifica un pericoloso fenomeno troppo spesso ignorato o superficialmente considerato un incendio al di là del fiume: la somma di tante notizie vere dello stesso tenore, offerte in martellante sequenza, produce, per così dire, una fake truth, una falsa verità o, forse meglio, una verità ingannevole. Con rilevanti conseguenze sociali e politiche. I fatti, posizionati davanti ai riflettori dei media, si proiettano sullo schermo della comunicazione sociale come enormi ombre cinesi, suscitando- in una “società emotiva” qual è l’attuale-ansie e allarmismi. Se la politica svolge il suo ruolo di indicare, al di là delle fibrillazioni contingenti, la via da seguire verso sorti, se non magnifiche, almeno progressive, il fenomeno resta confinato nella sua dimensione di psicologia collettiva. Ma se su di esso si innesta un’azione di governo sagomata sui sondaggi, se la cometa della politica, anziché precedere, segue i re magi dell’opinione pubblica per assicurarsene l’assenso, il cammino civile di un popolo diviene inevitabilmente ondivago ed esposto a ogni regressione sull’onda emotiva generata da queste “verità ingannevoli”. Ciò è particolarmente evidente sul piano della politica penale. Di fronte a un ingiustificato allarmismo per talune condotte devianti, non ci si preoccupa di rassicurare fornendo i dati reali del fenomeno: si ha infatti il timore di deludere la collettività che potrebbe sentirsi non capita e voltare elettoralmente le spalle. Tanto meno ci si preoccupa di rimuovere o contenere le cause di tali condotte, approccio molto impegnativo che darebbe risultati nel medio-lungo periodo e quindi non spendibili nel mercato del consenso. Ci si preoccupa solo di esibire una muscolarità sanzionatoria, che ovviamente non risolve alcun problema, ma ha il vantaggio di non costare nulla e di ostentare sollecita attenzione per le preoccupazioni dei cittadini-elettori. Capita così di assistere spesso a scriteriati interventi legislativi, con i quali il Dulcamara di turno prepara pozioni normative con cui imbonire l’opinione pubblica. Sul finire degli anni Settanta per contrastare il fenomeno dei sequestri di persona si stabilì per il relativo reato un minimo edittale di pena superiore a quello previsto per l’omicidio. In tempi più recenti si è introdotto il delitto di omicidio stradale, quasi che un’autonoma e più grave figura di reato - e non la prevenzione, i controlli e le inibizioni amministrative - potesse fronteggiare la criminale tendenza a mettersi alla guida in condizioni psichicamente alterate. Ma tutto lascia intendere che l’odierna stagione politica non tema confronti su questo terreno del diritto penale à la carte. È all’esame del Parlamento una proposta della Lega che, tra l’altro, si preoccupa di fronteggiare il fenomeno dei furti e delle rapine in casa concedendo una licenza di uccidere per respingere l’intrusione mediante effrazione nel proprio domicilio. Per soprammercato, si esibisce anche una “rodomontata punitiva” nei confronti degli autori del furto con strappo. La trovata, non certo originale, è quella di includere questo reato nell’elenco dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, che prevede il divieto di concessione di qualsiasi misura alternativa nel corso dell’esecuzione della pena. Si tratta di una norma inizialmente prevista per la criminalità mafiosa e poi divenuta una sorta di attaccapanni penale cui appendere il reato “stagionale” secondo le esigenze demagogiche del momento, dissennatamente ignorando ogni criterio di razionalità e di proporzione. Ebbene, se fosse approvata questa proposta di legge, al condannato per aver strappato la borsetta a una signora sarebbe preclusa a priori ogni misura risocializzante, a cui invece potrebbe essere ammesso il colpevole del delitto di strage. Ovviamente è del tutto irrilevante, nell’ottica demagogica, che tanto i reati “domiciliari”, quanto i furti con strappo siano statisticamente declinanti: la loro narrazione mediatica ha un forte impatto emotivo sulla popolazione, e tanto basta per cavalcarli. Le conseguenze di quest’andazzo - improvvido, ma purtroppo remunerativo in termini di consenso - sono molto gravi. Tanto più gravi, perché insidiose e inavvertite. Anzitutto, il sistema normativo perde progressivamente di razionalità, e quindi di credibilità. E una collettività che non ha più fiducia nella propria giustizia è votata alla disarticolazione in lobby e gruppi di potere. Nell’agone politico, poi, sono penalizzati coloro che propongono progetti impegnativi e lungimiranti a tutto vantaggio dei professionisti della comunicazione per slogan, tweet e toni stentorei. Il sistema scivola ineluttabilmente verso una democrazia “taroccata”. O meglio, a voler chiamare le cose con il loro giusto nome, verso quella forma degenerata di democrazia che da più di duemila anni prende nome di oclocrazia: cioè governo delle masse, della gente, delle moltitudini; in definitiva delle loro pulsioni e dei loro istinti. E in questi duemila anni la storia ha offerto non pochi esempi dell’infausto e spesso drammatico destino che attende le oclocrazie. Il potere politico delle armi di Manlio Dinucci Il Manifesto, 2 ottobre 2018 Si discute della finanziaria in deficit, ma si tace sul fatto che l’Italia spende ogni anno miliardi a scopo militare. Mercati e Unione europea in allarme, opposizione all’attacco, richiamo del presidente della Repubblica alla Costituzione, perché l’annunciata manovra finanziaria del governo comporterebbe un deficit di circa 27 miliardi di euro. Silenzio assoluto invece, sia nel governo che nell’opposizione, sul fatto che l’Italia spende in un anno una somma analoga a scopo militare. Quella del 2018 è di circa 25 miliardi di euro, cui si aggiungono altre voci di carattere militare portandola a oltre 27 miliardi. Sono oltre 70 milioni di euro al giorno, in aumento poiché l’Italia si è impegnata nella Nato a portarli a circa 100 milioni al giorno. Perché nessuno mette in discussione il crescente esborso di denaro pubblico per armi, forze armate e interventi militari? Perché vorrebbe dire mettersi contro gli Stati uniti, l’”alleato privilegiato” (ossia dominante), che ci richiede un continuo aumento della spesa militare. Quella statunitense per l’anno fiscale 2019 (iniziato il 1° ottobre 2018) supera i 700 miliardi di dollari, cui si aggiungono altre voci di carattere militare, compresi quasi 200 miliardi per i militari a riposo. La spesa militare complessiva degli Stati uniti sale così a oltre 1.000 miliardi di dollari annui, ossia a un quarto della spesa federale. Un crescente investimento nella guerra, che permette agli Stati uniti (secondo la motivazione ufficiale del Pentagono) di “rimanere la preminente potenza militare nel mondo, assicurare che i rapporti di potenza restino a nostro favore e far avanzare un ordine internazionale che favorisca al massimo la nostra prosperità”. La spesa militare provocherà però nel budget federale, nell’anno fiscale 2019, un deficit di quasi 1.000 miliardi. Questo farà aumentare ulteriormente il debito del governo federale Usa, salito a circa 21.500 miliardi di dollari. Esso viene scaricato all’interno con tagli alle spese sociali e, all’estero, stampando dollari, usati quale principale moneta delle riserve valutarie mondiali e delle quotazioni delle materie prime. C’è però chi guadagna dalla crescente spesa militare. Sono i colossi dell’industria bellica. Tra le dieci maggiori produttrici mondiali di armamenti, sei sono statunitensi: Lockheed Martin, Boeing, Raytheon Company, Northrop Grumman, General Dynamics, L3 Technologies. Seguono la britannica Bae Systems, la franco-olandese Airbus, l’italiana Leonardo (già Finmeccanica) salita al nono posto, e la francese Thales. Non sono solo gigantesche aziende produttrici di armamenti. Esse formano il complesso militare-industriale, strettamente integrato con istituzioni e partiti, in un esteso e profondo intreccio di interessi. Ciò crea un vero e proprio establishment delle armi, i cui profitti e poteri aumentano nella misura in cui aumentano tensioni e guerre. La Leonardo, che ricava l’85% del suo fatturato dalla vendita di armi, è integrata nel complesso militare-industriale statunitense: fornisce prodotti e servizi non solo alle Forze armate e alle aziende del Pentagono, ma anche alle agenzie d’intelligence, mentre in Italia gestisce l’impianto di Cameri dei caccia F-35 della Lockheed Martin. In settembre la Leonardo è stata scelta dal Pentagono, con la Boeing prima contrattista, per fornire alla Us Air Force l’elicottero da attacco Aw139. In agosto, Fincantieri (controllata dalla società finanziaria del Ministero dell’Economia e delle Finanze) ha consegnato alla Us Navy, con la Lockheed Martin, altre due navi da combattimento litorale. Tutto questo va tenuto presente quando ci si chiede perché, negli organi parlamentari e istituzionali italiani, c’è uno schiacciante consenso multipartisan a non tagliare ma ad aumentare la spesa militare. Migranti. La condanna in primo grado non fa scattare l’espulsione di Valentina Errante Il Messaggero, 2 ottobre 2018 Il decreto sicurezza arriva al Colle, modificato su permessi umanitari e coperture. Viminale: nessuna modifica, sull’asilo deciderà la Commissione Migranti. Le modifiche, come previsto, sono arrivate. Ma solo per evitare i rilievi del Quirinale, al quale il decreto è stato trasmesso ieri. Così, nonostante il Viminale ribadisca che il testo del decreto Sicurezza sia identico alla prima versione approvata in consiglio dei ministri la scorsa settimana, se non per le clausole finanziarie che non dovranno prevedere alcuna spesa ulteriore, a cambiare, di fatto, è l’articolo 10, modificato anche nel titolo. Un passaggio fondamentale: i richiedenti asilo che siano stati condannati in primo grado per reati di particolare allarme sociale o che siano semplicemente indagati non potranno essere allontanati dal territorio nazionale, come era stato inizialmente previsto. Le domande di asilo non verranno sospese, come indicato nella prima stesura, ma la commissione territoriale dovrà convocare gli interessati e decidere rapidamente sull’istanza. Solo nel caso di una bocciatura, gli aspiranti dovranno lasciare il territorio nazionale, senza attendere l’esito del ricorso. Nonostante le modifiche il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, tuona: “Il richiedente asilo commette un reato? Immediata convocazione in Commissione, sospensione ed espulsione, questo accadrà. Un passo in avanti per tornare ad essere un Paese normale”. Ma il testo del decreto sicurezza, inviato al Quirinale, non prevede alcuna espulsione e neppure l’allontanamento o la bocciatura automatica della domanda per chi abbia una sentenza non definitiva. Nel documento diffuso il 24 settembre, alla chiusura del consiglio dei ministri, l’articolo 10 del decreto riguardava la “Sospensione del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale”. Nella versione definitiva, inviata al Quirinale, l’articolo 10 riguarda invece il “Procedimento immediato innanzi alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale”. In pratica, nel caso in cui un richiedente asilo venga condannato “anche con sentenza non definitiva”, per un reato di particolare allarme sociale (dal terrorismo alla violenza sessuale, fino alla rapina) “il questore ne dà tempestiva comunicazione” alla commissione territoriale deputata a decidere sulla domanda di asilo “che provvede nell’immediatezza all’audizione dell’interessato e adotta contestuale decisione”. Solo in caso di rigetto “il richiedente ha l’obbligo di lasciare il territorio nazionale, in pendenza di ricorso avverso la decisione della commissione”. La prima versione, invece, prevedeva che la Commissione sospendesse l’esame della domanda, e, quando fosse sopraggiunta una sentenza, anche di primo grado. per il richiedente si prevedeva “l’obbligo di lasciare il territorio nazionale”. In mezzo c’era stato un altro ritocco, anche su suggerimento di via Arenula: prevedeva che la commissione decidesse caso per caso. Le modifiche che ammette il Viminale sono, invece, quelle richieste dal ministero dell’Economia per la bollinatura della Ragioneria generale. L’impegno di spesa è scomparso, in quasi tutti gli articoli del decreto, come in quello che prevede il raddoppio del tempo di trattenimento in vista delle espulsioni: “Dall’attuazione delle disposizioni... non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Decreto sicurezza e diritto d’asilo. Così è stato modificato per evitare bocciature di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 2 ottobre 2018 “Il testo non è blindato e il Parlamento può migliorarlo”, aveva detto il titolare dell’Interno Matteo Salvini dopo l’approvazione del decreto sicurezza in Consiglio dei ministri. E invece è stato proprio il Viminale a doverlo modificare prima dell’invio al Quirinale, per ottenere il via libera. Nei giorni scorsi c’erano state diverse “critiche” per le scelte sull’iter imposto ai richiedenti asilo e perplessità sulla decisione di procedere con decreto senza che ci fossero - per molte materie trattate - i requisiti di necessità e urgenza. I contatti tra gli uffici legislativi - che hanno coinvolto anche la Giustizia - sono stati continui e alla fine si è arrivati alla mediazione in particolare per l’articolo sulla procedura da seguire per gli stranieri che invocano il riconoscimento dello status di rifugiato, ritenuto maggiormente a rischio bocciatura perché incostituzionale. E nuova stesura della norma, mentre altre “aggiunte” sono state inserite per avere la “bollinatura” della Ragioneria dello Stato. La sospensione - Nella prima versione dell’articolo io era prevista la “sospensione del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale”. Veniva stabilito che “nel caso in cui il richiedente è sottoposto a procedimento penale, la Commissione territoriale sospende l’esame della domanda e il richiedente ha l’obbligo di lasciare il territorio nazionale”. Una scelta che però - questo è stato sottolineato - non lasciava alcuno spazio di difesa, anche tenendo conto che era stato concesso di “chiedere la riapertura del procedimento sospeso, entro dodici mesi dalla sentenza definitiva di assoluzione”. Mentre “trascorso tale termine la commissione territoriale dichiara l’estinzione del procedimento”. La convocazione - La nuova stesura ha invece come titolo “procedimento immediato innanzi alla commissione” e stabilisce: “Quando il richiedente è sottoposto a procedimento penale oppure è stato condannato anche con sentenza non definitiva, il questore ne dà tempestiva comunicazione alla commissione territoriale che provvede nell’immediatezza all’audizione dell’interessato e adotta contestuale decisione”. C’è dunque un’istruttoria obbligatoria. Ed era proprio questo uno dei punti evidenziati dai giuristi per non incorrere in una “bocciatura”. Una modifica imposta per concedere il via libera, anche se in serata il ministro prova a rilanciare prima negando che “il testo ha subìto modifiche” e poi dichiarando: “Il richiedente asilo commette un reato? Immediata convocazione in Commissione, sospensione ed espulsione, questo accadrà. Un passo in avanti per tornare ad essere un Paese normale”. Nello stesso articolo rimane invece “l’obbligo di lasciare il territorio nazionale, anche in pendenza di ricorso avverso la decisione della commissione”. Le “coperture” Dal ministero dell’Economia era stato chiesto di inserire la precisazione che “dall’attuazione delle nuove norme non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” Un chiarimento che vale in particolare per la norma con la quale si prevede “il raddoppio della durata massima del trattenimento dello straniero nei Centri di permanenza per il rimpatrio da 30 a 180 giorni”. I soldi dovranno essere trovati incidendo su altre “voci” perché l’Economia non consentirà alcuno stanziamento per l’entrata in vigore del provvedimento, anche se questo potrebbe avere dei rischi sulla conversione in Parlamento. Sì del Comune di Milano alla coltivazione di cannabis terapeutica di Chiara Baldi La Stampa, 2 ottobre 2018 Milano potrebbe diventare la prima città d’Italia a coltivare in loco la cannabis terapeutica: nella seduta di ieri il Consiglio comunale ha approvato una mozione, presentata dal vicecapogruppo di Forza Italia a Palazzo Marino, Alessandro De Chirico, per la coltivazione della marijuana a scopi terapeutici proprio sul suolo cittadino. 30 i voti favorevoli, 7 i contrari, tra i quali quelli di Lega e Forza Italia. Tra le richieste del Consiglio, anche quella di un tavolo di confronto con enti universitari, istituti di ricerca ed enti sanitari per monitorare gli esiti della ricerca e della sperimentazione. La produzione in Italia A oggi la coltivazione di questo tipo di cannabis spetta in via esclusiva all’Esercito che la produce nello stabilimento farmaceutico di Firenze. “La quantità prodotta in questa sede è insufficiente alla richiesta che c’è nel paese da parte di persone che potrebbero beneficiarne”, spiega De Chirico. Ma proprio perché la produzione è inferiore alla domanda, recentemente il Ministero della Sanità ha rafforzato l’importazione di questa sostanza dall’Olanda e la Regione Lombardia ha deliberato la rimborsabilità della spesa da parte del Sistema sociosanitario regionale. Oltre che dall’Olanda, l’Italia importa cannabis per uso terapeutico anche dal Canada: a inizio anno sono stati acquistati 100 chili di canapa terapeutica da questo paese e ogni chilo importato è costato alle casse dello Stato 6mila euro. Secondo uno studio della Cia (Confederazione italiana agricoltori), in Italia ci sarebbero 20 milioni e 772 mila persone che soffrono di patologie dal tumore all’epilessia fino alla sclerosi multipla, passando per Hiv e sindrome di Gilles de la Tourette che possono essere trattate con la cannabis terapeutica. “Chiediamo al sindaco Sala di attivarsi con il governo per chiedere che il monopolio della produzione da parte dell’Esercito venga interrotto: a Milano c’è il Parco Sud che è il più grande parco agricolo d’Europa e ha un terreno adatto a questo tipo di coltivazione. Inoltre, in tutta Milano ci sono decine di cascine di proprietà comunale che potrebbero essere adibite a questa coltivazione. Se il Governo autorizzasse la coltivazione controllata della cannabis terapeutica da una parte si soddisfarebbe la domanda proveniente da malati gravi e dall’altra parte si creerebbero posti di lavoro”, ha concluso De Chirico. In Libia tra i migranti: “Privazioni e violenze. Uno su dieci è annegato” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 2 ottobre 2018 Nella chiesa San Francesco a Tripoli una donna racconta: “Sono stata stuprata per più giorni da tre miliziani libici. Lo fanno continuamente con noi ragazze africane”. “Sì, sono stata violentata per più giorni da tre miliziani libici. Lo fanno continuamente con noi ragazze africane. Io ho visto almeno altre 10 donne subire la stessa sorte. Per i libici è una cosa normale, scontata: torturano gli uomini e violentano le donne, almeno quelle sotto i quarant’anni, che poi sono la maggioranza tra le migranti”. È raro trovare in Libia una ragazza africana che ammetta di avere subito questo tipo di violenze. In genere ne parlano solo una volta sbarcate in Europa. A Tripoli e soprattutto nelle città e villaggi della regione hanno paura. Se le riconoscono a denunciare ciò che avviene, i loro aguzzini possono essere ancora più feroci. Ma forse tra le mura dalla cattedrale cattolica nella capitale Lily Susan si sente in qualche modo più protetta. “I miei violentatori erano i nostri carcerieri arabi dalla pelle bianca della milizia che opera nei quartieri tripolini di Yarmuk e Salahaddin. Due meno che trentenni, un altro sulla cinquantina”, specifica. Lily ha 35 anni e nel giugno 2017 è partita dalla Namibia. In Libia è approdata il 2 agosto dell’anno scorso. Poco dopo è stata catturata con il fidanzato, Austin Aduga, 38 anni, arrivato dalla Nigeria. “Le violenze sessuali si sono ripetute per due mesi dopo la cattura. Ci picchiavano con i calci dei mitra, urlavano, minacciavano. Gridavano che se non avessimo smesso di resistere ci avrebbero uccise. Poi sono arrivate altre donne e noi siamo state lasciate in pace”, continua lei. È una delle tante storie che raccogliamo durante la messa del venerdì mattina. La cattedrale dedicata a San Francesco è stracolma. Difficile trovare da sedere. L’unica bianca tra i fedeli è Iolanda Ingrassia, una 62enne originaria di Palermo, che dopo aver sposato un tripolino da oltre un trentennio risiede in Libia. “Non avrei mai pensato che questo Paese potesse sprofondare tanto in basso. Quattro dei miei cinque figli sono emigrati all’estero. Se non fosse che l’ultima mia figlia insiste per restare a esercitare il suo mestiere di medico in uno degli ospedali più importanti, anch’io me ne sarei tornata in Italia da un pezzo”. La funzione è cantata nei dialetti dei gruppi di fedeli della Nigeria e del Camerun, che sono al momento i più numerosi. “La nostra Chiesa rispecchia i cambiamenti di questo Paese. Ai tempi di Gheddafi venivano gli ultimi rimasti dell’antica comunità italiana. Poi sono arrivati i filippini impiegati come domestici nelle case benestanti. Ora sono gli africani intrappolati tra la ferocia delle milizie e la recente chiusura dei porti italiani al traffico di migranti”, commenta il sacerdote ufficiante, il frate francescano 47enne d’origine egiziana Magdi Helmy. È qui da 13 anni, ha subito ripetute minacce personali. Per gli estremisti islamici rimane un obbiettivo legittimo. “Ma di qua non mi muovo. Troppe anime hanno bisogno del nostro aiuto. Valutiamo che al momento siano oltre 20.000 i cristiani tra le masse di migranti”, dice deciso. Lui e tanti tra i suoi fedeli raccontano degli orrori che si consumano nelle celle delle milizie locali. “Voi giornalisti occidentali, le organizzazioni non governative e le agenzie Onu vi concentrate sulle poche migliaia di migranti chiusi nei sette o otto campi di detenzione ufficiali del governo libico. Ma dovete sapere che le tragedie più gravi sono altrove: è alle milizie che dovete chiedere di rendere conto”, esortano. Mercoledì scorso ci siamo così recati nel campo di detenzione a Khoms, uno dei luoghi dove vengono riportati i migranti appena ripescati in mare dai guardacoste nelle zone orientali della Tripolitania. Si chiama Sukh al Kamis e secondo il suo responsabile, colonnello Mustafa Ismahil, contiene al momento circa 350 persone. “Sono i sopravvissuti ai naufragi delle ultime settimane. Calcoliamo che circa uno su dieci tra quelli che riportiamo a riva sia affogato in alto mare”, dice. Meno di una settimana fa qui hanno trascorso una notte tragica: una trentina i salvati, ma oltre cento quelli che non rispondono all’appello. In celle minuscole coperte di scritte, nomi e appelli anche in francese ed inglese, i migranti-prigionieri restano sdraiati su povere stuoie in attesa di non si sa cosa. Tra i veterani c’è Yosef Barma, farmacista eritreo 38enne che a tutti porge una domanda molto semplice: “Per la legge internazionale sono un profugo politico, fuggo da una dittatura e ho diritto d’asilo. Chi può aiutarmi?”. Accanto a lui c’è il 36enne Mohammad Kandih immigrato 8 anni fa dal Gambia. “Per tutto questo tempo avevo lavorato bene in Libia come operaio specializzato. Mi sono sposato con Isab che ha 19 anni e mi ha dato nostro figlio Sumail, nato 9 mesi fa. Ma in giugno le milizie hanno fatto irruzione a casa nostra nelle periferie di Tripoli. Mi hanno derubato, portato via ogni cosa. È allora che mio padre in Gambia ha venduto tutti i suoi terreni e mi ha mandato 6.000 dollari per pagare gli scafisti e andare in Italia. Ma due notti fa siamo stati fermati dai guardacoste libici dopo sei ore di navigazione. Ci hanno riportati indietro. Ho perso tutto e così mio padre. Adesso ho una sola domanda: posso rivedere mia moglie e mio figlio? Sono chiusi qui vicino, ma non lasciano che io li incontri”. I miliziani libici di fronte al giornalista straniero si mostrano magnanimi. Le celle vengono aperte e la famiglia Kandih per un attimo può riabbracciarsi. Il piccolo Sumail piange di gioia nel rivedere il padre. Ma ora è tardi. Noi dobbiamo partire. E che sarà di loro? Stati Uniti. Nei centri non c’è posto per i baby-immigrati, trasferimenti nella tendopoli di Elena Molinari Avvenire, 2 ottobre 2018 Oltre 1.600 minori, trattenuti dalle autorità Usa per l’immigrazione, sono stati trasferiti di nascosto dai centri per rifugiati verso una mega tendopoli nel deserto del West Texas. La mossa era stata preannunciata nelle scorse settimane da alcune fonti anonime interne all’Amministrazione Trump, come risposta a un’esplosione della popolazione minorile nei centri di detenzione. I baby - immigrati in custodia sono oltre 13mila, più del quintuplo rispetto a poco più di un anno fa. Un aumento provocato dal costante numero di arrivi e dalla drastica riduzione dei rilasci: ormai le detenzioni dei minori soli durano molti mesi. Secondo i media Usa, d’ora in poi, ogni settimana, centinaia di adolescenti verranno svegliati nel cuore della notte per affrontare il viaggio in autobus fino alla loro nuova casa: la tendopoli di Tornillo, a sud-est di El Paso, al confine col Messico. Qui vengono divisi tra maschi e femmine, in gruppi di 20 e sistemati in letti a castello. A differenza dei tradizionali centri di accoglienza, a Tornillo non c’è scuola; ai bambini vengono dati dei manuali scolastici, ma non sono seguiti né obbligati allo studio. L’accesso ai servizi legali è limitato. Tornillo, dove i bambini si servono di toilette portatili e vivono in tende equipaggiate con aria condizionata, può ospitare fino a 3.800 persone. I trasferimenti hanno provocato l’allarme trai difensori dei rifugiati, già preoccupati per la lunghezza del periodo che i migranti minorenni passano in custodia federale. Guatemala. Scontri in un carcere, muoiono almeno sette detenuti Nova, 2 ottobre 2018 Almeno sette persone sono morte e altre quattro sono risultate ferite nel corso di uno scontro registrato domenica notte in un carcere del Guatemala. Lo scrive il quotidiano “Prensa Libre” citando le autorità penitenziarie. “Si conferma la morte di sette detenuti a causa di una rissa. I fatti si sono prodotti nella zona di isolamento. Nessun agente di custodia è stato ferito o ucciso”, ha detto il portavoce del sistema carcerario Rudy Esquivel. Al momento, secondo quanto riferisce la testata, non si conoscono i motivi esatti che hanno portato allo scontro. Il carcere “Pavoncito”, a circa venti chilometri a est della capitale Città del Guatemala, è indicato come struttura di “minima sicurezza”, in cui sono recluse persone che hanno commesso anche reati gravi ma che non sono considerati pericolosi. La struttura, che ospita 960 detenuti, era stata sottoposta a un controllo delle condizioni interne lo scorso 2 marzo. Il carcere è lo stesso al cui interno, nel 2013, si svolse un altro scontro chiuso con la morte di dodici detenuti.