Che gelida manina. Considerazioni sulla riforma penitenziaria. di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 29 ottobre 2018 È stato scritto e ripetuto, ormai molte volte, del plateale abbandono dello spirito riformista che aveva ispirato la stagione apertasi con gli Stati Generali, e poi proseguita con il varo delle Commissioni Ministeriali in materia penitenziaria; strada facendo, quell’anelito si è consumato, per pavidità, e si è fatta strada una politica sorda al ragionamento, e incline ai proclami populisti. Del resto, il Partito (lasciando solo il suo Ministro) che aveva promosso le riforme oggi fa asse (si direbbe un intergruppo) con la maggioranza di Governo, vuoi sostenendo “il grave turbamento psichico” in materia di legittima difesa, sia l’abolizione del rito abbreviato per talune ipotesi di reato. Non ha dunque molto senso ribadire, ancora una volta, ciò che poteva essere, “un grande avvenire dietro le spalle”. Più utile, forse, segnalare le ultime nefandezze emerse dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del 26 ottobre dei decreti legislativi, che mettono fine al lavoro compiuto, e alle speranze di chi attendeva risposte coerenti con la delega parlamentare. Vediamo. Quanto al decreto legislativo n.121/2018, concernente l’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, atteso da trent’anni, nel raffronto con lo schema di decreto trasmesso dal Cdm per i pareri emergono numerose, gravi, modifiche. Le soglie di pena per l’accesso alle misure di comunità vengono ritoccate al ribasso: da sei a quattro anni, per l’affidamento in prova, da quattro a tre, per la detenzione domiciliare, prevedendosi (per la semilibertà) la valorizzazione di un (oscuro) “significativo rapporto tra pena espiata e pena residua”. Contravvenendo al principio generale in materia penitenziaria, si prevede che (art.8) l’adozione delle misure non possa essere disposta d’ufficio. Le camere di pernottamento possono ospitare sino a un massimo di quattro persone (rispetto alle due originariamente previste), ed anche il periodo di permanenza all’aria aperta (quattro ore al giorno) può essere ridotto per specifici motivi. Sparita la vigilanza dinamica, le celle restano chiuse. Consentita la Sorveglianza particolare, ex art. 14 bis o.p. Ancora, con disposizione che trova traccia nel regolamento penitenziario (art.39, comma 7, DPR n.230/2000), “è sempre disposta la registrazione delle conversazioni telefoniche autorizzate su richiesta di detenuti o internati per i reati indicati nell’articolo 4 bis o.p.” (così recita l’art.19 del novello decreto). Manco a dirlo (a ciascuno il suo); le preclusioni dettate dalla norma carcerogena sopra citata erano state introdotte nello schema di decreto varato dal Governo Gentiloni, che non aveva recepito le indicazioni provenienti dalla Commissione Cascini. Così, dopo trent’anni di attesa, ai minori si consegna un armamentario di norme persino peggiorative rispetto a quelle vigenti per gli adulti, in aperto eccesso di delega. Gran lavoro per la Corte, e prima ancora per avvocati e giudici, se si conosce e rispetta la Costituzione. Quanto al decreto n.123 (già amputato di tutte le parti più importanti previste, e reso irriconoscibile), recante modifiche alle norme sull’ordinamento penitenziario in tema di assistenza sanitaria, l’art.1 (che modifica l’art.11) cancella quanto predisposto nel testo varato dalla Commissione Pelissero, di cui chi scrive ha fatto parte, laddove si era previsto che venisse documentata per via fotografica la presenza di violenze o maltrattamenti subiti dal detenuto. Nello schema poi licenziato e trasmesso per i pareri dal nuovo Governo, la “documentazione” di cui sopra era stata definita “comunicazione”, quasi a voler evocare la finalità per la quale il dato veniva raccolto, ma oggi viene soppressa, proprio nei giorni, e forse non a caso, nei quali emergono falsità seriali (ammesse dai loro autori) nella vicenda giudiziaria concernente l’uccisione di Stefano Cucchi. Così, com’è evidente, la (gelida) manina si fa strada ovunque; non solo in materia economico finanziaria, durante o dopo il Consiglio dei Ministri, ma anche nei vari (ed oscuri) passaggi che hanno accompagnato il testo del Governo. Cercar che giova? Al buio non si trova. *Avvocato Cosa c’entra il fascismo? Le evocazioni pericolose di Paolo Mieli Corriere della Sera, 29 ottobre 2018 Si può dissentire da ognuna delle misure prese in questi mesi dal governo Conte. In molti, moltissimi casi sarebbe persino doveroso reagire. È altresì necessario esprimere queste critiche nei modi più espliciti ed energici. Soprattutto in momenti come questo in cui la manovra economica rischia di provocare uno sconquasso finanziario che potrebbe travolgere l’intero Paese. Ma è quasi sempre sbagliato evocare - per dar forza a discorsi del genere - il ritorno di un regime fascista. Qualche giorno fa il Commissario europeo agli Affari economici Pierre Moscovici - non nuovo a questa metafora - ha reagito con stizza all’atto inqualificabile di un europarlamentare leghista, Angelo Ciocca, che aveva ostentatamente calpestato i suoi appunti. Moscovici ha detto che quel gesto andava considerato “pericoloso” perché “da qui al fascismo il passo è breve”. “Da qui al fascismo il passo è breve”? La guasconata di Ciocca era stata esecrabile, ma che c’entra il fascismo? Ci guarderemmo bene dal sollevare un caso se si trattasse soltanto di una battuta qualsiasi sfuggita ad un pur importante rappresentante europeo. Ma sappiamo per esperienza che l’evocazione del fascismo è fin dalla seconda metà degli anni Quaranta un rafforzativo quasi obbligatorio della polemica da sinistra (ma non solo) contro i detentori di ogni genere. Non soltanto politici ma anche personaggi dell’economia, agenti, magistrati, professori d’università e di scuola, preti, padri, fratelli sono stati gratificati con quell’epiteto: “fascista!”. L’esercizio - anche non improprio - di ogni tipo di autorità espone quasi naturalmente a questa accusa. Talché il termine “fascista” è venuto a perdere ogni rapporto con la realtà degli anni Venti e Trenta in cui è diventato d’uso comune nell’intera Europa. Restando in Italia e limitandoci alla politica, ben cinque presidenti della Repubblica si sono trovati ad esser lambiti da quella definizione: Giovanni Gronchi ai tempi in cui favorì la nascita del governo guidato da Fernando Tambroni sostenuto dai voti del Movimento sociale italiano (1960); Antonio Segni allorché si trovò coinvolto nel caso Sifar (1964); Giuseppe Saragat accusato di aver incoraggiato la strategia della tensione (1969); Giovanni Leone portato al Quirinale dai voti del Msi (1971); Francesco Cossiga per le sue compromissioni con il caso Stay Behind (1991). Quando il più importante presidente del Consiglio del dopoguerra, Alcide De Gasperi, estromise i comunisti dal governo (1947), di lui si disse e scrisse che aveva “rotto l’unità antifascista” - cosa che in effetti fece - ma con modalità tali da spalancare la porta ad un ritorno in scena degli eredi della Repubblica di Salò. Per Amintore Fanfani che aspirava ad essere eletto presidente della Repubblica (1971) fu creata addirittura la categoria del “fanfascismo”. “Fascista” fu definito Mario Scelba che resse per una decina d’anni il ministero dell’Interno con metodi sicuramente duri (anche se la legge del ‘52 contro la ricostituzione del partito fascista e l’apologia del fascismo porta il suo nome). L’addebito colpì anche Giulio Andreotti: quando nel ‘72 varò un governo di centrodestra, gli fu rinfacciata la circostanza - in realtà una leggenda - secondo cui nel ‘53 aveva accettato un abboccamento ad Arcinazzo con il maresciallo della Rsi Rodolfo Graziani (cosa mai accaduta nei modi in cui fu poi raccontata). Identiche accuse ricevettero il presidente della Montedison Eugenio Cefis e persino l’avvocato Agnelli per aver tollerato che la Fondazione intitolata a suo nonno, sotto la guida di Ubaldo Scassellati, mettesse le basi di un piano di conquista e gestione del potere (il cosiddetto “cinque per cinque”). Inutile dire di Bettino Craxi costantemente effigiato su “Repubblica” con stivaloni mussoliniani. Ancor più inutile dire di Silvio Berlusconi a cui fu addirittura ostilmente “dedicata” la celebrazione della Resistenza del 25 aprile 1994. Praticamente dal 1947 ad oggi non ci sarebbe stato anno senza che qualche esponente governativo favorisse un lieve o più deciso slittamento verso soluzioni autoritarie. Neanche uno. Ciò che forse (e sottolineiamo: forse) fu vero solo nel 1964 e in alcune fasi dei primi anni Settanta, sarebbe stata, invece, una costante della politica italiana. Con diversi livelli di intensità, certo. Ma pur sempre una costante. Possibile? Ovvio che no. A quel che gli storici seri hanno potuto accertare, la Dc e i partiti ad essa associati - eccezion fatta per qualche esponente di bassissimo rango - non hanno mai preso neppure in considerazione un’opzione autoritaria. Mai. Di che cosa è fatto allora questo fantasma? Della stessa impalpabile non materia con la quale nel giudizio sulla politica internazionale è stata costruita l’accusa di “fascismo” nei confronti di quasi tutti gli ex presidenti degli Stati Uniti e persino del capo della Resistenza francese, il generale Charles De Gaulle, per i modi con cui nel 1958 promosse il passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica. Nell’operato di tutti loro è stata intravista l’apertura di uno spiraglio verso una deriva autoritaria quasi fossero assimilabili a un caudillo, un colonnello o un Putin, un Orbán o un Erdogan ante litteram. La verità invece è che il fascismo negli ultimi settant’anni non è più stato all’orizzonte dei Paesi occidentali e ad evocarlo ossessivamente si è costantemente rischiato e si rischia ancora di fare lo stesso errore compiuto nel 1924 da Gaetano Salvemini il quale, dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti, si allarmava per l’eventualità di un colpo di stato militare monarchico: ciò che gli impedì di notare per tempo alcune specificità del mussolinismo. Specificità dei movimenti nuovi che vanno individuate in ogni epoca senza indulgere alle evocazioni facilone. C’è infine un ultimo discorso più generale da fare sull’uso del termine “fascista”. Lo scrittore inglese Ian McEwan in un’allocuzione tenuta nel giugno del 2015, in occasione della cerimonia per le lauree al Dickinson College, volle tornare agli anni Sessanta quando - raccontò - la sua università “vietò a uno psicologo di promuovere la teoria secondo cui c’è una componente ereditaria nell’intelligenza”. Negli anni Settanta poi, proseguì McEwan, il grande biologo americano Edward Wilson fu sommerso da contestazioni che gli impedirono di prendere la parola per aver ipotizzato che esistesse un elemento genetico nel comportamento sociale degli esseri umani. Tutti e due “vennero definiti fascisti”. E in seguito? “Le loro teorie adesso sono la norma”, ha detto McEwan. Dopo quell’intervento, l’autore di Cortesie per gli ospiti ha continuato a criticare questa o quella iniziativa politica o culturale. Anche con parole molto dure. Ma non ha mai più fatto riferimento al fascismo. E sarebbe forse il caso di seguire il suo esempio. Ermini (Csm): nelle bugie del web il veleno della democrazia Il Dubbio, 29 ottobre 2018 Il vertice al Csm ripropone i temi che hanno animato il primo G7 dell’Avvocatura. “La rete degli operatori della disinformazione mette ad alto rischio la democrazia”. A dirlo è il vicepresidente del Csm David Ermini, che ripropone così un tema al quale è stato dedicato il primo “G7 dell’avvocatura”: l’uso del linguaggio d’odio, e in genere della manipolazione, sui social network. Ermini ne ha parlato ieri nel suo intervento al convegno della Fondazione Iniziativa Europa: “L’irrompere del web ha modificato quel cambio di latitudine che ora vede i social esprimere, sotto il profilo della pervasività comunicativa, una capacità di fuoco, rispetto ai vecchi media, inedita e comparabile al passaggio dalle armi bianche a quelle da fuoco”. Così come, riflette il vicepresidente del Csm, “c’è stato un cambio longitudinale, con cui al tradizionale controllo verticale del consenso si sta affiancando una rete di operatori della disinformazione che porta a un processo di delegittimazione delle competenze”. Il convegno della Fondazione Iniziativa Europa, in corso a Stresa, ha come tema “Il consenso tra ragione e suggestione”. In questo contesto, dice Ermini, “informazioni e credenze più o meno veritiere si miscelano in uno pseudo-sapere indistinto che il web frulla alla velocità dei processi virali, amplificandone la diffusione e di conseguenza la credibilità: “Se tutti ne parlano qualcosa di vero ci sarà”. Tutto ciò incrina la capacità critica del cittadino, e inquina la genuinità del consenso. Ricordo che se non c’è una democrazia senza consenso può però esserci consenso senza democrazia”, ricorda il vertice di Palazzo dei Marescialli. Decreto sicurezza. Occupazioni abusive, pene severe per chi organizza di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2018 Pene più severe e intercettazioni di conversazioni contro chi promuove e organizza occupazioni abusive di immobili. Sono le novità contenute nel decreto legge 118/2018 (il cosiddetto decreto Sicurezza) in vigore dal 5 ottobre. Gli articoli 30 e 31 dei Dl intervengono su due fronti, quello dell’inasprimento delle pene al fine di consentire l’applicazione di misure coercitive (diverse dalla custodia cautelare) e quello della possibilità di utilizzo delle intercettazioni. L’inasprimento delle pene - Il Dl modifica l’articolo 633 del Codice penale aggiungendo un terzo comma ai due esistenti. Con il primo comma (rimasto invariato) il Codice prevedeva la punizione a querela di parte si “chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto” con una sanzione alternativa fra una pena pecuniaria tra 258 e 2.582 euro, la permanenza domiciliare da sei a trenta giorni o il lavoro di pubblica utilità da dieci giorni a tre mesi. Il secondo stabilisce invece pene più severe (reclusione fino a due anni e multa da 103 a 1032 euro) quando i responsabili dell’invasione sono più di cinque (di cui almeno uno armato), o di dieci anche senza armi. Il reato è inoltre procedibile di ufficio. Il terzo comma aggiunto dal Dl Sicurezza inasprisce ulteriormente le pene nei confronti dei promotori e degli organizzatori dell’invasione nonché di coloro che hanno compiuto il fatto armati: la reclusione potrà arrivare a quattro anni congiuntamente a una multa da 206 euro a 2.064 euro. Questi aumenti consentono anche l’applicazione delle misure cautelari personali (precedentemente non applicabili) diverse dal carcere. Se il fatto è commesso da persona sottoposta a misura di prevenzione, o tre anni dopo la sua cessazione, le pene vengono inoltre aumentate da un terzo alla metà (Dlgs 159/2011) e può scattare la custodia cautelare in carcere. Le intercettazioni - L’articolo 31 del Dl Sicurezza modifica inoltre l’articolo 266 del Codice di procedura penale: dal 5 ottobre la magistratura può fare ricorso a intercettazioni - telefoniche, ambientali e telematiche - contro chi promuove e organizza l’occupazione abusiva. Dal 31 marzo 2019 l’attività di intercettazione potrà essere effettuata anche tramite “captatore informatico”, nei luoghi ove vi sia fondato motivo che si stia svolgendo l’attività criminosa. Queste novità si collocano nel solco tracciato, negli ultimi anni, da altri provvedimenti legislativi, con l’obiettivo di trovare forme adeguate di contrasto al fenomeno dell’occupazione abusiva di immobili, pubblici o privati. Gli sgomberi - La legge 94/2009 ha previsto che il sindaco di una città - per le strade urbane - o il prefetto - per quelle extraurbane, o quando ricorrano motivi di sicurezza pubblica, per ogni luogo - possano ordinare lo sgombero coatto degli immobili occupati arbitrariamente: nel contempo, la magistratura penale può disporne il sequestro preventivo. Il problema è che l’esecuzione dello sgombero o del sequestro spesso subisce ritardi per esigenze di ordine pubblico legate alla presenza, tra gli occupanti, di minori o persone con situazioni di fragilità. Lo scorso 4 luglio, tuttavia, il Tribunale civile di Roma (sentenza 13719/18), ha condannato il ministero a risarcire con oltre 27 milioni di euro la proprietà di un compendio immobiliare sito nella Capitale, che non aveva potuto dare esecuzione al progetto di recupero e valorizzazione dell’area a causa di un’abusiva occupazione iniziata nel 2009 e durata per diversi anni: nonostante la società proprietaria dell’immobile avesse ottenuto dalla magistratura penale il sequestro preventivo del compendio immobiliare, non era stata data esecuzione allo sgombero per ragioni di ordine pubblico. Che, secondo i giudici, non possono però comportare la mortificazione dei diritti costituzionali di proprietà e iniziativa economica. Forse sarebbe stato utile introdurre anche l’arresto obbligatorio in flagranza di chi promuove e organizza l’occupazione abusiva. Vista la pervicacia criminale con cui operano generalmente i capi delle occupazioni abusive, la possibilità di arresto in flagranza di reato durante le operazioni di sgombero avrebbe consentito di contrastare con tempestività il fenomeno, colpendo chi lucra a discapito di persone spesso in reale difficoltà economica e sociale. Violenze alle donne, scatta il “Codice rosso” di Alfonso Bonafede * Corriere Nazionale, 29 ottobre 2018 Nuova legge a tutela delle vittime di violenze domestiche e di genere per intervenire prima che sia troppo tardi. Quando un cittadino rischia la vita si presenta al pronto soccorso e gli viene applicato un “codice rosso” per farlo visitare immediatamente dai medici al fine di scongiurare il pericolo di morte. La cronaca ci ha raccontato di violenze, abusi e omicidi ai danni di donne che avevano denunciato mariti, fidanzati, familiari o semplici conoscenti, ma la risposta della giustizia era stata tardiva e - in certi casi - letali. A loro non è stato applicato alcun “Codice rosso”. Così, raccogliendo la proposta dell’associazione “Doppia difesa”, insieme al ministro per la Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, abbiamo deciso di dar vita a una legge che stabilisca, proprio come avviene nei pronto soccorso, i casi in cui le denunce devono essere trattate immediatamente. Ieri mattina abbiamo aperto le porte del mio ufficio al ministero della Giustizia per presentarla, insieme al ministro Bongiorno e a Michelle Hunziker, socie fondatrici dell’associazione “Doppia difesa”, che da dodici anni si battono per la tutela delle donne bersaglio di violenza. I dati sulla violenza sulle donne sono impressionanti. L’ultimo rapporto Istat ci fornisce una fotografia drammatica: circa il 21 per cento delle donne italiane - pari a 4,5 milioni - è stata costretta a compiere atti sessuali e 1 milione e mezzo ha subìto la violenza più grave: 653.000 donne vittime di stupro e 746.000 vittime di tentato stupro. Per questo, il tema ha trovato subito spazio nel contratto del Governo del cambiamento. Inasprimento delle pene, maggiore impegno sui fondi per gli indennizzi e, appunto, il “Codice rosso”. È qui, secondo me, che la giustizia esprime il suo più alto concetto: non agire solamente a reato consumato, ma agire sull’organizzazione del lavoro degli inquirenti per prevenire il reato. Con la nuova legge ci saranno procedimenti più snelli, senza fasi di stallo per la tutela tempestiva delle vittime di violenze domestiche e di genere. La polizia giudiziaria dovrà comunicare immediatamente al pm le notizie di reato, senza fare una valutazione sull’urgenza - quindi a prescindere - e anche per via orale. La vittima deve essere sentita dai magistrati entro tre giorni dalla denuncia. Le indagini partiranno immediatamente per maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni aggravate, avvenute in casa. Infine, ma non per questo meno importante, l’obbligo di formazione per le forze di polizia che trattano questo tipo di procedimenti in modo che siano specializzati nella prevenzione e nella repressione e che abbiano una preparazione specifica all’interlocuzione con le vittime. Sappiamo che per ogni donna non è semplice venire allo scoperto e denunciare i soprusi che subisce, con questa legge lo Stato si fa avanti, tende una mano e si mette al suo fianco. *Ministro della Giustizia Nasce la holding per le imprese confiscate alla mafia di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2018 Lotta alla criminalità organizzata. Da mercoledì in vigore il regolamento che istituisce due direzioni generali dell’Anbsc per immobili e imprese sottratti alle cosche: un patrimonio di oltre 2,3 miliardi. Un’unica filiera commerciale col marchio dell’Antimafia. Dall’alimentare, al turismo, all’edilizia e alla sanità, fino al settore dell’energia: una “rete” che lega le aziende produttive confiscate alle associazioni mafiose, presto potrebbe finire sotto la direzione di un unico soggetto giuridico - una specie di holding - controllato dall’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla mafia (Anbsc). Allo studio dell’ente, diretto dal prefetto Ennio Mario Sodano, c’è un innovativo progetto di coordinamento unico delle imprese portate via alla criminalità. Gli strumenti normativi già ci sono: la recente riforma del Codice Antimafia (legge 161 del 2017) ha tracciato la strada verso una gestione unitaria delle aziende in pancia all’Anbsc, mentre il nuovo regolamento organizzativo dell’Agenzia (Dpr 118 del 2018) - in vigore da mercoledì - ha istituito due nuove Direzioni generali operative, quella dedicata agli immobili e quella per le aziende confiscate. Ma andiamo per gradi. Stando alle rielaborazioni, i beni sotto la gestione dell’Anbsc - tra immobili e imprese - hanno un valore che supera i 2,3 miliardi di euro. Si tratta di un conteggio fatto per la prima volta dall’Agenzia, sulla base del valore reale dei beni gestiti. Sul fronte impresa, l’Anbsc ha svolto approfondimenti su 2.771 aziende nella sua gestioni, stimando che solo 513, pari al 18% di quelle esaminate, siano realmente operative. Si tratta di quelle che almeno dal 2014 in poi hanno presentato un bilancio. E sono proprio queste - che hanno un valore della produzione di 484 milioni di euro (a fronte di 296 milioni di patrimonio netto e 369 milioni tra ricavi e prestazioni) - che presto potrebbero rientrare nell’ambizioso progetto a cui sta lavorando l’Agenzia. L’idea è che con il coordinamento della nuova Direzione generale per le aziende confiscate, una società - amministrata da manager di alto profilo - gestirà tutte le aziende come fosse una holding. E così, per fare un esempio, i pomodori dell’azienda agricola confiscata a Cosa nostra in Sicilia potranno essere venduti nel supermercato sequestrato alla criminalità in Veneto, così come le farine prodotte dal mulino portato via alla mafia pugliese potranno essere lavorate dal pastificio di un’altra regione un tempo sotto il controllo criminale. Una sinergia di imprese che porterà un logo di legalità e che sarà garantito dall’Anbsc. Le novità riguardano anche la gestione dei beni immobili, che oggi valgono complessivi 1,9 miliardi di euro. La combinata lettura del decreto “sicurezza” e del regolamento che entrerà in vigore dopodomani consentirà all’Agenzia di amministrare in modo più snello la mole di immobili sparsi su tutto il territorio nazionale. È previsto che nel 2018 l’Anbsc arrivi a proporre circa 3mila strutture, ma è preventivabile che ne siano richieste - per realizzare caserme o potenziare i servizi ai cittadini - solo 2mila. Il decreto sicurezza potrebbe intervenire anche su questo aspetto, in quanto l’articolo 36 detta una serie di modifiche dell’articolo 48 del Codice Antimafia, per aumentare l’offerta di edilizia residenziale pubblica. Lo stesso provvedimento prevede anche che i beni confiscati possano essere venduti a soggetti privati. Si tratta di un’eventualità residuale e subordinata a un’attenta analisi degli acquirenti, per evitare che i beni tornino sotto il controllo delle organizzazioni mafiose. Riforma del fallimento, è corsa contro il tempo di Eugenio Occorsi Affari & Finanza, 29 ottobre 2018 Scade il 15 novembre la delega fissata un anno fa dalla “legge Rordorf” per il varo dei provvedimenti attuativi. Il governo assicura che ce la farà ma restano i dubbi. Misure di allerta per identificare le società a rischio. Un organismo cui riportare i segnali preoccupanti. Procedure più semplici e accessibili delle crisi da sovra indebitamento. Estensione degli accordi di ristrutturazione dei debiti. Sono fra le novità che dovrebbe portare la nuova legge fallimentare, una delle riforme strutturali (alla pari di quelle sul lavoro e della pubblica amministrazione) più citate dal Fmi, dall’Ocse, dalla Commissione Ue, al momento di elencare i punti d’attacco della crisi italiana. Il condizionale è d’obbligo perché ancora non sono stati approvati dal governo i decreti di attuazione della legge-delega 155 pubblicata in Gazzetta il 15 novembre 2017 che dava un anno di tempo per varare le norme attuative. La scadenza è dunque a metà novembre. L’ossatura del decreto principale, il “codice delle crisi” è pronta: l’ha preparata lo stesso Renato Rordorf, il magistrato di Cassazione che aveva guidato nel 2015-16 la commissione incaricata di predisporre la riforma, che infatti è chiamata legge Rordorf, e che poi è stato richiamato dal ministro della Giustizia del precedente governo, Andrea Orlando per redigere i decreti attuativi. Il lavoro era fatto ma il cambio di legislatura ha bloccato tutto. Il ministro Alfonso Bonafede ha ora incaricato il capo del legislativo, Mauro Vitiello, altro giudice di Cassazione di provata esperienza, di concludere la vicenda. Forse sarà concessa una proroga di due mesi, e in ogni caso sarà previsto un anno e mezzo di periodo transitorio per permettere agli uffici di prepararsi alle novità. “Non è escluso che in questa lunga fase qualcosa cambi ancora - osserva Raffaele Cappiello, avvocato fallimentare - per cui consiglierei agli editori e a quanti stanno già lanciando corsi, di aspettare che le bocce siano ferme”. Punto qualificante sono le procedure d’alerte raccomandate dalla Commissione Ue e ora inserite nel codice civile. “È una sfida che ci vede schierati con le legislazioni più avanzate”, dice Antonio Auricchio, corresponsabile del dipartimento contenzioso societario presso Gianni Origoni. “Spetterà agli organismi di controllo interni, dai revisori ai sindaci, e poi a creditori pubblici qualificati (Inps, Equitalia, ndr) monitorare la salute della società”. I casi critici saranno riportati agli Organismi di composizione delle crisi istituiti su base provinciale con tre membri, designati dal Tribunale fallimentare, dalla camera di commercio e dalle associazioni imprenditoriali sentito il debitore. L’Ocri ha sei mesi per sentire le parti, cercare di comporre la situazione o, in ultima istanza, stimolare la procedura giudiziaria. “Il senso è di razionalizzare i tempi - dice Patrizia Pompei, presidente della Fallimentare nonché del Tribunale delle imprese di Firenze - prevenendo la crisi prima che deflagri e diventi più grave, e di evitare all’imprenditore l’umiliazione di finire sotto accusa magari perché per la crisi non ha ricevuto il pagamento dei suoi crediti o per altri problemi che affrontati con calma e trasparenza si possono risolvere”. Si cerca, rileva Sonia Mazzucco, commercialista esperta in crisi d’impresa, “di evitare effetti sistemici di una singola crisi, ma anche i fallimenti tirati per le lunghe che finiscono per svuotare degli asset una società senza soddisfare i creditori”. A questo punto, osserva Francesco Fimmanò, vicepresidente della Corte dei Conti, “andrebbe migliorato il coordinamento con le procedure penali in cui ancora può incappare l’industriale che fa bancarotta”. Altrettanto importante “è la disciplina delle crisi di gruppo”, spiega Giuliana Scognamiglio, avvocato e accademica: “Con la presenza di un attestatore vengono attuati trasferimenti controllati di risorse da una società all’altra nello stesso gruppo, misure delicate per la presenza in questa o quella società di azionisti di minoranza che possono opporsi a pagare debiti altrui”. Infine c’è la valorizzazione del concordato in continuità, con la prosecuzione dell’attività “anche con l’imprenditore al comando - dice Riccardo Ranalli, commercialista esperto di ristrutturazioni aziendali - purché l’operazione sia effettivamente finalizzata al recupero della presenza dell’impresa nel mercato con il mantenimento, forse eccessivo di almeno metà dei dipendenti”. Caso Tortora, una ferita ancora aperta. Le scuse di Bonafede di Andrea Giorgi Palazzi formiche.net, 29 ottobre 2018 A distanza di trent’anni dalla sua morte, Enzo Tortora rimane il simbolo dell’ingiustizia giudiziaria In Italia. Arrestato con accuse infamanti nel 1983, rinchiuso in carcere e processato, solo dopo una lunga e dolorosa inchiesta l’amato conduttore televisivo riuscì ad ottenere l’assoluzione. Che arrivò nel 1987, uno anno prima della sua morte. Una storia, la sua, esemplificativa di ciò che non funziona ancora oggi nel mondo giudiziario italiano tra carcerazioni preventive, processi sommari sui media e pronunce di assoluzione che troppo spesso finiscono per passare quasi del tutto sotto silenzio. E non è un caso che la vicenda Tortora continui a far discutere nel nostro Paese come confermano le tante iniziative in corso un po’ ovunque in Italia sul tema. E anche la decisione della Rai di riportare in tv la sua trasmissione più celebre, Portobello, affidata ad Antonella Clerici. E soprattutto le parole del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che ha inviato un messaggio certo non formale al dibattito dal titolo “Enzo Tortora, una scossa per il futuro”, organizzato a Roma dal Circolo dei Magistrati della Corte dei Conti presieduto da Massimiliano Atelli e dall’associazione La Scossa guidata da Michelangelo Suigo (qui il link di Radio Radicale per rivivere integralmente tutta l’iniziativa e riascoltare i vari interventi). Un caso - ha sottolineato il Guardasigilli - che “ha segnato una pagina triste per il sistema giudiziario italiano, anche a causa delle responsabilità di alcuni media che alimentarono la diffusione di notizie infondate e prive di riscontro”. Secondo Bonafede, “Tortora comprese bene come una giustizia che produce decisioni inique e non rispondenti alla realtà dei fatti non costituiva un problema soltanto per l’individuo destinato a subire gli effetti di queste decisioni ma rappresentava un vulnus tale da danneggiare la credibilità delle istituzioni giudiziarie incrinando la fiducia dei cittadini nei confronti delle stesse”. Per questo il ministro della Giustizia ha chiesto scusa a Tortora e alla sua famiglia: “In quell’occasione lo Stato non seppe rispondere adeguatamente alla richiesta di un suo cittadino di fare giustizia in maniera certa e tempestiva, accertando responsabilità, torti e ragioni”. All’evento - introdotto da Atelli e Suigo - hanno partecipato il procuratore generale della Corte di Appello di Roma Giovanni Salvi, la presidente della Fondazione per la Giustizia Enzo Tortora Francesca Scopelliti, il segretario dell’Unione delle Camere Penali Italiane Francesco Petrelli e l’autore del libro “Applausi e sputi” (edito da Sperling & Kupfer) Vittorio Pezzuto. Il dibattito è stato moderato dal direttore di Radio Radicale Alessio Falconio. Dramma della gelosia senza l’aggravante dei futili motivi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2018 Di sicuro è stato un dramma della gelosia. E, per dirla con Ettore Scola, i particolari stanno, o stavano, in cronaca. Tuttavia, a leggere la sentenza della Cassazione (n. 49129 depositata venerdì), proprio quel riconoscimento della gelosia trascina con se l’aggravante dei futili motivi, perché l’una non può andare insieme all’altra. I fatti? Un “classico” litigio, coltello alla mano però, per ragioni di corna. Il luogo? Napoli, dove un uomo geloso per la relazione intrattenuta dalla propria moglie con l’amante, ha accoltellato più volte quest’ultimo. La pena? Cinque anni di carcere per tentato omicidio, aggravato, appunto, da futili motivi. Ma proprio il riconoscimento dell’aggravante ha rappresentato la leva utilizzata dalla Cassazione per annullare la condanna e rinviare la nuova decisione sull’entità della sanzione alla Corte di appello. La Cassazione, infatti, si premura di chiarire innanzitutto quando si può parlare di futili motivi, quando cioè la spinta a commettere il reato è stata di tale irrilevanza, banalità e sproporzione rispetto alla gravità del delitto, da apparire, secondo una categoria tradizionalmente scivolosa però come il “comune sentire”, un semplice pretesto e non un vero e proprio motivo. Quanto all’incompatibilità con la gelosia, la sentenza ricorda che l’espressione anche esasperata, ed esasperante, e allora pure parossistica e ingiustificata, magari collegata con “un abnorme desiderio di vita in comune”, sarà magari sintomo di una patologia tutta centrata su un malinteso possesso, ma nello stesso tempo non può essere ritenuta pretestuosa. Sempre secondo quanto intende la coscienza collettiva, naturalmente. Che rischia di slittare pericolosamente vicino a nozioni appartenenti ad altre ere del diritto come il “comune senso del pudore”. Ma questa, come si dice, è un’altra storia. Stupefacenti: per la flagranza bastano quantità, detenzione di denaro e attrezzi per pesatura di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2018 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 1 ottobre 2018 n. 43298. Per ritenere la flagranza del reato di detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio non sono necessarie né la contestuale attività di spaccio né l’individuazione dei potenziali acquirenti, potendo la finalità di spaccio essere desunta dalla quantità, qualità e composizione della sostanza detenuta nonché dalla detenzione di denaro contante, anche in rapporto al reddito del detentore, nonché dalla disponibilità di attrezzature per la pesatura o il confezionamento della sostanza. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza 43298 del 2018 e da queste premesse, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, la sesta sezione penale ha annullato senza rinvio l’ordinanza con cui il giudice non aveva convalidato l’arresto, sulla supposta inesistenza della flagranza, in una fattispecie in cui gli arrestati erano stati trovati in possesso di una duplice quantità di stupefacente - cocaina e hashish -, di una somma di denaro - 850 euro - nella disponibilità di uno di essi privo di attività lavorativa, di dei telefoni cellulari e di materiale per il confezionamento delle dosi. È principio consolidato quello secondo cui, in materia di stupefacenti, la valutazione in ordine alla destinazione della droga va effettuata dal giudice di merito, ogni qualvolta la condotta non appaia indicativa della immediatezza del consumo, tenendo conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto e, in particolare, dei parametri indicati nell’articolo 73, comma 1-bis, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 (“quantità”, “modalità di presentazione”, “altre circostanze dell’azione”), che appunto costituiscono criteri probatori idonei a orientare la valutazione del giudice in ordine alla dimostrazione della destinazione “ad un uso non esclusivamente personale”, tale da integrare l’illecito penale (cfr. tra le altre, sezione IV, 15 giugno 2010, Mennonna e altro). Con la precisazione che, ai fini della configurabilità della detenzione illecita ex articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309, non è la difesa a dover dimostrare l’uso personale della droga detenuta, ma è invece l’accusa, secondo i principi generali, a dover provare la detenzione della droga per uso diverso da quello personale: infatti, la destinazione della sostanza allo “spaccio” è elemento costitutivo del reato di illecita detenzione della stessa e, come tale, deve essere provata dalla pubblica accusa, non spettando all’imputato dimostrare la destinazione all’uso personale della sostanza stupefacente di cui sia stato trovato in possesso. In questa prospettiva, qui la Corte ha escluso che tra gli elementi di prova della destinazione dovesse ritenersi necessaria anche la individuazione di “potenziali acquirenti”, in un contesto che deponeva oggettivamente già per la destinazione allo spaccio. Del resto, si trattava di vicenda relativa a convalida dell’arresto, onde l’erroneità della decisione del giudice era rinvenibile anche nell’apprezzato superamento da parte del giudice, che aveva negata la convalida, dei limiti valutativi attribuitigli dal codice di rito: è noto, infatti, che il giudice, in sede di convalida dell’arresto, oltre a verificare l’osservanza dei termini previsti dagli articoli 386, comma 3, e 390, comma 1 del codice di procedura penale, deve controllare solo la sussistenza dei presupposti legittimanti l’eseguito arresto, ossia valutare la legittimità dell’operato della polizia sulla base di un controllo di ragionevolezza, in relazione allo stato di flagranza e all’ipotizzabilità di uno dei reati richiamati dal codice di procedura penale, in una chiave di lettura che non deve riguardare né la gravità indiziaria e le esigenze cautelari (valutazione questa riservata all’applicabilità delle misure cautelari coercitive), né l’apprezzamento sulla responsabilità (riservato alla fase di cognizione del giudizio di merito). E tale operazione, soprattutto, il giudice della convalida, peraltro, la deve compiere con giudizio ex ante, avendo riguardo alla situazione in cui la polizia giudiziaria ha provveduto, senza tener conto degli elementi non conosciuti o non conoscibili dalla stessa, che sino successivamente emersi (tra le tante, sezione III, 15 marzo 2018, Faraci, nonché sezione VI, 28 novembre 2013, Scalici). Sanzione per guida in stato di ebbrezza, lavoro di pubblica utilità secondo le regole del Cds di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2018 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 13 settembre 2018 n. 40664. Ai fini della determinazione della durata del lavoro di pubblica utilità per i reati di cui agli articoli 186e 187 del codice della strada, i criteri di ragguaglio sono quelli previsti, in via esclusiva e diretta, dal comma 9-bis dell’articolo 186 citato, secondo il quale “in deroga a quanto previsto dall’articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata e della conversione della pena pecuniaria ragguagliando 250 euro ad un giorno di lavoro di pubblica utilità”. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 13 settembre 2018 n. 40664. Premesso che un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione anche non continuativa di due ore di lavoro (articolo 54, comma 5, del Dlgs 274/2000), il calcolo per la determinazione della durata del lavoro di pubblica utilità deve essere effettuato ricavando il numero complessivo di pena detentiva irrogata (comprensiva della misura della pena pecuniaria convertita) e moltiplicando per due il risultato così ottenuto: nella specie, l’imputato era stato condannato alla pena di mesi quattro di arresto e di 1.000 euro di ammenda, pari a 120 giorni più i 4 derivanti dalla divisione di 1.000 euro nella frazione giornaliera di 250 euro; il risultato così ottenuto è stato moltiplicato per due (120+4 x2), arrivando alla misura di 248 ore di lavoro di pubblica utilità. La Corte, sulla base di tale calcolo, ha così annullato senza rinvio la sentenza che aveva erroneamente determinato la durata del lavoro di pubblica utilità (nella misura superiore di 724 ore), rideterminandone la durata nei termini di cui si è detto. Sulla questione, cfr. anche sezione I, 17 ottobre 2013, Proc. Rep. Trib. Avezzano in proc. Piccone, dove si è affermato che la previsione dell’articolo 186, comma 9-bis, del codice della strada, secondo cui il lavoro di pubblica utilità deve avere una durata corrispondente a quella della pena detentiva irrogata e della pena pecuniaria convertita ragguagliando 250 euro a un giorno di lavoro di pubblica utilità, introduce una deroga all’articolo 54, comma 2, del Dlgs 28 agosto 2000 n. 274 nella sola parte relativa alla previsione della durata edittale della pena del lavoro di pubblica utilità (ivi prevista da un minimo di dieci giorni a un massimo di sei mesi); la disposizione, invece, non introduce alcuna deroga al criterio di computo della pena sostitutiva stabilito dall’articolo 54, comma 5, del citato Dlgs 274/2000, secondo cui un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di due ore di lavoro, criterio, quindi, ugualmente valevole in caso di applicazione della pena del lavoro di pubblica utilità a seguito di condanna per il reato previsto dall’articolo 186 del codice della strada. Firenze: bambini in carcere, la struttura per le detenute-madri c’è ma cade a pezzi di Monica Pelliccia Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2018 “Lavori mai partiti e i bambini restano in cella”. La sua porta non veniva aperta da due anni. E all’interno, l’erba alta e i rovi del giardino circondano l’edificio di Via Fanfani a Firenze, destinato a diventare l’Istituto a custodia attenuata per madri detenute (Icam), che ormai è in stato di degrado. Nel 2010 era stato firmato il protocollo d’intesa col Ministero della Giustizia, per destinare lo stabile di proprietà dell’Opera della divina provvidenza Madonnina del Grappa all’accoglienza delle madri detenute con bambini e bambine da 0 a 6 anni, provenienti da diverse regioni del Centro Italia. Però i lavori non sono mai partiti e l’edificio cade a pezzi. L’Icam di Firenze avrebbe dovuto aggiungersi ai cinque già presenti in Italia, destinati ai 60 minori che vivono nelle celle nido delle carceri italiane. “In questo arco di tempo abbiamo visto una decadenza progressiva dell’edificio, quando abbiamo deciso di destinare la struttura all’Icam, non era così, era abitata e veniva usata per l’accoglienza di madri con minori - spiega Vincenzo Russo, dell’Opera della divina provvidenza Madonnina del Grappa - Adesso, siamo in attesa di una risposta dal Ministero della Giustizia. È un crimine tenere i bambini e le bambine dentro il carcere, perché è un luogo di rieducazione per adulti: stiamo parlando di minori da 0 a 6 anni, che non hanno mai commesso un reato” Taranto: visita ispettiva del M5S alla Casa Circondariale “riscontrate tante criticità” Ansa, 29 ottobre 2018 “I detenuti sono in sovraffollamento mentre il personale penitenziario è notevolmente carente. Per essere chiari, sulla carta, per ogni turno, dovrebbero essere impiegati circa 24 agenti di polizia penitenziaria ma in realtà se ne contano quasi la metà: per tre settori di detenzione un solo agente al controllo”. Lo affermano le deputate del Movimento 5 Stelle, Alessandra Ermellino e Valentina Palmisano, ieri in visita ispettiva al carcere di Taranto. “È evidente - aggiungono - come questo aspetto si traduca negativamente in termini di sicurezza interna al carcere e, potenzialmente anche esterna. Abbiamo abbastanza materiale, anche fornito da alcune brevi testimonianze da parte di detenuti, con il quale potremo relazionare in maniera precisa al ministero della Giustizia, anche in vista della necessità di un provvedimento di assunzioni straordinario già previsto dall’attuale governo”. Ad oggi, sostengono le due deputate, “non possiamo dire che, soprattutto sul versante del personale operante, esistano condizioni favorevoli, appare quindi urgente provvedere a un riordino complessivo e rispondente alle reali esigenze di queste particolari realtà”. Limbiate (Mb): cittadini contro la struttura per malati psichici responsabili di reati di Gabriele Bassani Il Giorno, 29 ottobre 2018 Scudi levati contro l’ipotesi di realizzare 40 posti nell’ex manicomio. Si accende la polemica sul progetto di attivazione a Mombello dei due strutture per malati psichici responsabili di reati. Si chiamano Rems, Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza e andranno a sostituire gli Ospedali psichiatrici giudiziari: a Limbiate si dovrebbero creare in totale 40 posti letto, recuperando due padiglioni storici dell’ex manicomio. Il progetto aveva già suscitato perplessità in passato ma ora a tornare all’attacco è il Comitato più Limbiate meno cemento, che ha allestito anche dei banchetti in piazza per contestare l’operazione. Nel mirino del Comitato c’è soprattutto la spesa messa a preventivo di Regione Lombardia, di 17 milioni e 200 mila euro, ritenuta eccessiva ed ingiustificata. “A Castiglione delle Stiviere con la stessa cifra si realizzeranno 6 edifici per 120 detenuti. Anche un bambino capisce che bisogna spiegare perché”, attaccano dal Comitato, che poi aggiunge: “Sono stati abbandonati i progetti previsti per Mariano Comense e per Len che prevedevano di realizzare un carcere per 80 detenuti. Vorremmo sapere se la struttura di Mombello dovrà farsi carico anche di questi 80 detenuti. Avremmo in questo caso uno stravolgimento del progetto originario con la riedizione di un vero e proprio carcere psichiatrico di 120 detenuti, posto a cavallo di Limbiate e Bovisio Masciago. Ma “l’Accordo di Programma” appena approvato che prevede per Mombello solo 40 detenuti è ancora valido? Quante opere pubbliche (scuole, case,) si potrebbero realizzare con 17.000.000 di euro?”. A difendere strenuamente l’operazione è invece il sindaco Antonio Romeo. “Innanzitutto sono convinto che la cifra in questione, che riguarda in gran parte un finanziamento ministeriale, è iscritta al capitolo complessivo del superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e non è solo per le strutture di Limbiate. Nel merito ritengo doveroso anche dal punto di vista umano consentire la realizzazione di strutture di questo tipo, che sono rivolte a persone malate e bisognose di assistenza. Mi sorprende che ci sia invece questo atteggiamento di rifiuto da parte di persone che sbandierano solidarietà a senso unico. In ogni caso, ritengo questo uno dei diversi interventi concreti, praticabili e addirittura già finanziati, per riqualificare l’area dell’ex Antonini, insieme al progetto di hospice e di altre strutture sanitarie che, tra le altre cose, porteranno anche occasioni di lavoro diretto ed indotto. Oggi quell’area è in balìa del degrado, dello spaccio e della delinquenza, forse quelli che osteggiano i Rems la preferiscono così? Quali sono le loro alternative concrete e praticabili? Da parte mia chiederò alla Regione un’accelerazione, per vedere le strutture aperte, come previsto, entro il 2021”. Busto Arsizio: il Garante dei detenuti scrive al Direttore del carcere varesenews.it, 29 ottobre 2018 “Le mie proposte ci sono, il suo è ostruzionismo”. Con una lunga lettera aperta Matteo Tosi ribadisce la sua posizione, le sue difficoltà nel lavoro e le risposte che aspetta da parte della direzione.Continua la polemica tra il garante dei detenuti e il direttore del carcere di Busto. Dopo la denuncia del primo -Matteo Tosi- della sensazione di abbandono che accompagna il suo lavoro e la risposta del secondo -Orazio Sorrentini- che invita il garante ad essere più presente in istituto si scrive una nuova pagina dello scontro. È Tosi a farlo, scrivendo una lunga lettera aperta al direttore del carcere in cui ribadisce la sua posizione, le sue difficoltà nel lavoro e le risposte che aspetta da parte della direzione. “Spett.le Direttore Sorrentini, sabato scorso ho fatto colazione leggendo le puntuali carinerie che mi aveva riservato in due interviste rilasciate a La Prealpina e Malpensa24. Tra le tante, alcune Sue parole facevano supporre che io avessi annunciato di aver ripreso i colloqui, ma che le cose non stessero affatto così, anzi. Qualche amico ha avuto la sensazione che Lei mi stesse velatamente dando del bugiardo a mezzo stampa. Qualcun altro ha pensato che non lo stesse facendo nemmeno tanto velatamente, se uno dei due giornalisti ci aveva addirittura fatto il titolo. Io sono tra questi, Glielo confesso. Una sensazione simile l’ho avuta anche quando, interpellato in merito alle attività ricreativo-culturali da me proposte sul finire della scorsa primavera, Lei ha lasciato intendere che io non ne avessi presentata alcuna, se non, un anno fa, la visione di un docufilm giudicato irricevibile. Lei mi insegna che “due indizi non fanno una prova, però!”, quindi potrà capirmi se dico che mi sono sentito infamato come bugiardo sui giornali. Non Le dico la mia faccia quando, nel pomeriggio, è uscito anche il pezzo di Varesenews, una nuova intervista in cui Lei teneva a precisare che non aveva nessuna intenzione di fare polemica con me. Del resto, l’aveva sempre detto di sperare in una mia maggiore collaborazione! Le chiedo la cortesia di scegliere tra il darmi del bugiardo e il prendermi in giro. Perché entrambe le cose insieme, da un uomo delle Istituzioni, da un controllando verso il suo controllante, sono davvero troppe. Così, mi costringe a risponderLe anche sui giornali, cosa che non avrei più voluto fare. Perché io non solo rappresento il Comune di Busto Arsizio, sono di Busto Arsizio. Sono cresciuto qui, come la mia famiglia prima di me e come quella di mia moglie, o quelle di tanti altri amici, bustocchi e bustesi, vecchi e nuovi arrivati, che hanno fatto grande questa Città non solo nei campi dell’industria, del commercio e del risparmio, ma anche in quelli dello sport, della ricerca e della cultura, della solidarietà, dei servizi alla persona e dell’assistenza in tutte le sue forme. La mia “bustocchità” cerco di portarla in tutto quello che faccio, perché ne sono orgoglioso. E, se accetto di ricoprire il ruolo di Garante delle Persone private della Libertà per conto del mio Comune, ben conscio di non percepire nessun emolumento in cambio e non volendolo nemmeno, provo a svolgere il mio compito come immagino lo avrebbe fatto mio nonno. Senza pregiudizi verso nessuno, in assoluta trasparenza, offrendo collaborazione a chi me la chiede e accettando l’aiuto di chi me ne offre, convinto che la parola data e una stretta di mano siano più che sufficienti. Il 28 settembre scorso, ad esempio, quando venni a trovarLa in seguito a quella “rivolta” che L’aveva costretta ad autorizzare l’uso della forza e che era costata feriti e contusi sia tra i ristretti che tra i poliziotti in servizio, Lei mi aveva chiesto di riprendere i colloqui con i detenuti. E. nonostante io continui a pensare che, senza Area Trattamentale, il mio compito più urgente stia diventando quello di invitarLa a trovare il modo di farsi ascoltare da chi di dovere, per rimediare l’assegnazione stabile di almeno un educatore alla Casa Circondariale da Lei diretta, io l’ho fatto. Non mi è costato niente se non un po’ di coerenza, lo ammetto. Ho sospeso la mia “disobbedienza civile”: ho incontrato, sto incontrando e incontrerò chiunque ne farà richiesta. Raccoglierò i loro bisogni e, finiti i miei colloqui, passerò con le loro istanze più diverse a farmi ignorare dall’Ufficio Trattamento, che a oggi non ha ancora trovato il tempo di fornirmi un elenco dei lavoranti in articolo 21, tanto per dirne una, benché una persona gentile mi abbia stampato almeno quello dei lavoranti interni. Sempre quel 28 settembre e sempre nella sala riunioni che chiude il corridoio, accanto al Suo ufficio, Lei mi promise che le mie e-mail e le mie proposte, da lì in poi, avrebbero ricevuto una risposta in tempi utili. Negativa, magari, ma una risposta. L’unica cosa che ho sempre chiesto. Ecco, non avendo ricevuto nessun cenno in merito, né un sì né un no né un forse né un però, ho scritto a B.A. Film Factory per avvisare che il cineforum che si erano offerti di organizzare a loro spese presso il “teatro” di via per Cassano (e di cui avevano già sottoposto i titoli per tutte e sei le proiezioni da qui all’inaugurazione del Baff), non potrà partire. O, almeno, non entro il 29 o il 31 di questo mese, come da loro ormai datata proposta. Facciamo finta che lei avesse ragione, allora, e che le uniche mie proposte concrete siano state il docu-film di un anno fa e il cineforum di cui sopra. Due idee verosimili, visto che io aspiro a far sentire i detenuti parte della nostra comunità e che Busto aspira a un posto tra le città del Cinema. Un docu-film e un cineforum, dicevo, per i quali, a un anno di distanza, Lei ha voluto scrivere lo stesso triste finale. Nel caso del cineforum, con le consuete sfumature di mistero e di speranze disattese dall’assenza di risposte, nonostante il marchio di una prestigiosa realtà culturale cittadina. Nel caso di “Spes contra Spem”, invece, con un taglio decisamente grottesco, perché tale è stato il tono della Sue dichiarazioni. Non avendo visto nessuna Sua lettera di scuse, non dico a me, ma almeno al suo collega di Opera e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, immagino che Lei non sappia ancora che quel film che ha bollato come “quasi istigatorio” (LaPrealpina) o comunque “troppo pro detenuti” (Varesenews) è stato realizzato con la loro preziosa collaborazione. Avrebbe potuto verificarlo su internet in un minuto, come può fare chiunque, guardando anche solo il trailer del film. Peccato. Credo che Le convenga ammettere di aver bocciato questa mia proposta - come ha ignorato le altre - senza nemmeno averla presa in considerazione, giusto per il gusto di far capire chi comanda, nonostante la mia intenzione più volte manifestata di presentare quel documento a un pubblico di politici locali e associazioni, così da chiedere con maggior forza l’introduzione di qualche convenzione o borsa lavoro per dare agli “ospiti” di via per Cassano l’occasione di nuovi e più efficaci percorsi di reinserimento socio-lavorativo (proprio quelle convenzioni per cui si sta muovendo adesso, a un anno di distanza). Ovviamente, può anche non seguire il mio consiglio e continuare a sostenere che la Casa di Reclusione di Opera e il Dap abbiano collaborato alla realizzazione di una pellicola quantomeno pericolosa, e che non se ne siano accorti nemmeno a lavoro finito, tanto da lasciarla proiettare con i loro nomi tra i crediti. In ogni caso, spero che prima o poi si renderà conto di aver proibito a detenuti e autorità la visione di un film da cui “i poliziotti penitenziari emergono come eroi consapevoli e guardiani delle nostre coscienze, umani e maturi, protettori dello Stato”, come si legge nella scheda di presentazione a Venezia, nel 2016. Umani e maturi - nonostante siano sottostaffati, mal equipaggiati e affidati a incarichi di ogni tipo, proprio come dicevo e dico io, “la miglior risorsa di cui dispone la nostra Casa Circondariale”. Se non fosse per la loro professionalità e per il generoso sforzo quotidiano di un manipolo di volontari, infatti, non so a che punto sarebbe l’emergenza umana e sociale delle diverse sezioni e non so a quali misure bisognerebbe arrivare per evitare che la stessa sfoci in una rivolta vera e propria. Non perda tempo a verificare quando entro io e per quante ore. Entri Lei in Istituto, varchi una volta in più anche il secondo cancello e vada a vedere dove lavorano assistenti, appuntati e capiposto, vada a contare quanti detenuti continuano ad andare al box, incessantemente, per lamentarsi di questo e di quello, del fatto che il nuovo arrivato lavora e loro no, della sintesi che non arriva, dell’Area Trattamentale che non li chiama, della misura alternativa rigettata, della disoccupazione persa perché spedita in ritardo e così via. Vada a vedere che tensione si genera in un corridoio dove ci sono una cinquantina di persone buttate a far niente, consapevoli del fatto che il loro primo diritto, quello di essere “trattati” (e cioè assistiti, rieducati, reinseriti), non può che essere sistematicamente disatteso, semplicemente perché l’Area Trattamentale non esiste o quasi. Sono cinque mesi, ormai. E la responsabile che c’era prima non è scappata di punto in bianco con il malloppo per rifugiarsi ai Caraibi, ma è semplicemente andata in pensione come noto da tempo. Forse un tempo sufficiente per porre rimedio alla sua assenza, in un modo o nell’altro. Si concentri su questo, se può, e non stia più a dirmi cosa devo fare, come, quando e perché. Capisco che per un “controllore” come Lei sia difficile fare la parte del controllato, ma tant’è. E non provi più a far passare l’idea che la mia assenza fosse sinonimo di disinteresse. L’aver ereditato il ruolo di Luca (e parte dei suoi contatti), l’aver fatto un’esperienza di volontariato in articolo 17 e l’aver sempre coltivato un dialogo aperto con la Camera Penale di Busto, nonché la mia vicinanza ad alcuni esponenti del Partito Radicale, mi hanno aiutato a tessere una rete di permessanti, detenuti in misura alternativa, ex detenuti, volontari, avvocati e assistenti che mi ha consentito di rimanere sempre dignitosamente informato. Quello sfortunato pomeriggio in cui un giovanissimo detenuto nordafricano si tolse la vita, infatti, io mi presentai al cancello prima ancora che se ne fosse andata l’ambulanza. Lo chieda alla Comandante, che non si capacitava di come fossi stato informato così in fretta e da chi, ma che mi offrì comunque la sua disponibilità e chiese la mia per salire, insieme, a parlare con alcuni detenuti che, in virtù dell’accaduto, stavano dando in escandescenza. Rientrò tutto molto in fretta, per fortuna. O meglio, perché i poliziotti presenti seppero ancora una volta alternare la pretesa di rivedere tutto in ordine il prima possibile alla disponibilità a chiudere un occhio sul precedente disordine e alla concessione di un ulteriore momento di preghiera collettiva, nonostante l’ora. Al di là della mia persona, comunque, e delle future non polemiche che vorrà rivolgermi, La invito soprattutto a portare maggior rispetto alla figura del Garante in assoluto. Perché sostenere che il nostro compito sia soprattutto quello di aiutare i detenuti a “rinnovare la patente, vendere un’auto, trovare un telefono per la madre anziana ricoverata in ospedale” (LaPrealpina) è inesatto e svilente al tempo stesso. Se no, è inutile invitare Carlo Lio, il Garante Regionale, a inaugurare uno “Sportello del Garante” negli spazi di via per Cassano. Una bella iniziativa a cui non mancherò di sicuro, nonostante Lei non me ne abbia mai fatto menzione, e ne sia dovuto venire a conoscenza insieme a tutti gli altri Garanti attivi in Lombardia, tramite e-mail di invito spedita dalla segreteria del Difensore Regionale, su iniziativa del mio più prestigioso collega, che ovviamente aspetto e ringrazio. Insieme a lui, magari, potrà riguardare il Regolamento che disciplina la mia figura e le mie funzioni, approvato dal Consiglio Comunale di Busto Arsizio con delibera n. 57 del 4 giugno 2013. Benché io stesso le consideri uno strumento fondamentale, vedrà che le “visite” sono citate solo al quarto punto (di quattro) dell’Articolo 3, che regola appunto le “Funzioni del Garante”. Il primo dei quattro, invece, parla di “partecipazione alla vita civile”, “con particolare riferimento ai diritti fondamentali, alla casa, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport;”. Come a dire che proporre momenti di cultura e svago, nonché delle occasioni di sport e lavoro, è tanto un mio diritto quanto un mio dovere. Quindi, continuerò a chiedere conto delle proposte già avanzate e, magari, a farne altre. Almeno finché sarò io il Garante. Se poi Lei non sarà proprio mai disposto a vedermi se non come un chiacchieratore seriale, un mero supporto morale o un aiuto per le piccole cose, valuterò se rinunciare al mio ruolo (sentendomi impossibilitato a svolgerlo come si deve) e propormi come volontario. Come saprà, ho seguito tutte e quattro le serate del corso organizzato da quelle associazioni cui mi riferivo più in alto, e il 12 novembre ritirerò il relativo attestato. Intanto, sul tavolo ha quattro mie proposte, oltre a “Spes contra Spem”. Sta a Lei decidere se accoglierle (una o tutte) in nome del buon senso e della cosiddetta “umanizzazione delle pene”, o se riservarmi ancora lo stesso ostruzionismo praticato fin qui. Quell’ostruzionismo che io, in nome di una possibile collaborazione presente e futura, nel mio fantomatico “sfogo” avevo provato a far passare come temporanea inefficienza dell’Ufficio Trattamento. Detto questo, per amor di verità non posso chiudere senza riconoscerLe almeno l’eleganza di non aver voluto commentare le mie possibili dimissioni. Qualora Lei volesse riflettere sulle proprie - o se volesse farlo qualcun altro -, Le userò la stessa cortesia. Non sono tipo da serbare rancore: quando riuscirà a ottenere almeno una parte degli educatori che spettano alla C.C. di Busto Arsizio, per me sarà tutto risolto. Il problema, del resto, non siamo né io né Lei, ma il Senso delle Istituzioni e soprattutto la quotidianità di circa 420-430 detenuti e degli agenti che li hanno in custodia. Quello di cui parlo nella relazione che consegnerò all’Amministrazione comunale e ai miei ex colleghi consiglieri, ruolo a cui ho rinunciato proprio per svolgere al meglio questo nuovo incarico, propostomi dopo le infauste - ma comprensibilissime - dimissioni anticipate del mio predecessore. Con immutata disponibilità”. Matteo Tosi Crotone: il Garante incontra il Provveditore regionale e la Direttrice del carcere ilcirotano.it, 29 ottobre 2018 Il Comune di Crotone, dopo Reggio Calabria, è il primo comune capoluogo calabrese a dotarsi di questo importante istituto. Abbiamo costituito l’ufficio e siamo pronti ad una proficua collaborazione” ha detto il presidente del Consiglio Comunale Serafino Mauro in occasione della conferenza stampa che si è tenuta sabato mattina nella Sala Giunta per la presentazione dell’avv.to Federico Ferraro, neo Garante Comunale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Presenti all’incontro con i giornalisti il provveditore regionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dott. Massimo Parisi, la direttrice della Casa Circondariale di Crotone Emilia Boccagna e il garante dei detenuti del Comune di Reggio Calabria Agostino Siviglia. Ha fatto pervenire un messaggio di buon lavoro il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali Stefano Anastasìa. “La figura del Garante dei detenuti o delle persone private della libertà personale rappresenta un organismo di garanzia, una sorta di difensore civico di settore, in grado di costruire un rapporto di collaborazione propositiva con le autorità responsabili, attraverso il monitoraggio e la visita, nei luoghi di privazione della libertà personale come le carceri, i luoghi di polizia, ed i centri per gli immigrati. Mi impegnerò per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale anche mediante la promozione dell’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e fruizione di servizi comunali e promuove iniziative volte ad affermare per le persone sottoposte a misure restrittive il pieno esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione” ha detto il Garante Comunale Federico Ferraro. “La sinergia istituzionale in questo settore è fondamentale. Deve prevalere su tutto la dignità della persona. Ecco perché è necessario che si pongano le condizioni e si realizzino progetti affinché il tempo della pena detentiva non sia tempo perduto” ha detto il provveditore regionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Massimo Parisi. “L’interlocuzione con le istituzioni è cruciale. Il nostro ruolo è finalizzato anche ad accompagnare il successivo percorso di reinserimento, una volta esaurita le pena detentiva, delle persone nel contesto sociale” ha detto il garante dei detenuti del Comune di Reggio Calabria Agostino Siviglia. “Abbiamo già avuto un confronto positivo con il Garante Comunale che rappresenta un tassello importante nella rete di istituzioni finalizzata ad applicare l’esecuzione della pena secondo principi di umanità e di rispetto della dignità della persona” ha detto la direttrice della Casa Circondariale di Crotone Emilia Boccagna. Pescara: i detenuti leggono le “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci huffingtonpost.it, 29 ottobre 2018 Materiale recitato nelle classi serali e carcerarie dell’Istituto Aterno-Manthoné. Le “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci, la novella “Il treno ha fischiato” di Luigi Pirandello, alcuni dialoghi di “Aspettando Godot” di Samuel Beckett e la poesia “Liberté” di Paul Éluard. È il materiale recitato dai detenuti del carcere di Pescara iscritti alle classi serali e carcerarie dell’Istituto tecnico statale Aterno - Manthoné del capoluogo adriatico. L’iniziativa rientra nell’ambito del progetto nazionale ‘Libriamoci. Giornate di lettura nelle scuolè promossa dal Centro per il libro e la lettura. L’obiettivo del progetto, che ha creato un confronto tra gli studenti del corso per adulti dell’Istituto Aterno Manthoné con i detenuti-studenti della Casa circondariale di Pescara, era quello di “leggere come conquista della libertà interiore e di apertura a mondi nuovi”. Venerdì, invece, per i ragazzi dei corsi del mattino, la scuola ha promosso un’altra iniziativa: brani dell’Arminuta, il romanzo dell’abruzzese Donatella Di Pietrantonio, premio Campiello 2017, con la partecipazione dello showman Vincenzo Olivieri, che ha letto alcuni brani del suo libro “Sorridi, se hai tempo”. Migranti e terrorismo, Minniti racconta il suo Viminale di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 29 ottobre 2018 Nel libro dell’ex ministro i retroscena degli incontri esteri. Il Viminale visto da dentro. Raccontato da chi lo ha guidato in uno dei momenti certamente strategici sia nella gestione dei flussi migratori, sia nella prevenzione degli attentati fondamentalisti. Ecco perché il libro scritto per Rizzoli da Marco Minniti - “Sicurezza e Libertà, terrorismo e immigrazione contro la fabbrica della paura” - si trasforma in una sorta di diario sui momenti cruciali vissuti dal nostro Paese. E diventa documento prezioso per svelare i retroscena di incontri di altissimo livello internazionale. Ma anche per ricostruire quanto avvenuto prima e durante la visita di papa Francesco in Africa per l’apertura del Giubileo, quando Minniti era a Palazzo Chigi come sottosegretario delegato ai servizi segreti. Per governare il problema dei migranti Minniti parte da una convinzione: “L’Italia e la Libia sono vittime dei trafficanti di esseri umani”. E per questo è interessante scoprire i suoi incontri con il presidente Al Serraj, ma soprattutto con il generale Haftar. Con lui ha avuto un colloquio di “due ore e quarantacinque minuti, un tempo infinito, anomalo, ma sicuramente positivo”. L’ex ministro rivela i dettagli: “Haftar era rimasto molto colpito dalle notizie, infondate, che riferivano di un rafforzamento della presenza militare italiana a Misurata. Non c’era stato nessun incremento militare ma solo un cambio del comando dell’ospedale, a cui era seguita una cerimonia poi raccontata con troppa enfasi. Mentre discutevamo, mi accorsi che per Haftar il punto nevralgico era costituito proprio da quella cerimonia. Provai una carta: “Lei è l’unico che può capire fino in fondo quello che io sto cercando di dire”. I presenti rimasero per un attimo con il fiato sospeso, nessuno di noi sapeva come avrebbe potuto reagire l’uomo forte della Cirenaica. Non si poteva nemmeno escludere che interpretasse addirittura la mia affermazione come una mancanza di rispetto. Dopo un attimo di sospensione, rispose: “Hai perfettamente ragione, a volte noi militari siamo fatti così”. Scoppiò una risata generale, il clima si distese e da quel momento l’incontro cominciò ad andare in discesa”. Momenti concitati anche in occasione del Giubileo perché “per volontà papale l’apertura della Porta Santa si tenne infatti a Bangui, in Centrafrica, un Paese tra i più difficili e rischiosi al mondo”. Furono coinvolte Italia e Francia, Parigi fece sapere che “sconsigliava il viaggio per motivi di sicurezza”. Minniti ricorda “l’irrevocabile volontà del Santo Padre a partire”. Ricostruisce quanto fatto dall’intelligence, il successo del viaggio, il messaggio per la lotta al terrorismo e la busta ricevuta “con una foto del Santo Padre con i suoi angeli custodi, tutti con indosso la maglietta della gendarmeria vaticana” anche se “mi è parso di intravedere qualcuno che della gendarmeria vaticana non era”. Qualcuno che evidentemente aveva portato a termine la missione. L’età della sconnessione: ora va di moda la “tecno-prudenza” di Massimo Sideri Corriere della Sera, 29 ottobre 2018 I leader della Silicon Valley iniziano ad esprimere timori sugli eccessi da connessione. E Tim Cook plaude alla normativa Ue sulla privacy. Immaginate uno sceicco arabo che si raccomanda con l’autista dei figli di uscire tassativamente con l’auto elettrica (“il petrolio inquina!”). Immaginate il capo di una compagnia aerea che si raccomanda con la famiglia di prendere il treno (“gli aerei sono pericolosi!”). Ora immaginate i ricchi della Silicon Valley che pagano le proprie tate per non usare mai lo smartphone quando sono con i figli. O che mandano i figli in scuole private off limits per la tecnologia (“fa male al cervello e distrae!”). Vivere senza schermi - Le prime due scene non le vedremo mai, forse nemmeno al cinema. Ma alla terza stiamo già assistendo come ha riportato il New York Times in questi giorni: il fenomeno è chiamato off screen, vivere senza schermi. Ma che cosa significa se i turbo-digitali della Silicon Valley, con un evidente paradosso, iniziano ad esprimere tecno-prudenza? Che, perlomeno, vale la pena di rifletterci, tutti. La tecnologia di consumo dal punto di vista sociale potrebbe diventare come il fast food: più si appartiene a fasce agiate e meno si incede ad essa. A Manhattan gli hamburger ci sono, ma vengono ordinati nei ristoranti e costano 25 dollari. Così in sostanza se un bambino più agiato avrà magari anche i giocattoli svedesi in legno accanto al tablet chi ha di meno rinuncia a tutto il resto per uno smartphone. Tra partecipazione ed esclusione - Questo aspetto torna anche in Italia: il cellulare è socialmente ed economicamente trasversale. Cambia il modello e lo status symbol annesso ma non la sostanza. E d’altra parte è vero che questo strumento è ormai la porta di accesso a servizi e socialità: informazioni, auto e biciclette in condivisione, tasse, documenti e pubblica amministrazione. L’alternativa è l’esclusione ascetica dalla società moderna. Ma questa constatazione non vuole dire rinunciare allo spirito critico. Far West dei dati - In questi giorni anche l’amministratore delegato della Apple, Tim Cook, ha elogiato la regolamentazione europea sul trattamento dei dati degli utenti. In parte è marketing: Apple ha fatto della difesa della privacy degli utenti il proprio punto di forza, fino ad arrivare all’eccesso di rifiutarsi di estrarre le informazioni nell’iPhone di un terrorista due anni fa. La sua posizione è in evidente contrapposizione con società come Google e Facebook i cui modelli di business si basano sul mantenimento del Far West dei dati. Ma in realtà anche la California è sinceramente preoccupata degli effetti totalizzanti dello screen del telefono, non solo su bambini e ragazzi in età scolastica. L’indagine - Un’indagine su 2.612 studenti delle scuole superiori di Milano ha rilevato come siano in molti a guardare lo smartphone anche quando attraversano una strada (556) o guidano la bici (346). Si tratta di dipendenza patologica, lo sappiamo bene: un decimo degli intervistati ha confessato di controllare subito appena arriva una notifica, anche in fase di attraversamento della strada. È probabile che gli altri 9 decimi abbiano preferito non confessare. Noi lo faremmo? Il divario digitale potrebbe essere molto diverso da quello che ci aspettavamo: non una carenza di accesso alle piattaforme online ma, al contrario, un eccesso di permanenza sugli schermi. Nuovi privilegi - Di fatto se la condizione sociale sarà una variabile rilevante nel creare una difesa dagli effetti negativi dell’on screen l’alfabetizzazione digitale di massa potrebbe accompagnarsi a un analfabetismo analogico diffuso. Mentre il privilegio di starsene in pace di fronte a un libro di carta, o a un giornale, diventerà roba per ricchi. Migranti. Rimpatrio dalla Francia su treno italiano: lo stop dei ferrovieri Corriere della Sera, 29 ottobre 2018 Un rimpatrio forzato, questa volta usando un treno italiano. Come riporta la Stampa, un uomo, forse del Mali, è stato fatto salire dalla gendarmeria su un treno diretto a Torino alla stazione di Modane. A impedire il rimpatrio forzato i ferrovieri, che hanno avvisato la centrale della polizia ferroviaria e, all’arrivo del treno alla stazione di Bardonecchia, in Alta Val Susa, fanno scendere l’extracomunitario affidandolo alla polizia. L’identificazione del migrante - Gli investigatori sono ora al lavoro per identificare il migrante e verificare se abbia raggiunto Modane attraverso i sentieri di montagna. Oppure, come contestato dagli agenti francesi, abbia raggiunto la località nello stesso modo in cui è stato costretto a tornare in Italia. Dell’episodio sarebbe stata informata anche la Questura di Torino. Salvini: “L’Italia pretende rispetto” - “Aggiungiamo un altro capitolo al lungo elenco di lamentele. L’Italia pretende rispetto!” commenta il ministro dell’Interno Matteo Salvini. “È l’ennesimo episodio di arroganza francese. Ma grazie alle nostre forze dell’ordine e anche al personale di Trenitalia che non ha abbassato la testa - aggiunge Salvini. In settimana ci saranno contatti ufficiali con i francesi dopo gli sconfinamenti di Claviere”. L’inchiesta della Procura di Torino - Intanto procede l’inchiesta della Procura di Torino che contesta alla polizia francese i reati di porto illegale di arma da guerra in territorio italiano e minaccia aggravata dall’uso delle armi nei confronti di cittadini italiani. Per questo episodio, come già accaduto nell’aprile scorso per i fatti di Bardonecchia, la Procura nelle prossime ore procederà a emettere un ordine d’indagine internazionale per chiedere alla magistratura francese di identificare i gendarmi. “L’immigrato non è un peso di cui sbarazzarsi”, ha detto il procuratore capo Spataro, aggiungendo: “Abbiamo elementi che ci permettono di dire che si tratta di corpi speciali della gendarmeria francese”. Stati Uniti. L’uomo bianco che semina l’odio di Vittorio Zucconi La Repubblica, 29 ottobre 2018 Arriva il giorno nel quale si scopre che il nemico siamo noi e contro di noi siamo disarmati. In 72 ore della scorsa settimana, “bravi ragazzi” bianchi e americanissimi fanno strage di americani bianchi e americanissimi come loro in una sinagoga di Pittsburgh, abbattono a freddo due clienti afroamericani in un supermarket del Kentucky, spediscono lettere bomba a personalità ed ex presidenti del Partito democratico e non ci sono alibi di fanatismo religioso, ombre di diabolici sceicchi, complotti di servizi deviati per spiegare. C’è soltanto il frutto sanguinoso dell’albero dell’odio, che torna rigoglioso, concimato dal cinismo del nazional- populismo razzista. Non ci sono risposte militari o poliziesche capaci di fermare il terrorista fra di noi, perché nessuno di questi stragisti che fanno massacri da un hotel di Las Vegas, che irrompono in una chiesa di Charleston e uccidono nove fedeli di colore, che falciano almeno undici vite in una sinagoga per punire gli ebrei “che finanziano e profittano dall’immigrazione clandestina”, sono i vicini, i commessi dei negozi, i militanti ai comizi. Uomini, sempre uomini per ora, che vivono al confine sottilissimo fra la passione politica e la patologia mentale, oltre il quale li spinge la predicazione del suprematismo razziale e della demonizzazione dei diversi da loro. Il solo antidoto efficace, anche se non istantaneo, non sono le guardie armate che D onald Trump vorrebbe piazzare in ciascuno dei 350 mila luoghi di culto, chiese, moschee, sinagoghe, aperti negli Stati Uniti, trasformando istituzioni di accoglienza e di fraternità per definizione in campi armati, tra giaculatorie e Kalashnikov. Non si possono pattugliare miliardi di farneticazioni scritte sui social network, dove spesso il “nostro” terrorista esterna il proprio odio, perché sarebbe fisicamente impossibile interrogare di persona i milioni di individui che esprimono i propri rancori in un momento di ira. L’antidoto si trova al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, alla Casa Bianca, dove risiede per almeno quattro anni la persona alla quale la nazione affida, in una funzione insieme amministrativa e mistica, la cura dell’unità nazionale e della coesistenza fra culture ed etnie diverse incardinata nella Bibbia laica, la Costituzione. Ma in questo 2018, l’antidoto è divenuto il veleno. E il custode del tempio dell’American religion è quel Trump che ha fatto del settarismo più sfacciato lo strumento del proprio successo. Il candidato incendiario, che ha messo a ferro e fuoco gli avversari invocando cori di “mettetela in galera” contro la sua avversaria, che usa espressioni staliniane definendo la libera informazione “nemici del popolo”, non risulta molto credibile quando si presenta come infermiere nella settimana di sangue. Non è stato certamente Trump a seminare la pianta dell’odio suprematista né della violenza politica, che non è affatto nuova né sconosciuta nella storia di una repubblica che ha visto, e continua a vedere, il ribollire di tentazioni violente. Gli Stati Uniti come li conosciamo oggi nascono, dopo la rivoluzione e l’indipendenza, da un bagno di sangue fratricida che costò 650 mila vite e impedì la secessione. Il rifiuto dell’eguaglianza razziale produsse il Ku Klux Klan e migliaia di linciaggi e assassinii, come la rivolta armata era l’ideale delle Black Panther e il dissenso politico a volte è a portata di mano come il fucile Mannlicher-Carcano imbracciato da Lee Harvey Oswald, Né è prerogativa della destra, essendo stato un fan di Bernie Sanders l’uomo che sparò due anni or sono al deputato repubblicano Scalise, mentre giocava a baseball. Ma quando il culto del nazionalismo diventa l’instrumentum regni, quando la nostalgia per un’America bianca ed etnicamente omogenea dove gli immigrati sono “stupratori e spacciatori” e i neri sono “mangiatori a sbafo” esce dai saloon e dalle roulotte dove viveva uno dei terroristi ed entra alla Casa Bianca, la violenza si sente legittimata, il razzismo si fa linea politica mainstream. E il Presidente perde quella funzione rassicurante che nei momenti più tragici dovrebbe assumere. Il “rimboccare le coperte dell’America al momento di dormire”, come diceva Ronald Reagan, che sapeva muoversi fra la politica di parte e il ruolo semi paterno del Capo della nazione. Trump non ha inviato bombe o tirato raffiche in sinagoga. È prigioniero della trappola che è stata la rampa di lancio del suo successo, quella del populismo del rancore oggi rampante ovunque, della collera degli sconfitti che bevono la predicazione violenta contro gli “altri”, causa di tutti i loro mali, gli immigrati, i non bianchi, i “vermi” progressisti, i negatori della (mia) vera fede, i gay, gli immancabili ebrei alfa e omega del razzismo, ma quando arrivano al governo scoprono che gli “altri” esistono. Che non sono stati cancellati con qualche scheda elettorale. Che il nuovo pontefice laico deve governare anche per loro e non si può amministrare una nazione “contro” l’altra metà. I pazzi non sono coloro che impugnano le armi o spediscono ordigni, perché nella loro azione c’è il segno della coerenza: se l’avversario è il “Male”, come disse Trump, il Male va soppresso. Il pazzo, o meglio l’irresponsabile, è colui che scioglie i cani rabbiosi dell’odio e del fanatismo e poi si meraviglia se non tornano più docili a cuccia. Stati Uniti. Con i disperati in marcia verso il sogno americano di Paolo Mastrolilli La Stampa, 29 ottobre 2018 In diecimila partiti dall’Honduras si dirigono a piedi verso Città del Messico. La meta sono gli Stati Uniti: “Non abbiamo paura dell’esercito di Trump”. “I mafiosi volevano il pizzo ma io avevo più i soldi per pagarli. Allora un giorno sono entrati e hanno sparato a mia moglie Marta, che stava al bancone. Sei colpi in faccia, per sfigurarla”. E poi? “Durante il funerale sono venuti da me e mi hanno detto “Junio, questo è solo l’inizio. Se non paghi, la prossima volta tocca ai tuoi figli”. Così, quando ho saputo della carovana, ho raccattato quattro cose e sono scappato a piedi con i miei bambini”. La storia che Julio Garda mi racconta davanti al municipio di San Pedro Tapanatepec, dopo aver camminato per oltre mille chilometri dal Guatemala fino allo Stato messicano di Oaxaca, è uguale a tante altre che senti dai disperati della carovana in viaggio verso gli Stati Uniti. Una sfida politica a Trump, senza dubbio, magari anche un po’ manovrata, ma certamente il grido di dolore di una regione arrivata davanti ad un punto di non ritorno. La carovana è partita circa un mese fa in Honduras, e lungo la strada ha raccolto poveracci da Guatemala, Nicaragua, Salvador e altri Paesi dell’America Centrale. Bartolo Fuentes, un politico honduregno di sinistra, ha ammesso di averla organizzata, ma non può dipendere tutto da lui. L’amministrazione Trump sospetta il Venezuela di averla finanziata, e persino i democratici, che però così si sarebbero sparati nei piedi, rilanciando l’emergenza delle migrazioni proprio alla vigilia del voto Midterm del 6 novembre. Il presidente poi, senza fornire prove, ha detto che in questo esodo di circa diecimila persone “si nascondono dei mediorientali”, cioè presunti terroristi che sperano di penetrare gli Usa infiltrandosi tra gli stremati in cerca di asilo. Per raggiungere la carovana parto da Tapachula, la cittadina al confine col Guatemala dove i migranti hanno attraversato la frontiera. La polizia messicana al principio ha cercato di fermarli, ma poi ci ha rinunciato. Percorrendo in auto gli stessi trecento chilometri che loro hanno fatto a piedi, tra le montagne del Chiapas che un tempo erano il regno della guerriglia zapatista del Subcomandante Marcos, incontro almeno sette posti di blocco fissi di polizia ed esercito. In tre vengo fermato e fotografato, mi chiedono i documenti e dove vado. In altre parole, se il presidente Peria Nieto avesse voluto bloccare la carovana avrebbe potuto, ma ha scelto di non farlo. Primo, perché non voleva scontri che avrebbero infangato l’immagine del suo Paese; secondo, perché non ritiene di poter negare il diritto delle persone a spostarsi, emigrare, cercare una vita migliore. Quindi ha proposto il programma “Estas en Tu Casa”, che offre permessi di lavoro temporanei e assistenza ai migranti che restano in Messico, negli Stati di Chiapas e Oaxaca. Meno di mille hanno accettato, e ancora meno sono tornati indietro. Julio Garda spiega perché il compromesso è impossibile: “Ma come fa Trump a dire che noi siamo gli invasori? Con tutto il rispetto, suo nonno è immigrato illegalmente dalla Germania un secolo fa, mentre la mia famiglia vive in America da quando abbiamo memoria”. Lui conosce queste dinamiche perché è cresciuto a Los Angeles: “Guidavo i camion, ma una volta mi hanno beccato che avevo bevuto. Allora sono tornato in Guatemala per farmi una famiglia. Ho una bambina e un bambino di un anno e tre mesi. Gestivo con mia moglie un negozio che vendeva biancheria di Victoriàs Secret, fino a quando non l’hanno ammazzata”. Juan Rodriguez è venuto a piedi dall’Honduras, portando la moglie e il figlioletto Jonathan di un anno. Ma perché esporre un bambino a rischi così grandi? “Nel mio Paese - risponde - gli unici posti di lavoro disponibili sono quelli con i trafficanti di droga. La violenza governa. Non ne potevamo più, non c’erano alternative a fuggire”. Juan storce la bocca, quando gli ricordo che Trump accusa i narcos di aver infiltrato la carovana: “Ma vi sembra possibile che per consegnare le loro dosi facciano duemila chilometri a piedi? Dai, solo un disperato fa come me”. Jeff Valenzuela, leader dell’organizzazione Pueblo Sin Fronteras, smonta invece il sospetto dei mediorientali: “Giuro di non aver visto neppure un musulmano, da quando ho iniziato a accompagnare la marcia. Ma poi non avrebbe alcun senso. Vi pare che i terroristi, dopo aver addestrato uno di loro per una missione negli Usa, lo mettano a rischio facendolo andare a piedi per duemila miglia verso il confine? Sperando cosa? Di entrare nascosto tra la gente di una carovana che sta attirando l’attenzione di tutto il mondo?”. Sulla storia dei criminali, invece, il portavoce Alejandro Martinez del Nicaragua ha una sua teoria: “Alcuni sono pagati per infiltrarsi, creare problemi, e metterci in cattiva luce. Ieri sera, per esempio, si è diffusa la voce che un ragazzo aveva cercato di rapire un bambino. C’è stata una rissa, ma non era vero. Intanto però noi abbiamo fatto la figura dei delinquenti”. Nessuno dice chi ha organizzato la marcia, e tutti giurano che è stata spontanea. Infatti un’altra si è già messa in cammino dal Guatemala ed è arrivata al confine. Molti gruppi però la stanno accompagnando, un po’ per aiutarla, e un po’ per usarla a scopi politici. Jeff Valenzuela giura che “noi siamo tutti volontari e nessuno ci paga. Pueblo Sin Fronteras è un’associazione che ha sede negli Usa e in America Latina, nata con lo scopo di aiutare i migranti. Non rivendichiamo di aver organizzato la carovana, ma la sosteniamo”. Poi ci sono i rappresentanti dell’Ufficio peri diritti umani del governo messicano, e i volontari della Secretaria de Salud, come il medico Manuel: “Forniamo l’assistenza sanitaria a chi ne ha bisogno. Le patologie prevalenti fra i membri della carovana sono fratture, ferite, malattie respiratorie e problemi gastrointestinali”. Il sole poi brucia dalla mattina alla sera, sulle montagne verdi tra Chiapas e Oaxaca, e quindi “dobbiamo garantire che i bambini siano idratati. Altrimenti si muore”. Il cibo, invece, lo dona la gente dei villaggi attraversati: tacos, tamales, quello che c’è sulle tavole delle loro case. Poco prima di mezzogiorno si riunisce il comitato che decide le prossime mosse, e Martinez annuncia: “Domattina alle tre ci rimettiamo in marcia, per andare a Santiago Nilpetec”, un paesino circa cinquanta chilometri a Nord di qui. Valenzuela spiega: “L’obiettivo è arrivare a Città del Messico, per una discussione con il governo riguardo le politiche dell’immigrazione e l’accesso al confine con gli Stati Uniti. Alcuni forse accetteranno le offerte di asilo messicane. Gli altri poi decideranno se proseguire verso la California, l’Arizona o il Texas”. Julio Garda non teme i soldati che Trump minaccia di mandare alla frontiera: “E cosa faranno? Al massimo ci spareranno addosso. Ma questo già succede a casa nostra con i mafiosi, e quindi non abbiamo nulla da perdere a provarci”. Julio poi aggiunge in perfetto inglese: “Sono cresciuto in California, e capisco che il presidente usa la nostra carovana a scopi politici, per mobilitare la sua base in vista delle elezioni Midterm con la paura dei migranti. Ma io ero uno di loro, e intorno a me vedo solo poveracci in cerca di una vita decente. Riuscirà Trump a resistere a tutte le pressioni interne e internazionali, quando noi arriveremo al confine? Magari allora ci penserà il Canada a salvarci, e gli Stati Uniti faranno di nuovo la figura mondiale del paese fatto di immigrati, ma senza cuore verso i migranti, come è già successo quando hanno internato i bambini separati dai loro genitori alla frontiera. Quanto durerà Trump, così? Fino a quando la maggioranza degli americani continuerà ad appoggiarlo, capendo che non c’è alcuna minaccia da parte nostra? Non siamo né terroristi, né narcotrafficanti, né stupratori, tranne qualche criminale pagato per rovinare la nostra immagine. Poveri sì, ma persone decenti che vogliono solo lavorare onestamente, per dare alle loro famiglie un futuro. Come tutti i cittadini americani, che in un modo o nell’altro sono tutti figli o nipoti di immigrati illegali, incluso Trump. Lui si comporta in maniera crudele contro persone che cercano un’esistenza migliore, perché così guadagna voti. E vuole anche ridurre l’immigrazione legale, quando gli Usa ne avrebbero bisogno”. Maria Ramirez, portavoce di un gruppo di donne partite dall’Honduras, stringe la “Sacra Biblia” e abbraccia sua figlia. “Dateci un percorso legale per entrare, e vi dimostreremo chi siamo. Oppure aiutateci a contrastare violenza e povertà nei nostri Paesi, e resteremo. Ma dite a Trump che stiamo solo inseguendo il nostro sogno”. Libia. Il generale Haftar a Roma per discutere della Conferenza di Palermo di Vincenzo Nigro La Repubblica, 29 ottobre 2018 L’uomo forte della Cirenaica in visita in Italia in vista della conferenza di Palermo del 12 e 13 novembre. Potrebbe chiedere al premier italiano di rispedire a Tripoli al più presto l’ambasciatore Giuseppe Perrone. Il generale Khalifa Haftar, capo della fazione militare che controlla buona parte della Cirenaica, è arrivato stamattina a Roma dove incontrerà il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e altri dirigenti del ministero degli Esteri. Haftar ha accettato l’invito di Conte per discutere la preparazione della conferenza di Palermo che l’Italia ha organizzato il 12 e 13 novembre nel capoluogo siciliano. Nell’impegno di coinvolgere il generale libico nella preparazione di Palermo, Conte sicuramente è riuscito ad avere anche l’appoggio della diplomazia russa. Il presidente del Consiglio nella sua visita a Mosca ha invitato formalmente Vladimir Putin, ma soprattutto ha chiesto l’appoggio della sua diplomazia che ha buona influenza su molti attori libici, fra i quali innanzitutto lo stesso Haftar. A sorpresa Haftar dovrebbe chiedere a Giuseppe Conte di rispedire a Tripoli al più presto l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, che il governo italiano ha “congelato” dopo che lo stesso Haftar lo aveva contestato per alcune dichiarazioni del diplomatico fatte in una intervista televisiva. Perrone è finito al centro di una evidente fase di indecisione e caos fra le autorità italiane, con contrasti fra Palazzo Chigi, Farnesina e Aise, i servizi di sicurezza che in Libia hanno una grande presenza. Ma il lavoro di Perrone è sempre stato difeso dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, che ha chiesto di “non sacrificare un nostro ambasciatore perché che lo ha chiesto un attore straniero”. A Roma dovrebbe arrivare presto anche il presidente del Consiglio di Stato (il “Senato” libico) Khaled al Mishri e mercoledì il presidente del Parlamento di Tobruk Agila Saleh per discutere i temi di Palermo. Inizialmente la Farnesina aveva previsto un formato allargato con molti partner internazionali, mentre a questo punto si lavora per avere almeno i 4 principali protagonisti libici (Haftar, Serraj, Mishri e Agila). Armi ai sauditi, gli interessi più forti dell’orrore di Andrea Bonanni La Repubblica, 29 ottobre 2018 Dopo l’omicidio di Stato del giornalista Jamal Khashoggi per mano di killer venuti da Riad, Angela Merkel è stata la prima tra i capi di governo europei, ad annunciare provvedimenti puntivi nei confronti dell’Arabia Saudita sospendendo la vendita di armi. L’Austria, che ha la presidenza di turno della Ue, ha fatto lo stesso e ha chiesto una riunione dei rappresentanti permanenti per discutere un possibile embargo della vendita di armi da parte di tutta l’Unione. Anche il Parlamento europeo si è espresso a favore di limitazioni sulla vendita di armi al regno saudita. Ma una decisione in questo senso è tutt’altro che scontata. Il presidente Macron è intervenuto pubblicamente definendo la proposta di sospensione della vendita di armi “demagogica”, e negando che il commercio di armi con l’Arabia Saudita abbia qualche connessione con l’omicidio Khashoggi. Anche la Gran Bretagna, per bocca di Theresa May, è sembrata poco convinta. In realtà, se si guarda al volume delle vendite di armi ai sauditi, si riscontra una corrispondenza tra volumi commerciali e ostilità alle sanzioni. Nel 2017 l’Austria ha venduto a Riad armi per solo 1,5 milioni di euro. La Germania, che è uno dei grandi esportatori di armi nel mondo, per 400 milioni. La Gran Bretagna per oltre un miliardo. La Francia per 1,8 miliardi, senza contare che Parigi ha spesso fatto appello al nuovo corso saudita, impersonato dal principe Mohammed bin Salman, per finanziare movimenti “amici” nel Sahel dove sono impegnate truppe francesi. Come spesso succede in Europa, il conflitto di interessi economici rischia di diventare anche un conflitto culturale vero e proprio. Secondo quanto ha rivelato Der Spiegel, ancor prima dell’omicidio Kashoggi, francesi e tedeschi avevano già incrociato i ferri sulla politica di export militare. In occasione di una riunione tenuta a Parigi a fine settembre Claire Landais, segretaria generale francese alla Difesa, aveva minacciato di bloccare gli investimenti per sviluppare un ambizioso progetto francotedesco di un super aereo da combattimento, fmo a che la Germania non avesse dato garanzie che l’aereo potrà essere venduto ovunque nel mondo, anche a Paesi coinvolti in guerre e conflitti. “Garanzie di lungo termine sull’esportazione del prodotto in futuro sono essenziali per sbloccare miliardi di euro di finanziamenti da parte nostra”, ha detto Landais. Dal punto di vista puramente economico, il ragionamento francese non fa una grinza: un aereo che richiede enormi investimenti iniziali può essere redditizio solo se verrà esportato in modo indiscriminato. Ma la sensibilità tedesca su questi temi è molto più acuta di quella francese. E, pochi giorni dopo questo incidente, l’uscita di Angela Merkel sulle forniture militari a Riad lascia capire che la conciliazione culturale tra le due sponde del Reno è ancora lontana dall’essere completa. Venezuela. Torture e morte nelle carceri speciali di Maduro italiastarmagazine.it, 29 ottobre 2018 Un faro sulle carceri speciali della polizia politica di Maduro dove recentemente è morto “suicida” il consigliere di Primera Justicia Fernando Alban e dove sono ancora detenuti decine di prigionieri politici, come il deputato d’opposizione Juan Requesens, in carcere dal 4 agosto senza processo e senza le garanzie che gli garantirebbe la Costituzione. Onu e Amnesty International hanno denunciato con forza le continue violazioni dei diritti umani da parte del governo chavista e hanno già disposto inchieste e accertamenti diretti. E proprio in queste ore gli agenti della Sebin hanno perquisito le case, senza mandato, di numerosi esponenti dell’opposizione. Compresi alcuni molto conosciuti dalla comunità italiana di Caracas. “Cerchiamo di informare l’opinione pubblica di quanto accade ma la morsa della censura è sempre più forte, giornali vengono chiusi, manca la carte, le connessioni web bloccate o disturbate. Abbiamo bisogno dell’aiuto dei media internazionali”. Il faro lo accende Lorent Saleh, premio Sakharov 2017, ex prigioniero politico in esilio, rilasciato dopo 3 anni di carcere e subito dopo la morte di Alban, che ha rilasciato la sua prima intervista al quotidiano spagnolo El Mundo in cui ha spiegato il sistema di tortura il fabbricato che il quartiere generale della famigerata Sebin. È un documento eccezionale, che rivela in che modo - nella disastrosa crisi economica che costringe i venezuelani alla fame e alla miseria - riesce a mantenere il potere con la repressione, la violenza e la tortura. Saleh ha sottolineato le notevoli differenze tra le due carceri per prigionieri politici del paese. “Nella Tumba prevale la tortura psicologica, in una specie di manicomio futuristico. L’Helicoide è il sovraffollamento, il cattivo odore, gli scarafaggi e i topi”. La Tumba, gestito dagli sgherri del Servizio Nazionale Bolivariano di Intelligence (Sebin), sede di Plaza Venezuela, è “un laboratorio per l’applicazione di alcuni tipi di tortura, all’insegna della tecnologia usata per la tortura psicologica”. “Ti ammanettano. Si cerca di resistere ai getti d’acqua gelida sul corpo ogni ora. La luce bianca, sempre accesa..... Poi la corrente elettrica..... I colpi inferti sul corpo. I polsi protetti giornale con nastro adesivo - in modo che le manette non lascino un segno. Stesso nella testa. E questo nel mio caso. Sono stati attenti a non lasciare un segno. Erano alla ricerca di alternative alla violenza che non lascia segni per restare impuniti”, ha rievocato. “Sei circondato e vieni picchiato, le manette non lasciano segni. E questo nel mio caso (.....) altri prigionieri si sono rotti direttamente le costole e sono stati lasciati morire”. Il suicidio come estrema arma di difesa - Saleh, negli anni di detenzione, ha tentato per quattro volte il suicidio, ma non perché voleva morire, ma perché era la sua ultima risorsa. Se fosse morto, avrebbe avuto un senso, i suoi carcerieri avrebbero potuto andare in prigione. “I miei tentativi di suicidio erano una forma di sfida alla dittatura (.....) I dittatori devono essere sfidati. Così sanno di non essere dei. Si può anche sanguinare e piangere e soffrire. Questa è la vera resistenza: la sfida”. Dopo due anni e mezzo a La Tumba, è stato trasferito a El Helicoide “Il vero simbolo dello stato mafioso” per il livello di estorsione anche economica dei prigionieri. Inoltre, ha spiegato la disumanizzazione del luogo: “Ho visto uomini inginocchiarsi per essere picchiati. E il peggiore, il più terribile e scioccante, ho visto gli uomini non fare nulla di fronte alla sofferenza degli altri uomini”. Descrive come ha visto come gli altri detenuti si prestavano a maltrattare gli altri, come un modo per evitare di essere maltrattati. “Alcuni si abituano a colpire, sottomettere, torturare. Ma la cosa peggiore è che gli altri si abituano ad essere picchiati, sottomessi, torturati (....) in El Helicoide trattano i prigionieri peggio dei cani e la maggior parte di loro lo sopporta”. Sulla sua estradizione dalla Colombia al Venezuela nel 2014, ha detto che l’ex presidente Juan Manuel Santos lo ha “rapito” e lo ha consegnato in un patto con Nicolas Maduro per aver denunciato la complicità del governo colombiano con il governo venezuelano. “Non c’è mai stato un mandato d’arresto da un tribunale venezuelano o una richiesta dell’Interpol. Non sono mai stato portato davanti a un tribunale in Colombia. Non c’è mai stato un capo d’accusa firmato da un procuratore. Non mi è stato permesso di difendermi. Santos mi ha rapito e mi ha consegnato sapendo cosa mi sarebbe successo”. Rapito e consegnato a Maduro - Egli ha anche affermato di essere una persona scomoda in Colombia, poiché la sua Ong ha denunciato i casi delle vittime delle Farc, una questione delicata nel paese vicino all’epoca perché Santos stava cercando di concludere un trattato di pace con i guerriglieri. Lorent Saleh non crede sia stato del tutto sprecato il tempo trascorso in prigione. “Quello che ho imparato, nessuno me lo potrà togliere”. Il suo rilascio è stato anche per la lotta condotta ogni giorno da sua madre, Yamile Saleh, il sostegno del Parlamento europeo e di altri paesi, tra cui la Spagna. “Il Venezuela è uno stato terrorista”, sostenuto dalla paura, dalla violenza e dalla fame come strategia. Devono essere applicate le sanzioni perché non danneggiano le persone ma la cerchia di Maduro e la gente “è grata e spera che alla fine i loro torturatori siano finalmente puniti”. Saleh definisce il Venezuela “Uno stato mafioso sostenuto da militari corrotti contro cui l’opposizione, pacifica e democratica, non ha mezzi per opporsi”.