Vita detentiva e attività di lavoro: nuove misure dalla riforma penitenziaria ipsoa.it, 28 ottobre 2018 Entreranno in vigore dal 10 novembre 2018, dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto legislativo n. 124 del 2018, le misure volte a tutelare la vita detentiva e favorire il lavoro dei detenuti. Nuove regole sia per l’autoconsumo che per il volontariato e i lavori socialmente utile, con regole differenziate in base a nuovi criteri di profilazione dei soggetti detenuti. È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo n. 124 del 2 ottobre 2018 che, in accordo con la legge delega per la riforma del Codice penale, prevede le nuove misure in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario. La nuova disciplina entra in vigore dal prossimo 10 novembre 2018. Vita lavorativa dei detenuti - Negli istituti penitenziari e nelle strutture ove siano eseguite misure privative della libertà devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. A tal fine, possono essere organizzati e gestiti, all’interno e all’esterno dell’istituto, lavorazioni e servizi attraverso l’impiego di prestazioni lavorative dei detenuti e degli internati. Possono, altresì, essere istituite lavorazioni organizzate e gestite direttamente da enti pubblici o privati e corsi di formazione professionale organizzati e svolti da enti pubblici o privati. Presso ogni istituto penitenziario è istituita una commissione con il compito di: - formare due elenchi, uno generico e l’altro per qualifica, per l’assegnazione al lavoro dei detenuti e degli internati, tenendo conto esclusivamente dell’anzianità di disoccupazione maturata durante lo stato di detenzione e di internamento, dei carichi familiari e delle abilità lavorative possedute. A parità di condizioni saranno privilegiati i condannati, con esclusione dei detenuti e degli internati sottoposti al regime di sorveglianza particolare; - individuare le attività lavorative o i posti di lavoro ai quali, per motivi di sicurezza, non sono assegnati detenuti o internati; - stabilire criteri per l’avvicendamento nei posti di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, nel rispetto delle direttive emanate dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Autoconsumo - I detenuti e gli internati possono essere ammessi ad esercitare attività di produzione di beni da destinare all’autoconsumo, anche in alternativa alla normale attività lavorativa. Le modalità di svolgimento dell’attività in autoconsumo saranno definite con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, con cui saranno stabilite anche mediante l’uso di beni e servizi dell’amministrazione penitenziaria. Volontariato e lavori di pubblica utilità - La durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro e sono garantiti il riposo festivo, il riposo annuale retribuito e la tutela assicurativa e previdenziale. Ai detenuti e agli internati che frequentano i corsi di formazione professionale e svolgono i tirocini è garantita, nei limiti degli stanziamenti regionali, la tutela assicurativa e ogni altra tutela prevista dalle disposizioni vigenti. I detenuti e gli internati possono chiedere di essere ammessi a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito nell’ambito di progetti di pubblica utilità, tenendo conto anche delle specifiche professionalità e attitudini lavorative. La partecipazione ai progetti può consistere in attività da svolgersi a favore di amministrazioni dello Stato, regioni, province, comuni, comunità montane, unioni di comuni, aziende sanitarie locali, enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato, sulla base di apposite convenzioni. Le attività relative ai progetti possono svolgersi anche all’interno degli istituti penitenziari e non possono in alcun caso avere ad oggetto la gestione o l’esecuzione dei servizi d’istituto. La partecipazione a progetti di pubblica utilità deve svolgersi con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dei condannati e degli internati. Con il taser in carcere si torna agli anni Settanta di Riccardo De Vito e Patrizio Gonnella Il Manifesto, 28 ottobre 2018 Il ministro Bonafede smentisca il sottosegretario Morrone, della Lega. Il Sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone ha annunciato - in un post su Facebook ripreso dalle agenzie di stampa - di concordare con il Ministro Alfonso Bonafede sull’apertura al taser per la Polizia Penitenziaria, sostenendo la necessità di dotare, in via sperimentale, gli Istituti di pena di questo strumento di deterrenza. Aspettiamo di conoscere la posizione ufficiale del Ministro, ma auspichiamo davvero che si prendano le distanze da questa idea pericolosa e controproducente. Il sistema penitenziario non si può governare con le armi. L’introduzione della pistola elettrica nelle carceri - in spregio al disposto dell’ultimo comma dell’art. 41 dell’ordinamento penitenziario, in base al quale gli agenti in servizio nell’interno degli istituti non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal direttore - riporterebbe il carcere ad essere quel luogo violento, conflittuale e non conforme a Costituzione che il nostro Paese ha conosciuto fino a prima della riforma penitenziaria del 1975. Un carcere ben diretto, con un clima sereno al proprio interno, con un trattamento aperto, occasioni di intrattenimento, di formazione, di istruzione, di informazione riduce i tassi di conflittualità ben di più che qualche scarica di elettroshock. “Spostare subito i detenuti violenti”. Sugli attacchi agli agenti è linea dura di Maurizio Tortorella La Verità, 28 ottobre 2018 Il 2018 rischia di essere l’anno record delle aggressioni negli istituti: con questo ritmo si arriverà a 8.000. Il ministero della Giustizia fa scattare i “trasferimenti immediati”, ma il sindacato chiede anche rinforzi. Il ministero della Giustizia ha deciso il “trasferimento immediato” in altri istituti, anche lontani, di tutti i detenuti che “con i loro comportamenti compromettono la sicurezza negli istituti”. È la prima risposta alle proteste degli agenti della polizia penitenziaria: le loro organizzazioni sindacali, infatti, denunciano da mesi un’inaudita sequenza di aggressioni, che rischia di fare del 2018 l’anno record per i ferimenti degli agenti. È uno stillicidio che continua, con una serie impressionante, anche negli ultimi giorni. Il 22 ottobre, a Forlì, tre poliziotti sono stati ricoverati dopo l’attacco di un detenuto. Due giorni prima, a Verona, un recluso straniero già noto per la sua aggressività ha spedito al pronto soccorso altri tre agenti. I118, a Novara, un altro agente è finito in ospedale per il pugno di un detenuto napoletano, per di più in regime di carcere duro... Secondo i calcoli del Sappe, il sindacato autonomo della categoria, le aggressioni nel 2015 erano state 4.688, per poi aumentare a 6.552 nel 2016, e balzare addirittura a 7.446 l’anno scorso; ma già nei primi sei mesi di quest’anno il livello è arrivato alla cifra record di 3.545. È un dato che autorizza a stimare che entro la fine dell’anno si possa arrivare vicino agli 8.000 casi, anche perché negli ultimi tre mesi si è registrata una forte recrudescenza delle aggressioni: gli episodi riportati dalle cronache locali, di solito poco attente al fenomeno, hanno evidenziato decine e decine di casi. Ora si vedrà se la linea “dura” dei trasferimenti servirà a qualcosa. A deciderla è stato Francesco Basentini, l’ex procuratore aggiunto di Potenza che dallo scorso luglio è alla guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Una sua circolare, indirizzata a tutti i direttori dei penitenziari, conferma la frequenza delle “segnalazioni di eventi critici, dal danneggiamento delle camere agli episodi di violenza nei confronti del personale”. Secondo Donato Capece, segretario generale del Sappe, gli agenti feriti in carcere a causa di aggressioni da parte di detenuti sono sempre di più. Nel 2015 erano stati 921, nel 2016 erano aumentati a 949, poi nel 2017 i feriti erano stati 1.175, mentre nei primi sei mesi del 2018 sono stati 571. I dati del Dap sono, a dire il vero, molto più “prudenti” di quelli sindacali, forse perché vengono considerate soltanto le aggressioni che hanno comportato un ricovero ospedaliero di una certa durata. Al 25 settembre di quest’anno, scrive Basentini, i poliziotti feriti da detenuti sono stati 485: “Ove si mantenesse il trend”, aggiunge il magistrato, “la proiezione tendenziale entro la fine dell’anno potrebbe aggirarsi a 640 episodi, in aumento rispetto ai 587 del 2017”. La situazione, comunque stiano i dati, è intollerabile. Così, per tutelare gli agenti e anche “le condizioni di legalità e di sicurezza” all’interno delle carceri, il capo del Dap dispone che vengano assegnati a “particolari istituti di pena o sezioni” tutti i detenuti che si siano resi responsabili di “aggressioni anche solo tentate, di danneggiamenti e di qualsiasi atto di violenza”. I trasferimenti avverranno, di norma, in altre carceri dello stesso distretto; ma “nei casi più gravi”, promette Basentini, saranno spediti anche molto più lontano. Nella circolare si legge anche che “buona parte delle condotte aggressive viene consumata da detenuti con seri e gravi profili psicologici, meritevoli di cure e trattamenti terapeutici che sovente gli ambienti penitenziari non riescono a garantire”. Il capo del Dap tira le orecchie alle Regioni, che - spiega - dovrebbero garantire “adeguati percorsi ai detenuti psichiatrici”. Ma Basentini non si nasconde: “in tanti altri casi” le cause delle aggressioni sono di tutt’altro genere, e cioè “la prevaricazione sugli altri detenuti o sul personale”. Gli agenti, intanto, chiedono più organici: oggi il corpo dispone di 36.50o agenti in totale, ma soltanto 17.000 lavorano negli istituti di pena, dove i detenuti peraltro continuano ad aumentare: i reclusi al 3o settembre erano già quasi 59.275, e superavano la capienza regolamentare di quasi 9.000. Già adesso si prevede che supereranno i 6o.000 per la fine dell’anno. È anche questo a scatenare la violenza, mentre il numero degli agenti è in forte calo da anni. Prima della riforma della Pubblica amministrazione, impostata dal ministro Marianna Madia, la polizia penitenziaria aveva poco più di 45.000 uomini. Per chiedere risposte adeguate al ministero della Giustizia e al Dap, i sindacati di categoria hanno avviato una serie di manifestazioni di protesta. Le ultime si sono tenute a metà ottobre, davanti alle carceri di Torino e di Taranto. Il calendario delle manifestazioni continua l’8 novembre con Marassi, il carcere di Genova, e poi il 15 novembre con Regina Coeli a Roma. Il tour delle proteste si concluderà il 22 novembre, sempre a Roma, davanti alla sede del Dap. Forse la circolare di Basentini, per quanto severa, non basterà. L’irrealtà politica sul baratro di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 28 ottobre 2018 Il cuore della nostra crisi sta solo per una metà nei propositi scervellati del governo. Per l’altra metà sta nell’inconsapevolezza assoluta che regna nell’opposizione. Anche se faccio parte del popolo italiano, con buona pace del vicepresidente Salvini non mi sento affatto sotto attacco se l’euro-commissario Moscovici critica la manovra finanziaria del governo pentaleghista di Roma. Penso che nel merito, infatti, Moscovici abbia sicuramente degli argomenti dalla sua(quelli davvero decisivi ce l’hanno in realtà gli acquirenti del nostro debito pubblico). Peccato però che sia l’istituzione che egli rappresenta, cioè l’Unione europea, questa Unione europea, a non avere più alcuna presentabilità e credibilità politica. Da questo punto di vista Moscovici ricorda Gorbaciov, l’ultimo segretario del Pcus: diceva cose giuste ma parlava a nome di qualcosa, l’Unione sovietica, che palesemente stava ormai per esalare l’ultimo respiro. L’Unione europea si sta avvicinando a una condizione simile. Le elezioni che vi si terranno tra sei mesi, decretando la probabile vittoria delle forze nazional-populiste potrebbero essere l’inizio del suo collasso definitivo. La cosa strabiliante è che perfino di fronte a una simile prospettiva ormai chiara da tempo nessuno dei partiti e degli esponenti politici che hanno fin qui governato l’Unione si sia dato la pena di pensare o fare qualcosa per invertire il corso degli eventi. Quale testimonianza più evidente del carattere ormai quasi comatoso della sua crisi e del marasma che domina i suoi vertici? Anche gli esponenti di quelle forze politiche italiane che si dicono europeiste, e che si schierano ormai sistematicamente con il punto di vista di Bruxelles servendosene in ogni occasione per la lotta politica interna, anch’essi, dicevo, pur affermando da anni che l’Unione Europea è necessaria, necessarissima, e pur aggiungendo sempre che però oggi l’Unione così com’è non funziona, che quindi deve cambiare e che se non cambia sarà un disastro, tuttavia finora non sono stati capaci neppure loro di pensare una mezza idea, una proposta qualsiasi, per dirci in che modo essa dovrebbe (e potrebbe: l’aggiunta non è irrilevante) cambiare. Tace Forza Italia, che però ha l’attenuante di essere ormai in via di dissoluzione, ma tace egualmente il Partito democratico. Tace anche nel suo “manifesto” (così definito da Repubblica di domenica 21 ottobre dove esso si stende per ben due pagine) Nicola Zingaretti, il più accreditato candidato alla prossima segreteria del Pd. Sulla questione cruciale dell’agonia dell’Unione Europea neppure una parola: solo un brevissimo invito a “difendere” l’Unione che lascia il tempo che trova. Pure da questo punto di vista, insomma, quel manifesto è esemplare della mancanza di idee, dell’incapacità di cogliere la drammaticità ultimativa dei tempi, in cui si dibattono le tradizionali élite politiche del continente, specie quelle di sinistra. Della loro difficoltà a capire l’usura spaventosa delle parole e delle formule a cui sono state fin qui avvezze. A capire l’esigenza se si vuole anche brutale, di concretezza che oggi domina la comunicazione politica. Cosicché per chi come il sottoscritto ricorda gli interminabili programmi che ad ogni vigilia elettorale sfornava all’epoca della prima Repubblica il Partito comunista (ma anche quello socialista o la Dc non erano da meno), il testo zingarettiano, infatti, ha, diciamo così, un rassicurante sapore di antico. Si comincia con l’intramontabile “costruiamo un nuovo modello di società” (e naturalmente anche “di sviluppo”) e con l’esigenza di dar vita a “un’economia più giusta”, per poi snocciolare l’abituale lunghissimo elenco di buone intenzioni. Riassumendo: stabilire “la mobilità sociale” e “l’equità”, “ricostruire il tessuto produttivo”, “adottare globalmente misure per la sostenibilità ambientale”, “aiutare tutte le persone in condizione di povertà assoluta”, “dare gratis i libri di testo agli studenti”, conferire “una dote per i giovani attivabile al compimento dei 18 anni per finanziare un progetto formativo o imprenditoriale”, “rendere flessibile l’età di pensionamento”, “alleggerire il carico fiscale” e qualche altra cosa ancora che tralascio. Solo l’impegno a costruire in ogni centro abitato fontane che invece dell’acqua diano vino è rimandato alla prossima volta. Ma dove trovare, ci si chiede, le risorse per un simile gigantesco programma? Niente paura: “le risorse ci sono”, assicura Zingaretti, “abbiamo miliardi di euro già programmati per le infrastrutture dai precedenti governi di centrosinistra”; basta “fare un grande sforzo di semplificazione e accelerazione delle procedure”. Ed è tutto. Ho parlato a lungo del “manifesto” di Zingaretti perché è esso che dà l’esatta misura della gravità della crisi politica in cui si trova il nostro Paese. La rappresentazione più evidente di tale crisi è per l’appunto la disputa citata all’inizio che da settimane ci sta opponendo all’ Ue. Ma il cuore vero della nostra crisi sta solo per una metà negli obiettivi irrealistici, nei propositi scervellati e nel fare da gradassi del governo e dei suoi partiti. Per l’altra metà sta nell’ irrealtà programmatica, nell’inconsapevolezza assoluta dei tempi, delle esigenze e dei modi loro propri, che regnano nel campo dell’opposizione. Comune a entrambi è l’abitudine degli attori della politica nostrana di essere tanto divisivi nelle parole quanto poco divisivi nei fatti. Cioè nel volersi distinguere ferocemente dagli avversari, trattandoli regolarmente da farabutti o da mentecatti, ma poi una volta che si ottiene il potere o ci si vuole andare cercare di non scontentare mai nessuno. E quindi, ad esempio, se si è al governo come oggi sono i 5Stelle e la Lega, guardarsi bene dal prendere la minima iniziativa capace di incidere sulle grandi questioni dove si rischia di dar fastidio a molti che contano - ad esempio l’evasione fiscale, l’assetto della giustizia, le regole della Pubblica Amministrazione - preferendo invece distribuire soldi a più gente possibile; se invece si è all’opposizione, come Zingaretti, promettere a tutti il Paese di Bengodi. Digitalizzazione del processo penale: il futuro della giustizia giustizia.it, 28 ottobre 2018 Scaffali polverosi pieni di carte alle pareti degli uffici e carrelli strabordanti di fascicoli in giro per i corridoi dei tribunali. Immagini tipiche della giustizia italiana che ora, grazie alla digitalizzazione del sistema, hanno le ore contate. È infatti tutto pronto per il passaggio dal “cartaceo” al “telematico” dell’avviso di deposito delle sentenze penali. Con l’installazione ultimata su tutti i server distrettuali dei moduli aggiornati del Registro Generale Web, sarà ora possibile rispettare la disposizione secondo cui dal 1° gennaio prossimo l’avviso di deposito della sentenza dal tribunale alla procura generale debba avvenire obbligatoriamente via web. Questo comporterà un abbattimento dei tempi di passaggio e si eviteranno il consumo di carta, la compilazione di registri e il trasporto dei fascicoli da un ambiente all’altro. Stiamo parlando di un nuovo decisivo passo verso la messa a punto del Processo Penale Telematico, invocato da gran parte degli addetti all’amministrazione della giustizia. Questo servizio digitalizzato, a lungo richiesto soprattutto dai dipendenti che operano nelle Cancellerie e nelle Segreterie giudiziarie, è stato reso possibile grazie all’installazione sui server distrettuali di nuovo moduli del Sistema Informativo della Cognizione Penale (Sicp). Per la sua realizzazione è stato necessario il coordinamento tra le competenze del Dipartimento per gli affari di giustizia (Dag) - nello specifico la Direzione generale della giustizia penale - e il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi (Dog) - in particolar modo della Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati (Dgsia). Nel dettaglio è stato previsto che il tribunale potrà inviare - tramite il Registro della cognizione penale (sistema inserito nel Sicp) - l’avviso di deposito della sentenza alla Procura Generale, inserendo anche la sentenza scansionata in quanto, come prevede il terzo comma dell’articolo 548 del codice di procedura penale, l’avviso di deposito deve essere accompagnato dall’estratto della sentenza. Si tratta di una necessaria “rivoluzione” telematica che produrrà chiari vantaggi per tutti: amministrazione della giustizia, operatori e soprattutto per i cittadini. Per la Procura Generale, poi, i benefici appaiono ancora più consistenti: utilizzando i nuovi moduli, infatti, i magistrati potranno, accedendo alla loro Consolle (un’applicazione specifica propria del giudice) di gestire in modo semplice, rapido e affidabile, il calcolo della scadenza dei termini per l’impugnazione. Scrivi ‘ndrangheta, leggi narcos di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2018 In Calabria, dove si spara e si muore, spesso a far premere il grilletto è la droga, il cui traffico contribuisce alla crescita della ‘ndrangheta nel panorama della criminalità internazionale. Oggi la mafia calabrese controlla gran parte dello smercio di cocaina in Europa. Il locale di Siderno è uno di quelli più potenti, con ramificazioni in molte regioni italiane, in Europa, ma soprattutto in Canada, negli Stati Uniti e in Australia. Negli anni Ottanta e Novanta era noto come “Siderno Group”, un network criminale come pochi altri. Nel 2016, al termine di una laboriosa indagine partita dalle intercettazioni raccolte in una lavanderia di proprietà di Giuseppe Commisso, detto “u Mastru”, già condannato nell’operazione “Crimine”, vengono arrestate quattordici persone. Nel corso delle indagini, tra l’altro, vengono sequestrate a Siracusa, in Sicilia, circa tre tonnellate di hashish. Quello di Siderno è un locale particolarmente potente capace di intavolare trattative con i narcos venezuelani, di stoccare grossi carichi di cocaina in Africa e di eludere i controlli portuali in mezza Europa. Nell’ambito dell’operazione “Apengreen Drug”, viene arrestato anche un ex agente della polizia di frontiera, in servizio presso la squadra nautica della questura di Reggio Calabria. Secondo gli inquirenti, mantenendo contatti con gli uomini del clan sidernese, avrebbe fornito “informazioni sulle modalità di elusione dei controlli presso l’area portuale di Gioia Tauro, nel caso di importazioni di sostanza stupefacente via mare”. Nel frattempo, decide di collaborare con la giustizia anche uno dei broker più noti, Domenico Trimboli, nato in Argentina, da genitori originari di Natile di Careri (Reggio Calabria), catturato a Medellín, in Colombia, il 27 aprile 2013, proprio nello stesso giorno in cui Luigi Barbaro, calabrese di Gerace, veniva arrestato nelle acque al largo di Miami, mentre a bordo di una barca a vela stava cercando di entrare negli Stati Uniti con circa 700 chilogrammi di cocaina. Latitante da quindici anni, Trimboli aveva iniziato con un viaggio in Bolivia per conto del clan Paviglianiti di Roccaforte del Greco, seguendo le orme di Oreste Squillace, uno dei pionieri della ‘ndrangheta in America Latina. Racconta dei tanti viaggi per trasferire la cocaina in Italia per conto di molte famiglie e della necessità di garantirsi la “discesa” nei porti di destinazione, cioè avere a libro paga portuali, agenti delle forze dell’ordine, ma soprattutto la benedizione di clan come i Pesce, i Bellocco, i Mammoliti, gli Alvaro, ai quali bisogna consegnare una percentuale della droga in arrivo a Gioia Tauro pari al 30%. Spesso bisogna pagare anche la polizia di frontiera dei porti e degli aeroporti di partenza. Trimboli rivela anche come è possibile eludere i controlli in Italia attraverso il sistema noto come “rip-on” e “rip-off”, ovvero la spedizione della droga all’interno dei container utilizzati per il trasporto di merci lecite, preferibilmente secche (non deperibili), spesso in transito nei porti di caricamento dello stupefacente, attraverso la sostituzione dei sigilli doganali. “I container che trasportano merci secche rimangono più tempo sulle banchine dei porti, in attesa del trasferimento su navi più piccole” spiega Trimboli, che racconta anche le modalità di pagamento e le tecniche di trasferimento internazionale. “A recuperare i soldi in Italia sono quasi sempre arabi, “spalloni” che vivono in Spagna. Sono loro che hanno i contatti con i referenti finanziari dei cartelli colombiani. In altri Stati europei, come Belgio e Olanda, lo stesso ruolo lo svolgono turchi e libanesi. I soldi, poi, vengono trasferiti a San Andresito, uno dei centri commerciali più grandi di Bogotà, dove altri arabi gestiscono i “libri mastro” dei narcos. Altre zone utilizzate sono i centri di cambio valuta di Maicao, nei pressi di Cúcuta, al confine con il Venezuela, e Barranquilla”. Trimboli chiarisce anche il ruolo della cosiddetta “Officina de Envigado”, un cartello nato per il recupero crediti del narcotraffico nell’omonima cittadina, alle porte di Medellín. “Fu Pablo Escobar a costituirla. Dopo la sua morte, la gestione venne affidata a Diego Murillo, detto Don Berna”. Con il tempo, l’Officina si è trasformata in una vera e propria mafia, in grado di taglieggiare anche i trafficanti di droga. “Con i narcos colombiani e boliviani” conferma Trimboli “la ‘ndrangheta ha sempre avuto buoni rapporti, riuscendo in tempi non sospetti a ottenere cocaina in conto vendita”. Nel traffico di cocaina, insomma, la ‘ndrangheta - “principale referente delle organizzazioni colombiane” - continua a mantenere una posizione di assoluta supremazia in tutta l’Europa, proprio nel momento in cui, secondo i dati del World Drug Report del 2016 redatto dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, cresce il bacino mondiale dei consumatori, passato dai 208 milioni del 2006 ai 247 milioni del 2014. “Se nei prossimi sette anni sarà mantenuto lo stesso trend” scrive la Direzione nazionale antimafia nella sua relazione relativa al 2017, citando lo stesso rapporto, “nel 2020 avremo nel mondo circa 300-350 milioni di consumatori”. Il quadro diventa ancora più preoccupante se si tiene conto che dei 247 milioni di consumatori, pari al 3,3 per cento della popolazione mondiale, 32 milioni sono cittadini dell’Unione europea, pari al 6 per cento della popolazione europea, ovvero “una percentuale di consumatori di stupefacenti doppia rispetto a quella mediamente rilevabile nel resto del mondo”. In questo scenario, oltre “a ricoprire un ruolo di assoluta ed indiscussa centralità nel traffico della cocaina” come ha rilevato la Direzione centrale dei servizi antidroga, la ‘ndrangheta è diffusa “in quasi tutte le regioni italiane, nonché in vari Stati, non solo europei, ma anche in America - Stati Uniti e Canada - ed in Australia”. Oggi, le stime sul volume d’affari della ‘ndrangheta garantito dal traffico di droga parlano di una cifra superiore ormai ai 30 miliardi di euro l’anno. Soldi che vengono riciclati in giro per il mondo. Di questa ricchezza, in Calabria restano solo le briciole. Perugia: morì in carcere, la vicenda di Aldo Bianzino ancora in attesa di verità di Marco Lorenzoni Prima Pagina, 28 ottobre 2018 Sono passati 11 anni. Era il 12 ottobre 2007 quando Aldo Bianzino, falegname di 44 anni residente a Pietralunga nelle campagne umbre della zona di Umbertide, viene arrestato perché nella sua abitazione la polizia trova una piccola piantagione di marijuana. Sua moglie, Roberta Radici viene arrestata con lui. Il figlio Rudra ha 14 anni, ma viene lasciato lì a casa, con la nonna Sabina ultranovantenne. Due giorni dopo, in carcere gli agenti chiamano Roberta per porle una serie di domande sullo stato di salute del marito. Vogliono sapere se soffre di cuore, o se ha assunto sostanze. Lei gli spiega che no, Aldo è in perfetta salute e non ha preso droghe. “Come mai queste domande? chiede ai poliziotti. “Sta male”, le dicono, prima di riaccompagnarla in cella. La verità è un’altra: Aldo è morto. Roberta viene chiamata una seconda volta dalla cella. Le dicono che è libera di andare. Appena chiede alle guardie carcerarie quando potrà vedere il marito le rispondono: “Signora, martedì, dopo l’autopsia”. È così che Roberta viene a sapere della morte di Aldo. Una morte senza apparenti motivi avvenuta in una struttura carceraria. A poca distanza dalla morte di Aldo Bianzino, muoiono anche la suocera Sabina e la moglie Roberta Radici, la prima forse per l’età avanzata, la seconda per preesistenti problemi di salute (un cancro) aggravati a causa dello stress dovuto alla vicenda. Il 17 maggio scorso il figlio di Bianzino e Roberta Radici, Rudra, 25 anni, con una conferenza stampa al Senato, spiega insieme ai suoi avvocati e ai consulenti medico-legali perché ha chiesto la riapertura delle indagini sulla morte di suo padre. Muovendo un’accusa ben precisa: quella di omicidio volontario. Così Rudra Bianzino: “Oltre 10 anni fa moriva in modo assurdo mio padre, Aldo Bianzino, nel carcere di Perugia. Ci dissero che aveva evidenti lesioni al cervello, al fegato e alla milza, e il medico legale di parte parlò di un “pestaggio atto ad uccidere”, ma incredibilmente archiviarono il caso, dicendo che era morto per cause naturali! In tutti questi anni io non mi sono dato per vinto, e finalmente sono riuscito ad ottenere nuove e importantissime analisi mediche e legali che mettono completamente in discussione il suo caso. Proprio in questi giorni, in Parlamento, ho reso note le ragioni che mi spingono a chiedere la riapertura del processo per omicidio di mio padre! Ma ho bisogno dell’aiuto di tutti voi. È difficile riaprire un dibattito che potrebbe mettere in discussione quelle stesse istituzioni che invece dovrebbero proteggerci, ma ce la possiamo fare solo se in tanti vi unirete a me nel chiedere giustizia per mio padre”. In effetti, nella prima relazione dei medici legali, si legge che “all’esterno il corpo di Bianzino non presenta segni di traumi. Vengono rilevati però ematomi cerebrali, lesioni al fegato e alla milza, che vengono collegati a “evenienze traumatiche”. Non sono riscontrati invece elementi storici (criticità o malattie pregresse, ndr) nelle condizioni di Bianzino che possano aver condotto alla sua morte”. La procura di Perugia inizialmente indaga per omicidio volontario, anche se una parte delle indagini riguarda l’omissione di soccorso nei confronti di Bianzino da parte della guardia carceraria di turno la notte tra il 13 e il 14 ottobre nell’ala del carcere in cui si trova la sua cella. A un certo punto, però, il pm decide di separare i due procedimenti. La guardia carceraria viene rinviata a giudizio, processata e condannata in via definitiva, perché non ha risposto alle richieste di aiuto da parte di Bianzino. La procura chiede invece l’archiviazione per il filone d’indagine contro ignoti, con l’accusa di omicidio volontario. “In sede di autopsia vengono riscontrate due lesioni: una cerebrale e una epatica. Si giunge alla conclusione che la morte di Bianzino è stata provocata dalla lesione cerebrale, collegata a un aneurisma improvviso”, dice l’avvocato nominato da Rudra Bianzino. Secondo la perizia, Bianzino è morto quindi per un’emorragia subaracnoidea provocata da aneurisma. Per quanto riguarda la lesione al fegato, invece, questa viene ritenuta una conseguenza delle manovre rianimatorie. Questa spiegazione però non convince i consulenti di parte. La lesione in sede epatica è molto rara (si presenta tra lo 0 e il 2 per cento dei casi) e poi non c’erano costole rotte e altre lesioni importanti a organi interni, come avviene invece nella maggior parte di questi casi. Inoltre, “il sangue rinvenuto a seguito della lesione epatica, pur non essendo una quantità importante, mal si conciliava con una manovra eseguita a cuore fermo”. Nonostante i dubbi rilevati, il gip archivia il caso, giudicando le conclusioni della perizia “pregiudiziali e determinanti”. Nell’ambito del processo per omissione di soccorso, i legali di Rudra Bianzino chiedono di disporre nuovi esami perché emerge la possibilità di datare esattamente le lesioni. La richiesta viene rigettata perché non rientra nell’oggetto del processo, ma nella sua ordinanza il Tribunale nota che un approfondimento del genere sarebbe “decisivo” per fare chiarezza. Nel 2015, dopo che la Cassazione conferma la sentenza di condanna nei confronti della guardia carceraria che non prestò il dovuto soccorso a Bianzino, i legali di Rudra chiedono al gip di poter nominare nuovi consulenti. Vengono incaricati il medico legale di Cosenza Antonio Scalzo e Luigi Gaetti, anatomopatologo mantovano, senatore nella scorsa legislatura e vicepresidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia. Gaetti, in particolare, scopre che i periti della procura non hanno mai eseguito un esame che avrebbe consentito di datare la lesione epatica, e quindi stabilire se questa è avvenuta dopo il decesso o prima. Dall’esame di Gaetti emerge una verità del tutto nuova, che contrasta con la tesi accolta nel processo: “la lesione epatica è avvenuta almeno due ore prima della morte di Aldo, che alle 8 del mattino era già deceduto. Quindi non può essere stata provocata dalle manovre rianimatorie che sarebbero state eseguite dopo la morte di Bianzino. Al contrario, può essere ritenuta contemporanea alla lesione cerebrale riscontrata”. Nella loro relazione i periti sostenevano che mancassero diverse porzioni di parenchima cerebrale. Secondo il medico-legale è dimostrato che “l’emorragia cerebrale non è naturale, ma è provocata da evento traumatico su una parte del cervello che è sparita”. Per quanto riguarda la lesione epatica, le perizie rilevano che “la lesione del legamento rotondo”, che unisce pressappoco il fegato all’ombelico, non può essere giustificata dalla “pressione sulla gabbia toracica, mentre si giustifica benissimo con un calcio tirato dal basso verso l’alto”. “Mio padre, secondo la verità accertata finora, è stato lasciato morire mentre era nella custodia delle istituzioni. E questo non può accadere in uno Stato di diritto”, dice Rudra Bianzino. Che ricorda come i casi Bianzino, Cucchi, Aldrovrandi siano veramente troppi in uno Stato che si definisce “di diritto”. Sul caso Cucchi - due anni dopo quello di Bianzino - la verità comincia ad emergere. C’è da augurarsi che anche il caso Bianzino trovi presto una sua verità. Quelle finora fornite non sono per nulla convincenti. Genova: vuole tornare in carcere a 85 anni, muore la notte prima di Dario D’Angelo ilsussidiario.net, 28 ottobre 2018 Non voleva più stare in comunità di recupero. Vuole tornare in carcere a 85 anni: muore notte prima. Genova, un uomo ai domiciliari non viveva bene in comunità di recupero ma è stato trovato senza vita prima di poter tornare in cella. C’è chi utilizza la propria età per scacciare il più lontano possibile l’incubo del carcere e poi c’è chi, a 85 anni, in cella vorrebbe tornarci eccome. Come un anziano di Genova, detenuto ai domiciliari, “costretto” a scontare la pena in una comunità di recupero, dove evidentemente non si trovava bene quanto dietro le sbarre. E guai a pensare ad un’esagerazione, al carattere fumantino di un signore attempato deciso a “sfidare” la legge. No, l’anziano in questione ha addirittura presentato istanza al tribunale per tornare nel carcere di Marassi, dov’era stato rinchiuso per alcune settimane e, a quanto pare, si era trovato benissimo. Richiesta, la sua, che come riportato dall’Ansa era stata accolta dal tribunale, motivata dal fatto che “la volontà di tornare in carcere lo rende pericoloso e incompatibile con il regime dei domiciliari”. Tutti felici e contenti? No, per niente. Perché quando i carabinieri di Chiavari sono andati a notificargli la “buona notizia” lo hanno trovato morto. L’85enne con la nostalgia del carcere di Marassi è morto la notte prima di tornare in cella. I carabinieri lo hanno trovato senza vita all’interno del suo letto a Bargagli, nell’entroterra di Genova. L’uomo, che era stato arrestato otto mesi fa per un cumulo pene per reati contro il patrimonio e maltrattamenti in famiglia, sarebbe stato trasferito, come da sua richiesta, all’interno del carcere di Marassi, dove tanto bene si era trovato prima di essere trasferito - proprio in ragione della sua età avanzata - ai domiciliari in una comunità di recupero. Ma la nuova destinazione non era evidentemente di gradimento, e l’85enne non aveva fatto nulla per nasconderlo, rendendosi problematico quanto basta per convincere i giudici del Tribunale di Genova che il posto adatto per lui era appunto il carcere. Li aveva convinti, ma non ha fatto in tempo a saperlo: una beffa peggiore dei domiciliari. Salerno: i penalisti denunciano “dai magistrati una campagna denigratoria” di Petronilla Carillo Il Mattino, 28 ottobre 2018 Il documento approvato dalla giunta esecutiva dell’Associazione nazionale magistrati di Salerno, non piace agli avvocati penalisti i quali, in una nota a firma del presidente della Camera penale, Michele Sarno, parlano di una “campagna denigratoria nei confronti degli avvocati operando una falsificazione della realtà il cui fine ultimo era quello di creare un solco tra gli avvocati ed i propri assistiti”. L’Anm aveva invece disapprovato la scelta della Camera penale di proclamare altri cinque giorni di astensione dalle udienze, definendo ciò come “ingeneroso nei confronti di giudici che quotidianamente affrontano in condizioni di forte disagio una esorbitante domanda di giustizia”. Il documento approvato dalla giunta esecutiva dell’Associazione nazionale magistrati di Salerno, non piace agli avvocati penalisti i quali, in una nota a firma del presidente della Camera penale. Michele Samo, parlano di una “campagna denigratoria nei confronti degli avvocati operando una falsificazione della realtà il cui fine ultimo era quello di creare un solco tra gli avvocati ed i propri assistiti”. L’Anm, soltanto ventiquattro ore prima, aveva invece disapprovato la scelta della Camera penale di proclamare altri cinque giorni di astensione dalle udienze, definendo ciò come “ingeneroso nei confronti di giudici che quotidianamente affrontano in condizioni di forte disagio una esorbitante doman da di giustizia”. “Da troppo tempo - scrive Sarno - assistiamo alla proposizione di uno spaccato alterato della realtà in cui ai magistrati si attribuisce sempre più una funzione salvifica e di tutela della collettività, mentre gli avvocati vengono rappresentati come una categoria chiusa in un gretto egoismo teso alla tutela esclusiva dei propri interessi. Tale assunto è estremamente fuorviante. E tanto perché l’Avvocatura ha sempre mostrato attenzione e collaborazione fattiva. Ha sempre con senso di abnegazione e sacrificio contribuito alla celebrazione dei processi. Non si è mai lamentata nonostante disservizi continui e difficoltà oggettive. Ha anzi offerto il proprio contributo consapevole dell’alto compito che le è stato affidato dalla Costituzione: l’esercizio del diritto di difesa”. Sarno non condivide neanche che l’Anni “stigmatizzi l’esercizio del diritto di sciopero affermando che lo stesso penalizzerebbe il diritto di difesa dei cittadini rammentiamo che il diritto del cittadino viene penalizzato dai continui rinvii e dalle lungaggini processuali che non sono certo riconducibili alla difesa, ma tante volte dalla impossibilità a creare collegi, dai trasferimenti dei giudici in altre sedi e dalla trattazione a distanza di anni di fatti che arrivano in udienza prossimi alla prescrizione con grave pregiudizio delle persone offese. Queste cose riscontrabili ogni giorno la difesa non le ha sottolineate per evitare imbarazzi alla magistratura e per senso di rispetto e collaborazione”. “Da troppo tempo - prosegue Sarno - si registrano processi che iniziano dinanzi ad un magistrato per trovare conclusione nella migliore delle ipotesi dinanzi ad un altro giudice(così come accade per i collegi). Rispetto a ciò forse l’Anm che tanto ha a cuore la tutela del cittadino dovrebbe chiedersi come la stessa viene garantita, Siamo rispettosi dei ruoli ma non accettiamo lezioni e né tanto meno possiamo sopportare che lo sciopero dell’Avvocatura divenga l’alibi e la giustificazione rispetto a disservizi che non sono ascrivibili agli avvocati”. Sulla vertenza giustizia il parlamentare forzista Vincenzo Fasano chiede un intervento del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Le incomprensioni e gli scontri tra le varie componenti della giustizia nella città di Salerno stanno penalizzando i cittadini. Chiederò, con un atto di sindacato ispettivo, un intervento deciso e possibilmente rapido al ministro della Giustizia per capire se e come intenda intervenire in questa grave vertenza”, annuncia in una nota. Bologna: il carcere di si allarga, nuovo padiglione da 200 posti La Repubblica, 28 ottobre 2018 Inizio lavori nel 2019. Ma non risolverà completamente il problema del sovraffollamento. Sarà un aiuto contro il problema del sovraffollamento, ma non lo risolverà del tutto il nuovo padiglione da 200 posti che sarà costruito al carcere della Dozza di Bologna: la situazione attuale registra oltre 800 detenuti a fronte di una capienza di circa 500 posti. Il garante dei detenuti Antonio Iannello ha spiegato a Palazzo d’Accursio che “è in itinere la procedura per l’approvazione del progetto esecutivo”, che dovrebbe concludersi in questi giorni, mentre i lavori “dovrebbero partire all’inizio del 2019”. Ma il sovraffollamento non è l’unico problema della struttura carceraria, che registra una carenza d’organico. Il garante afferma di “aver inviato a fine 2017 una nota al Capo dipartimento e al direttore generale del personale e delle risorse dell’Amministrazione penitenziaria” per segnalare la propria preoccupazione “nel caso in cui alla costruzione del nuovo padiglione non dovesse seguire un adeguamento dell’organico, tanto dell’area educativa quanto della polizia penitenziaria”, che già conta un bilancio in negativo di circa 100 unità. Al momento, prosegue Ianniello, il carcere bolognese “necessiterebbe di risorse per interventi di manutenzione e miglioria e, con riferimento alle criticità di carattere stagionale (come il caldo estivo) per interventi che possano risolvere, o almeno attenuare, gli effetti negativi”. Se poi la costruzione del nuovo padiglione “dovesse avvenire senza un rafforzamento degli organici, si rischierebbe un significativo disagio lavorativo per gli operatori, con il rischio concreto di ricadute negative sulle condizioni di detenzione, di un aumento del clima di tensione e di contraccolpi sull’organizzazione di attività trattamentali”. Campobasso: con Sea tirocini formativi per i detenuti “aiuteranno a pulire la città” di Daniela Iannantuono campobasso.tv, 28 ottobre 2018 La Sea - Servizi e Ambiente Spa - società municipalizzata che si occupa delle gestione dei rifiuti e delle spazzamento neve in città, ha deciso di ampliare il suo organico offrendo cinque tirocini formativi riservati ad altrettanti detenuti nel carcere di Campobasso. La decisione è stata presa dal Consiglio di amministrazione della società ed è stata condivisa e fortemente voluta anche dall’amministrazione comunale e dal sindaco Antonio Battista. “Abbiamo attuato quest’altra iniziativa dalla duplice finalità - il commento del presidente della Sea, Stefano Sabatini - Insieme all’utilizzo della nuova spazzatrice, la municipalizzata conferma il trend di miglioramento costante del servizio offerto alla cittadinanza”. Ogni detenuto opererà in una propria zona di competenza, per coadiuvare nelle attività già svolte dai dipendenti della stessa società in house del Comune di Campobasso. Il provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno è diventato esecutivo dopo l’approvazione del magistrato di sorveglianza, così come da art. 21, co. 4, dell’Ordinamento Penitenziario. Secondo l’articolo 21 O.P., che disciplina il lavoro all’esterno (che prevede limiti ben precisi), quest’ultimo “non è una vera misura alternativa alla detenzione ma di un beneficio, concesso dal direttore dell’Istituto di pena, che consiste nella possibilità di uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa”. Rieti: assistere i detenuti, un corso di formazione per volontari rietilife.com, 28 ottobre 2018 La Sesta Opera San Fedele Rieti, la Moschea della Pace di Rieti -Associazione Culturale Arabi Insieme, il Movimento Cristiano Lavoratori di Rieti, organizzano il terzo Corso di Formazione per aspiranti Assistenti Volontari Penitenziari. Possono partecipare uomini e donne con minimo 30 anni di età, con cittadinanza italiana, di ogni etnia, di ogni cultura, di ogni fede religiosa. Non sono necessari titoli di studio né competenze specifiche. Non avere precedenti penali. Il corso si svolge con le lezioni dedicate, il lunedì e il giovedì dalle ore 16.00 alle ore 18.00, con nove incontri nei mesi di novembre e dicembre prossimi, presso la Sala di Formazione della Sesta Opera San Fedele Rieti e presso la Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso. I partecipanti ammessi, completano il Corso di Formazione con i detenuti nello stage presso il Centro di Ascolto nella Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso. Si è ammessi al Corso di Formazione, con la domanda e il colloquio con il presidente della Sesta Opera San Fedele Rieti, Nazzareno Figorilli, presso gli uffici in Via Alessandro Comotti, 31 a Rieti, con appuntamento al numero 335.6294606 o per posta elettronica a nazzareno.figorilli@mclrieti.it. Campobasso: arte nelle carceri, presto il progetto Ucsi nella Casa circondariale cblive.it, 28 ottobre 2018 Si è concluso nel carcere di Paliano l’itinerario artistico per favorire la cultura del reinserimento. Il volto sociale del Sinodo dei giovani, durante il Sinodo, un cammino nelle realtà intra murarie che ha dato la possibilità ai detenuti di quattro Istituti Penitenziari del Lazio, di essere a contatto con il Buono e il Bello e, attraverso l’arte, veicolare un messaggio di rinascita, speranza e libertà. Una conclusione temporanea che consentirà agli organizzatori di proseguire il percorso d’arte “Liberi nell’Arte”, promosso dall’Ucsi Molise col patrocinio del Sinodo, in collaborazione con Vatican News e Ministero della Giustizia Ispettorato Generale Cappellani delle Carceri. Come fa sapere la presidente Ucsi del Molise, Rita D’Addona, il prossimo tour prenderà il via proprio dalla casa circondariale di Campobasso. “Siamo particolarmente soddisfatti - ha detto D’Addona- del percorso compiuto in queste settimane insieme ai detenuti. Li abbiamo visti emozionarsi e riflettere di fronte a esperienze artistiche che hanno portato la luce i luoghi di sofferenza, che hanno restituito la libertà interiore a chi, della libertà ne è prigioniero. Una restituzione di amore e benessere”. Liberi nell’arte ha voluto portare gocce di prossimità nei luoghi di reclusione e di disagio affinché “nessuna pena sia senza speranza”. Prossimità, integrazione e speranza che diventano concetti tangibili nelle cosiddette Opere Segno, grazie alle quali, nelle quattro case di reclusione interessate dal progetto pilota, Liberi nell’Arte proseguirà nel tempo. L’istituzione di tre borse lavoro e due borse di studio consentirà, infatti, di facilitare il reinserimento sociale dei detenuti. Opere queste, rese possibili grazie ai prestigiosi partner dell’iniziativa. Nello specifico: il pastificio La Molisana che ha istituito una borsa lavoro per una detenuta del carcere di Rebibbia. Il Consorzio di Libere Imprese che ha, invece, promosso la borsa lavoro in favore di un detenuto di Regina Coeli. Non essendo possibile prevedere la medesima iniziativa per la casa circondariale di Paliano, che vede la presenza di collaboratori di giustizia, sempre il Consorzio di Libere Imprese, per quest’ultimo istituto di pena, ha predisposto l’acquisto di un forno, così come concordato con la struttura. Lo studio legale Di Pardo, unitamente alla rivista Monitor Ecclesiasticus, ha invece messo a disposizione due borse di studio per altrettanti ragazzi dell’istituto di pena per minori di Casal del Marmo. D’intesa con il Ministero della Giustizia e le amministrazioni penitenziarie e l’Ispettorato dei Cappellani sarà un regolamento a individuare, sia per le borse lavoro che per le borse di studio, tutti i criteri e i requisiti di assegnazione che tengano conto sia delle finalità delle singole Opere Segno, sia delle naturali inclinazioni del soggetto beneficiario. Liberi nell’Arte si conferma, dunque, un progetto pilota che ha saputo creare una forte sinergia di intenti, e ha riscontrato e continua a riscontrare l’interesse del mondo ecclesiastico che vorrebbe riproporre l’iniziativa nelle realtà delle carceri campane della Sicilia, al carcere di Padova, di Torino e di Milano nonché oltre i confini nazionali, così come confermato lo scorso 20 ottobre a Regina Coeli dal vescovo Johannes de Jong, della Diocesi di Roermond (Olanda). Attenzione e sensibilità nei confronti dell’iniziativa sono state manifestate anche da numerose realtà imprenditoriali che vogliono diventare protagoniste nella diffusione di un messaggio di speranza. Ecco perché, facendo proprie le parole espresse dal ministro Bonafede, i promotori del progetto a cui l’esponente del Governo ha voluto dedicato una lettera, garantiscono “il massimo impegno per promuovere insieme e valorizzare sempre più esperienze di questo tipo, nell’auspicio che possano trovare una diffusione via via maggiore così da coinvolgere un numero crescente di detenuti, con una particolare attenzione per quelli minori”. Varese: “Busto A Teatro”, quando i “malfattori” diventano attori varesenews.it, 28 ottobre 2018 Uno spettacolo dal ritmo incalzante ambientato in carcere. Appuntamento domenica 28 ottobre alle ore 16 al salone del convento dei Frati Cappuccini di viale Borri. Ingresso a offerta libera. La compagnia “Busto A Teatro” presenta “Attori e malfattori” commedia in due atti di Mangano e Torrisi. Domenica 28 ottobre alle ore 16 al salone del convento dei Frati Cappuccini viale Borri 109 varese. Ingresso a offerta libera. “Attori e Malfattori”, per la regia di Katia Fantato, è una tragicommedia che fa divertire, ma anche riflettere con un susseguirsi di personaggi ricchi di caratteristiche singolari e inaspettate, un continuo gioco di equivoci che tiene il pubblico con il fiato sospeso, con un ritmo incalzante dall’alternarsi di battute e momenti di forte tensione. La storia si sviluppa tra gag e riflessioni in un ritmo serrato che non allenta mai tensione e attenzione. A metterla in scena, la compagnia Busto A Teatro per aprire una riflessione su temi quali il razzismo, la riabilitazione, la condizione delle carceri e il sentimento di vendetta. La storia si svolge in un istituto penitenziario dove la direttrice del carcere modello affida la realizzazione di un ambizioso progetto rieducativo a una regista teatrale. Questa, armata di buona volontà e spirito umanitario, intende effettuare un provino ad alcuni detenuti per un progetto sperimentale di rieducazione penitenziaria. L’arduo compito mette alla prova la direttrice dell’istituto e la stessa regista. I provini si rivelano difficoltosi quando la vita si mescola alla finzione, confondendo ruoli e fatti, mentre l’intreccio si aggroviglia. La regista è una che ci sa fare e i detenuti, inizialmente interessati esclusivamente allo sconto di pena previsto dal progetto, piano piano si appassionano alle prove. L’epilogo è fuori copione. Napoli: “Io non ci casco”, detenuti in scena per dire stop alla camorra Il Roma, 28 ottobre 2018 A Secondigliano è stato rappresentato un testo scritto dagli stessi reclusi. Nel carcere di Secondigliano è andata in scena una rappresentazione teatrale (dal titolo “Io non ci casco”), scritta e interpretata da venti detenuti del circuito dell’alta sicurezza, alcuni ergastolani, tutti con l’accusa di associazione camorristica. L’opera teatrale, con la collaborazione dell’Associazione Per Sud, come hanno dichiarato dal palco i detenuti “ha l’intento di inviare un messaggio di legalità che arrivi soprattutto ai più giovani per invitarli a rapportarsi alla società in cui vivono con un senso civico ed il valore della legalità, abbandonando ogni progetto di violenza e di illegalità. Io non ci casco più è la convinzione dalla quale vogliamo ripartire”. La rappresentazione è stata promossa sia da Samuele Ciambriello, garante campano delle persone private della libertà personale, che da Giulia Russo, direttrice del carcere di Secondigliano. All’incontro erano tra gli altri presenti il procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso, il magistrato di sorveglianza Maria Picardi, il comandante Antimo Cicala, la vice direttrice di Secondigliano Claudia Nannola, la senatrice Valeria Valente, la deputata Gilda Sportiello, il consigliere regionale Gianluca Daniele e Roberta Gaeta, assessore a Napoli per le politiche sociali. Ciambriello - che conosce da tempo molti di questi detenuti con i quali lui e i volontari della sua associazione La Mansarda hanno iniziato un percorso di ricostruzione - ha sottolineato: “Il carcere per molti serve per avere più sicurezza sociale, per rieducare il detenuto, abbassare la recidiva. Io credo che iniziative del genere, questi percorsi di dissociazione, il riconoscere il diversamente libero come persona, come identità, da ascoltare e liberare, sono l’applicazione degli articoli della Costituzione sul carcere e sui diritti”. Ecco i protagonisti dell’iniziativa: Bruno Tagliatatela, Vincenzo Martinelli, Sergio Palumbo, Luca Sannino, Gaetano Milano, Marco Hudelka, Bartolomeo Festa, Giovanni Gallo. Nicola Loffredo, Luigi De Cristofaro, Cosimo Commisso, Erminio Crisci e Salvatore Calabria. La paura, l’odio, la vanità. “Istruzioni per diventare fascisti”, di Michela Murgia recensione di Sergio Luzzatto L’Espresso, 28 ottobre 2018 “Fascista è chi il fascista fa”, dice un anonimo maschio - “come direbbe Forrest Gump”, spiega l’autrice - dal disegno di copertina di “Istruzioni per diventare fascisti”. Ed è il primo dei due messaggi importanti lanciati da Michela Murgia in questo libriccino prezioso, preziosissimo: più ancora che un contenuto, il fascismo è un metodo. Lo è sempre stato, fin da quando Benito Mussolini lo inventò, proprio cento anni fa, nell’Italia del primo dopoguerra. Il fascismo è il metodo di chi fa lotta politica non già combattendo un anniversario, ma costruendo un nemico. È il metodo di chi sa mascherare una realtà verticale in illusione orizzontale, di chi sa travestire il comando dall’alto in investitura dal basso, e la distanza del potere in comunione dei corpi. È il metodo di chi parla come mangia, e mangia con le mani come picchia con la lingua, perché sa che la politica resta, in ogni caso, potere dell’uomo sull’uomo (ancora di più, potere dell’uomo sulla donna). Il suo secondo messaggio importante, Michela Murgia lo lancia attraverso un espediente pop, un gioco a quiz chiamato “fascistometro”: oltreché un metodo, il fascismo è un enzima. È un acceleratore di reazioni chimiche, un fermento che opera nel ventre di ogni essere umano. È un catalizzatore biopolitico di sentimenti primari o secondari, coerenti o incoerenti, confessabili o inconfessabili, che ciascuno di noi può ben avere provato, tanto o poco, almeno una volta nella vita. “18. Facile parlare quando hai il culo al caldo e l’attico in centro”. “19. E comunque esiste una famiglia naturale”. “24. A questi manca la cultura del lavoro”. “31. Rottamiamoli tutti”. “36. Le quote rosa sono offensive per le donne”. “55. Quando ti imporranno il burqa non lamentarti”. Ci piaccia o non ci piaccia, lo si ammetta o non lo si ammetta, tanti fra i 65 pensierini del fascistometro corrispondono ai pensieri - occasionali o ricorrenti - di molti fra noi. Esiste, almeno in questo senso, un “fascismo eterno”: come nel titolo della conferenza meritatamente famosa di un semiologo, Umberto Eco. Mentre non è chiaro (paradossalmente) che cosa gli storici possano aggiungere alla comprensione contemporanea del fenomeno, attraverso le precisazioni e i distinguo che competono all’esercizio del loro mestiere. Salvo forse - in questo centesimo anniversario del 1918 - sottolineare come anche il nostro presente, pur non discendendo dai traumi immensi di una Grande Guerra, sia il prodotto di una Grande Trasformazione che minaccia direttamente, di nuovo, le istituzioni liberali e le società democratiche. Sicché di nuovo possiamo interrogarci, mutatis mutandis, sulle keynesiane “conseguenze economiche della pace”. E possiamo domandarci se quella gigantesca rivoluzione che Alessandro Baricco chiama, in The Game, “l’insurrezione digitale”, non sia destinata a tradursi, da ultimo, in terreno di coltura per nuovi fascismi. Sicuramente, l’attuale successo planetario di leader politici che parlano al ventre dei loro elettori, molto più che alla loro testa, corrisponde alla natura profonda delle comunità di appartenenza strutturate dalla Rete: comunità che funzionano - anche nel senso pubblicitario del termine - attraverso un investimento sulle qualità negative dell’essere umano, molto più che sulle sue qualità positive. Comunità che funzionano (potremmo riassumere, sin troppo facilmente) investendo su una triade da fascismo eterno: la paura, l’odio, la vanità. E sicuramente, in un futuro più o meno prossimo, l’autentica posta in gioco della lotta politica diventerà, anche nelle democrazie, il controllo centralizzato dei dati: il possesso dell’informazione come strumento per la manipolazione delle coscienze. Serviranno, allora, antidoti più efficaci che una ragione illuministica ormai vecchia di secoli, deperita, sfinita. Perché - diciamocelo - la crisi dell’antifascismo è oggi, più drammaticamente ancora, crisi dell’illuminismo. Come sembra avere capito e riconosciuto, fra gli altri, l’Antonio Scurati di M. Il figlio del secolo. Il romanziere che capitalizza (in una maniera forse un po’ furbesca, ma senza rubare nulla a nessuno) su tutto quello che gli storici laureati dell’antifascismo non hanno saputo fare, per settant’anni e passa dopo la caduta del fascismo. Il romanziere che sa muoversi, lui sì, nella storia con la esse minuscola, ad altezza della vita: corpo a corpo con i suoi personaggi, in un’Italia di cent’anni fa dove tutto sembra parlare dell’Italia d’oggidì. Un’Italia ferita, speranzosa, tesa, ingenua, cattiva, dove l’autore di M. si comporta da antropologo del quotidiano, senza emettere giudizi di valore. E dove il lettore stesso - si direbbe - è pronto ad annoiarsi, per centinaia e centinaia di pagine mal scritte, pur di sentirsi parte di un’esperienza insieme verticale e orizzontale, moderna e antimoderna, passatista e futurista. Al limite, senza accorgersene, un’esperienza gialloverde, dove Mussolini fa rima con Salvini e dove insieme, finalmente, uno vale uno. La pericolosa epoca dell’ignoranza artificiale di Roberto Sommella Corriere della Sera, 28 ottobre 2018 La decostruzione del sapere sul web attraverso iniziative mirate lascia sgomenti. Se fatti fummo per seguir la conoscenza non si capisce perché dovremmo viver come bruti, tornando indietro, smaniosi di rimettere in discussione le poche certezze che abbiamo, abbandonandoci alla rivisitazione della realtà. Eppure a fronte del sovranismo dilagante, i neo nazionalismi e la rabbia incontrollata che dilaga un po’ ovunque in Italia e in Europa, occorre interrogarsi se non sia il caso di intervenire con una massiccia campagna di informazione. Su giornali, tv, radio e ogni altro tipo di media. Lo spunto arriva anche da un’iniziativa del Movimento Europeo che, a fronte delle tante inesattezze e falsità che circolano sul ruolo dell’Unione ha provato ad incalzare il governo Conte e le uscite dei suoi due vicepremier semplicemente raccontando i fatti. Non è certo l’esito dell’esperimento, viste le tante manchevolezze dell’architettura comunitaria che spesse prestano il fianco alle critiche anche del più fervente degli europeisti, di sicuro il problema è più complesso. In gioco c’è l’autodeterminazione delle convinzioni personali. Su accoglienza, razzismo, xenofobia e persino storia dell’Unione si è ormai diffusa una neonata coscienza, sviluppata in rete, che si potrebbe definire “ignoranza artificiale”. Così come l’intelligenza robotica offre oggi spazi innovativi quasi illimitati, la decostruzione del sapere che avviene sul web attraverso mirate iniziative di disinformazione lascia sgomenti e genera milioni di potenziali eversori. Si prenda il caso emblematico degli immigrati, per mesi al centro delle polemiche politiche per l’azione decisa del ministro degli Interni Matteo Salvini. Secondo i dati Eurostat, in Italia la popolazione straniera residente è di poco superiore al 6% del totale e ben sotto la media europea, così come le richieste d’asilo nel nostro paese sono inferiori al 7%, ma ciononostante la “percezione” di questa quota sale oltre il 24% perché due italiani su tre sono convinti di assistere ad un’invasione, vittime di una minaccia fantasma smentita dagli stessi numeri del Viminale che da mesi mostrano un crollo degli sbarchi quest’anno. Come sia potuto accadere che delle statistiche abbiano generato delle opinioni così diverse non è chiaro ma gli effetti possono essere devastanti. Se il 70% dei nostri connazionali sono convinti di avere un immigrato su quattro come concittadini la logica conseguenza, ad ogni barcone in mare, è l’acuirsi delle pulsioni sociali. E infatti le ultime rilevazioni della Mappa dell’Intolleranza di Vox Diritti sul livello di odio sociale che si sta diffondendo in rete, facendo nascere una nuova categoria sociale, quella degli Arrabbiati, lo confermano. Sono in aumento i tweet contro i migranti, passati da 38.000 nel 2016 a 73.390 nel 2017-2018, contro i musulmani (da 22.435 a 64.934), contro gli ebrei (più che raddoppiati, da 6.700 a 15.400), contro le donne (si è passati da 284.634 a 326.040), colpevoli evidentemente di insidiare l’ordine costituito digitale. La cosa preoccupante è che a fronte di un aumento esponenziale dei cinguettii violenti sono diminuiti gli account, a dimostrazione che esiste una regia complessiva per influenzare non solo il voto nei paesi democratici ma lo stesso modo di pensare. La rabbia incontrollata contro i diversi, l’Europa, le istituzioni e tutto ciò che c’è di democratico non ha però le origini degli Enragés della rivoluzione francese né può ricordare i moti studenteschi del ‘68 di Praga, Budapest, Varsavia, Belgrado. Quelle ribellioni nascevano invece da un forte spirito europeo, dal desiderio di affrancarsi dal dominio prima di Hitler e infine di Stalin, ma oggi hanno lasciato il terreno al nazionalismo del gruppo di Visegrád e alla destra di Viktor Orban, che in rete viene omaggiato come se fosse un nuovo Havel in lotta contro il Titano non di Mosca ma di Bruxelles. Un’assurdità che si compie migliaia di volte al giorno, in tv e a colpi di click, senza alcun contraddittorio con la Storia, con il grottesco esito di ribaltare i rapporti tra l’Italia, la Francia, l’Austria e l’Ungheria negli ultimi due secoli. Si potrebbe andare avanti all’infinito, passando per il dibattito sui vaccini killer, la campagna per le blande e nefaste terapie anticancro, le teorie complottiste sull’11 settembre o quelle negazioniste dell’Olocausto. Tutte figlie dell’ignoranza artificiale, della conoscenza fai da te. Sostiene Massimo Ammaniti che occorre indagare su cosa pesa nella percezione sociale e nelle dimensioni personali che intervengono nel senso di sicurezza. Mentre gli psicanalisti lavorano sull’Io, l’informazione di qualità e l’educazione nelle scuole possono rafforzare la capacità critica. Nessun passo indietro sulle certezze acquisite. Da nord a sud, l’Italia antirazzista in piazza contro il decreto Salvini di Adriana Pollice Il Manifesto, 28 ottobre 2018 “Con i migranti per fermare la barbarie” è lo slogan delle decine di manifestazioni che si sono svolte ieri in altrettante città, da Treviso a Reggio Calabria passando per Ravenna e Massa Carrara, contro il decreto Salvini su migranti e sicurezza: un dispositivo che di fatto smantella il modello Sprar e, in particolare, il modello Riace ideato dal sindaco (ora sospeso) Mimmo Lucano, ledendo di fatto il diritto all’asilo. A Torino la manifestazione si è svoltasi in piazza Castello: “Siamo qui per non girare la testa di fronte alle leggi discriminatorie che sta portando avanti il governo. Le migrazioni sono un fenomeno storico inevitabile che bisogna saper governare e non usare come arma contro chi non ha diritti, passandoli per privilegi”, hanno rivendicato gli organizzatori nell’ambito della Campagna Resistenzasilo - Diritti, non privilegi. E ancora: “Ci opponiamo all’idea di società dove gli italiani debbano venire prima a scapito degli ultimi e dei più marginali. Non è così che si risolvono i problemi d’Italia, che hanno a che fare con l’evasione fiscale, la malavita, la mancanza di politiche serie sul lavoro”. Il consiglio comunale di Torino lunedì scorso ha approvato un ordine del giorno che invita la giunta a chiedere al ministero dell’Interno e al governo di “sospendere fino alla conclusione dell’iter parlamentare” gli effetti dell’applicazione del dl Salvini per aprire un confronto con Torino e con le altre città, in modo da valutare le ricadute del provvedimento in termini economici, sociali e di sicurezza dei territori. Ieri alla manifestazione di Bologna è stato annunciato che una iniziativa simile verrà presa dal comune emiliano, sperando che altre amministrazioni facciano lo stesso. Bologna ha un sistema Sprar da 1.350 persone, il più vasto d’Italia, su cui è stato investito molto, così la mobilitazione con assemblee spontanee è già partita da settimane. Scendendo al Sud, circa trecento persone hanno attraversato le vie di Cosenza: “Bisogna mantenere lo Sprar - ha spiegato Talip Heval, rappresentante della comunità curda -, non si può sopprimere un sistema basato sull’integrazione reale che consente di farci conoscere”. Molto partecipata, nel pomeriggio, la fiaccolata organizzata a Taranto. Un migliaio hanno protestato a Lecce, dove i migranti hanno preso la parola per svelare l’ipocrisia della fortezza Europa: “Venite in Africa, portate le vostre politiche neocoloniali e quando siamo noi a venire nel vostro continente, obbligati da guerre, povertà e crisi, ci rimandare indietro perché non siamo entrati legalmente. E come si fa a entrare legalmente?”, hanno gridato. “Va eliminata l’equazione posta dal governo tra immigrazione e insicurezza sociale. L’integrazione è l’unica via per debellare il caporalato e lo sfruttamento”, hanno spiegato gli organizzatori. La manifestazione è stata preceduta da incontri a cui hanno partecipato anche gli amministratori locali di tutta la provincia. Il vicesindaco di Castrignano Dei Greci ha spiegato: “Il multiculturalismo è nelle nostre corde, le migrazioni sono alla base della nostra civiltà”. A Catanzaro il governatore della Toscana Enrico Rossi, don Massimo Biancalani (il parroco di Vicofaro che ha allestito nella sua chiesa un centro di accoglienza, messo sotto indagine dalla polizia) e il presidente calabrese Gerardo Mario Oliverio hanno incontrato Mimmo Lucano. “Invito lui e Oliviero in Toscana, a Vicofaro, per proseguire insieme il percorso”, l’offerta di Rossi. E Lucano: “Mi auguro che oggi (ieri ndr) si possa segnare una svolta almeno come messaggio politico con queste due regioni, Calabria e Toscana, che in maniera spontanea possano aprire un orizzonte nuovo verso una civiltà dei rapporti umani”. Francia. Due italiani in carcere da cinque mesi per favoreggiamento dell’immigrazione Il Tirreno, 28 ottobre 2018 Si tratta di Massimo Carpinteri e Renato Pasquale Barbera, originari di Trapani. Sono detenuti in due carceri diversi nel nord della Francia, a Dunkerque e Bethune. Si sa poco della loro vicenda. Due italiani, originari di Trapani, dallo scorso giugno sono in carcere in Francia accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sono stati arrestati dalla polizia francese. Si tratta di Massimo Carpinteri e Renato Pasquale Barbera, quest’ultimo noto a Trapani per essere un esperto di sicurezza, un bodyguard, ma anche volontario dei Vigili del Fuoco e della Croce Rossa Italiana, comandante di una idro-ambulanza. Sono detenuti in due carceri diversi nel nord della Francia, a Dunkerque e Bethune. Si sa poco della loro vicenda, l’autorità di Polizia italiana, la Questura di Trapani, è stata informata da Parigi dell’arresto e dell’ipotesi di reato contro i due cittadini italiani e null’altro. Secondo una ricostruzione della gendarmeria francese i due sono approdati la scorsa estate sulla costa tra Calais e Dunkerque con il proposito di organizzare viaggi in mare all’apparenza turistici tra le coste francesi e inglese, utilizzando una imbarcazione, forse una barca a vela. Ma non per trasportare turisti ma clandestini, dalla Francia verso l’Inghilterra. Il loro “lavoro” in una zona calda della costa francese a proposito di presenza di migranti e di migrazione clandestina. Un tratto di costa oggetto di tanti reportage giornalistici. L’area è quella di Calais, nord della Francia, cittadina sul Canale della Manica. Dove nonostante sgomberi e interventi della polizia di Macron, periodicamente si formano insediamenti, accampamenti abusivi e vere e proprie bidonville, e si ritrovano migliaia di migranti desiderosi di un “passaggio” verso l’Inghilterra. In massima parte si tratta di sudanesi, afgani, etiopi e pakistani. E poi tra molti adulti anche tanti minori non accompagnati. Spesso questi migranti cercano “ospitalità” nei mezzi pesanti con destinazione Inghilterra. I due trapanesi arrestati sono accusati di avere organizzato un loro business sfruttando la disperazione di questa gente, mettendosi all’opera, come traghettatori, via mare, verso la costa inglese, con una imbarcazione pare presa in affitto. Come se a bordo portassero dei turisti. Ma per la Polizia francese con quella barca i due trapanesi hanno trasportato solo migranti clandestini. Siria. Piano dal vertice di Istanbul: tregua, elezioni e ritorno dei profughi di Marco Ansaldo La Repubblica, 28 ottobre 2018 Una tregua permanente, il ritorno volontario dei profughi, la formazione di una commissione costituente e, soprattutto, la possibilità di andare a elezioni. Questi i passi più importanti discussi ieri sulla Siria, in un vertice a quattro riunitosi a Istanbul. I leader di Turchia, Russia, Germania e Francia (foto) si sono ritrovati sul Bosforo per cercare di dare una svolta ai sette anni di guerra, con Recep Tayyip Erdogan in veste di ospite, giocando a tutto campo tra i conflitti in Medio Oriente, gli intoppi dell’Europa, e gli sviluppi interni e internazionali sull’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Proprio sul caso dell’editorialista del Washington Post, torturato e eliminato nel suo consolato a Istanbul da una squadra di 18 killer arrivati da Riad il 2 ottobre scorso, il presidente turco ha detto di avere fornito, nei colloqui bilaterali avvenuti con Vladimir Putin, Angela Merkel e Emmanuel Macron, ulteriori dettagli. Ancora una volta ha chiesto chi ha mandato il team di ufficiali e intelligence guidato da un anatomopatologo, intimando al governo arabo di ottenere il nome del collaboratore turco che avrebbe partecipato. Ankara ha fatto richiesta ufficiale di estradizione per i 18 elementi arrivati in Turchia e rientrati in patria nel giro di 24 ore, intendendo processarli a Istanbul. Ipotesi piuttosto improbabile: gli arabi non si faranno certo processare dai turchi, e comunque il governo del vecchio re Salman ha già risposto che i responsabili affronteranno la giustizia in patria. Merkel e Macron hanno assicurato che quando sapranno “di più sui responsabili, ci sarà una posizione comune europea” sul caso. Macron si è anche detto favorevole a “sanzioni a livello europeo” e “non limitate alla vendita di armi” dai sauditi. “Gli occhi del mondo ci guardano”, ha detto Erdogan aprendo i lavori della conferenza, che si svolge parallelamente ai negoziati ufficiali di Astana. La rilevanza del dopo guerra in Siria fa sì che tutte le potenze intendano comunque dire la loro, per poter meglio gestire il periodo successivo al conflitto. Arrivare al voto a Damasco sarà l’impresa più ardua, ma è l’obiettivo finale. E ora Erdogan, constatata l’impossibilità di fare a meno di Bashar el Assad, ammette che “sarà il popolo siriano a determinare il futuro del suo presidente”. Circa il perdurare del confronto bellico, Macron ha chiesto a Putin di “esercitare una pressione molto chiara sul regime siriano” per garantire un “cessate il fuoco stabile e duraturo a Idlib”. Anche Merkel d’accordo nel chiedere che al più presto sia definita la commissione costituente per la Siria. “Sollecitiamo - ha spiegato Erdogan nella conferenza stampa conclusiva del summit - che il processo per la formazione della commissione costituente sia completato il prima possibile. Nostro auspicio è che sia formata entro la fine dell’anno”.