Carceri, le falle della riforma e le modifiche possibili di Antonio Mattone Il Mattino, 27 ottobre 2018 Il carcere in Italia soffre. A penare ci sono i 59.275 detenuti rinchiusi in 190 galere che ne potrebbero contenere solo 50.622. Ma ci sono anche gli operatori penitenziari: agenti, educatori, personale sanitario che portano avanti, in numero ridotto rispetto al necessario, un lavoro difficile e stressante. Nella Casa circondariale “Giuseppe Salvia Poggioreale”, solo per fare un esempio, i carcerati sono 600 in più di quelli che potrebbero essere ospitati. Mentre ci sono 200 agenti in meno rispetto a quanti sono previsti in organico, tra quelli effettivamente mancanti e i distaccati. La carenza riguarda soprattutto ispettori e sovrintendenti, i cosiddetti quadri intermedi. Il trend in aumento di suicidi, 50 dall’inizio dell’anno, l’incremento di violenze dei reclusi all’interno dei reparti, l’esistenza di numerose persone con patologie psichiatriche dietro le sbarre e la scarsità di ore dedicate da psicologi e psichiatri, la presenza di circa 60 bambini nelle celle con le madri, per non parlare della difficoltà ad essere curati in carcere, completano il quadro delle principali criticità. Ma si potrebbe ancora continuare. Gli Stati generali dell’esecuzione penale promossi nella passata legislatura dal precedente ministro della Giustizia Andrea Orlando, volevano essere un tentativo per adeguare un’istituzione immobile come quella penitenziaria alla società, che invece negli ultimi anni aveva subito numerose trasformazioni. Uno sforzo innovativo che doveva incidere in profondità sull’esecuzione penale, rendendo il condannato responsabile e partecipe del suo percorso di recupero. L’obiettivo era quello di formare un buon cittadino piuttosto che un detenuto modello, che magari non arrecava problemi durante la sua detenzione ma che invece tornava a delinquere una volta uscito di galera. Sappiamo le cose come sono andate. l Governo Gentiloni, temendo ripercussioni negative alle elezioni politiche, non ha avuto il coraggio di approvare questa importante riforma, cimentandosi in acrobatiche contorsioni procedurali con cui sono state presentati con tempistiche differenti i decreti attuativi, fino a farla naufragare. E come se un padre avesse disconosciuto il proprio figlio nel momento in cui si affaccia alla maggiore età dopo averlo fatto crescere con tanta cura e grande orgoglio. L’esecutivo gialloverde ha bocciato l’impianto degli Stati generali, definendo alcune misure “svuota-carceri” e “salva-ladri”. Un’ impostazione culturale diversa con norme che tendono a migliorare la quotidianità detentiva piuttosto che tenere in considerazione l’accesso a misure alternative. Nel nuovo testo, non ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, e quindi passibile di ulteriori aggiustamenti, viene modificata la disciplina della visita medica all’ingresso in carcere con l’annotazione di eventuali maltrattamenti o violenze subite, è prevista la possibilità di fare interventi chirurgici nei reparti clinici con medici di fiducia a spese dei detenuti. Gli stranieri dovranno avere un’alimentazione rispettosa del loro credo religioso e potranno usufruire di mediatori culturali ed interpreti. Altre misure riguardano la semplificazione dei procedimenti per le decisioni della magistratura di sorveglianza, il potenziamento del ricorso al lavoro, e innovazioni sull’esecuzione della pena dei minorenni. Tuttavia la nuova riforma, che qualcuno ha definito una “Ferrari senza motore”, ignora alcune problematiche, come quella dei detenuti con patologie psichiatriche che sono in numero crescente, o dei bambini che vivono in cella le madri e le misure alternative sono viste come una attenuazione della condanna e non una pena alternativa al carcere, come invece prevede la Costituzione. Nella precedente impostazione veniva modulato il trattamento sanzionatorio sull’impegno e sulla personalità del carcerato, affidando alla magistratura di sorveglianza la valutazione sulla merito della persona. E veniva eliminata l’unica norma che garantiva un automatismo, quella di poter scontare gli ultimi 18 mesi a casa indipendentemente dal comportamento tenuto. Eppure tutte le statistiche ci dicono che chi termina la sua condanna in un luogo diverso dal carcere più difficilmente ci ritorna. D’altra parte è evidente che passare dalla galera alla libertà da un giorno all’altro, dopo che sono state interrotte tutte le relazioni sociali, rende più difficile il reinserimento. Piuttosto, chi piano piano riprende contatti con il modo di fuori, ha la possibilità di creare qualche opportunità occupazionale e sociale in più. Il vecchio mantra “gettiamo via le chiavi” non è risolutivo. Tranne chi sconta l’ergastolo ostativo, tutti prima o poi usciranno dalla galera. Il carcere duro non serve, ma bisogna trovare quella chiave interiore che fa scegliere di cambiare vita. Le figure professionali penitenziarie, i cappellani e i volontari possono essere decisive. Persino il lavoro può non essere sufficiente per determinare un cambio di mentalità. Per questo la ricetta di costruire più carceri non è credibile. Anche perché bisognerebbe creare quasi un quinto dei posti tuttora esistenti, con un dispendio di denaro enorme sia per edificare nuovi penitenziari che per dotarli del personale necessario, di cui siamo tutt’oggi sprovvisti. C’è bisogno allora di cambiare lo sguardo sul carcere, senza indulgenze e buonismi, ma scrutando una realtà complessa e difficile. Un mondo popolato da uomini che vivono un grande disagio, sia che ci stanno per lavoro o perché costretti da una condanna per i reati commessi, senza che sia calpestata la loro dignità. Nella convinzione che una prigione senza speranza è solo una scuola del crimine. Ascoltare i detenuti ci avvicina a un mondo ancora troppo estraneo di Francesco Zanotti Avvenire, 27 ottobre 2018 Quella del carcere è un’esperienza che tutti dovrebbero provare. I giovani in particolare. Non quella di rimanere dietro le sbarre, s’intende. Ma quella di entrare in un istituto di pena o in una casa circondariale e rimanerci per qualche ora. Incontrare le persone. Incrociare gli sguardi. Ascoltare le storie. Tentare di comprendere ragioni e percorsi. Mettersi in sintonia con un mondo che troppo spesso ci è estraneo, “di periferia e di confine”, come è stato definito qualche giorno fa ad Ascoli, davanti a una folta schiera di giornalisti. Ancora una volta, per capire bisogna esserci. E per parlarne e scriverne, pure. Come capita ai tanti cappellani in giro per l’Italia e alla schiera di volontari che ogni giorno frequentano questi luoghi-non luoghi che molti vorrebbero rimuovere dalla mente e dal territorio. Un tempo non troppo lontano erano situati in centro città, in vecchie fortezze. Oggi per lo più sono relegati ai margini, circondati da alte inferriate e da una terra di nessuno, alla quale ci si avvicina con tremore. Oltrepassare le dieci porte blindate che conducono alla saletta del convegno crea una certa apprensione. Quando si chiudono dietro le spalle rimane un senso di impotenza. Ci si sente un po’ prigionieri. Solo allora si inizia a comprendere cosa si può vivere stando là dentro, senza la possibilità di uscire dopo poche ore. Eppure, ogni occasione è un’opportunità da non perdere, come appunto è capitato con il corso di formazione organizzato nel carcere di massima sicurezza di Ascoli. Anzi, da sfruttare per andare oltre i pregiudizi. Le vicende di Tony, Antonio e Giampiero hanno avuto il merito di fare cadere i muri e di avvicinare i cuori. Lì, senza più sbarre nel mezzo, ci si sente tutti uguali. Non esistono più barriere. Ricordo una famosa frase di don Oreste Benzi che mi martella la mente quando parlo di certi argomenti: “Quanti poveri disgraziati vanno in galera perché rubano contro la legge, ma quanti sono quelli che si fanno le leggi per rubare e avere un pubblico riconoscimento?”. Al termine dell’incontro di Ascoli ho lasciato una dedica. “A tutti i detenuti: voi siete dentro e io fuori. Vi guardo negli occhi e mi chiedo perché”. Alfonso Sabella (Magistrato): “Provenzano? Fu torturato. E ora il 41bis vacilla” di Simona Musco Il Dubbio, 27 ottobre 2018 “Il 41bis è uno strumento indispensabile, non perdiamolo solo perché lo applichiamo per vendetta o, peggio ancora, per gli umori del Paese”. Il magistrato Alfonso Sabella, ex sostituto procuratore del pool Antimafia di Palermo di Gian Carlo Caselli e ora giudice del Riesame a Napoli, queste parole le pronunciava anche due anni fa, quando il boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano era ancora vivo. Ma Provenzano è rimasto al 41bis anche in coma: secondo i giudici era ancora pericoloso. Una decisione ora punita dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo, secondo cui il boss sarebbe stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e che mette a rischio, secondo Sabella, lo stesso strumento. Dottor Sabella, cosa ci dice questa sentenza? Provenzano era in stato vegetativo, quindi che abbiamo utilizzato il 41bis come strumento di tortura. Le perizie, non solo quella di parte, ma anche quella del giudice e della Procura, attestavano che non era in condizione di dare nessun tipo di ordine dal carcere o di elaborare un pensiero diverso da “ho fame” e “ho sonno”. Lei ha sostenuto sin da subito che andasse revocato... Sì, proprio per salvare lo strumento. Non sono per l’idea che vada abolito, anzi: ritengo sia indispensabile per la lotta alla criminalità organizzata. Ma in quel caso, visto che ci si trovava davanti ad un vegetale, era indispensabile revocarlo. Era scontato l’esito di Strasburgo e basta un altro errore di questo tipo perché la Cedu ci dica che l’Italia usa il 41bis come strumento di tortura e non come strumento di salvaguardia di altri beni costituzionali. È stata violata la sua dignità? Provenzano è morto con dignità all’interno di una struttura sanitaria, la cosa però obiettivamente sgradevole è il fatto che si stato impedito ai suoi familiari di avere un contatto fisico con lui nelle ultime settimane della sua vita e di incontrarlo un po’ più frequentemente di una volta al mese e senza vetro divisorio. Non stiamo parlando del problema della detenzione, perché in carcere ci doveva stare, anche per la funzione retributiva della pena nel nostro ordinamento. Il problema è come ci doveva stare e credo che su questo la Corte abbia messo l’accento, soprattutto dopo che è stata accertata la sua condizione. La questione andava affrontata con molta laicità, perché era più che evidente che Provenzano non era capace di dare ordini alla sua cosca. Perché non è stato revocato? Si temevano le reazioni, perché era Provenzano. Invece revocare il 41bis a un vegetale è la cosa più normale del mondo. Se fosse stato in grado di dare ordini sarebbe stata un’aberrazione, ma è altrettanto aberrante averlo mantenuto ad un signore incapace di intendere e di volere. È stato un problema di opinione pubblica più che di ordine pubblico, quindi? Sì. Ma una cosa è la giustizia privata, una cosa è lo Stato. Uno Stato deve marcare la differenza con le organizzazioni criminali, non fa vendette, applica la legge, i principi fondamentali della nostra Costituzione e della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo. Altrimenti torniamo alla legge del taglione e chiudiamola qua. Cosa cambierà dopo questa sentenza? Io mi auguro che si tragga un insegnamento, cioè che il 41bis va limitato ai casi in cui c’è il pericolo che possano essere dati ordini all’esterno e quindi continuare a dirigere l’organizzazione criminale. A differenza di Provenzano, Salvatore Riina, ad esempio, è stato lucido fino all’ultimo istante, quindi è stato giusto mantenere il 41bis, per- ché in quel caso c’erano altri beni costituzionali a rischio. Perché lo Stato non riesce ad applicare le sue stesse leggi? Perché questo è un Paese che ragiona di pancia, senza pensare che la revoca del 41bis a Provenzano sarebbe stato un modo per tutelare lo stesso strumento, cioè applicandolo ai casi per cui è stato pensato. Ora, invece, c’è il rischio che la prossima volta in cui non avremo il coraggio di prendere delle decisioni impopolari ma giuste la Cedu dica che l’Italia si maschera dietro la scusa dell’ordine e della sicurezza pubblica per applicare uno strumento di tortura. E allora non potrà più stare nel nostro ordinamento. Se il ministro Orlando, all’epoca, avesse preso questa decisione, ci sarebbero state tante e tali di quelle polemiche da far cadere il governo. I penalisti si dicono preoccupati in merito all’atteggiamento del nuovo governo sul tema. Qual è la sua opinione? Non so come si sta muovendo, spero soltanto che non si agisca sempre sulla base delle pulsioni del momento, che forse possono portare qualche voto in più, ma che probabilmente fanno danni al Paese. 41bis: violazione costante dei diritti costituzionali di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 27 ottobre 2018 La parola “tortura” è nell’aria. Lo è dal 1992, quando il 41bis fu introdotto nell’ordinamento. Per ora è un sassolino, ma può diventare una valanga la sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per il trattamento inumano cui fu sottoposto negli ultimi anni di vita Bernardo Provenzano. Sotto accusa l’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, applicato al boss di Cosa Nostra fino alla morte, cioè non a una persona ma a un corpo. Un corpo ridotto allo stato vegetale, come documentato da diversi referti medici e dalle dichiarazioni al nostro giornale dallo stesso dottor Rodolfo Casati, primario della sezione detenuti dell’ospedale S. Paolo di Milano dove Provenzano era ricoverato. La parola “tortura” è nell’aria. Lo è dal 1992, quando l’articolo 41bis fu introdotto nel nostro ordinamento all’interno di un provvedimento che ricordiamo come il più liberticida della storia legislativa italiana e che prese il nome dai due ministri di interni e giustizia, Scotti e Martelli. Se volgiamo lo sguardo all’indietro, tenendo un occhio anche sull’oggi, vediamo un Parlamento agli sgoccioli della prima repubblica, popolato da partiti in gran parte oggi ormai estinti, sgomento per le inchieste di tangentopoli e le stragi di mafia. In quel Parlamento piombò con la forza di una bomba un decreto del governo che pensò, dopo la strage di Capaci, di combattere la mafia non con una vera capacità di forza che portasse all’arresto dei boss perennemente latitanti, ma con un provvedimento legislativo incostituzionale in quanto retroattivo, che bloccava i benefici della riforma carceraria nei confronti di detenuti ormai lontani dal loro passato, introduceva l’ergastolo ostativo (una pena a morire in carcere) e l’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario. Quel decreto, nato dopo l’uccisione di Falcone, divenne legge, con una votazione frettolosa, dopo la morte di Borsellino. Ancora una volta le leggi furono “scritte dalla mafia”, che ne determinò i tempi. Pure, in quel Parlamento ormai ridotto a un colabrodo, esistevano i radicali, esistevano i socialisti e qualche liberale, e si fecero sentire. In ogni caso, una Rifondazione ancora garantista votò contro e un Pds non del tutto omogeneizzato alle Procure, scelse l’astensione. La discussione appassionata (anche molti magistrati erano dubbiosi) fu troncata solo dalla strage di via D’Amelio. Senza la quale forse oggi quelle norme non esisterebbero. Ma quei parlamentari, che oggi un viceministro non uso a stancarsi sui testi sprezzantemente definisce “dis- onorevoli” e “parassiti”, non si sarebbero mai permessi di trattare con supponenza una decisione della Cedu, che ha a cuore i diritti della persona e si batte contro i comportamenti disumani degli Stati. Era già capitato che la Corte intervenisse sull’Italia per le torture inflitte negli anni 1992 e 1993 nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Lo Stato aveva impugnato l’articolo 41bis come un manganello, come in veri lager, dove i detenuti venivano costantemente picchiati con brutalità, privati di cibo, costretti a bere acqua sporca e privati del diritto all’igiene con il ricambio di biancheria. Da allora, per chi è sottoposto a quel regime, i colloqui si effettuano attraverso i vetri, anche per chi, come Provenzano, non era più in grado di parlare. Forse non ci sono più le botte (o forse non sempre), ma una costante mortificazione del corpo e dello spirito, con la privazione delle sufficienti ore d’aria e l’impedimento alla socialità e ad attività di qualunque tipo, lavorativo o culturale. Una violazione costante dei principi costituzionali che pare ormai apprezzata da tutto quanto il Parlamento. Ma ricordiamo sempre che esiste anche l’attività politica degli “extraparlamentari”, come quella del Partito radicale che presenta 8 proposte di legge per riformare, tra l’altro, proprio le norme sull’ergastolo ostativo e l’articolo 41bis. Una minoranza? Chissà… a volte il sassolino diventa valanga. Decreto sicurezza. “Basta asilo agli irregolari”, il blitz di Salvini spacca M5S di Emilio Pucci Il Messaggero, 27 ottobre 2018 Emendamenti del Viminale al decreto: carcere per chi viola i respingimenti. Per il ministro inammissibili più poteri alla Raggi. Verso la fiducia. La Lega sta cominciando sul serio a perdere la pazienza. Basta - questa la linea del partito di via Bellerio - con l’opposizione interna alla maggioranza, il caso Desirée ha reso ancor più urgente l’approvazione delle norme volute dal Viminale. “Non sarebbe successo nulla se il dl fosse stato già approvato”, ha spiegato Salvini ai suoi, “gli extracomunitari che avevano il permesso scaduto sarebbero stati già cacciati”. Li ha chiamati “vermi”, il ministro dell’Interno, ha promesso che la pagheranno cara: “Stringeremo ancor di più le maglie”. Per facilitare l’espulsione degli irregolari, tra l’altro, è stata prolungata la durata massima di permanenza nei Centri per il rimpatrio da tre a sei mesi. Ma si sta pensando ad altre misure ad hoc. Il governo ha presentato un emendamento in Commissione Affari costituzionali del Senato sui “presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale”. La domanda che serve ad ottenere l’asilo - recita - “è manifestamente infondata quando il richiedente è entrato illegalmente nel territorio nazionale o vi ha prolungato illegalmente il soggiorno”. I permessi umanitari? “Altro che provvedimento disumano. Occorre al più presto - è il refrain di Salvini - smantellare questo tipo di scudo. È un bluff, un ombrello che bisogna togliere subito. È l’anticamera del degrado”. Inoltre carcere da uno a 4 anni ed espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera per lo straniero che, destinatario di un provvedimento di respingimento alla frontiera, rientri in Italia senza una speciale autorizzazione del ministro dell’Interno. Il titolare del Viminale non sente ragioni: “Il decreto non si cambia”. Il sottosegretario Molteni è in prima linea a palazzo Madama per combattere contro i vari De Falco, Nugnes, Fattori che non hanno alcuna intenzione di ritirare i propri emendamenti, alcuni dei quali sono coperti da Di Maio. “Il parere dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Unhcr, sulla lista dei Paesi sicuri, deve essere obbligatorio e, se sfavorevole vincolante”, una delle richieste. Nelle intenzioni dei 5Stelle il relatore leghista Borghesi dovrebbe presentare altre modifiche concordate oltre le 19 previste e in cambio arriverebbe il via libera M5S a mettere la fiducia al Senato e alla Camera al provvedimento, così come chiede ora il Carroccio. Due giorni fa il ministro della Giustizia, Bonafede, è rimasto sul vago rispondendo ad una domanda sulla possibilità di blindare il testo. Ma per la Lega troppe sono le trappole messe dai grillini. Salvini ritiene, per esempio, che l’emendamento per conferire altri poteri speciali a Roma sia “inammissibile”. È sempre l’ala che fa riferimento al presidente della Camera Fico a mettersi di traverso. Bonafede cerca di fare da scudo a Di Maio, preso di mira dall’ala integralista pentastellata. Ieri ha rilanciato la proposta di un decreto per inasprire le pene per la violenza sessuale, con l’introduzione di nuove aggravanti e aumenti di pena per i soggetti più vulnerabili. Il segretario della Lega si è apertamente lamentato durante il Consiglio federale perché, a suo dire, M5S non rispetta i patti. Su Roma ha fatto anche un assist a Di Maio smentendo di voler lanciare (per ora) una campagna elettorale per la conquista della Capitale (“cercherò di aiutare la sindaca Raggi come ministro”, ha spiegato) ma si aspetta che dagli alleati arrivi subito l’ok al suo decreto. Legittima difesa. Bonafede: “nella legge non esiste nessun rischio far west” Il Dubbio, 27 ottobre 2018 Il ministro della Giustizia risponde alle polemiche sulla nuova norma sulla legittima difesa. “Nessun rischio far west”, giura il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dopo il via libera del Senato alla riforma sulla legittima difesa. Nessun rischio di allungamento dei processi, secondo il ministro, né di proliferazione delle armi, anzi: “sono state eliminate le zone d’ombra”. Tra i passaggi più discussi quello che fa riferimento al “grave turbamento”, votato favorevolmente anche dal Pd, “formula adottata anche in altri Paesi, come Francia e Germania”, ricorda Bonafede. Ed è stata propria la scelta dei dem - esclusa Anna Rossomando, che si è astenuta di votare a favore dell’articolo 2, che ha suscitato le polemiche tra le fila di LeU e, in particolare, dell’ex presidente del Senato Pietro Grasso, secondo cui si tratterebbe di “una licenza di uccidere in casa”. Un testo, ha evidenziato, che “crea enormi danni culturali e normativi” e sul quale “purtroppo” il Pd si è schierato con una scelta “di rincorrere la destra - come accaduto bloccando lo Ius Soli davvero incomprensibile”. Altro articolo approvato quello relativo allo stop ai risarcimenti ai parenti dei rapinatori, punto particolarmente caro al leader della Lega Matteo Salvini. “I delinquenti devono sapere che i cittadini per bene sono in grado di difendersi legittimamente, senza essere costretti a processi, cause o addirittura a risarcire i parenti dei rapinatori”, cosa che “mi faceva imbestialire”. Se passa questa legge, ha concluso, “il parente del rapinatore nella prossima vita si sceglierà un parente migliore”. Un tema di giustizia, ha spiegato Bonafede, così come quello relativo al disegno di legge per la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, il cosiddetto “Codice rosso”. Una serie di interventi ha spiegato ieri rispondendo al question time - “che provano ad agire in prevenzione”, cioè a partire dal momento della denuncia: “in quel momento lo Stato deve attivarsi con immediatezza, come accade al pronto soccorso di fronte a un caso grave”, ha sottolineato il ministro. Secondo cui non basta inasprire le pene, occorre prevenire, motivo per cui il pubblico ufficiale che riceve denuncia deve darne “immediata comunicazione, senza discrezionalità sulla valutazione dell’urgenza, al pm che entro tre giorni deve sentire la persona che ha fatto la denuncia”. Dopodiché la polizia giudiziaria dovrà svolgere con immediatezza le indagini e informare il pubblico ministero. “Inoltre è prevista ha spiegato - in accordo col ministro della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, che ha fortemente voluto questa legge, una formazione per gli agenti e per tutti coloro che avranno la possibilità di interloquire con la denunciante”. Solo il ritorno dello Stato può spegnere le nostre paure di Luca Ricolfi Il Messaggero, 27 ottobre 2018 Nell’ora della pietà, dello sconcerto, della rabbia per la morte di una ragazza sedicenne, stuprata e uccisa da un gruppo di immigrati irregolari in un quartiere degradato di Roma, ho provato a fare un passo di lato, lontano dalla cronaca. Una sorta di esercizio, o esperimento mentale. Mi sono chiesto: se fossi il ministro dell’Interno, se fossi al posto di un Salvini o di un Minniti, e avessi la ferma volontà di impedire il ripetersi di fatti del genere (il caso di Desirée è solo l’ultimo di una serie), che cosa potrei fare? Ci ho pensato a lungo, e la conclusione cui sono approdato è: poco, molto poco, almeno nel breve periodo. Le ragioni del mio pessimismo sono molte. Penso per esempio che, poiché sono decenni che chiudiamo un occhio su ogni genere di trasgressione - in famiglia, a scuola, all’università, sugli autobus, per strada, sui treni, nei rapporti con il fisco - la violazione delle norme è entrata nel nostro Dna culturale. Per alcuni, succede addirittura che la violazione delle regole diventi un fattore identitario, se non di orgoglio personale: poiché ritengo che una data regola sia ingiusta, mi sento in diritto di violarla. Non c’è solo la hybris, lo smisurato orgoglio del singolo: c’è anche l’opportunismo e la codardia dello Stato. Non è da oggi, e non è certo solo a Roma o nelle grandi città, che le forze dell’ordine hanno deliberatamente scelto di considerare extraterritoriali, o zone franche, intere porzioni del territorio nazionale, o interi quartieri di una città. Vale per le volanti che si guardano bene dall’entrare in certi territori, per i vigili che non osano entrare in certi edifici, ma anche per i magistrati, per i quali, a dispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale, ci sono notizie di reato che non meritano indagini e approfondimenti. Poi c’è la cultura finto-progressista, per cui la delinquenza comune, dal furto allo spaccio, è una conseguenza della povertà e della diseguaglianza, e dunque va trattata con riguardo. Come con riguardo vanno trattate le occupazioni di case, le occupazioni di scuole, le invasioni dei cantieri, tutte azioni illegali ma di cui si suppone che siano compiute per una giusta causa, o con sufficienti attenuanti per essere tollerate. Una visione del mondo per cui, da almeno vent’anni ci viene spiegato: “La politica, una buona politica, dovrebbe prendere in carico le paure degli italiani e dimostrarne l’infondatezza” (copyright Livia Turco, firmataria della legge Turco-Napolitano sull’immigrazione). Infine, naturalmente, c’è il problema degli immigrati irregolari, una massa di 500 mila persone (o forse più) che vagano per l’Italia, talora lavorando in nero, talora chiedendo l’elemosina, talora delinquendo, e che nessun ministro dell’Interno è in grado di espellere, perché per molti di essi mancano accordi di rimpatrio con i paesi d’origine. Insomma sono molte, purtroppo, le ragioni per cui è difficile, molto difficile, far sì che quel che è successo a Desirée (e prima di lei a Pamela, e a tante altre e altri) non abbia a ripetersi in futuro. Siamo tutti troppo assuefatti al disprezzo delle regole per poter sperare che qualcosa di sostanziale cambi, non dico domani, ma nemmeno da qui a qualche anno. Però c’è una ragione che, a mio parere, sovrasta tutte le altre, almeno quando parliamo di reati, ossia di condotte illegali. Questa ragione è l’evoluzione della legge penale e della prassi giudiziaria. Un’evoluzione che, da molti anni, è stata guidata da un unico principio di fondo: rendere quasi impossibile scontare la pena in carcere. Un’idea astrattamente assai nobile, perché punta alla rieducazione e al reinserimento, ma che ha come effetto pratico di togliere allo Stato la sua arma più importante nella lotta al crimine: la cosiddetta “incapacitazione”. Che cos’è l’incapacitazione? È far sì che il soggetto che ha commesso un delitto sia materialmente impedito di ripeterlo (o di commetterne un altro) per un tempo congruo, ossia per la durata della detenzione in carcere. Non è questo il luogo per ricostruire i numerosi cambiamenti normativi, della legge penale e della legge carceraria, che nel giro di pochi decenni hanno condotto alla situazione attuale. E non è neppure il caso di infierire sulle responsabilità della sinistra, che quei cambiamenti ha voluto e promosso, un po’ per mentalità, un po’ per compiacere l’Europa, che giustamente denunciava il sovraffollamento e le condizioni disumane delle nostre prigioni. Ma almeno una cosa va detta: il fatto che si possa reiterare un reato innumerevoli volte senza finire in carcere, il fatto che molti giudici tendano a infliggere il minimo della pena, il fatto che reati di forte allarme sociale prevedano pene modeste o la possibilità di accedere a pene alternative al carcere, non può che produrre due conseguenze cruciali: chi delinque matura un sentimento di impunità e onnipotenza, chi dovrebbe impedirgli di delinquere matura un sentimento di impotenza e di frustrazione. Quante volte capita, a poliziotti e carabinieri, di dover esclamare: “Sì, lo conosciamo, l’abbiamo già beccato più volte ma non c’è niente da fare, noi lo arrestiamo e domani è di nuovo fuori”. E questo non solo di fronte al singolo ladro, spacciatore, estorsore, ma anche di fronte ai gruppi che occupano e controllano determinati territori. Credo che quasi tutti gli abitanti di grandi città abbiano avuto modo di constatarlo più volte nella loro vita: ci sono pezzi di città, quartieri, isolati, marciapiedi in cui brulicano attività illegali, è pericoloso abitare e passare, i criminali assumono atteggiamenti arroganti e intimidatori. In questi luoghi può succedere che i cittadini protestino, facciano esposti, chiedano disperatamente alle autorità di intervenire, e che le Istituzioni (polizia, magistratura, talora anche la Chiesa) si mostrino sorde. Ma può anche succedere, come a quanto pare è accaduto nel caso di San Lorenzo e della povera Desirée, che intervengano ripetutamente ma del tutto inutilmente: la criminalità che occupava un determinato luogo vi torna la settimana dopo, o semplicemente si sposta di un isolato, o cambia zona della città. Ecco perché, quando si dice che una certa tragedia era “annunciata”, e si accusano le autorità, siano esse politici, amministratori, Forze dell’ordine, di non aver ascoltato, di non aver risposto, di non aver provveduto, io sento un certo fastidio, o forse imbarazzo. Insomma, qualcosa non mi torna. Non tanto perché il mantra di questi giorni, riqualificare le periferie, è “un vasto programma” che ben pochi politici anteporrebbero a più redditizie promesse elettorali, ma perché la precondizione di tutto è che lo Stato sia messo in condizione di tornare a fare lo Stato. Questo, spiace dirlo, dipende in misura minima dal ministro dell’Interno, e in sommo grado dal Parlamento. Che può continuare con la vecchia linea: depenalizziamo tutto il possibile; riserviamo il carcere ai crimini più gravi (e, barbarie, ai presunti innocenti in attesa di giudizio!); per migliorare le condizioni di detenzione svuotiamo le carceri con indulti e amnistie. Oppure può trovare il coraggio di fare macchina indietro, e di riappropriarsi dello strumento dell’incapacitazione: cambiando le norme penali, limitando il ricorso alle pene alternative, destinando qualche miliardo all’edilizia carceraria. Se così agisse il Parlamento, le Forze dell’ordine non penserebbero più che il loro lavoro è vano, o che i loro sgomberi sono fatiche di Sisifo. Perché, arrestando qualcuno, confiderebbero di non ritrovarselo la settimana dopo nello stesso posto, a fare le stesse cose, con le stesse compagnie. E forse i cittadini ricomincerebbero ad avere fiducia nello Stato, a non sentirsi stupidi se rispettano le leggi. Perché, checché continuino a pensarne certi politici, non è vero che “le paure dei cittadini sono infondate”: le paure dei cittadini sono fondatissime, verso la criminalità degli immigrati come verso quella degli italiani. E quelle paure, solo uno Stato che torni a fare lo Stato ha qualche possibilità di spegnerle. Desirée e quel padre dalla doppia morale di Gabriele Romagnoli La Stampa, 27 ottobre 2018 Ogni storia contiene al proprio interno un’altra storia. Perfino, ogni tragedia ne racchiude un’altra, non meno esemplare. Nel caso di Desirée, la ragazza violentata e uccisa a San Lorenzo, riaffermata in modo egualmente incondizionato la pietà per la vittima e l’esecrazione per i carnefici, avanza dallo sfondo una figura non secondaria, una drammatica maschera italiana, quella del padre. L’uomo, che alla figlia non ha dato il nome, è, lo affermano indagini di polizia e sentenze della magistratura, un commerciante di droga, anzi un capo del traffico nella sua zona. Voleva però impedire alla figlia di fare uso delle sostanze che lui stesso smerciava e, per riuscirci, non esitava a ricorrere alle maniere forti, al punto che lei lo aveva denunciato. Non è difficile individuare in questo comportamento una contorsione che annulla ogni buona intenzione. Il barlume di saggezza che induce a prevenire la disgrazia per la propria discendenza è spento dall’indifferenza con cui si lucra sulla stessa debolezza quando affligge quella altrui. Non c’è morale, neppure un principio, ma soltanto ipocrisia. Proprio per questo il padre di Desirée (a cui non si dà qui volutamente il nome) diviene una maschera italiana, una delle peggiori, eppur diffuse. “Non vogliamo stranieri a casa nostra”, però li ingaggiano per lavori poco pagati e per nulla registrati o si accompagnano furtivamente a femmine esotiche raccattate sulle provinciali. “Più chiese e meno moschee”, ma per qualche euro (lira, direbbero) in più vendono l’edificio al temibile islamico e che sostituisca pure il campanile con il minareto (salvo indignarsi quando accadrà). Sia chiaro che questa dissonanza è bipartisan, anzi universale, e quindi, a scanso di equivoci, mettiamoci pure: “Bisogna essere solidali e accoglienti”, ma per favore tenete lontani i profughi da Capalbio che abbiamo appena ritinteggiato. È sempre a casa di qualcun altro che tutto è permesso o, addirittura, doveroso. È il comportamento degli altri a essere inaccettabile. Per se stessi si trova una motivazione, un alibi o addirittura una necessità. La doppia morale è come la doppia negazione: annulla tutto. Resta solo il dispiegarsi inesorabile della storia, anche di quella piccola e infame. Gli autori delle tragedie greche e quelli del più tragico dei testi, la Bibbia, hanno cercato di incutere agli uomini il più grande e fondato dei timori. Esiste un dio, laicamente chiamato destino, in osservazione e in ascolto. Qualche volta è distratto, qualche altra è mite, ma sono eccezioni. E così il padre agli arresti domiciliari, impossibilitato a inseguire la figlia ribelle, ha ordinato di farle terra bruciata intorno, di non venderle la droga nella sua zona e l’ha sospinta verso la capitale, i suoi antri oscuri, i suoi buchi di legalità, quei mostri al servizio di altri capi del traffico in altre zone. La regola è l’avverarsi di spietate conseguenze, non sempre evidenti, avvolte come una storia nella storia. La prescrizione non si tocca, lo ha ribadito la Cassazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 ottobre 2018 Rigettato il ricorso del Procuratore Generale di Belluno per un procedimento per frode fiscale. Salvaguardata, ancora una volta, la prescrizione e il diritto alla determinatezza del nostro ordinamento giudiziario grazie a una sentenza della Cassazione (n. 4709/ 18 depositata il 18 ottobre). Sono ancora gli effetti della sentenza della Corte europea dei diritti umani “Taricco” e l’altra “Taricco bis” che riaffermò il “primato del diritto dell’Unione” quale dato acquisito nella giurisprudenza costituzionale, ai sensi dell’art. 11 della Costituzione, condizionato all’osservanza dei “principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona”. Il problema si è riproposto quando il Tribunale di Belluno, nel 2016, aveva dichiarato di non doversi procedere nei confronti di due imputati per evasione fiscale in quanto i reati dovevano considerati estinti per prescrizione. Il procuratore presso la Corte di appello di Venezia, però, ha impugnato il provvedimento in Cassazione ritenendo che fosse stato disatteso il principio affermato dalla Corte di giustizia Ue (causa dell’ 8 settembre 2015) che porterebbe alla disapplicazione degli articoli 160 e 161 codice penale sulla prescrizione delle frodi gravi in materia di Iva. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso sulla scorta della successiva sentenza “Taricco bis”, intervenuta in seguito alla questione pregiudiziale sollevata dalla Corte Costituzionale che aveva rilevato un’ipotesi di incompatibilità, perché riteneva che la decisione (“Taricco”) fosse non conforme ai principi di determinatezza delle norme di diritto penale sostanziale, oltre che a quello di impedire l’arbitrio applicativo del giudice. Per questo la Consulta chiedeva ai giudici europei un’interpretazione “correttiva”. E così fu: infatti con la sentenza “Taricco bis”, la Cedu cercò una mediazione tra i principi della sua precedente decisione e le esigenze di tutela dei principi costituzionali interni. Anche la Cassazione quindi con questa pronuncia di rigetto sembra accogliere e fare proprio quello che la Cedu aveva statuito nel tentativo di andare incontro alle esigenze di costituzionalità del diritto nazionale in tema di principio di legalità. “I giudici nazionali competenti, quando devono decidere, nei procedimenti pendenti, di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione, sono tenuti ad assicurarsi che i diritti fondamentali delle persone accusate di avere commesso un reato siano rispettati”, questo scrisse la Cedu per non dimenticare il principio di legalità in termini di determinatezza del diritto e l’irretroattività della legge penale. È la stessa Consulta che prende atto di questo tentativo di mediazione e, con sentenza (115/ 2018), a seguito della “Taricco bis” si pronuncia confermando che è demandato alle autorità giudiziarie nazionali “il compito di saggiare la compatibilità della “regola Taricco” con il principio di determinatezza in materia penale”; in più la Consulta aggiunge che, in tale evenienza, per giungere a disapplicare la normativa nazionale in tema di prescrizione, è necessario che il giudice nazionale “effettui uno scrutinio favorevole quanto alla compatibilità della “regola Taricco” con il principio di determinatezza, che è sia principio supremo dell’ordine costituzionale italiano, sia cardine del diritto dell’Unione, in base all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. Il procuratore generale aveva richiamato la “Taricco” e la successiva sentenza della Corte di Cassazione del 17.9.2015, ma la Corte di Cassazione non accogliendo le sue argomentazioni, ha ritenuto di obiettare i principi “correttivi” inseriti nella cd “Taricco bis”, riconoscendo al giudice nazionale di aver salvaguardato le norme interne rispetto alle statuizioni della “Taricco” che era in contrasto con la determinatezza del diritto applicabile interno. Calabria: la “Prima conferenza regionale sulla violenza alle donne” di Grazia Candido strill.it, 27 ottobre 2018 “Istituiremo in Calabria un centro di ricerca per studiare e supportare le donne vittime di violenza”. Lo anticipa il coordinatore dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere Mario Nasone ideatore della “Prima conferenza regionale sulla violenza alle donne” in programma questo pomeriggio alle ore 15 presso l’Auditorium “Calipari” di palazzo Campanella. Un appuntamento importante che però, oltre alle parole deve unire i fatti... “Per la prima volta, la conferenza regionale sulla violenza alle donne si fa in Calabria perché il problema sino ad oggi, è stato sottovalutato, si è registrato un disinteresse totale che non possiamo più accettare. L’Osservatorio nazionale sulla violenza di genere è un organismo voluto dal presidente del Consiglio Nicola Irto per guardare in faccia il problema e per cercare di capire di cosa stiamo parlando, abbiamo coinvolto tutte le realtà e le forze del territorio per aiutarci innanzitutto, a leggere il fenomeno che è in continua crescita e a trovare le giuste soluzioni. È una situazione pesante, i rischi sono elevatissimi e la Calabria dopo la Liguria, è la Regione con il più alto numero di femminicidi. La conferenza di oggi, sarà uno spartiacque per capire se la Calabria si vuole mettere in riga rispetto alle altre regioni”. Sul territorio locale come si sta lavorando per dare concretamente aiuto alle donne vittime di violenza? “Il territorio regionale è quasi completamente scoperto, ci sono intere zone come la Locride, la Piana di Gioia Tauro, la zona jonica del cosentino che non hanno nessun centro antiviolenza. Sono solo sette i centri antiviolenza accreditati a differenza della Puglia che ne ha 25 e, a breve, diventeranno 40 con una copertura quasi totale. L’odierna conferenza vuole essere non soltanto un incontro sociologico, statistico, di lettura del fenomeno ma anche un’occasione per fare il punto su cosa si sta facendo. La regione Calabria è molto indietro rispetto alle altre regioni meridionali e, anche se, negli ultimi due anni, qualcosa si è fatto, lo spread su questo fronte è molto elevato. Per esempio, la Puglia ha stanziato per la violenza di genere 11 milioni di euro per i prossimi 3 anni mentre la Calabria ne spende 400 mila euro l’anno, in 3 anni 1.200 euro. Un divario economico decisamente importante”. Cosa chiederete oggi alla Regione Calabria? “Chiederemo di fare rientrare questo problema nell’agenda politica e un tavolo tecnico per stilare un Piano regionale per contrastare la violenza di genere. I fondi ci sono, sono quelli comunitari e ci sono anche le linee guida nazionali. Si tratta di mettersi a lavorare e creare questo piano che darà un’uniformità agli interventi sul territorio regionale perché non è giusto che ci siano territori con più iniziative ed investimenti rispetto ad altri. La provincia di Reggio Calabria riceve solo il 7% delle denunce rispetto al totale regionale e questo avviene perché la maggior parte delle donne che potrebbero avvalersi dei centri non hanno riferimenti. Il piano permetterebbe inoltre, di mettere a sistema quelli che sono i servizi esistenti nei centri antiviolenza e consentirebbe di mettere a sistema i finanziamenti localizzando le risorse nei vari centri. Un altro problema importante sono gli alloggi: secondo la legge n.20 del 2017, i Comuni devono riservare alle donne che denunciano una casa ma non rispettando questa norma, i centri di accoglienza sono quasi sempre pieni. Infine, si deve affrontare il problema del lavoro perché se le donne non hanno una propria autonomia economica sono più ricattabili: molte infatti, ritornano col compagno maltrattante perché non hanno altre strade davanti. Il 25 novembre sarà la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne e non vorremmo che fosse la solita giornata delle dichiarazioni di principio, delle solidarietà perché le donne che vivono questo dramma, hanno bisogno di fatti e risposte e non di pacche sulle spalle”. Secondo lei, la Calabria riuscirà ad allinearsi agli standard di altre esperienze attive nel resto d’Italia? “La Calabria è molto lenta, potenzialmente potrebbe farlo ma c’è bisogno che la Regione si apra a collaborazioni esterne. Si lamentano che sono pochi i funzionari ma noi siamo disponibili a rimboccarci le maniche e ad aiutarli. Questa terra potrebbe invertire la tendenza ma ci deve essere la volontà politica. Non è tollerabile che alcune regioni del Sud sono andate avanti e altre no. Le donne che incontriamo ogni giorno, pretendono che ci battiamo per i loro diritti e non a caso, abbiamo voluto far aprire la conferenza ad Anna Maria Scarfò (vittima di violenza sessuale di gruppo a Taurianova e costretta a vivere sotto protezione) che ha pagato un prezzo pesantissimo per le scelte fatte. È un testimonial di tutte le donne che come lei vivono certe aggressioni ma Anna Maria è riuscita a riscattarsi, a riprendere in mano la sua vita ed è una messaggera di speranza”. Cosa si sente di dire a tutte quelle donne che per paura non denunciano? “Si può uscire da queste logiche però, è importante che ogni donna che vive questa sofferenza abbia accanto qualcuno che la accompagni, che la sostenga in questo cammino difficile. Se non intercettiamo la loro sofferenza, rischiamo che si compia poi una tragedia. Dobbiamo evitare questo e assistere le donne e i loro figli molti dei quali portano cicatrici indelebili sul corpo e sull’anima”. Asti: Garante dei detenuti, attività e progetti alla Casa di reclusione atnews.it, 27 ottobre 2018 Riparte in questi giorni l’attività della Garante dei detenuti, la figura impegnata a migliorare i rapporti tra l’interno e l’esterno delle carceri e concorrere a tutte quelle attività di salvaguardia dei diritti delle persone private della libertà. Paola Ferlauto, Garante con riferimento alla struttura carceraria di Quarto, è una operatrice sanitaria e svolgerà il suo mandato gratuitamente fino alla scadenza del mandato del Sindaco della Città, a cui compete la nomina e la ratifica da parte del Consiglio comunale. La legge regionale istitutiva del Garante è del dicembre 2009, prima firmataria Mariangela Cotto, insieme a Rocchino Muliere, e fu frutto di un percorso iniziato nel 2004. “Senza essere né pietisti né forcaioli - rammenta Cotto, attuale assessora alle Politiche sociali - l’art 27 della nostra Costituzione è un chiaro punto di riferimento, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Questa figura ne traduce concretamente l’auspicio”. La Casa di Reclusione di Asti ospita detenuti con periodi di pena prolungati. Questo implica un’organizzazione articolata per quanto riguarda sia il personale che vi opera sia i detenuti cui sono proposte delle attività per rendere il tempo detentivo utile e conforme al mandato istituzionale. Tra i più recenti progetti realizzati, grazie al contributo dell’associazione Effatà operante in carcere e al lavoro degli stessi reclusi, si è provveduto al rifacimento della pavimentazione e la tinteggiatura del locale adibito a palestra, integrando le attrezzature e avviando una positiva collaborazione con la locale facoltà di Scienze motorie. Di recente inoltre, grazie al coinvolgimento dei consiglieri comunali Walter Rizzo e Giuseppe Passarino, sono stati organizzati un torneo estivo di calcio, 25 partite svoltesi in carcere, in collaborazione con l’ente di promozione sportiva Asc e un corso sull’utilizzo di materiali edili, svolto con l’Ente per la Formazione e la Sicurezza per la provincia di Asti. Roma: “Mai più bambini in carcere”, manifestazione davanti al ministero della Giustizia di Giuseppe Brienza ilpopulista.it, 27 ottobre 2018 Si è svolta ieri la manifestazione promossa dall’Associazione Donne per la Sicurezza Onlus (Segretario Nazionale Dott.ssa Anna de Sanctis) davanti al Ministero della Giustizia dal titolo “Mai più bambini in carcere!”. Fino alle ore 13 sono presenti con cartelli e un piccolo presidio presso piazza Benedetto Cairoli vari rappresentanti delle associazioni che, dal Popolo della Famiglia a Realtà Nuova, hanno aderito all’iniziativa, intrapresa anche in memoria dei due piccoli bambini morti per mano della loro madre, Alice Sebesta, detenuta presso la casa circondariale di Rebibbia. Esiste in effetti una norma nel Codice di procedura penale italiano che dispone il collocamento delle madri detenute con minori in un Istituto di custodia attenuata (Icam). Purtroppo però, in un Comune grande come quello di Roma - che è anche la Capitale d’Italia, vi è un unico Icam, nel quartiere Eur, composto di sole otto stanze. Ricordata con la manifestazione di stamane è accaduta all’interno della sezione nido dell’istituto di detenzione dove era ristretta la sopra citata Sebesta e, può e deve costituire l’occasione per chiedere alle Istituzioni e al titolare del dicastero della giustizia, il Cinque Stelle Alfonso Bonafede, un impegno concreto per l’attuazione della legge n. 62 del 21 aprile 2011. Quest’ultima norma, infatti, pur introducendo l’art. 285 bis del codice di procedura penale, il quale prevede che qualora la persona da sottoporre a custodia cautelare in carcere sia rappresentata da donna incinta o madre di prole di età non superiore ai sei anni, il giudice ne può disporre la tutela presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam, appunto), è rimasto in gran parte sulla carta. Anzitutto l’Associazione Donne per la Sicurezza chiede giustamente di provare a trasformare qualcuna delle tante strutture ed edifici sottratti alla mafia o alla criminalità organizzata, in altrettanti Icam. Un provvedimento concreto destinato alle donne e alla protezione dei minori, che permetta di lasciare il più possibile le mamme, che pure hanno sbagliato compiendo reati, con i loro figli che non hanno nessuna colpa e il diritto naturale ad essere accuditi ed amati dai loro genitori. Non lasciare, così, che colpe di questi ultimi ricadano sui bambini separando di fatto delle donne-madri dai loro figli. Sebbene detenuti ai cittadini e alle cittadine ristrette non dovrebbe in effetti essere sottratto il diritto-dovere di crescere ed educare i loro bambini. “No ai bambini in carcere”, in effetti, è uno dei più giusti efficaci e giusti slogan presentati questa mattina a Roma dalla delegazione dei manifestanti, in attesa di essere ricevuti dai vertici del Ministero. Terni: la Corte Costituzionale nelle carceri, lezione del giudice Giancarlo Coraggio Il Velino, 27 ottobre 2018 Lunedì 29 ottobre 2018, a partire dalle ore 10,00, presso la Casa circondariale di Terni (Strada delle Campore n.32), il Giudice della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio incontrerà i detenuti, nell’ambito del progetto “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”. Nel teatro del carcere il Giudice terrà una lezione che si svilupperà attorno al frammento di Costituzione “Rimuovere gli ostacoli”. Successivamente risponderà alle domande che i detenuti vorranno rivolgergli. Dopo l’incontro, il Giudice Coraggio visiterà gli spazi detentivi. Il progetto “Viaggio nelle carceri” è stato deliberato dalla Corte l’8 maggio scorso e, in continuità con il “Viaggio nelle scuole”, risponde anzitutto all’esigenza di aprire sempre di più l’Istituzione alla società per diffondere e consolidare la cultura costituzionale. L’incontro “fisico” con porzioni del Paese reale esprime poi l’esigenza di uno scambio di conoscenze e di esperienze in funzione di una piena condivisione e attuazione dei valori costituzionali. Infine, con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la “cittadinanza costituzionale” non conosce muri perché la Costituzione “appartiene a tutti”. Il progetto - grazie alla collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità - prevede un ciclo di incontri in diverse carceri italiane. Dopo Rebibbia Nuovo complesso, San Vittore, Nisida minorile e Terni, seguiranno, fino al 16 novembre 2018, Genova-Marassi e Lecce femminile. Il Viaggio proseguirà nel 2019, come quello nelle scuole. Ascoli Piceno: “viviamo dietro le sbarre per ritrovare la speranza” di Vincenzo Varagona Avvenire, 27 ottobre 2018 Da Marino del Tronto storie di sfide e di sogni. Giornalisti e detenuti si confrontano in un meeting voluto dalla diocesi e dalla direzione penitenziaria. Racconti da “dentro” e da “fuori” per leggere la vita con occhi diversi. Tony è siciliano, ha 53 anni, 24 dei quali passati dietro alle sbarre. Per rapina. È entrato e uscito non sa più quante volte. Adesso gli mancano quattro anni per tornare, spera definitivamente, fuori. Lo incontriamo nel supercarcere di Marino del Tronto, alle porte di Ascoli Piceno, dove per la prima volta i giornalisti entrano in gruppo per un momento di confronto, fortemente voluto dalla diocesi e dalla direzione della struttura penitenziaria, che si svolge nell’ambito del meeting 3.0 dei giornalisti “cattolici e non”. Tony è commosso. Non è la prima volta che prende parte a progetti del genere, in particolare con Radio Incredibile, emittente digitale locale che struttura programmi in carcere e poi li diffonde fuori, ma parlare a 50 giornalisti, quando di solito è costretto a rispondere, soprattutto alle domande di poliziotti e magistrati, non gli era mai capitato. Prende la parola dopo avere ascoltato gli interventi di Giovanni Tridente, Andrea Domaschio, Francesco Zanetti, Simone Incicco e confida: “Sulla mia esperienza sto scrivendo un libro, ho anche pensato al titolo, Una vita incompiuta”. Perché incompiuta? “Perché sono sposato, da tanti anni, ma non ho mai avuto la fortuna di avere un figlio... Per la verità non so se sono dispiaciuto o gratificato da questa cosa, perché un mio compagno di cella ha avuto l’avventura di ritrovarsi in carcere pure con suo figlio... Però, valeva la pena rischiare e un figlio mi manca”. Accanto c’è Antonio, pugliese, che racconta una storia tremenda: “In famiglia nessuno sapeva della mia “doppia vita”, fin quando, dopo l’arresto, la storia è venuta prepotentemente fuori... Vedere i tuoi figli che ti guardano e ti chiedono: “Papà, ma tu sei davvero questo?”, e non riuscire a guardarli negli occhi, non sapere spiegare loro perché è successo. Per fortuna, la forza dell’amore del legame familiare ci ha salvati. Hanno capito, e ora con tanta fatica sono riuscito a recuperare un rapporto autentico con loro”. Poi è la volta di Giampiero, è della parrocchia di Monticelli, ad Ascoli Piceno, la stessa di un altro Giampiero, il sacerdote che è riuscito a creare questa occasione di incontro, nel suo ruolo di responsabile della Commissione comunicazioni sociali e direttore di Radio Ascoli. Giampiero è conosciuto, nell’ambiente, come il “sindacalista del metro quadro”: ha l’animo del lottatore, e non ha difficoltà a diventare riferimento, anche in questo difficile ambiente. Gli chiediamo per quali diritti è stato chiamato a battersi... risponde che il tema più sentito, in carcere, era proprio quello degli spazi. È contento che, a distanza di tempo, gli spazi a disposizione dei detenuti siano significativamente aumentati. E non solo gli spazi fisici: “Si respira proprio un’altra aria - riconosce - per le tante attività e per i lavori che oggi riusciamo a svolgere. Il nostro obiettivo è davvero quello di restare in cella meno tempo possibile”. L’incontro dei detenuti con un gruppo mai tanto numeroso di giornalisti in un carcere di massima sicurezza ha la forza di rompere la solitudine e il silenzio nel quale sono immerse le esistenze di chi passa qui anni della sua vita per pagare il proprio debito con la società. È la chiave per prendere coscienza che occorre prevenire la disperazione di chi dietro le sbarre non vede un domani e arriva fino al suicidio (nel 2018 la tragica contabilità è ormai a quota 50). L’augurio arriva alle persone carcerate ad Ascoli dal direttore di Avvenire, Marco Tarquinio: “Il mio giornale resterà sempre fedele alla sua missione che è raccontare terre e popoli di frontiera: il carcere e i detenuti appartengono a questo mondo. E non è un caso se questo giornale è il più diffuso e letto in queste strutture, dove quotidiani e tv rappresentano gli essenziali canali di informazione dall’esterno”. Una bella provocazione viene anche dal vescovo di Ascoli Piceno, Giovanni D’Ercole: “Voi lo sapete che la libertà vera è dentro il vostro cuore, ed è possibile sentirsi liberi anche dentro il carcere”. I detenuti rimangono colpiti da questa “carezza”, ed è Antonio a rispondere: “Ci portiamo dentro questo invito, che ci aiuta a leggere la nostra vita, la nostra esperienza, con occhi diversi. Ci portiamo via la consapevolezza che il carcere può maturare e raggiungere davvero, in anticipo, quella sensazione di equilibrio e serenità che poi, fuori, potrà acquistare una maggiore completezza”. Ascoli Piceno: la direttrice “serve uno sguardo più attento anche per le buone notizie” di Vincenzo Varagona Avvenire, 27 ottobre 2018 C’è una regola non scritta nell’esperienza del giornalista: le strutture carcerarie più aperte sono riconducibili a dirigenti particolarmente illuminati. Una di questi è Lucia Di Feliciantonio, responsabile di un carcere, Marino del Tronto, che ha conosciuto “ospiti” del calibro di Ali Agca e Totò Riina. Lei non si è fatta mai scalfire dal rigore prevalente in altre analoghe esperienze ed è riuscita ad attuare una buona mediazione fra la necessità di avere “polso” e quella di attivare comportamenti in linea con la missione rieducativa del carcere, che punta al reinserimento sociale del detenuto. Così, attività che in altre carceri hanno avuto minore fortuna, ad Ascoli sono diventate pane quotidiano: il teatro, la musica, i laboratori artistici e professionali, mentre il periodico Io e Caino ha chiuso l’attività nel 2013, ma continua la rubrica “Oltre le sbarre” (curata dai detenuti e dai volontari della Caritas) sul quindicinale “La vita picena”. Alla direttrice i detenuti riconoscono lo sforzo di investire tempo e risorse nei percorsi di recupero che portano anche alla concessione di permessi diurni, indispensabili per andare al lavoro o per far visita alla famiglia. “Un mondo senza carcere è possibile”, chiosa il vescovo D’Ercole e lei risponde: “Le barriere non sono solo fisiche, ma anche psicologiche. Sono principalmente quelle a dover essere abbattute. Un contributo importante - aggiunge - può arrivare dai giornalisti, dal loro “giornalismo di pace”, non violento e soprattutto attento alla persona”. Il confronto con i colleghi dei media presenti diventa vivace quando afferma che il carcere troppo spesso si merita un titolo solo per episodi di cronaca, mentre ciò che viene studiato per migliorare le condizioni dei detenuti, spesso, non trova spazi. I giornalisti dimostrano interesse, sensibilità e disponibilità al tema e cercano di smentire il luogo comune della ricerca esasperata del “titolo negativo”, ma rilanciano: “Il mondo del carcere abbia meno paura, abbia fiducia, e informi meglio. Riattivando i canali della comunicazione, non solo quelli “protetti” del giornalismo “interno”, forse molte cose potrebbero modificarsi”. La direttrice annuisce. Si può fare. In cambio chiede maggiore attenzione alla “foresta rigogliosa che cresce”, ai pensieri positivi che il carcere elabora, ai tanti percorsi innovativi che stanno nascendo in vista del “fine pena”. Arezzo: “Filosofia in carcere”, studenti universitari a lezione nella Casa circondariale gonews.it, 27 ottobre 2018 Il carcere di Arezzo Il carcere di Arezzo Oltre cento studenti universitari da lunedì prossimo seguiranno alcune lezioni nel carcere di Arezzo sulle attività di filosofia pratica da svolgere con gli adulti. L’iniziativa è di Simone Zacchini, docente presso il Dipartimento di Scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale dell’Università di Siena e ideatore del progetto di riflessioni filosofiche, narrazioni e scrittura svolto negli ultimi due anni con i detenuti nella Casa circondariale di Arezzo. Un’esperienza sulla quale ora Zacchini ha pubblicato un libro, “Sfogliare tramonti. Esperienze di filosofia in carcere” (Ets), che attraverso saggi, documenti e testimonianze delinea il percorso svolto durante il progetto per far comprendere a quali condizioni la filosofia può intervenire in una realtà critica e marginalizzata come quella carceraria. “In questo lavoro ho voluto mostrare come la pratica filosofica riesca a supportare e favorire processi di crescita personale e di integrazione - commenta Zacchini - e ho fatto rivivere le voci di coloro che si sono ritrovati a ‘far filosofia’ all’ora del tramonto, non solo detenuti ma anche studenti e cittadini”. Padova: “Antigone?” Il teatro e la vita, così simili anche in carcere di Gianfranco Bettin Il Mattino di Padova, 27 ottobre 2018 È ancora possibile interpretare Antigone, echeggiarne il grido in modo che non suoni già sentito, mero repertorio? E farlo con pochi mezzi e attori non professionisti, guadagnati alla parte soprattutto dall’empatia per la tragedia e i suoi personaggi? Si può rispondere di sì, dopo aver assistito alla messa in scena dentro la Casa Circondariale di Padova, protagonisti otto detenuti (quattro italiani, due tunisini, un moldavo e un nigeriano) guidati da Rosanna Sfragara e Flavia Bussolotto, con la cura tecnica di Alessandro Martinello di Tam Teatromusica - Tam Bottega dell’Arte. Il progetto, sostenuto con lungimiranza dalla Regione Veneto - Direzione regionale per i servizi sociali - Servizio prevenzione delle devianze e tossicodipendenze, è stato sviluppato dalla storica compagnia padovana con il Collettivo Progetto Antigone di Letizia Quintavalla e i contributi di Ilaria Drago e della filosofa Olivia Guaraldo (autrice tra l’altro di “Comunità e vulnerabilità”, ETS, un testo in dialogo stringente con i temi messi in scena). Dopo mesi di lavoro Antigone (anzi “Antigone?”) è stata presentata a un pubblico di “esterni” e detenuti nelle lavanderie del carcere. Un Sofocle beckettiano, per così dire, con un prologo in cui risuona, in greco antico, la voce remota che racconta di Tebe, di Eteocle e Polinice a conflitto, di Creonte sul trono. Il suo veto alla sepoltura di Polinice e le conseguenze del gesto ribelle di Antigone vengono invece direttamente rappresentati, con gli altri attori e la presenza silenziosa e ieratica di Flavia Bussolotto, in veste di messaggero e testimone. Le lingue si mischiano, in una Babele “tradotta” dalla memoria del testo. C’è posto perfino per un Sofocle ruzantiano, reso in un dialetto veneto capace di intensità classica (viene in mente, a riprova, l’Amleto tradotto in veneto dal grande Meneghello). Intanto, cade sabbia da un sacco appeso a una trave, scabre seggiole giostrano tra le mani, giacche del nostro tempo vestono corpi di oggi e di sempre, ostaggi anche se in vita dello stesso potere che decide arbitrario sul corpo morto del fratello di Antigone (e quindi sulla vita di lei, e di tanti, di tutta la polis). Se ne parla, dopo, dopo i lunghi applausi nel dialogo stimolato da Sfragara. “Vita e teatro si somigliano” dice un detenuto: “Dipende dalla parte che ti scegli, o che ti impongono”. Il limite tra le due situazioni è spesso sottile, anche se proprio il teatro dice che della parte ti devi comunque rendere responsabile. Gli attori sembrano pensarci davvero, di fronte al mucchio di sabbia sul pavimento. Bravissimi, intensi, sono: Benedetto Allia, Yassine Ben Rahmani, Fernando Cantini, Nike Moretti, Lawrence Nwankwo, Achille Pozzi, Dorin Preguza, Rabia Suei. Napoli: “Io non ci casco”, rappresentazione teatrale al carcere di Secondigliano adessonews.com, 27 ottobre 2018 Il Garante delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello e la Direttrice della Casa Circondariale di Secondigliano, Giulia Russo, promuovono nella giornata di Sabato 27 ottobre alle ore 10.30 presso il Centro Penitenziario Secondigliano una straordinaria rappresentazione teatrale dal titolo “Io non ci casco” scritta e interpretata da un gruppo di detenuti, alcuni dei quali ergastolani, dell’alta sicurezza del Reparto Adriatico del carcere di Secondigliano. Lo spettacolo scritto ed interpretato da 20 detenuti ha l’intento di lanciare un segnale che “Si può”; infatti, loro scrivono nell’invito: “Il nostro intento è quello di inviare un messaggio di legalità che arrivi soprattutto ai più giovani per invitarli a rapportarsi alla società e all’ambiente in cui vivono con un senso civico e un senso di legalità più forti e ad abbandonare la strada dell’illegalità. Speriamo che questo messaggio sia tanto più incisivo in quanto viene lanciato da noi, che abbiamo vissuto un processo di cambiamento profonda che ci ha permesso di riflettere e rielaborare il nostro percorso esistenziale”. Per il garante campano, Samuele Ciambriello: “tale rappresentazione fa comprendere la possibilità che “si può” ricostruire se stessi sugli errori passati. Trovo che sia importante ascoltare la voce di chi ha vissuto e paga le conseguenze degli sbagli commessi e parlano di giustizia riparativa e invitano alla legalità e alla responsabilità. Lo strumento del teatro, delle letture libere e delle varie iniziative che li hanno visti partecipi e coinvolti negli ultimi 2 anni li hanno condotti oltre che alla consapevolezza dei propri errori e alla riconsiderazione di se stessi”. Paliano (Fr): per una cultura del reinserimento, nel carcere film su Caravaggio di Davide Dionisi vaticannews.va, 27 ottobre 2018 Il messaggio di speranza di Papa Francesco attraverso l’arte cinematografica per promuovere il valore dell’accoglienza e della solidarietà e per offrire l’opportunità di guardare con occhi diversi al di là delle sbarre e superare le barriere granitiche dell’indifferenza. SKY dona alla casa di reclusione l’allestimento per una sala cinematografica. “Scelgo la luce”. La testimonianza di Emanuele Marigliano, interprete ed espressione degli stati d’animo di Caravaggio, sintetizza una esperienza emozionante trascorsa ieri pomeriggio con gli ospiti della reclusione di Paliano. Nel carcere del frusinate, che ospita unicamente collaboratori di giustizia, si è svolta l’ultima tappa del progetto “Liberi nell’arte: quando l’arte incontra la realtà carceraria”. Nell’istituto è stato proiettato il film d’arte “Caravaggio, l’anima e il sangue”, prodotto da Sky con Magnitudo Film e distribuito da Nexo Digital: un viaggio inedito alla scoperta della vita di uno degli artisti più amati e controversi della storia dell’arte. L’iniziativa, inserita nell’ambito del programma del Sinodo, è stata promossa da Ucsi Molise e Vatican News, in collaborazione con l’Ispettorato Generale dei Cappellani e con il Ministero di Giustizia, con lo scopo di favorire la cultura del reinserimento e dell’integrazione sociale dei detenuti attraverso la bellezza dell’arte. La proiezione del film è avvenuta alla presenza di Emanuele Marigliano, interprete ed espressione degli stati d’animo di Caravaggio, che ha potuto raccontare la sua esperienza fatta di luci ed ombre e la sua storia di redenzione, che tanto ha in comune con la continua ricerca di misericordia di Caravaggio: i traffici di Scampia, la detenzione da giovanissimo, e il riscatto per amore di sua figlia. Oggi è alla guida di un comitato per la riqualificazione di Scampia e fa l’elettricista. Ed è proprio come aiuto elettricista della troupe del film durante le riprese a Napoli, che Emanuele viene notato dal regista e dallo staff di Sky. Un incontro casuale che rappresenta per lui una ulteriore possibilità di svolta. Con i migranti per fermare la barbarie di Luigi Ciotti Il Manifesto, 27 ottobre 2018 Le conseguenze della crisi economica si stanno manifestando come crisi di civiltà. Sulla paura e il disorientamento della gente soffia il vento della propaganda. Ci sono frangenti della storia in cui il silenzio e l’inerzia diventano complici del male. Questo è uno di quelli. Le conseguenze della crisi economica si stanno manifestando come crisi di civiltà. Sulla paura e il disorientamento della gente soffia il vento della propaganda. Demagoghi scaltri e senza scrupoli si ergono a paladini del “popolo” e della “nazione” e acquistano di giorno in giorno consenso, additando nemici di comodo: erano le democrazie e gli ebrei al tempo del fascismo, oggi sono l’Europa e i migranti. Il sistema economico dominante - quello che Papa Francesco definisce senza mezzi termini “ingiusto alla radice”, responsabile di una “economia di rapina” - ha certo enormi colpe, a cominciare da un’immigrazione forzata, di fatto una deportazione indotta dalle disuguaglianze. Ma la denuncia dei suoi mali e l’impegno per eliminarli non giustifica il ritorno a società chiuse, guardinghe, attraversate dal rancore e dalla paura, avvinghiate a un’idea equivoca di sovranità, perché in un mondo interconnesso non si tratta di isolarsi - posto che sia possibile - ma di imparare a convivere e a condividere con maggiore giustizia, realizzando i principi della Costituzione, della Dichiarazione universale dei diritti umani, della Convenzione di Ginevra e di tutti i documenti scritti per archiviare una stagione di violenza e di barbarie. Ecco allora l’importanza di uscire e di muoversi, di denunciare la perdita di umanità ma anche di capacità e onestà politica, perché un fenomeno come l’immigrazione non si può reprimere o respingere con i muri e le espulsioni, si deve governare con lungimiranza, pragmatismo e, certo, umanità. Senza smettere di chiederci come vorremmo essere trattati se al posto dei migranti ci fossimo noi. Mettersi nei panni degli altri è la chiave dell’etica evangelica, ma lo è anche di una società consapevole che la vita non ha confini, così come non hanno confini i bisogni, le speranze, i diritti delle persone. Facciamo sentire la voce di un’Italia che per quei diritti non smette di lottare. Migranti. Crescono i morti in mare e la Libia chiude all’Ue di Nello Scavo Avvenire, 27 ottobre 2018 Tripoli rifiuta l’ipotesi di centri d’accoglienza per migranti. Oggi a Roma l’incontro tra Conte e al-Serraj. Pronta a ripartire la missione Mediterranea. “Il nostro governo si oppone a qualsiasi piano per l’istituzione di centri per la valutazione delle richieste d’asilo dei migranti fuori dall’Unione Europea”. La dichiarazione del ministro degli Esteri di Tripoli rischia d’essere una pietra tombale sulle velleità di Italia e Ue, che da tempo pressavano sulle capitali del Maghreb affinché accettassero la realizzazione di campi di raccolta dei migranti nei quali esaminare le domande d’asilo. Un rifiuto che arriva a poche ore dall’incontro di oggi a Roma tra il presidente al-Serraj e il premier Conte, mentre a Palermo le autorità stanno ultimando i preparativi per la conferenza sulla Libia di metà novembre. Nel porto del capoluogo isolano, intanto, decine di volontari si apprestano a far salpare nuovamente Mediterranea, l’operazione umanitaria di osservazione e testimonianza nel Canale di Sicilia, che con le iniziative di terra in tutta Italia ha già raccolto oltre 220mila euro da 2mila donatori. Il rimorchiatore Mare Jonio è diventato meta di incontri e visite con le scuole della città. A decine anche ieri mattina hanno raggiunto il ‘Molo Trapezoidalè per salire a bordo e ascoltare dalla voce dell’equipaggio e dai volontari in che modo si è svolta la prima operazione e come è stata attrezzata la nave. L’unica, nelle ultime settimane, a “fotografare” quello che veramente succede in mare. La radicale riduzione degli arrivi è stata ottenuta a prezzo di un vertiginoso aumento dei naufragi. Molti dei quali rimasti per lo più sconosciuti. Secondo l’Oim, tra gennaio e settembre 2018 ben 1.728 sono le persone morte in tutto il Mediterraneo, di cui 3 su 4 (1.260) nella sola rotta tra Libia e Italia, anche a causa della diminuita capacità di ricerca e soccorso in mare provocata dalla delegittimazione ed esclusione delle navi di Ong impegnate in tali operazioni (ad esse era dovuto circa il 35% dei salvataggi). Dalla Libia, però, non arrivano le notizie che l’Ue e l’Italia si aspettavano. Per quanto fragile, il governo riconosciuto dalla comunità internazionale si è fatto portavoce di un fronte che al momento appare compatto. “Tutti i Paesi del Nord Africa - inclusa Tunisia, Algeria, Marocco e Libia - respingono la proposta di costituzione di campi per migranti”, ha ribadito nelle scorse ore il ministro Mohamed Taha Siala, già funzionario statale all’epoca di Gheddafi e ripescato da al-Serraj per guidare la diplomazia tripolina. “La Libia sta lavorando per facilitare i rimpatri nei Paesi d’origine, ma sfortunatamente, alcuni di questi si rifiutano di riprenderli”, ha insistito Siala. I migranti, in realtà, non sono il primo pensiero di governanti e milizie. Negli ultimi giorni le faide interne hanno fatto registrare una raffica di omicidi eccellenti, in concomitanza con l’approvazione del nuovo piano per la sicurezza varato dal governo di al-Serraj che ha proceduto a un rimpasto tra i ministri e ad alcuni avvicendamenti nelle forze armate. Il clima è dei peggiori. E peserà sulla conferenza di Palermo, dove le parti cercheranno di sedere ciascuna da una posizione di forza. “La Libia sta cercando di migliorare la sicurezza lungo il suo confine meridionale - ha aggiunto il ministro degli esteri, secondo quanto riportato dalla stampa locale -, stringendo accordi con il Ciad, il Niger e il Sudan”. Poi una richiesta sibillina: “L’Ue potrebbe aiutare a proteggere i confini meridionali libici fornendo supporto tecnico come veicoli, droni, elicotteri e anche armi leggere”. Migranti. A Bihac, nella nuova “giungla” d’Europa di Alessandra Briganti Avvenire, 27 ottobre 2018 Bloccate in Bosnia 5mila persone. Senza centri d’accoglienza si dorme all’aperto. “Aprite la frontiera”. È l’urlo disperato dei circa duecento migranti assiepati lungo il valico di frontiera di Maljevac, tra la Bosnia-Erzegovina e la Croazia. Notti passate all’addiaccio nel tentativo di sfondare il cordone della polizia croata e proseguire così il cammino verso l’Europa. Uomini per lo più, ma anche donne e bambini, soccorsi dalla popolazione locale che ha offerto loro cibo, bevande, coperte. La polizia ha cercato di convincere i migranti a sgomberare le tende piantate ai bordi della strada, ma loro non ne vogliono sapere nulla di andare via. Temono l’arrivo dell’inverno, quello freddo dei Balcani. Finora la Bosnia ha faticato a trovare una soluzione soddisfacente per dare alloggio ai migranti in transito nel Paese. Diciannovemila dall’inizio dell’anno, secondo il ministro della Sicurezza, Dragan Mektic. Un incremento vertiginoso se li si paragona ai circa 700 del 2017. Solo due i centri di accoglienza allestiti finora. Un terzo è stato aperto in questi giorni nell’ex caserma di Hadzici, a sud est della capitale. Centri di accoglienza che rimangono in parte deserti, troppo lontani come sono da quel confine che i migranti sperano di oltrepassare. Così il peso dell’emergenza è ricaduto quasi interamente su Bihac e Velika Kladusa, le due cittadine di frontiera nel cantone di Una-Sana, nella Bosnia nord-occidentale. È la nuova giungla nel cuore d’Europa dopo Calais, Moria, Idomeni, Lampedusa. Non si sa per certo quanti ve ne siano. Dai tremila ai cinquemila, la stima. Ma di centri di accoglienza qui non vi è nemmeno l’ombra. Le famiglie vengono sistemate all’hotel Sedra, poco distante da Bihac, uno stabile abbandonato e in parte ristrutturato dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Iom). Per gli altri solo alloggi di fortuna, come quello del Dom Borici, un ex studentato senza porte né finestre né servizi igienici dove vivono accampati un migliaio di migranti. O la tendopoli di Velika Kladusa, che nei giorni di pioggia prende le sembianze di un’immensa pozzanghera disumana. I più fortunati possono permettersi un tetto in residenze private al costo di 3-4 euro a notte. Tanti invece non hanno altra scelta che dormire in strada tra un tentativo di fuga e l’altro. E proprio a Bihac la popolazione locale ha mostrato i primi segni di insofferenza, sfinita dall’afflusso ininterrotto dei migranti. Negli ultimi giorni centinaia di abitanti sono scesi in piazza per chiedere allo Stato una risposta efficace all’emergenza abitativa che sta colpendo la città di frontiera. Manifestazioni pacifiche culminate nel blocco della ferrovia e della strada che collega Bihac a Sarajevo per impedire l’accesso alle centinaia di rifugiati che si riversano ogni giorno in città. Una questione che è diventata anche di ordine pubblico. Risse tra i profughi, furti e rapine ai danni dei residenti riempiono ogni giorno le pagine dei quotidiani locali. In risposta le autorità di Sarajevo hanno imposto ai profughi il divieto di ingresso nel cantone di Una-Sana, mentre i migranti che già si trovavano lì si sono messi in marcia verso il confine. Lo hanno fatto più volte in questi mesi, alla spicciolata. The game, lo chiamano. Il gioco. Vai, provi, ritorni al punto di partenza. Così finché non passi dall’altra parte. Forti del loro numero, i migranti provano ora ad attraversare gli ultimi cento metri che li separano dalla terra promessa, sfidando violenze e respingimenti indiscriminati. Hanno bisogno di un Paese e di diritti, si legge sui cartelli che brandiscono. Ciò che per ora l’Europa non sembra intenzionata a dare. Spagna. Blitz dell’antiterrorismo, nelle carceri cova la jihad armata di Stefano Piazza Libero, 27 ottobre 2018 In 17 carceri spagnole, ossia nel 55% delle prigioni che ospitano prigionieri legati al terrorismo jihadista, è scattata l’imponente operazione Escribano. Il blitz dell’intelligence e dell’antiterrorismo spagnolo è avvenuto poco prima della liberazione di uno dei più pericolosi e irriducibili terroristi islamici detenuti in Spagna: Mohamed Achraf alias Abderramane Tahiri, che sarebbe dovuto uscire dal carcere lo scorso 14 ottobre 2018. Il 44enne marocchino, in carcere dal 2008 perché coinvolto nella preparazione di diversi attentati, era riuscito a farsi condonare quattro anni di detenzione. Errore gravissimo perché la sua era tutta una commedia. Achraf, benché fosse continuamente spostato da un carcere all’altro e tenuto in isolamento per la sua pericolosità e la capacità di fare proselitismo convertendo detenuti, è riuscito a costruirsi una rete di fedelissimi. Il “frente de càrceles” (Fronte delle Prigioni) scoperto nelle carceri, era formato da 25 islamisti attivi nel reclutamento, nell’indottrinamento e nella radicalizzazione di altri detenuti, oltre che nella pianificazione di attacchi in Spagna. Nella sua cella sono state trovate diverse lettere, ma una di queste ha colpito gli inquirenti per i suoi contenuti: “Vogliamo prepararci per la jihad di Allah, ho buone notizie: ho creato un nuovo gruppo, siamo disposti a morire per Allah in qualsiasi momento, aspettiamo di essere rilasciati dalla prigione per poter iniziare a lavorare. Abbiamo uomini, abbiamo armi e abbiamo obiettivi. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è fare pratica”. Pericolo scampato? Certamente no. Il “frente de càrceles” può contare su molti dei 150 detenuti che stanno scontando la detenzione in 28 diverse carceri spagnole dove si trova davvero di tutto: dai sostenitori di Al Qaeda, all’Isis, Jabbath al Nusra e una delle frange più estreme e violente del salafismo ovvero Talcfir Wal-Hijra (anatema ed esilio). Lo stesso vale per la provenienza geografica, si contano infatti 72 cittadini marocchini, 57 spagnoli molti dei quali convertiti ma la lista delle nazionalità è lunga: Bangladesh, Belgio, Brasile, Bulgaria, Danimarca, Egitto, Francia, Messico, Paesi Bassi, Pakistan, Portogallo, Arabia Saudita e Turchia. A loro, bisogna aggiungere altri 120 detenuti comuni che secondo il ministero degli Interni spagnolo sono monitorati perché durante la detenzione si sono fatti irretire dal “fanatismo islamista”. L’operazione Escribano ha anche il merito di aver scoperto il velo su uno dei temi più discussi nel contrasto al terrorismo islamico: i programmi di deradicalizzazione. Si apprende così che dei 270 detenuti presenti nelle carceri spagnole per reati legati al terrorismo, solo 20 di loro frequentano le sedute di de-radicalizzazione volontariamente come previsto dalla legge. Lo stesso ministero dell’Interno in una circolare scrive: “La maggior parte delle persone indagate, lungi dall’essere deradicalizzate, non solo sono rimaste attive nella militanza jihadista, ma sono diventate ancora più radicali durante la loro incarcerazione”. Pakistan. La lunga attesa dell’esecuzione di Malvina Giordana Il Manifesto, 27 ottobre 2018 In diretta web “No time to Sleep” le ultime ore di un condannato a morte nelel carceri pakistane. Per 24 ore, durante la XVI giornata mondiale contro la pena di morte che cade come ogni anno il 10 ottobre, il giornale pakistano Dawn ha trasmesso sul suo sito web No Time to Sleep, una live performance che mostra l’ultimo giorno di un prigioniero del braccio della morte prima dell’esecuzione. Il tempo scorre tiranno e senza soluzioni di montaggio. Un livestream in cui la camera segue il condannato nei suoi ultimi gesti prima dell’impiccagione: l’ultimo pasto, le abluzioni, la preghiera. Viene testata la resistenza della corda, mostrato il nodo del cappio. Il prigioniero potrebbe non morire immediatamente, nei primi due o tre minuti - spiega in voice over il boia- bisogna allora afferrare il corpo da sotto e tirare. Esplode nel contesto del Pakistan contemporaneo la dimensione semantica e sintattica codificata dal cosiddetto film carcerario, un genere cinematografico classico dalla straordinaria coerenza iconografica che ha pervaso l’immaginario sull’inaccessibile dimensione della prigionia. Una cultura visuale che il cinema ha contribuito a consolidare e che oggi, come mostra questa performance live trasmessa in streaming, si espande grazie alle testimonianze ottenute dalle lotte per i diritti civili. Il progetto, infatti, è di Justice Project Pakistan (JPP), un’organizzazione indipendente e multidisciplinare che lotta per far avanzare lo stato di diritto in Pakistan, uno dei paesi che, stando alle loro stime, detiene il più alto numero di prigionieri nel braccio della morte: attualmente circa 8.200. Quella di Prisoner Z è una storia vera, basata sulla vicenda di Zulfiqar Ali Khan, primo cliente di JPP giustiziato nel 2015 dopo 17 anni nel braccio della morte. Il video è diretto dalla regista e attrice pakistana Kanwal Khoosat a partire dall’idea di Ryan van Winkle, poeta e live artist di New Haven con base attualmente a Edomburgo, e prodotto da Iram Sana in collaborazione con Olomopolo Media e Highlight Arts. Ma che sia vera o no, che ricalchi o meno la biografia di qualcuno, questa performance girata negli studi di Lahore estrae dalla pratica dell’entertainment un valore testimoniale. In Pakistan, infatti, il 17 dicembre 2014 è stata revocata la moratoria che durava da sei anni sulla pena di morte per i reati di terrorismo, in seguito al massacro organizzato dai talebani pachistani in una scuola militare a Peshawar in cui sono state uccise 150 persone, tra cui 134 ragazzi. Da allora, stando ai dati di Nessuno tocchi Caino, sono stati impiccati 7 condannati per atti terroristici solo nel dicembre di quello stesso anno. Dal 2015 la moratoria sulla pena di morte è stata revocata per tutti i prigionieri condannati e si sono registrate 478 esecuzioni, oltre l’80% delle quali nel Punjab. Secondo la Commissione per i Diritti Umani del Pakistan, nel 2017 sono state condannate a morte 253 persone. I reati per cui tale pena è prevista sono 27 tra cui blasfemia, terrorismo, sabotaggio di istituzioni strategiche, droga, reati informatici. Ma è sui primi due che si gioca la partita - discorsiva - in questi tempi recenti, due reati che rendono visibile lo scenario politico di questo paese dalla posizione strategica e dalla storia tempestosa. Il Pakistan, sesto paese più popoloso del mondo, oltre 200 milioni di persone, ha fin dalla sua nascita nel 1947 una storia difficile incarnata dalla sua doppia anima musulmana: una laica e progressista, l’altra conservatrice e che strizza l’occhio a movimenti e gruppi fondamentalisti. Dotato di armi nucleari e situato strategicamente tra India, Cina, Iran e Afghanistan, dalla fine degli anni Quaranta è attraversato da una serie di dittature militari che hanno rafforzato la casta dei generali come lobby politica ed economica di primo piano. La storia recente vede l’assassinio di Benazir Bhutto alla vigilia delle elezioni del 2008 e l’inaugurazione - da allora - di una stagione dei di governi civili che segnano la fine della lunga epoca dei golpe militari, sebbene sia ancora forte il controllo dei generali nel paese. Nawaz Sharif, leader della Lega Musulmana del Pakistan e già premier in passato, è alla guida della repubblica federale dal 2013 al 2017 ma viene coinvolto nello scandalo Panama Papers e arrestato il 12 luglio scorso al suo rientro da Londra. Le nuove elezioni sono appena due settimane dopo e vedono la vittoria del Partito della Giustizia di Imran Khan, ex stella del cricket prestata alla politica che da un lato abbraccia il conservatorismo religioso, prestando il fianco ad alcune delle richieste degli islamisti radicali, e dall’altro l’apparato militare, attirando l’indignazione degli attivisti per i diritti civili. Populista di difficile definizione è finito recentemente sulle pagine dei giornali internazionali in tema di regolamentazione dei reati che prevedono la pena di morte, su tutti quello di blasfemia di cui il caso di Asia Bibi - donna cristiana nel braccio della morte dal 2010 per il reato di blasfemia contro il Corano e che la Corte suprema del Pakistan ha appena rinviato a giudizio - è emblematico. Proprio il dibattito sulla pena di morte sembra rendere visibile il posizionamento politico di questo nuovo leader. Circa 80.000 sono state le visite avvenute durante il giorno dello streaming offerto dal Dawn, numerosi i commenti sotto le immagini come didascalie ai vari “capitoli” della storia di Pisoner Z. Sappiamo, grazie alle inchieste degli attivisti che i detenuti pakistani del braccio della morte sono vittime di abusi in celle strette e sovraffollate. Stanze di 2,7 per 3,6 metri in cui sopravvivono spesso fino a dodici persone. La cella che vediamo nel video è pulita e il prigioniero è solo. Il soffitto è aperto e gli operatori a tratti si palesano con la camera in spalla. È una messa in scena, no hay banda. Per questo possiamo vedere e, soprattutto, riusciamo a guardare. Ma sappiamo che la finzione, di questi tempi, sa raccontare scenari reali e fornire testimonianze controfattuali. No Time to Sleep “recita l’antico credo di chi muore senza perdono”.