Carcere duro per Provenzano: la Corte europea condanna l’Italia di Claudio Delfrate Corriere della Sera, 26 ottobre 2018 La sentenza del tribunale per i diritti umani fa riferimento al regime di 41bis applicato al boss malato nel 2016 fino al giorno della sua morte. Salvini: “Inutile baraccone europeo”. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia perché decise di continuare ad applicare il regime duro carcerario del 41bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo 2016 alla morte del boss mafioso. Secondo i giudici, il ministero della giustizia italiano ha violato il diritto di Provenzano a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Allo stesso tempo la Corte di Strasburgo ha affermato che la decisione di continuare la detenzione di Provenzano non ha leso i suoi diritti. Il boss era morto all’età di 83 anni il 13 luglio del 2016 mentre si trovava ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano ma da tempo le sue condizioni di salute si erano deteriorate: Provenzano non era più in grado di seguire i processi in cui era imputato: le sue condizioni erano state certificate da alcune perizie mediche. Le sue condizioni di salute erano peggiorate di colpo nel 2012 dopo una cadute avvenuta all’interno del carcere di Parma. Strasburgo: “Il carcere non è in discussione” - I giudici europei rilevano che la decisione del tribunale italiano di confermare il carcere duro per Provenzano anche dopo il peggioramento delle patologie non era giustificata. I documenti clinici confermerebbero che le condizioni cognitive del detenuto erano peggiorate progressivamente anche nel 2015 e 2016 ma nella decisione di rinnovare il 41bis “manca una valutazione autonoma del ministero della Giustizia sulle condizioni di Provenzano”. La sentenza puntualizza comunque che non è in discussione la necessità di trattenere il boss in carcere bensì che “la sua salute e il suo benessere non siano stati protetti, nonostante le restrizioni imposti dalla detenzione”. La Corte ha comunque respinto la richiesta di risarcimento di 150mila euro che era stata avanzata dai legali di Provenzano. Norma da transitoria a definitiva - Al centro della condanna da parte della Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) c’è l’applicazione dell’articolo 41bis, il regime di carcere duro introdotto in Italia nel 1986 e inasprito nel 1992 in seguito alle strage di Capaci e via D’Amelio. La norma consente l’isolamento del detenuto da tutti gli altri compagni, l’ora d’aria limitata a due ore al giorno, la sorveglianza costante da parte degli agenti, la limitazione dei colloqui con i familiari, il controllo della corrispondenza. La Corte Costituzionale ha confermato la legittimità del 41bis ma in alcune sentenze risalenti agli anni 90 avvertono che un’applicazione “sine die” di questo trattamento potrebbe far venire meno i principi di rieducazione della pena. Inizialmente la norma doveva avere carattere transitorio e di emergenza ma dopo una serie di proroghe nel 2002 è divenuta legge dello Stato definitiva. Salvini: “Inutile baraccone europeo” - Sul verdetto di Strasburgo interviene con un commento lampo sui social il vicepremier Luigi Di Maio: “Ma scherziamo? La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia perché’ decise di continuare ad applicare il regime duro carcerario del 41bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo 2016 alla sua morte. Avremmo così violato il diritto di Provenzano a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Non sanno di cosa parlano! I comportamenti inumani erano quelli di Provenzano. Il 41bis è stato ed è uno strumento fondamentale per debellare la mafia e non si tocca. Con la mafia nessuna pietà” ha scritto il ministro su Instagram. Lapidario invece Matteo Salvini: “Ennesima dimostrazione dell’inutilità di questo baraccone europeo. In Italia decidono gli italiani”. “Pericolo di rappresaglie” - Nel caso di Bernardo Provenzano, il tribunale di sorveglianza di Milano aveva respinto la richiesta dei legali di attenuare il regime di detenzione per “il valore simbolico del suo percorso criminale” e perché “qualora non adeguatamente protetto nella persona e trovandosi in condizioni di debolezza fisica...è esposto a eventuali rappresaglie”. Il primo ricorso presentato alla Corte dai familiari di “Binnu” risale al 2013 quando era emerso che le condizioni di salute del boss non fossero più compatibili con l’isolamento e le regole del 41bis. L’amministrazione carceraria aveva replicato che al detenuto erano comunque garantite tutte le cure sanitarie. La Corte europea condanna l’Italia: “Ha negato i diritti umani a Provenzano” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 ottobre 2018 Il boss al carcere duro fino alla morte. Da diverso tempo, prima di morire, era in coma. Eppure, nonostante diverse istanze che chiedevano la revoca del regime duro, Provenzano alla fine è deceduto senza che i familiari potessero dargli l’ultima carezza. Morì in una stanza singola dell’ospedale San Paolo di Milano, video-sorvegliato tutto il giorno e con le ristrettezze afflittive contemplate dal regime duro come appunto il vetro blindato, che nel gergo carcerario viene chiamato “l’acquario”. I familiari potevano vederlo solo una volta al mese, dietro un vetro, e tentare di parlagli tramite un citofono che uno del Gom (gruppo operativo mobile) gli teneva vicino all’orecchio. Ovviamente del tutto inutile, visto che Provenzano non rispondeva, né riusciva ad aprire gli occhi. La sentenza della Corte di Strasburgo ripercorre la storia di Provenzano e la sua vicissitudine clinica durante la detenzione al 41bis. Indica ovviamente il contesto, spiegando che Provenzano era stato in fuga per oltre quaranta anni, ed era stato poi arrestato l’ 11 aprile 2006. Parecchie serie di procedimenti penali furono avviate contro l’ex capo della mafia, al seguito delle quali arrivarono le condanne a venti ergastoli per omicidio multiplo, tentato omicidio aggravato, traffico di droga, rapimento, coercizione criminale, furto aggravato, possesso illegale di armi da fuoco e, naturalmente, appartenenza a Cosa Nostra. Altri procedimenti penali erano ancora pendenti nei confronti di Provenzano. Nell’ambito di uno di tali procedimenti - esattamente il processo sulla cosiddetta trattativa stato - mafia, il 7 dicembre 2012 il Giudice istruttore preliminare del Tribunale distrettuale di Palermo aveva ordinato una valutazione da parte di esperti sulla salute del richiedente al fine di valutare la sua capacità di comprendere e quindi alla possibilità di partecipare razionalmente all’udienza preliminare. Il 12 dicembre 2012 gli esperti nominati dal tribunale effettuarono un primo esame. Che però non arrivò a una conclusione perché il 17 dicembre 2012 l’ex boss fu sottoposto ad intervento chirurgico per rimuovere un ematoma subdurale dal suo cervello. Sulla base del loro primo esame e delle cartelle cliniche di Provenzano, gli esperti riferirono comunque che mostrava una ridotta consapevolezza e reattività nei confronti dell’ambiente circostante, nonché una limitata capacità di esprimersi. Con un’ordinanza dell’ 8 gennaio 2013 il Gup rinviò il procedimento nei suoi confronti. Nello stesso periodo furono organizzate numerosi consulti specialistici e Provenzano fu esaminato da un cardiologo, uno specialista in malattie infettive, un urologo, un endocrinologo, un otorinolaringoiatra uno pneumologo, un ortopedico, un fisiatra e uno specialista in nutrizione. Furono eseguiti numerosi test diagnostici su di lui. Il 7 giugno 2013 fu trasferito all’Ospedale di Parma, dove è rimasto fino al suo trasferimento al Centro di Trattamento e Diagnostica (centro diagnostico terapeutico) del carcere Opera di Milano. Il 9 aprile 2014 venne ricoverato, sempre al 41bis, dell’Ospedale San Paolo di Milano, e ci rimase fino alla morte. Secondo la più recente relazione medica in archivio, rilasciata dall’ospedale San Paolo di Milano nell’aprile 2015, la situazione neurologica del richiedente era stabile, sebbene il suo progressivo declino nel funzionamento cognitivo viene descritto come grave. È costretto a rimanere al letto, ha un catetere urinario e riceve il suo supporto nutrizionale attraverso un sondino naso-intestinale. La sua situazione si è ulteriormente aggravata, portandolo a uno stato comatoso fino a morire il 13 luglio del 2016. Ora la Corte di Strasburgo condanna il governo dicendo che gli è stato rinnovato il 41bis, nonostante i referti accertassero il suo grave stato di salute. La Corte, indirettamente, punta l’indice anche sulle relazioni della Dda di Palermo, che riteneva la necessità del 41bis (ancora capace di mandare messaggi all’esterno e quindi resta un soggetto pericoloso, requisito che la legge richiede per il mantenimento del regime detentivo speciale) senza prendere in considerazione i referti medici che attestavano il suo stato vegetativo. Secondo la Corte, l’Italia ha quindi violato l’articolo 3 della Convenzione in cui si dice che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Raggiunta da Il Dubbio, l’avvocata Rosalba Di Gregorio, ha espresso felicitazioni per la sentenza di condanna e racconta la sua battaglia legale per chiedere la revoca del 41bis. “Non ho mai fatto alcuna istanza di scarcerazione - ci tiene a sottolineare l’avvocata, ma ho chiesto la revoca del 41bis in tutte le sedi possibili, a Parma, Milano e a Roma. A questo si aggiunge che i tre ministri della Giustizia che si sono susseguiti, quindi la Severino, la Cancellieri e infine Orlando, si sono preoccupati di rinnovare il 41bis nonostante Provenzano non fosse capace di intendere e di volere, infatti avevamo ottenuto dal tribunale di Milano la nomina dell’amministratore di sostegno perché incapace, appunto, persino di capire le notifiche che gli arrivavano. Ma per i ministri che si sono susseguiti, il regime duro era necessario”. La Di Gregorio non riesce ancora a capacitarsi di quei rinnovi, visto che lo scopo del 41bis è quello di mantenere misure speciali nei confronti di chi è ancora pericoloso e quindi potenzialmente abile nel comunicare con l’esterno. “L’ultima istanza che feci era al tribunale di Milano, per chiedere che Provenzano fosse spostato dal regime duro dove era ricoverato all’ospedale San Paolo, a un reparto diverso per consentire ai parenti di poterlo salutare senza il vetro divisorio”. La risposta è stata paradossale. “Il tribunale - spiega Di Gregorio - rispose che Provenzano era curato meglio al 41bis; feci ricorso alla Cassazione che purtroppo confermò la motivazione”. Alla luce di tutti questi dinieghi che si erano succeduti, l’avvocata Di Gregorio si dice soddisfatta delle sentenza che è giunta dalla Corte Europea. “Ripeto che non chiedevamo nessuna scarcerazione, nessuna richiesta dei domiciliari, ma semplicemente la revoca del 41bis. Questa sentenza ci dà ragione, perché certifica che il Diritto è stato messo sotto i piedi”. Il tramonto delle capacità cognitive ferma il carcere duro Italia Oggi, 26 ottobre 2018 Carcere duro, ma non in fin di vita. Bernardo Provenzano, il capo della Mafia corleonese, arrestato nel 2006 dopo essere stato ricercato per quasi 43 anni e morto in carcere a Milano il 13 luglio 2016, non sarebbe dovuto restare sotto il regime speciale di detenzione 41bis durante le fasi terminali della sua malattia, quando era ormai intubato e alimentato artificialmente (da fine 2013). E, soprattutto, non era più in grado di intendere e volere, per “serio, progressivo declino delle facoltà cognitive”. Lo afferma la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo in una sentenza emessa ieri, a seguito del ricorso dello stesso Provenzano. La Corte ha concluso che, con la conferma del regime d’isolamento del 41bis per Provenzano ormai gravemente ammalato, c’è stata violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo che proibisce trattamenti inumani e degradanti durante la detenzione; la Corte, invece, non ha rilevato violazioni dello stesso articolo per la permanenza in stato di detenzione, che il boss mafioso aveva chiesto fosse sospesa per ragioni di salute. Dunque, la sentenza dei giudici di Strasburgo non mette sotto accusa il 41bis, cioè l’isolamento totale per i mafiosi, ma solo l’ultimo rinnovo del regime restrittivo subito da Provenzano il 23 marzo 2016, quando ormai le facoltà cognitive del capomafia erano gravemente deteriorate. La Corte, invece, non discute gli otto rinnovi di seguito del carcere duro, decisi per Provenzano fin dal suo arresto nel 2006. A ben vedere, neanche l’ottavo rinnovo del carcere duro, deciso il 26 marzo 2014, è stato messo in causa; i giudici di Strasburgo però hanno fatto presente che a partire da quel momento “la situazione di salute già gravemente compromessa” del boss “è andata peggiorando ulteriormente”. I rapporti medici del 2015 e del 2016 descrivono le sue funzioni cognitive come estremamente deteriorate nel marzo 2016” (paragrafo 155 della sentenza). Ma sul 41bis in sé, va rilevato come la prima parte del paragrafo 147 della sentenza parli chiaro: “La Corte nota (...) di aver già avuto ampiamente occasione di valutare il 41bis in un gran numero di casi prima di questo, e ha concluso che, nelle circostanze relative, l’imposizione del regime non dà adito a problemi sull’art. 3, neanche quando è stato imposto per lunghi periodi di tempo. La Corte ha rifiutato poi la compensazione chiesta dai legali di Provenzano, perché il riconoscimento della violazione è già “un equo indennizzo per il danno non pecuniario sofferto”. Provenzano e il 41bis in fin di vita di Attilio Bolzoni La Repubblica, 26 ottobre 2018 Quando un capomafia “muore nel suo letto” non è mai un buon segno. Significa che fino all’ultimo - all’ultimo - respiro - sta esercitando il suo comando, il suo incondizionato potere sugli altri, amici e nemici. Morire nel proprio letto, a casa e circondato da moglie e figli, per un boss vuol dire sopravvivere a se stesso ed entrare nel mito del crimine. Questo destino Bernardo Provenzano di certo non lo meritava. Ma uno Stato forte, e soprattutto giusto, non avrebbe mai neanche permesso di far spegnere una larva al 41bis dopo lunghissimi anni di malattia. Provenzano non era più un Padrino ma un corpo alimentato con un sondino collegato direttamente all’intestino. La sorte capitata a uno dei più spietati boss di Cosa Nostra ha portato ieri i giudici di Strasburgo a emettere una condanna contro l’Italia (il ministero della Giustizia) per la violazione della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, in sostanza per avere sottoposto il mafioso “a trattamenti inumani e degradanti”. Durati almeno quattro mesi, dal 23 marzo al 13 luglio del 2016, giorno della sua morte. La Corte europea non ha messo in discussione il carcere per il boss di Corleone (“Non ha leso i suoi diritti”) ma proprio il regime speciale riservato ai mafiosi con l’aggravante che “la sua salute e il suo benessere non sono stati protetti, nonostante le restrizioni imposti dalla detenzione”. Una condanna al ministero ma soprattutto, per questo specifico caso, al 41bis. Un giudizio molto severo - in realtà Provenzano di cure speciali ne ha ricevute tante a Parma e Milano - che ha subito scatenato reazioni e attivato una macchina della propaganda che ci porta decisamente fuoristrada. Insorge alla sua maniera il ministro dell’Interno Salvini: “Baraccone europeo, per l’Italia decidono gli italiani e non altri”. Insorge il vicepremier Di Maio: “Ma scherziamo? Non sanno di cosa parlano”. L’argomento è troppo delicato per liquidarlo con frasi fatte. La questione che ci pone oggi Strasburgo non è sulla validità del 41bis - strumento indispensabile per contrastare le mafie, eliminarlo o anche solo “ammorbidirlo” sarebbe semplicemente un delitto - ma “quel” 41 bis inflitto a Provenzano in “quelle” condizioni. Fu opportuno mantenere il regime speciale carcerario anche quando lui era più di là che di qua? Uno Stato autorevole ha davvero bisogno di seppellire i propri nemici anche se sono incapaci di intendere e volere? Il problema se l’erano posto anche alcuni familiari delle vittime di violenza mafiosa, Franco La Torre (figlio di Pio, il segretario regionale del Partito comunista ucciso a Palermo nel 1982) e Dario Montana (fratello di Beppe, il poliziotto assassinato anche lui a Palermo nel 1985), favorevoli all’uscita dal 41bis di Provenzano per marcare “la differenza fra noi che crediamo nello Stato e loro che sono mafiosi”. La loro proposta ha incontrato ostilità dalla maggior parte degli altri familiari. Per finire, ricordiamo perché esiste il 41bis. Per isolare i capimafia, per evitare che possano veicolare ordini - anche di morte - dal carcere, per indebolire la loro forza sul territorio. Cosa avrebbe mai potuto fare il vecchio Provenzano, che non riusciva più nemmeno a stare in piedi? Al contrario di Totò Riina che, seppur malatissimo, è rimasto sempre lucido e che al di fuori di una cella sarebbe ritornato un capo. Due boss, due casi profondamente diversi. Da non confondere. Il carcere duro ha ancora senso? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 26 ottobre 2018 La sentenza della Corte europea su Provenzano e sul 41bis è molto importante. E ci dice che qui in Italia esiste un problema serio che riguarda il diritto. La reazione stizzita e retorica del governo italiano a questa sentenza, invece, è molto preoccupante, e ci conferma in modo inequivocabile che sì, in Italia esiste un problema serissimo che riguarda il diritto. La sentenza della Cedu afferma un principio piuttosto semplice: siccome in Europa è proibita la tortura ed è proibito imporre ai detenuti trattamenti crudeli e inumani, è anche proibito tenere in un regime di 41bis un detenuto con problemi cognitivi gravissimi. Un uomo che non pone più in nessun modo problemi di pericolosità sociale, e che vari medici hanno dichiarato in condizioni di salute incompatibili con il carcere e in particolare con il carcere duro. 41bis e carcere duro sono sinonimi, e ormai anche molti magistrati favorevoli al 41bis usano l’espressione “carcere duro”. Perché la sentenza ci mette di fronte a un problema di diritto? Perché la nostra politica - così come il potere giudiziario - da molto tempo hanno sistemato le esigenze del consenso al di sopra dei principi del diritto. E troppo spesso assumono decisioni delicatissime tenendo conto della spinta dell’opinione pubblica e non dei principi della civiltà, della Costituzione, del diritto internazionale. La sentenza della Corte europea è una sentenza che riguarda specificamente la vicenda di Bernardo Provenzano e non la legittimità del carcere duro. E dunque non può essere usata per mettere in discussione questa legittimità. Certamente però nel momento in cui avanza il dubbio che nei confronti di un prigioniero al 41bis siano applicati trattamenti crudeli e inumani, è chiaro che ci impone una riflessione sulla legittimità del 41bis. Che, come tutti sappiamo, nacque in una situazione di grande emergenza - nel 1992 per l’aggressività della mafia, che uccideva centinaia di persone all’anno, aveva decapitato il pool dei magistrati siciliani e si apprestava a mettere in atto una strategia stragista. Il 41bis nasce per fronteggiare dell’emergenza. Oggi però quel l’emergenza non esiste più. Tanto che nell’ultima relazione del ministro dell’Interno (ad agosto: ministro in carica Salvini) si dice che negli ultimi anni sono stati catturati 49 dei 50 boss mafiosi più pericolosi. Ma se non esiste più l’emergenza, esiste ancora la legittimità di un provvedimento emergenziale che prevede trattamenti che la Corte europea definisce inumani? Mi sembra una domanda ragionevole. Alla quale però la politica si sottrae. Del resto la sentenza della Corte mette sotto accusa molti ministri che si sono succeduti a via Arenula. Anche ministri di centrosinistra. A difesa dei quali - per la prima volta da molti mesi - si è levata l’indignazione del governo gialloverde in carica. E questa circostanza dimostra che il problema non riguarda uno schieramento politico, ma tutto il Palazzo. La reazione di Di Maio e Salvini è allarmante. Dimostra una scarsa conoscenza dei principi essenziali della giurisprudenza. L’idea che nessuna pena sia inumana se i delitti commessi sono molto efferati è una idea di parecchi anni precedente all’illuminismo. E questo nel paese di Beccaria. Così come appare ispirata a un giustizialismo ottocentesco la reazione del ministro dell’Interno, che definisce una baracca da smantellare la Corte europea. Non dobbiamo stupirci poi se da parte europea giungono giudizi sferzanti e anche offensivi verso la politica e il governo italiano, come quello recente del commissario Moscovici. Vogliamo continuare su questa strada, inseguendoci gli uni con gli altri in una gara a chi riesce a mostrarsi più demagogo? Se la strada che si è imboccata resta questa, finirà al macero la stessa immagine dell’Italia. Quella di Beccaria, chiaro, ma anche quella più recente, di Calamandrei, di Moro, di Vassalli, o addirittura di Scalfaro e dello stesso Mattarella. Sentenza Cedu sul boss Provenzano, giusta severità sì ma disumanità mai di Mario Chiavario Avvenire, 26 ottobre 2018 La notizia è di quelle che di primo acchito fanno arricciare il pelo. L’Italia condannata a Strasburgo per il regime di massima sicurezza inflitto a uni dei più spietati boss mafiosi, Bernardo Provenzano... come può essere? E giù immediati commenti, irritati e sprezzanti per il nuovo colpo basso inferto al nostro Paese da un’Europa, stavolta addirittura connivente o succube di “cosa nostra”. Forse, è il caso di fare un po’ di chiarezza. Per cominciare, la Corte europea dei diritti umani, che ha emesso la sentenza sotto accusa, non c’entra nulla con l’Unione Europea dei 28, ma è un organo di quel Consiglio d’Europa, che riunisce un numero maggiore di Stati e che trova le sue radici nei primi anni del secondo dopoguerra novecentesco. È un tribunale di cui, nelle cause che coinvolgono l’Italia, fa parte anche un giudice italiano; come tutti i giudici può essere legittimamente criticato e lo è stato, anche su queste colonne, a esempio per certe discutibili espansioni del “diritto alla vita privata” a detrimento di altri diritti e princìpi fondamentali; ma non merita le rozze definizioni, che si sono sentite in queste ore anche da alcuni nostri ministri, come “inutile baraccone” (Salvini) o come insieme di persone “che non sanno di cosa parlano” (Di Maio). In secondo luogo, quella sentenza - pronunciata all’unanimità dalla sezione della Corte cui la causa era stata affidata - non mette affatto in discussione, sotto alcun aspetto, il regime del 41bis. Lo ha fatto, la Corte europea, in altre occasioni, sotto aspetti più o meno marginali (e lo ha fatto anche la nostra Corte costituzionale), senza peraltro mai negare il diritto degli Stati, e in particolare dello Stato italiano, di adottare strumenti, anche duri come questo, per la difesa dalle più pericolose insidie di una criminalità organizzata priva di scrupoli e di umanità. Stavolta non si è neppure spinta a tanto. Si è limitata a censurare il fatto che negli ultimi mesi della sua vita il boss di Corleone fosse stato tenuto in condizioni restrittive non più giustificate dal suo stato di salute fisica e psichica avendo perso finanche le più essenziali facoltà cognitive; e ha giudicato che ciò comportasse un trattamento inumano e degradante in contrasto con l’articolo 3 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo, stipulata a Roma nel 1950; contemporaneamente la sentenza ha respinto le richieste dei familiari di Zu Binnu, di estendere la condanna agli anni di detenzione precedentemente trascorsi da lui in carcere. Si potrà discutere se, di fatto, le premesse circa le condizioni di salute della persona fossero proprio quelle; e verosimilmente ed ineccepibilmente lo potrà fare il Governo italiano contestando il verdetto davanti a quello che nell’organigramma di Strasburgo può essere considerato una sorta di organo d’appello: la Grand Chambre (la “Grande Camera”). Ma se si grida oggi che “il 41bis non si tocca” si sbaglia obiettivo. Ciò che, in realtà, d’importante la Corte europea ci ricorda con questa sentenza è un’altra esigenza, tanto più opportunamente quanto essa torna a essere oscurata nell’imbarbarimento di questi tempi. Ed è che neppure al peggiore dei delinquenti, una volta privato dalla natura della possibilità di nuocere, si devono infliggere sofferenze ingiustificate: ne va del senso di umanità e del riconoscimento della dignità di ogni essere umano in quanto tale. Pensare e agire altrimenti non è giustizia e non è nemmeno il modo più efficace per fare guerra alla mafia; è soltanto cedere alla logica della vendetta. E irridere chi la pensa diversamente è una vergogna. Il 41bis non può essere una vendetta di Stato di Claudio Cerasa Il Foglio, 26 ottobre 2018 La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la decisione di continuare ad applicare il carcere duro previsto dall’articolo 41bis a Bernardo Provenzano dopo il 23 marzo 2016, quando furono evidenziati i problemi di salute che avrebbero condotto alla morte del boss mafioso. La Corte non contesta la scelta di non farlo uscire dal carcere ma le modalità con cui si è deciso di prolungare il regime di carcere duro mentre era in prigione. Il 41bis fu adottato per impedire ai boss di mantenere dal carcere collegamenti con le organizzazioni criminali che dirigevano. È sempre stata in discussione la coerenza di questo strumento con la Costituzione, che invece indica la funzione riabilitativa e non afflittiva della detenzione carceraria. È un dubbio che abbiamo nutrito anche noi sul Foglio, dubbio che abbiamo parzialmente superato di fronte al pericolo effettivo di una continuità, anche in stato di detenzione, delle attività di guida di cosche criminali. Abbiamo però sempre avvertito dell’eccezionalità di questo strappo alle norme costituzionali e ai diritti umani universali, considerandolo lecito solo per tempi limitati e solo quando le condizioni di pericolo persistano effettivamente. Esistono oggi forme di controllo anche tecnologiche che forse permetterebbero di ottenere egualmente una difesa dal rischio di continuità dell’azione criminale dei boss in carcere, senza la necessità di ricorrere per tempi lunghi a una detenzione troppo afflittiva. Il punto è che il 41bis è diventato una forma di punizione particolarmente pesante per reati particolarmente gravi, non una misura correlata a un pericolo specifico di continuazione di questi reati anche in condizione di detenzione. È questa degenerazione che va bloccata: anche se può essere interpretata come una “giusta vendetta” è estranea ai più elementari princìpi di uno stato di diritto. Senza nessuna tolleranza per Provenzano e quelli come lui, lo stato deve applicare le pene senza indulgenze e senza tentennamenti, ma anche senza cadere nel sospetto di disumanità. Ermini (Csm): “Chi fa le leggi rispetti le toghe e la loro autonomia” di Liana Milella La Repubblica, 26 ottobre 2018 L’indipendenza della magistratura è una risorsa della nostra democrazia garantita dalla Costituzione. Chiunque, e in qualsiasi tempo, fa una nuova legge non deve dimenticarselo mai”. Il vice presidente del Csm David Ermini, nella prima intervista dopo la sua elezione, si fa garante del rispetto dell’autonomia delle toghe, proprio nelle stesse ore in cui in Parlamento la maggioranza manda avanti leggi come la legittima difesa e il dl sicurezza che hanno l’obiettivo di limitare il potere dei giudici. Vice presidente da meno di un mese. Le manca il Parlamento? “Sono due ruoli completamente diversi, ognuno con le sue peculiarità. Ho fatto il parlamentare con grande passione e impegno e sto affrontando questo nuovo ruolo nello stesso modo, sapendo di avere una grande responsabilità istituzionale”. Avrebbe voluto essere lì adesso mentre ci si scontra sulla legittima difesa? “No. Da parlamentare ho fatto una proposta di legge sul tema, ma adesso che ho un altro compito è giusto che non me ne occupi”. Lei era stato un protagonista di quella legge. Che pensa della soluzione Lega-M5S? “Non mi permetto di dare giudizi su quanto il Parlamento ha approvato. Posso dire però che la mia iniziale proposta di legge riguardava esclusivamente la possibilità di dare ai magistrati un ulteriore strumento di valutazione inserendo il concetto del grave turbamento psichico”. Ma il Pd non ha sbagliato a votare sì all’articolo che contiene quel concetto visto che nel complesso giudica quella legge pericolosa? “Mi sono auto sospeso dal Pd prima di entrare in questo palazzo, quindi ben prima di diventare vice presidente. Di conseguenza ora non giudico le scelte del Pd”. Ma venire dal Pd non la condiziona? “Io sono già sicuro di quello che farò. Chi non si fida dovrà solo avere un po’ di pazienza”. I giudici e questo governo. Il richiamo all’ordine e all’obbedienza, a lasciare le mani libere alla politica diretta espressione del popolo, è costante. Salvini non fa che ripeterlo. M55 lo lascia fare. Anche la nuova legittima difesa è un ordine a non indagare. Lei che pericoli vede? “In Italia c’è, e continuerà a esserci, la separazione dei poteri. Il nostro sistema si basa su equilibri talvolta anche molto delicati. Essi devono essere preservati. La nostra Costituzione prevede che per far parte del potere legislativo bisogna essere eletti, mentre ciò non avviene peri giudici. È un sistema che i nostri padri costituenti hanno previsto proprio perché questi equilibri possano dare garanzie ai cittadini e a tutto il sistema”. Un governo che si proclama populista, che va a braccetto con i sovranisti europei, che sogna i pm eletti direttamente dal popolo, vuole cancellare l’autonomia della magistratura per avere le mani libere? “Chi propone queste idee vorrebbe modificare l’intero assetto costituzionale che io, invece, difendo. Modificare la Carta significherebbe alterare gli equilibri istituzionali. Che devono restare esattamente come sono”. Ma ce lo vede in Italia un pm eletto? “La nostra tradizione culturale, giuridica e istituzionale ci ha consentito di avere una Costituzione ben scritta ed equilibrata”. Scusi, ma lei non ha votato sì al referendum costituzionale? “Certo, ma tutto il titolo quarto della Carta sulla magistratura non veniva toccato”. In future leggi come il dl sicurezza non c’è già l’ordine alle toghe di ignorare i diritti dei più deboli che pure la Consulta sta dimostrando di difendere? “Abbiamo principi fondamentali della Costituzione che devono essere rispettati. Le persone più deboli, migliaia oggi in Italia, sono garantite dal principio di solidarietà e uguaglianza previsti dai primi articoli della Carta”. Il sorteggio per il Csm punta al controllo dei giudici? “Ho già detto pubblicamente che sono contrario al sorteggio. Non solo perché personalmente lo ritengo incostituzionale, ma perché stravolgerebbe la natura stessa del Csm. Sia chiaro che questa è la mia posizione personale. E comunque si tratterebbe di un vero schiaffo alla magistratura che verrebbe privata del suo diritto di scegliersi liberamente i propri rappresentanti. Ciò non toglie che anche il sistema attuale non possa essere migliorato”. Non la preoccupa il fatto che queste prime settimane hanno già visto incancrenirsi le polemiche sulle correnti? “Ho chiesto espressamente a tutte le componenti togate di far parte, insieme ai due laici previsti, della quinta commissione che nomina i capi degli uffici, proprio nel tentativo di avere la più ampia condivisione e decisioni basate sul merito”. Lei si considera un nemico o un amico delle correnti? “Le correnti spingono le barche a vela in mare aperto, ma qualche volta possono anche dirottarle contro gli scogli. Quindi correnti sì, ma con grande equilibrio”. Scontro M5S-Lega sul decreto sicurezza. “Più poteri a Roma”, ma Salvini frena Di Maio di Simone Canettieri Il Messaggero, 26 ottobre 2018 In casa Lega nessuno lo ha visto, l’emendamento al dl sicurezza che conferirà più poteri a Roma Capitale e dunque a Virginia Raggi. Ad annunciarlo è stato ieri l’altro il vicepremier del M5S Luigi Di Maio. Con queste parole: “Come governo inseriremo un emendamento per iniziare ad ampliare i poteri di Roma Capitale e del suo sindaco per iniziare da subito a governare la città come i sindaci di tutte le capitali europee ed entro fine anno completeremo gli obbiettivi fissati nel contratto di governo”. L’altra metà del cielo del governo gialloverde, Matteo Salvini, a questo proposito ieri è stato abbastanza sbrigativo: “Leggerò uno per uno tutti gli emendamenti sperando che ce ne siano di interessanti e accoglibili. Prima li leggo, poi esprimerò un giudizio”. Non una frase di più. Né una bocciatura né una promozione. Non è un mistero che sul decreto sicurezza si stia consumando una tensione tra gli alleati. Con un fronda grillina pronta a non ritirare una serie di emendamenti. Proprio per questo motivo c’è stato un faccia a faccia tra il premier Giuseppe Conte e il senatore M5S Gregorio De, alla guida dell’ala dei dissidenti pentastellati. Non é escluso dunque che Roma rientri in una sorta di trattativa: i grillini si ammorbidiscono sui migranti, i leghisti lasciano passare norme sull’Urbe. Ma meglio restare ai fatti. Sempre ieri la sindaca Raggi non ha commentato nel merito questa vicenda. E in Campidoglio ancora non ne sapevano nulla su “cosa” e “come” inciderà il dl sicurezza nella gestione romana dei mille fronti aperti. Anzi, da quando c’è stato l’annuncio di Di Maio si è registrata se non il gelo una sorta di curiosità generale sul provvedimento. Per quanto riguarda gli sgomberi dei palazzi occupati, la legge Molteni-Salvini già prevede maggiore discrezionalità per i sindaci. Di Maio, a tal proposito, sempre l’altro giorno ha fatto questo esempio: “Se c’è un immobile occupato in pieno centro, il sindaco deve poter intervenire di sua iniziativa per sgomberarlo e ripristinare la legalità”. Un’eventualità che è già contenuta nel pacchetto di norme in corso di approvazione dal Senato. C’è poi un altro aspetto, legato per esempio a maggiori poteri di polizia per i vigili urbani. Ragionavano ieri in casa leghista: “Giusto, sacrosanto, è da sempre una nostra battaglia, ma perché a Roma sì e alle altre città metropolitane, come Milano, no?”. Ieri una delegazione di parlamentari M5S è stata avvistata in Campidoglio: cercavano la sindaca per fare il punto sul provvedimento, ma per via degli impegni della prima cittadina il contatto non c’è stato, o meglio non è stato approfondito. Ecco, perché la prima bozza da Palazzo Chigi verso Palazzo Senatorio è attesa per oggi. E si inizierà a lavorare su questa. In molti nella maggioranza di governo escludono però più fondi per l’amministrazione. Si tratterebbe, semmai, di “sciogliere” alcune norme che al momento legano le mani a chi guida la Capitale d’Italia. “Se ci sono situazioni critiche da gestire non deve chiedere a cento enti l’autorizzazione”, è la linea di Di Maio. Di pari passo con questo emendamento c’è - e fa parte del contratto - la riforma per dare più poteri e risorse a Roma in maniera strutturale. Su questo tema la maggioranza gialloverde si è già espressa nelle settimane scorse approvando alla Camera un emendamento presentato dal deputato M5S Francesco Silvestri. Una serie di buone intenzioni, tra poco però si farà sul serio: serviranno i fatti, già a partire dalla prossima settimana, quando il dl andrà in Senato. Tragedia di San Lorenzo: la vera sfida di Eraldo Affinati Avvenire, 26 ottobre 2018 In una tragedia come quella di Desirée Mariottini, stuprata e uccisa da un gruppo di uomini simili a belve in uno stabile abbandonato di San Lorenzo, nella capitale italiana, sono almeno tre le sconfitte da registrare, ognuna delle quali apre una sanguinosa ferita sociale: la crisi familiare che sta all’origine dell’inquietudine di questa ragazza con un padre di cui non portava il cognome e una madre di soli quindici anni più grande di lei; il fallimento delle agenzie educative che avrebbero dovuto proteggere l’adolescente evitando che da Cisterna di Latina prendesse l’autobus e se ne andasse a Roma di sera a cercare la droga; la disgregazione del tessuto istituzionale del nostro Paese, incapace di governare certi spazi urbani lasciandoli al degrado e al disordine, ricettacolo di violenze, brutalità e malaffare. Ma dietro queste cause immediate, legate a disfunzioni anche amministrative, ce n’è un’altra più profonda che chiama in causa noi stessi: la progressiva scomparsa di adulti credibili coi quali i ragazzi dovrebbero misurarsi; la mancanza di gerarchie di valori in grado di orientare il cammino dei più giovani; la deflagrazione del desiderio che sembra non avere nessun ostacolo; una malintesa concezione della libertà quale superamento di ogni limite; l’idea errata che la conoscenza del mondo non debba passare attraverso l’elaborazione di un’esperienza autentica della realtà; la fungibilità delle relazioni sociali, troppo spesso legate a criteri di mera convenienza economica; la fine della vera sapienza e il trionfo della semplice (e spesso parziale) informazione; lo sfacelo del linguaggio politico che passa senza soluzione di continuità dalla bieca speculazione elettorale al vaniloquio gergale privo di riscontri effettivi. Via dei Lucani, nel palazzo risultato fatale a Desirée, è a pochi passi dall’istituto Pio X dove, durante la Prima guerra mondiale, si trovava Ignazio Sifone, rimasto orfano dopo il terribile terremoto del 1915. A quel tempo il grande scrittore abruzzese aveva sedici anni, l’età della povera vittima. Durante l’ora di ricreazione scappò dal collegio religioso, nei cui pressi è adesso attivo un centro di spaccio a cielo aperto, vagando nelle strade attorno alla Stazione Termini senza sapere cosa fare. In quel momento Sifone era soltanto un fanciullo abbandonato, senza arte né parte. Dopo tre giorni venne ripreso dai carabinieri e trasferito in un altro collegio a Sanremo. Durante il viaggio in treno verso la Liguria, come in seguito rievocò in uno dei brani narrativi più intensi di Uscita di sicurezza (1965), conobbe don Luigi Orione, che aveva visto fra le macerie del terremoto chiedere al Re una macchina per mettere al sicuro i bambini rimasti senza famiglia. Fu un incontro folgorante che gli cambiò la vita. Già diverso tempo fa, perlustrando i luoghi di Ignazio Sifone, restai colpito dalla simmetria fra la sua drammatica giovinezza e quella di tanti ragazzi che oggi, sotto gli occhi di tutti, comprano la loro dose di artificiale felicità chimica nei pressi dell’edificio da cui lui fuggì. Sbaglieremmo se li considerassimo tarati e lontani da noi. Sarebbe un errore grave, simile a quello di chi volesse oscurare o alleggerire le colpe dei carnefici di Desirée, i quali andranno assicurati alla giustizia. Fra i giovani sbandati e i bravi ragazzi, così come fra i mostri e le persone ordinarie, qualsiasi sia il colore della loro pelle, la differenza è sempre piuttosto sottile: basterebbe un niente per passare da una schiera all’altra e sprofondare nell’abisso. Anche coloro che sembrano stare al sicuro, con i genitori a posto e le frequentazioni giuste, rischiano tantissimo. Non dobbiamo perdere la fiducia. Per fortuna esistono ancora famiglie che tengono duro. E anche i don Orione continuano a operare e spesso ottengono grandi vittorie senza titoli sui giornali. Fare l’educatore oggi è più difficile che in passato. Ti sembra di essere da solo a remare controcorrente. Ma è questa la ragione per cui non devi mollare. Stefano Cucchi, la falsa relazione: “Firmai ma non l’ho fatta io” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 26 ottobre 2018 Intercettato 15 giorni fa un carabiniere rivela che altri manipolarono le carte. “Cioè, effettivamente la firma l’ho riconosciuta, è mia pure quella della seconda, ma mica l’ho fatta io”, dice il carabiniere Francesco Di Sano a un’amica il 14 ottobre scorso. L’ennesima conferma della falsa annotazione sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi dopo l’arresto arriva da un’intercettazione telefonica registrata due settimane fa. Il militare aveva prima scritto che il detenuto “riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo, e di non poter camminare” (sintomi ipoteticamente collegabili a un pestaggio subìto in precedenza), e dopo firmò un altro rapporto, riveduto e corretto, dove tutto si riduce a un “dolore alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza”. Ma la seconda versione, ammette anche nella telefonata, non l’ha scritta lui. Scala gerarchica - La storia delle relazioni modificate su ordine della scala gerarchica dei carabinieri è ricostruita ormai nei dettagli - ma fino a un determinato gradino - dall’indagine-bis condotta dal pubblico ministero Giovanni Musarò. Il quale attende di conoscere la versione dei due nuovi indagati: il maggiore Luciano Soligo e il colonnello Francesco Cavallo, che secondo il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola chiesero e ottennero le modifiche alle annotazioni dei due carabinieri che avevano avuto in custodia Cucchi dopo il rientro in caserma (e il pestaggio ora confessato dal carabiniere Francesco Tedesco). La prova è nella e-mail con cui il colonnello Cavallo rispedì a Colombo le nuove versioni (accompagnate dalla frase “Meglio così”), che il luogotenente ha conservato ed esibito al pm nell’interrogatorio della scorsa settimana. E di cui parla diffusamente nelle telefonate intercettate dalla polizia nell’ultimo mese. “Per fortuna c’ho questa mail” - In una conversazione del 26 settembre con il fratello, Colombo dice: “Per fortuna c’ho questa mail... l’ho stampata, l’hanno vista in tanti, ho fatto già un primo filmino ma non viene bene, lo devo rifare perché ho paura che me la cancellano. Quella è il mio salvavita”. Una sorta di assicurazione che infatti il luogotenente ha consegnato al magistrato, a differenza di quello che fecero nel 2015 i suoi colleghi che andarono ad acquisire tutti i documenti relativi alla vicenda Cucchi, presero le doppie versioni delle annotazioni ma senza la mail inviata da Cavallo a Colombo. Una stranezza che fa il paio con quella rilevata dal maresciallo Emilio Buccieri nel nuovo interrogatorio del 19 ottobre, quando dice di aver trasmesso i documenti su Cucchi presenti nella stazione Appia al comandante della Compagnia Casalina, senza che gli fosse consegnato alcun verbale di acquisizione. “Questo rappresenta un’anomalia”, ha ammesso davanti al pm il maresciallo, che aveva comunque conservato la copia di una lettera della Compagnia con l’elenco del materiale inviato al Comando provinciale, accompagnata da un suo biglietto manoscritto: “A futura memoria per ricordare cosa è stato consegnato da noi nell’occasione del Nov. 2015”. Anomalie - Tra le “anomalie” che costellano questa vicenda spiccano quelle verificatesi subito dopo la morte di Cucchi, all’inizio della prima inchiesta giudiziaria. Dopo la testimonianza del carabiniere Colicchio (autore di una delle due relazioni manomesse) il maggiore Soligo chiese al luogotenente Colombo un appunto sulla deposizione: “Mi disse di portarglielo presso il Comando provinciale”. Colombo eseguì scrivendo, tra l’altro, che Colicchio aveva notato dei segni rossi sul volto di Cucchi, collegandoli “non a percosse ma alla conformazione fisica anoressica e al dichiarato stato di tossicodipendenza del medesimo”. Al pm che gli ha ricordato il divieto di rivelare a chiunque il contenuto di dichiarazioni rese durante un’indagine preliminare, Colombo ha risposto: “Prendo atto. All’epoca non ci vidi nulla di strano, considerato che si trattava di un ordine pervenuto dai miei superiori. Certo oggi, col senno di poi, mi rendo conto di quanto mi evidenziate”. Roma: relazione annuale della Garante dei diritti dei detenuti senzabarcode.it, 26 ottobre 2018 Presentata in Assemblea Capitolina la relazione annuale della Garante dei diritti dei detenuti. Frongia: lavoro prezioso svolto con competenza e professionalità. Presentata ieri in Assemblea Capitolina la relazione annuale delle attività svolte dalla Garante dei diritti dei detenuti di Roma Capitale, Gabriella Stramaccioni. La Garante ha relazionato su una serie di iniziative volte a migliorare la condizione dei soggetti in regime di reclusione per il periodo compreso fra il 1 giugno 2017 e il 30 maggio 2018. Nei primi mesi la dottoressa Stramaccioni si è dedicata alla conoscenza dei vari istituti penitenziari, incontrando associazioni, direzioni ed educatori al fine di costruire una mappa delle condizioni in vigore e poter analizzare le principali problematiche da risolvere, legate essenzialmente alla salute, alla richiesta di documenti e al lavoro. Sulla questione lavorativa l’impegno è stato concentrato sulla sperimentazione di impiego volontario per i detenuti tramite la firma del Protocollo di Intesa del progetto “Lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale”, siglato il 15 febbraio scorso tra Roma Capitale e il Ministero della Giustizia. A seguito di tale progetto si è avviata una collaborazione volta a sviluppare dei percorsi di reintegrazione sociale e lavorativa in favore di soggetti destinatari di una condanna penale definitiva, i quali, dopo un periodo di formazione, si sono dedicati al ripristino del decoro del verde urbano in diverse zone della Città, progetto che è ancora in corso. Proprio relativamente a tale Protocollo di Intesa durante l’Assemblea Capitolina è stato proiettato un docufilm, dal titolo “Prove di libertà. Roma, quelli dell’articolo 21”, realizzato per portare una testimonianza del lavoro svolto dai detenuti. Tante altre le iniziative portate avanti in questi mesi: dal teatro alle sfilate, dai premi letterali ai convegni, tutte attività volte a migliorare le condizioni di esistenza all’interno delle carceri e degli istituti alternativi di detenzione come Casa di Leda, abitazione confiscata alla mafia e di proprietà di Roma Capitale dedicata alle mamme con figli minori. “Il prezioso lavoro svolto dalla Garante Gabriella Stramaccioni permette di conferire ai detenuti nuove opportunità lavorative una volta fuori dal carcere, diminuendo quindi la possibilità di recidiva. L’iniziativa di lavoro volontario gratuito per il ripristino del decoro del verde urbano è un importante passo in questa direzione, obiettivo della nostra Amministrazione è, sicuramente, implementare tali opportunità: ecco perché nel luglio di quest’anno abbiamo siglato una Lettera d’intenti con Autostrade per l’Italia per impiegare i detenuti anche in piccoli lavori di manutenzione stradale. Ringrazio Gabriella Stramaccioni per quanto svolto finora, sempre con grande attenzione e impegno, riuscendo nel difficile compito di risollevare le sorti e gli animi di tantissime persone recluse”, dichiara l’Assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini con delega ai rapporti con la Garante, Daniele Frongia. Roma: uccise rapinatore che gli era entrato in casa, assolto per legittima difesa La Repubblica, 26 ottobre 2018 In primo grado fu condannato a due anni e otto mesi per aver sparato ed ucciso un rapinatore in casa. E adesso, a distanza di dieci anni, i giudici gli hanno riconosciuto la legittima difesa assolvendolo da tutte le accuse. Protagonista un commerciante romano per il quale si chiude un incubo cominciato nel 2008 dopo una rapina ed un sequestro in casa. La decisione della prima sezione della corte d’Appello di Roma, presieduta da Ludovica Cirolli, arriva a 24 ore dall’approvazione in Senato proprio della legge sulla legittima difesa ed è destinata a fare giurisprudenza. “Finalmente giustizia è fatta - il commento del commerciante, oggi 41 enne -, anche se ho dovuto aspettare dieci lunghissimi anni per me oggi finisce un incubo”. I fatti risalgono a dieci anni fa, quando l’uomo, di rientro nel suo villino nella zona a sud-est di Roma, trovò ad aspettarlo due malviventi armati, entrambi italiani, che avevano legato ed imbavagliato già la sua compagna. “Fai il bravo o ti ammazziamo”, lo minacciarono. E così anche lui finì immobilizzato in casa, mentre i rapinatori facevano incetta dell’incasso del negozio e dei preziosi che la coppia aveva in casa. In un momento di distrazione il commerciante riuscì a liberarsi e cercò di fermare i due malviventi. Ne nacque una colluttazione, durante la quale l’uomo riuscì a sfilare la pistola ad uno dei due rapinatori sparandogli ad una gamba. Il proiettile colpì l’arteria femorale, lasciando senza scampo il malvivente che morì poco dopo. Il complice, invece, riuscì a darsi alla fuga ed è tutt’oggi latitante. Con l’accusa di omicidio colposo per eccesso colposo di legittima difesa, il commerciante fu poi condannato in primo grado a 2 anni e 8 mesi. Oggi la Corte d’Appello lo ha prosciolto “perché il fatto non costituisce reato” riconoscendo la legittima difesa. “Prima della mia arringa avevo chiesto ai giudici un rinvio in attesa dell’approvazione della legge sulla legittima difesa domiciliare - spiega Daniele Bocciolini, uno degli avvocati difensori, insieme con Floria Carucci dello studio Marazzita, ma la Corte ha ritenuto di poter decidere nel merito ribaltando totalmente la sentenza di condanna di primo grado, riconoscendo comunque nel caso di specie la legittima difesa. Chi viene aggredito da sconosciuti armati in casa propria, si trova in uno stato di turbamento e concitazione tale che è impossibile prevedere quale potrà essere la sua reazione. Non dobbiamo creare un ‘far west’, ed è giusto valutare caso per caso se sussistono i presupposti, ma bisogna anche evitare situazioni paradossali come questa in cui sotto processo ci finiscono le vittime”. Vercelli: sindacato Nursing Up “un solo infermiere per 370 detenuti” quotidianosanita.it, 26 ottobre 2018 Il sindacato denuncia le drammatiche condizioni di lavoro degli infermieri e “la grave mancanza di risposte della Direzione della Asl di Vercelli nei confronti di questo enorme disagio più volte manifestato”. Secondo la normativa, spiega il Nursing Up, dovrebbe esserci un organico di almeno due unità per una capienza massima di 230 detenuti. “Invece, ed è gravissimo, a Vercelli sono mediamente presenti ben 370 persone e spesso un solo infermiere in servizio. Ora pretendiamo delle risposte”. “A Vercelli si sta trascinando da anni una situazione assurda e inaccettabile che non può più attendere per essere sanata. Si tratta della drammatica carenza di personale infermieristico assegnato alla Sanità Penitenziaria, presso la Casa Circondariale di Vercelli”. A denunciarlo è il Nursing Up Piemonte, che parla di una realtà in cui, spesso, si ha un solo infermiere per 370 detenuti (quando la capienza massima della struttura dovrebbe essere di 230 unità). “Una condizione di lavoro ingestibile, che si somma a gravi carenze strutturali e igienico-sanitarie, climatiche, organizzative e del lavoro in carcere. Tutto ciò senza la minima considerazione da parte della Direzione dell’Asl di tutti gli appelli inviati in passato”. “Il Nursing Up denuncia la grave mancanza di risposte della Direzione della ASL di Vercelli nei confronti di questo enorme disagio più volte manifestato, cui costringe quotidianamente gli infermieri - sottolinea Claudio Delli Carri, segretario regionale del Nursing Up, sindacato degli Infermieri. Nonostante la normativa regionale definisca i requisiti minimi di personale infermieristico stabiliti in rapporto al numero dei ristretti, secondo la Dgr n. 29-3386 del 30 maggio 2016, con un organico di almeno due unità per una capienza massima di 230 detenuti. Invece, ed è gravissimo, a Vercelli sono mediamente presenti ben 370 persone e spesso un solo infermiere in servizio. Manca inoltre un coordinatore dedicato che, sempre secondo il modello organizzativo della Regione, dovrebbe fare riferimento al responsabile infermieristico del territorio che non c’è”. “Sono state fatte mille promesse da parte della Direzione, non solo riguardo alla necessaria integrazione delle unità mancanti - aggiunge Delli Carri, ma rispetto al miglioramento delle pessime condizioni di lavoro. Sonno anni, ad esempio, che gli operatori non hanno possibilità di accedere alla mensa né hanno il riconoscimento di un buono per i pasti come tutti gli altri dipendenti ASL. Sono anni che gli stessi operatori denunciano il fatto che vengono scaricate sugli infermieri competenze amministrative e di supporto per assenza di personale idoneo come previsto dalla norma”. “Ora basta - conclude il segretario del Nursing Up. Nessuno faccia finta di non sapere visto che in passato è stata inviata una richiesta esplicita rivolta al Sindaco Maura Forte, di farsi da tramite con la Direzione ASL per risolvere il problema, rimasta lettera morta. E la situazione è stata segnalata anche all’Ordine degli infermieri, al quale sono state riferite tutte le difficoltà riscontrate nello svolgimento dell’attività professionale in carcere. Ora pretendiamo delle risposte, è tempo di trovare delle soluzioni, subito”. Asti: il nuovo Garante Comunale dei detenuti è Paola Ferlauto langheroeromonferrato.net, 26 ottobre 2018 Tra le più recenti attività poste con il contributo dell’associazione “Effatà”, avviata una positiva collaborazione con la facoltà di Scienze motorie astigiana. Da segnalare il corso interno con attestato finale per l’utilizzo di materiali edili, svolto con l’Ente per la Formazione e la Sicurezza per la provincia di Asti. Riparte in questi giorni l’attività della Garante dei detenuti, la figura operante anche a livello nazionale e regionale per migliorare i rapporti tra l’interno e l’esterno delle carceri e concorrere a tutte quelle attività di salvaguardia dei diritti delle persone private della libertà. Perché serve non dimenticare che si può sbagliare nella vita ma vivere “come in gabbia” non può essere una condanna. Paola Ferlauto, Garante con riferimento alla struttura carceraria di Quarto (Asti), è una operatrice sanitaria e svolgerà il suo mandato gratuitamente fino alla scadenza del mandato del Sindaco della Città, a cui compete la nomina e la ratifica da parte del Consiglio comunale. La legge regionale istitutiva del Garante è del dicembre 2009, prima firmataria Mariangela Cotto, insieme a Rocchino Muliere, e fu frutto di un percorso iniziato nel 2004. “Senza essere né pietisti né forcaioli - rammenta l’attuale Assessore Politiche sociali - l’art 27 della nostra Costituzione è un chiaro punto di riferimento, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Questa figura ne traduce concretamente l’auspicio”. Come si ricorderà la Casa di Reclusione di Asti ospita ora detenuti con periodi di pena prolungati che implicano un’organizzazione articolata, per quanto riguarda il personale che vi opera e le opportunità che contribuiscono a rendere il tempo detentivo utile e conforme al mandato istituzionale. Qualcuno molto efficacemente ha sintetizzato il carcere come “l’altro ospedale della città” che ospita sofferenza e sensi di colpa, di chi espia una pena e, non da sottovalutare, la fatica di chi sa sulla propria pelle di non svolgere un lavoro come tutti gli altri. Tra le più recenti attività poste in essere, grazie al contributo dell’associazione “Effatà” operante in carcere e al lavoro degli stessi reclusi si è provveduto al rifacimento della pavimentazione e la tinteggiatura del locale adibito a palestra detenuti, integrando le attrezzature e avviando una positiva collaborazione con la facoltà di Scienze motorie astigiana. Da segnalare al riguardo l’impegno dei consiglieri comunali Walter Rizzo e Giuseppe Passarino coinvolti personalmente nel coinvolgimento sportivo dell’ Ente “Attività sportive Confederali” che ha garantito gli arbitri del torneo estivo, 25 dispute, svoltosi in carcere, e del corso interno con attestato finale per l’utilizzo di materiali edili, svolto con l’Ente per la Formazione e la Sicurezza per la provincia di Asti. Bolzano: arresti domiciliari, accordo tra Procura e Caritas diocesana Alto Adige, 26 ottobre 2018 Nel corso del 2018 la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bolzano e la Caritas diocesana hanno avviato una serio di incontri per valutare la fattibilità di una collaborazione in punto modalità di attuazione delle “misure cautelari personali”, con lo scopo, da un lato, di consentire l’accoglienza abitativa presso una struttura garantita a persone che, in quanto prive di domicilio, verrebbero ristrette all’interno di una struttura carceraria anziché agli arresti domiciliari, e, dall’altro, di offrire un servizio di assistenza a persone già sottoposte ad una misura cautelare domiciliare, ma che necessitano di un aiuto per il compimento delle attività della vita quotidiana. “Il progetto ha quindi portato alla redazione del protocollo, che regola i distinti percorsi necessari per dare attuazione ed effettività alle finalità anzidette, prevedendo: l’accompagnamento in loco di persone sottoposte a misure cautelari; l’accoglienza abitativa presso il servizio Odòs mediante un contratto educativo; la sottoscrizione di un patto educativo; la redazione di una scheda di segnalazione”, comunica una nota. Con la sottoscrizione del contratto educativo la persona assistita si assume precisi obblighi di partecipazione alle attività organizzate dalla struttura, iniziando così un percorso di recupero rieducativo della persona. Verona: dalle celle alle stalle, quando i cavalli aiutano i detenuti di Luca Fraioli La Repubblica, 26 ottobre 2018 Giuseppe aveva smesso di parlare. Con i compagni di cella, con i secondini, persino con i familiari durante i colloqui in carcere. Poi la moglie ha notato il cambiamento: più loquace e allegro, nonostante la lunga pena ancora da scontare. Finché un giorno si è sentita dire: “La prossima volta non venire in questo orario, ho da fare con i cavalli”. E ha capito. Una scuderia, un campo dove montare e tre cavalli da accudire: all’interno del carcere di Verona da qualche tempo c’è un piccolo angolo di libertà. “Non è una attività ludica per detenuti - precisa Mariagrazia Bregoli, direttrice della casa circondariale della città veneta - i cavalli sono terapeutici. Grazie a loro abbiamo recuperato uomini che non si prendevano cura nemmeno di se stessi. E invece hanno riscoperto il piacere di dedicarsi agli altri. Se poi riusciamo anche a reinserirli nel mondo del lavoro”. Perché chi partecipa al progetto segue un corso di sette mesi, riconosciuto dalla Regione Veneto, da “tecnico di scuderia”. E una volta scontata la pena può usare questo titolo per cercare un’occupazione. Nato in sordina cinque anni fa, per il progetto veronese dei cavalli in carcere è tempo di bilanci. Tutti in positivo. Decine di detenuti che, grazie all’equitazione, hanno potuto rimettere piede fuori dal carcere. Come quelli che da ieri a domenica saranno impegnati nella 120esima edizione di Fieracavalli, la più grande manifestazione equestre d’Italia. Apripista è stato il carcere di Bollate a Milano, primo in Italia a ospitare una scuderia. Poi è stata la volta di Verona. Fondamentale il contributo di Fieracavalli che ha aiutato a realizzare stalle e recinti. “E l’Istituto zooprofilattico veneto ci ha fornito Joy, Kiri e Ramon, cavalli che erano stati sequestrati”, aggiunge la direttrice. A tenere i corsi di tecnico di scuderia provvede l’associazione Horse Valley, guidata da Paolo Fabrello. Una figlia disabile, si è avvicinato venti anni fa all’ippoterapia, o meglio agli “interventi assistiti con gli animali”: “Poi ho capito che la libertà che i cavalli portano con loro poteva essere un ottimo antidoto anche per la reclusione”. Funziona? “Eccome. Ho visto detenuti piangere di gioia solo per il fatto di aver rimesso i piedi sull’erba dopo anni trascorsi a camminare sul cemento”. Nei sei mesi di corso in carcere, ai detenuti selezionati per il programma viene anche insegnato a montare in sella (“Non dobbiamo formare dei cavalieri, ma è bene che sappiano farlo”) e a praticare yoga: “Così imparano a tenere sotto controllo le emozioni - spiega ancora Fabrello - molti di loro sono in cella proprio per non averlo saputo fare. Invece è fondamentale, sia per condurre un cavallo che per rientrare in contatto con il mondo esterno. Immagini cosa può voler dire passare dalla propria cella alle decine di migliaia di visitatori di Fieracavalli”. E allora può capitare di assistere a uno spettacolo singolare, per un penitenziario: una decina di uomini in silenzio, seduti sul prato nella posizione del fiore di loto, e poco più in là i loro compagni di disavventura che portano al pascolo Joy, Kiri e Ramon. Dopo sei mesi, hanno una chance in più per l’ultimo periodo di formazione: uscire dal carcere alle sette del mattino e passare, senza la sorveglianza della Polizia penitenziaria, tutta la giornata a Corte Molon, una villa del Cinquecento donata al Comune di Verona perché ne facesse sede di attività sociali. Horse Valley l’ha trasformata in un centro equestre specializzato in interventi assistiti con gli animali. Mai avuto problemi? “Mai. Può capitare il detenuto che partecipa solo per fumare dieci sigarette in più. Lo capiamo subito e lo rispediamo indietro”, risponde Fabrello. “Nessun problema di sicurezza - conferma la direttrice Bregoli - operiamo una selezione rigorosa, in modo che al programma partecipino solo persone che ci danno garanzie da questo punto di vista. Tra le centinaia di detenuti ne scegliamo una decina per ogni corso, e non in base al tipo di reato commesso o alla pena da scontare: valutiamo il comportamento e la voglia di riscatto”. E Fabrello precisa: “È vero, tra gli allievi più meritevoli ci sono anche ergastolani e condannati a 25 anni. Ma grazie ai cavalli hanno un’occasione per uscire. Domattina alle sette ne prendo cinque e li porto in Fiera”. Firenze: le linee guida per salvare i giovani detenuti dalla radicalizzazione violenta gonews.it, 26 ottobre 2018 Per prevenire che minori e giovani adulti in carcere, o soggetti a misure alternative, finiscano nella spirale della radicalizzazione violenta, il Progetto Europeo Prova, da circa due anni, ha sviluppato in ogni Paese interessato interventi specifici per giungere a efficaci strategie di intervento. In primo piano la promozione di una comunicazione efficace per diffondere la cultura dell’inclusione sociale, unita a interventi di empowerment, di training rivolti ai professionisti e di workshop per i giovani. Lo scopo è quello di definire Linee guida, che saranno presentate nel corso di un convegno pubblico domani, venerdì 26 ottobre, alle ore 14,30 nel Salone delle Feste di Palazzo Bastogi, in via Cavour 18 a Firenze. Dopo i saluti istituzionali di Eugenio Giani, presidente del Consiglio regionale della Toscana, e Franco Corleone, Garante dei Diritti dei detenuti della Toscana, sono previsti gli interventi di Alba Zambrano Constanzo, direttrice del dipartimento di psicologia, Universidad de La Frontera, Temuco (Cile), in qualità di esperto esterno, e di Patrizia Meringolo, coordinatrice del progetto, dell’Università degli Studi di Firenze. Seguirà una tavola rotonda, presieduta da Saverio Migliori, Fondazione Giovanni Michelucci (Firenze), sui contributi e le attività dei paesi partner, con Ovidiu Gavrilovici, Psiterra (Iasi, Romania), Ruben David Fernández, Università di Barcellona (Catalogna, Spagna), Holger Syrbe, aufBruch (Berlino, Germania). Una seconda tavola rotonda sarà dedicata ai punti di vista degli stakeholder sulle Linee guida con interventi, tra gli altri di Hamdan Al-Zeqri, Unione delle Comunità islamiche d’Italia, Patrizia Bettini, dipartimento per il sistema educativo, dell’istruzione e della formazione, MIUR, Eros Cruccolini, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, Antonio Pappalardo, Centri giustizia minorile (Toscana, Umbria, Emilia Romagna e Marche), Vanessa Zurkirch, Centro di riferimento regionale criticità relazionali. La tavola rotonda sarà guidata da Camillo Donati, LabCom - Ricerca e Azione per il benessere psicosociale (Firenze). Il convegno, gratuito e aperto al pubblico, avrà a disposizione un servizio di traduzione simultanea. Foggia: “Leggo Quindi Sono”, detenuti e studenti incoronano i libri più belli immediato.net, 26 ottobre 2018 La manifestazione si terrà alla presenza degli alunni degli istituti Pascal, Poerio, Notarangelo-Rosati, Giordani e Giannone. Riparte dagli oltre 500 studenti-giurati dell’edizione 2018 la manifestazione “Leggo Quindi Sono-Le giovani parole”, iniziativa che porta gli alunni delle scuole superiori di Capitanata a leggere, incontrare e votare il miglior autore tra cinque selezionati tra le case editrici indipendenti italiane (la parola “Quindi” nasce proprio dalla fusione Qui-Indipendenti). Saranno loro, ancora una volta, a riempire gli oltre 400 posti del Teatro Giordano di Foggia in occasione della cerimonia di premiazione dell’ultimo vincitore del concorso-progetto. Lunedì 29 ottobre, infatti, alle 10, il giovane scrittore Antonio Schiena, il cui romanzo Non contate su di me (Watson Edizioni) è stato il più votato dagli studenti, riceve il premio Leggo Quindi Sono-Le giovani parole 2018, ritrovando così le cinque scuole del territorio dauno (“B. Pascal”, “C. Poerio”, “O. Notarangelo- G. Rosati” di Foggia; “G. T. Giordani” di Monte Sant’Angelo, e “P. Giannone” di San Marco in Lamis). Oltre alla targa LQS, l’autore riceverà anche un riconoscimento economico da parte della Fondazione Monti Uniti di Foggia, che sostiene e patrocina l’intera iniziativa, rappresentata per l’occasione dal presidente Aldo Ligustro. La manifestazione, inoltre, per il secondo anno di fila, prevede anche un premio speciale esito del lavoro svolto insieme con il gruppo di lettura della Casa Circondariale di Foggia che, nel corso dell’edizione uscente, ha incontrato i cinque autori selezionati grazie al progetto Lib(e)ri dentro organizzato dal Csv Foggia: i detenuti coinvolti, pertanto, hanno indicato nel graphic novel Il ritrovo degli inutili (Tunué) il libro che li ha maggiormente colpiti, riconoscendo nell’autrice e disegnatrice Paola Camoriano la loro beniamina. E sarà proprio quest’ultima, nella mattinata al Teatro U. Giordano, a ricevere il riconoscimento realizzato dal gruppo di lettura della Casa Circondariale, rappresentato dalla responsabile delle attività Annalisa Graziano. Dopo la premiazione, pertanto, avrà luogo la presentazione al pubblico, in anteprima nazionale, della nuova cinquina di romanzi valida per questa quarta edizione di “Leggo Quindi Sono-Le giovani parole”, selezionata dai membri dell’associazione di volontariato culturale Leggo Quindi Sono, composta da librai, lettori, docenti e, da quest’anno, anche dai bibliotecari della Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana”. All’evento di lunedì 29 ottobre, oltre ai rappresentanti della libreria Ubik (partner della manifestazione), Michele Trecca e Salvatore D’Alessio, e ai dirigenti degli istituti scolastici coinvolti, prenderanno parte gli assessori alla Cultura e alla Pubblica Istruzione del Comune di Foggia, Anna Paola Giuliani e Claudia Lioia, il direttore dell’Ufficio Scolastico Provinciale, Maria Aida Episcopo, e la direttrice della Biblioteca, Gabriella Berardi. La conduzione dell’evento è affidata al giornalista e scrittore Tony di Corcia. Enna: carceri e giustizia, dibattito all’Università Kore livesicilia.it, 26 ottobre 2018 Grande partecipazione ieri alla giornata di studio “Diritto e/è Giustizia” che si è svolta all’Università Kore di Enna. Al centro del dibattito il tema delle carceri e delle condizioni di vita dei detenuti: tra i relatori il presidente dell’Università Kore, Cataldo Salerno, l’ombudsman Salvatore Cardinale e il presidente dell’ordine degli avvocati di Enna, Giuseppe Spampinato. Dopo i saluti istituzionali, è stato proiettato il docu-film “Spes Contra Spem”. Ad aprire i lavori è stato il docente della Kore, Sergio Severino che ha fatto una disamina sociologica sulle istituzioni chiuse e in particolare in carcere. La professoressa Agata Ciavola, invece, ha approfondito la questione dell’ergastolo ostativo e delle possibili pene alternative. La tavola rotonda si è arricchita dell’intervento di Sergio D’Elia che ha illustrato la posizione del partito radicale sulle carceri, approfondendo i punti della proposta di legge che i radicali hanno presentato contro l’ergastolo ostativo. Al dibattito, inoltre hanno partecipato il professor Nicola Malizioso, criminologo e docente della università Kore. Il dottor Cardinale, già presidente della Corte d’appello di Caltanissetta, nel corso del suo intervento ha riconosciuto come l’ergastolo sia espressione della volontà del legislatore e quindi popolare. L’avvocato Giuseppe Rossodivita, della presidenza del Partito Radicale ha ribadito invece l’incostituzionalità dell’ergastolo. A chiudere la sessione mattutina della giornata di studio la presidente Rita Bernardini che ha ribadito come la Corte Europea dei diritti umani ha condannato reiteratamente l’Italia per condotte disumane nelle carceri italiane. Protagonisti della seconda parte del convegno, il presidente della Camera penale, Avvocato Spinello e l’avvocato Rossodivita. Ed è stato Rossodivita a parlare dell’attività politica legata al tema delle misure di prevenzione, anche patrimoniali, evidenziando la presentazione dei progetti di legge che prevedono la modifica di norme che intervengono sulla vita personale, patrimoniale e sociale. L’avvocato Michele Caruso ha ribadito, nel corso del suo intervento, quanto sia controproducente privare del patrimonio un nucleo familiare, perché così facendo si spingono queste persone a rivolgersi a quelle organizzazioni criminali, che sarebbero invece il nemico da combattere. Rita Bernardini, nella sua relazione, ha argomentato sul tema dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa. Molti enti sono destinatari di provvedimenti senza prove a supporto. Padova: “Antigone” in carcere, in scena i detenuti Il Gazzettino, 26 ottobre 2018 Si intitola “Antigone?” la creazione scenica nata nell’ambito del laboratorio teatrale sulla figura di Antigone a cura di Rosanna Sfragara e Flavia Bussolotto e che sarà rappresentata oggi e domani alle 10 nella Casa Circondariale. Il progetto è stato realizzato da Tam Teatromusica (riconosciuta dal Mibac) e Tam Bottega D’Arte tra novembre 2017 e ottobre 2018 nella Casa Circondariale grazie al sostegno della Regione del Veneto. Tam Teatromusica ha proposto un nuovo percorso di attività teatrali di gruppo ideato per i detenuti della Casa Circondariale di Padova, con il desiderio di offrire ai detenuti esperienze di incontro, di dialogo e di crescita attraverso i linguaggi dell’arte. Il progetto è iniziato con l’esperienza teatrale per circa cento detenuti del racconto-laboratorio Parole e sassi. La storia di Antigone per le nuove generazioni, produzione di Collettivo Progetto Antigone diretto da Letizia Quintavalla. Quella di Antigone è una storia antica che gli uomini continuano a narrare e rappresentare, attraverso i secoli, a partire dal mito e dalla tragedia scritta dal poeta greco Sofocle nel 440 a.C. Una vicenda di fratelli e sorelle, di patti mancati, conflitti e ingiustizie, di leggi e disobbedienze, di rituali e ciechi indovini. Il progetto è poi proseguito con il laboratorio teatrale condotto da Rosanna Sfragara e Flavia Bussolotto, in cui un gruppo più piccolo di detenuti ha continuato a lavorare sulla tragedia di Antigone lasciando emergere le emozioni e le memorie personali, cercando forme per condividerle e dare loro voce e corpo. Firenze: nell’ex carcere l’anteprima del film sulla compagnia teatrale di Sollicciano met.provincia.fi.it, 26 ottobre 2018 Il programma di venerdì 26 alle ore 20 a Le Murate. Progetti Arte Contemporanea. Domani, venerdì 26 alle 20 Le Murate. Progetti Arte Contemporanea sbarca “Memoria e libertà”, presentazione in anteprima del film-documentario che racconta l’esperienza della Compagnia di Sollicciano nel periodo di prove e creazione dell’ultimo spettacolo “Kan Ya Makan” (presentato a Luglio 2018 e in replica a Dicembre). Un momento di incontro, per conoscere il lavoro nascosto che la compagnia con i suoi attori detenuti svolge da tanti anni con Krill Teatro. Il film, più che documentare le fasi di costruzione dello spettacolo, intende mostrare ciò che non sarà mai visto dagli spettatori. Un universo umano costituito in larga parte da tutte le difficoltà, la fatica, le incomprensioni, le intolleranze, le tensioni che ci possono essere all’interno di un gruppo multietnico e che dentro un carcere si amplificano enormemente. Difficoltà che devono venire a galla ed essere superate nel corso delle prove. Se è vero che fare teatro in carcere significa considerare i partecipanti degli attori prima ancora che dei detenuti, è anche vero che questo documentario intende mostrare proprio queste particolarità per dare voce e corpo a ciascuno di loro. Il programma prevede, oltre alla proiezione del lungometraggio, l’intervento di Fabio Prestopino, Direttore della Casa Circondariale di Sollicciano del regista Corrado Ravazzini, di Elisa Taddei, Regista della Compagnia Krill Teatro di Laura Croce, della Direzione Artistica Murmuris e di alcuni attori detenuti della Compagnia di Sollicciano. Alle 21.30 è previsto un concerto dell’Orkestra Ristretta di Sollicciano guidata dal Direttore Massimo Altomare. Fine vita, una sentenza che sembra un’abdicazione di Massimo Villone Il Manifesto, 26 ottobre 2018 Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare. Si può capire, per chi si sente vaso di coccio tra vasi di ferro. Ma un giudice delle leggi? La Consulta ci informa di aver rinviato al 24 settembre 2019 il caso Cappato, “per consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina” sul fine vita, essendo prive di adeguata tutela “situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”. Con una sentenza-monito i casi sono due. O è mera esortazione, se la Corte ritiene che la questione sia conclusivamente da lasciare alla discrezionalità legislativa. Oppure - se invece adombra una successiva pronuncia, variamente modulabile, di incostituzionalità - è una diffida ad adempiere. Tale sembra qui il caso, essendo il rinvio volto a consentire “in primo luogo” al Parlamento di intervenire. Ma perché rinviare? La Corte non doveva decidere in termini generali sul fine vita o sull’eutanasia, Un punto nodale era ed è se assistenza e istigazione possono essere accomunate in una unica fattispecie di reato, come fa l’art. 580 c.p.: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito…”. In principio, si può intendere che “agevoli” anche chi solo sostiene la mano dell’amico o familiare che si è autonomamente e univocamente determinato a morire con dignità, ma non ha più la forza di staccare la spina. L’istigazione è altra cosa. Non è necessario giungere a una disciplina generale del fine vita. Nella specie, sarebbe bastata una incostituzionalità parziale, in quanto estendere una identica disciplina a situazioni diverse viola il principio di eguaglianza. O forse anche, al limite, una sentenza interpretativa di rigetto, volta a chiarire senza creare vuoti normativi la lettura costituzionalmente compatibile dell’art. 580, di ispirazione fascista. Sarebbe rimasta comunque aperta la via per una successiva pronuncia di incostituzionalità. Invece, il rinvio si potrebbe leggere come suggerimento che al legislatore sia consentito estendere la punibilità anche al mero assistere, magari in modo solo parzialmente differenziato rispetto al “determinare” o “rafforzare”. È una posizione che si mostra, ad esempio, coerente con il sentire prevalente nella Chiesa cattolica. E che però potrebbe portare a un passo indietro rispetto a casi che hanno fatto la storia, come Welby ed Englaro. Dunque, un monito orientato? Un messaggio che non è un diritto il voler morire con dignità, senza fuggire - chi può - all’estero? Dobbiamo temere si giunga alla punibilità per l’autista dell’ultimo viaggio oltre confine? Il rinvio può apparire come sostitutivo della decisione - preclusa alla Corte nel nostro diritto, e invece consentita al giudice delle leggi in altri ordinamenti - che gli effetti di una pronuncia di incostituzionalità decorrano da una data successiva a quella della pronuncia stessa. Ma allontanare in qualunque forma nel tempo la risposta lascia nell’ordinamento ferite aperte, da evitare comunque quando possibile, e con parole chiare in materie sensibili. Ancor più perché le decisioni della Corte sono coperte da una falsa unanimità, che poco conta sia destinata di fatto a cedere alle chiacchiere di corridoio su chi ha votato cosa. Per questo, da sempre sostengo l’introduzione per la Consulta del dissent, sul modello statunitense. Il sistema politico stenta oggi a produrre scelte ampiamente condivise. L’indebolimento o dissolvimento del ruolo di confronto e mediazione dei corpi intermedi, e la distorsione della rappresentatività delle assemblee mediante leggi elettorali maggioritarie in chiave di governabilità, accentuano la propensione allo scontro frontale tra maggioranze e opposizioni pro tempore. Diventa più difficile disegnare nell’assemblea elettiva - come la Corte qui richiede - una “appropriata” disciplina, e il bilanciamento di beni costituzionalmente rilevanti. È un tempo in cui la Corte non può abdicare alla responsabilità di decidere come garante della Costituzione, in specie laddove si tratti di libertà e diritti. Più di ieri, è necessario che parli con voce alta e forte. Nel tempo di oggi, cari giudici, il coraggio anche se non si ha bisogna proprio darselo. Migranti. I numeri contro le fake news: in Italia meno stranieri, flop delle espulsioni di Vladimiro Polchi La Repubblica, 26 ottobre 2018 Immigrazione, i numeri contro le fake news: in Italia meno stranieri, flop delle espulsioni. La fotografia del Dossier statistico Idos per il 2018: 26mila migranti in meno in un anno, i musulmani sono una minoranza (32%, doppiati dai cristiani), mentre dei 41mila irregolari intercettati, soltanto il 44% è stato effettivamente allontanato. Gli immigrati in Italia? Diminuiscono: in un anno ne sono spariti 26mila. Gli italiani all’estero? Aumentano: nel 2017 sono partiti in 114mila. I musulmani? Una minoranza: tra gli stranieri sono il 32%, i cristiani li doppiano. I profughi? Non superano quota 354mila, tanti, ma molti meno che in Germania e anche meno che in Francia. Le espulsioni? Ferme al palo: lo scorso anno è stato rimpatriato il 3,7% degli irregolari. Sulla perenne emergenza immigrazione si giocano fortune politiche, maggioranze di governo e assetti europei. Il “pianeta migranti” è percorso da mille tensioni, scosso da guerre di parole e numeri. Proprio dai numeri è allora utile ripartire. “L’invasione che non c’è” - Il Dossier statistico immigrazione 2018, realizzato dal centro studi e ricerche Idos, in partenariato con il centro studi Confronti e in collaborazione con l’Unar, da 28 anni prova a fotografare in maniera obiettiva il “pianeta migranti”. I risultati: in 480 pagine fitte di analisi e tabelle emerge come “in Italia, contrariamente alla credenza che vorrebbe il Paese assediato e “invaso” dagli stranieri, il numero dei migranti è pressoché stabile intorno ai 5 milioni dal 2013”. Più precisamente, Idos stima in 5.333.000 il numero effettivo di cittadini stranieri regolarmente presenti in Italia, 26mila in meno rispetto alla stima del 2016 (molti quelli che si stanno trasferendo all’estero). Per capire, in Germania sono 9,2 milioni, nel Regno Unito 6,1 milioni. E ancora: l’Unhcr stima in 354.000 i richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale o umanitaria presenti in Italia, lo 0,6% dell’intera popolazione del Paese. Veniamo dopo la Germania (1,4 milioni) e la Francia (400mila). Insomma, scrivono gli analisti, l’Italia non detiene alcun record europeo: “Non è né il Paese con il numero più alto di immigrati, né quello che ospita più rifugiati e richiedenti asilo”. La “fuga” dei giovani italiani - Degli oltre 114.000 italiani che si sono trasferiti all’estero nel 2017, la fascia più rappresentata è quella dei 25-39enni. Tendenza questa che sta facendo strada anche tra gli stranieri: oltre 40.500 cancellazioni anagrafiche per l’estero nel 2017. E così colpisce che lo scorso anno il numero degli italiani residenti all’estero (oltre 5.114.000) fosse analogo a quello degli stranieri residenti in Italia. Record Centro-Nord e caso Roma - Gli immigrati che risiedono in Italia provengono da quasi 200 diversi Paesi del mondo. I romeni costituiscono la collettività di gran lunga più numerosa (1.190.000 persone, pari al 23,1% di tutti i residenti stranieri), seguiti da albanesi (440mila), marocchini (417mila), cinesi (291mila) e ucraini (237mila). Queste prime 5 collettività coprono la metà dell’intera presenza straniera in Italia, mentre le prime 10 (per arrivare alle quali occorre aggiungere, nell’ordine, Filippine, India, Bangladesh, Moldavia ed Egitto) arrivano a poco meno dei due terzi. E ancora: sono 826.000 gli alunni stranieri del Paese, quasi un decimo (9,4%) di tutti gli scolari in Italia. Con l’83,1% di tutti i residenti stranieri, il Centro-Nord continua a essere l’area che ne catalizza la quota più consistente. Ma va anche detto che nella sola città metropolitana di Roma si concentra il 10,8% di tutti gli stranieri residenti in Italia. La minoranza musulmana - “Le discriminazioni - denuncia il Dossier - dilagano in internet, con un aumento esponenziale di discorsi d’odio razzista, spesso sulla base di rappresentazioni distorte che riguardano anche la religione di appartenenza, fomentando l’idea che siamo “invasi da musulmani”, mentre tra gli immigrati i cristiani sono la maggioranza assoluta (2.706.000, pari al 52,6% del totale), con preminenza degli ortodossi (1,5 milioni) e dei cattolici (oltre 900.000), mentre i musulmani sono 1 ogni 3: 32,7%, pari a 1.683.000 persone”. Il flop delle espulsioni - Nel 2017 sono stati intercettati 41.158 stranieri irregolari. Di questi, solo il 44,6% è stato effettivamente espulso o rimpatriato, la parte restante è “non ottemperante”, ossia è rimasta in Italia nonostante sia destinataria di un provvedimento di espulsione. Non solo. Se ci si basa sulla stima della Fondazione Ismu, per cui in Italia vi sarebbero circa 490mila stranieri privi di titolo di soggiorno, emerge come la “macchina delle espulsioni” ne abbia intercettato solo l’8,4% e allontanato appena il 3,7%. I lavori dei “nuovi italiani” - Dei 2.423.000 occupati stranieri nel 2017 (10,5% di tutti gli occupati in Italia), ben i due terzi svolgono professioni poco qualificate o operaie. In particolare, è straniero il 71% dei collaboratori domestici e familiari, quasi la metà dei venditori ambulanti, più di un terzo dei facchini, il 18,5% dei lavoratori negli alberghi e ristoranti (per lo più addetti alla pulizie e camerieri), un sesto degli edili e degli agricoltori. La spesa per gli stranieri - Come evidenzia la Fondazione Leone Moressa, i contribuenti stranieri hanno versato Irpef per 3,3 miliardi di euro, che sommati ad altre voci di entrata (tra cui 320 milioni solo per i rilasci e rinnovi dei permessi di soggiorno e le acquisizioni di cittadinanza e 11,9 miliardi come contributi previdenziali), assicurano un introito nelle casse dello Stato pari a 19,2 miliardi di euro, che paragonati con i 17,5 miliardi di spesa pubblica dedicata agli immigrati, rendono il bilancio statale tra entrate e uscite imputabili all’immigrazione positivo di un importo che oscilla tra 1,7 e 3 miliardi di euro. Migranti. Il decreto Salvini vuole gonfiare la clandestinità di Guido Viale Il Manifesto, 26 ottobre 2018 Dl Sicurezza. I migranti verranno lasciati nella condizione di clandestini, una figura giuridica introdotta con la legge Bossi-Fini. Carne da macello per il lavoro nero e per la criminalità. Un’ondata incontrollata di “clandestini” sta per abbattersi sul nostro paese. Provengono dall’Italia: dall’Italia legale a quella “clandestina”. Saranno più di centomila nel giro del prossimo anno (oltre a chi arriverà via mare). Ma chi sta organizzando quel viaggio? Il ministro Salvini con il decreto sicurezza. Chiuderà molti Sprar, cioè l’accoglienza gestita dai Comuni che curano l’inclusione sociale di chi chiede protezione. Si chiudono gli Sprar per trasferirne gli ospiti nei Cas e nei Cara (centri affidati a privati, che spesso ci speculano sopra), ma che chiuderà anche molti Cas, tagliandone i fondi e riducendo drasticamente le protezioni umanitaria, internazionale e sussidiaria che “legalizzano” la permanenza di un profugo in Italia. Una volta persa la protezione, alle persone cacciate da Sprar e Cas verrà ingiunto di ritornare entro sette giorni nel loro paese. Ma nessuno lo farà, perché nessuno di loro ha i mezzi per farlo, perché dal paese di origine sono dovuti fuggire, perché a tornare corrono il rischio di essere imprigionati, torturati, uccisi o fatti sparire. E non lo farà nemmeno il governo che non ha mezzi e fondi per rimpatriare neppure il mezzo milione di “clandestini” di cui, in campagna elettorale, Salvini aveva promesso di sbarazzarsi mentre ora dichiara che ci vorranno almeno ottanta anni per mandarli via tutti. Che ne sarà allora degli oltre centomila che si andranno ad aggiungere grazie al nuovo decreto? Una piccola parte - qualche migliaio - verrà rinchiuso nei Cpr (centri di permanenza per i rimpatri) ancora da costruire; che si riempiranno presto, ma non si svuoteranno altrettanto rapidamente per far posto a nuovi prigionieri perché quelli che finiscono lì potranno restarvi rinchiuso fino a 180 giorni, per poi uscirne, perché il loro rimpatrio sarà sempre più difficile. Così verranno lasciati per strada, nella condizione di “clandestini” (una figura giuridica introdotta con la legge Bossi-Fini), come già succede a coloro cui è stato negata la protezione o a cui non è stato rinnovato il permesso di soggiorno perché hanno perso il lavoro. Li ritroveremo - ne ritroveremo sempre più - agli angoli delle strade con il cappello in mano a chiedere la carità, a dormire sotto i viadotti o nelle fabbriche abbandonate, nella migliore delle ipotesi. Oppure a lavorare in nero nei campi, nell’edilizia, nei retrobottega di bar e ristoranti. Oppure a prostituirsi, se donne, o a spacciare, se uomini; a fornire carne umana e manodopera a una criminalità, italiana e straniera, che cresce di giorno in giorno sotto i nostri occhi e che è ormai additata come la fonte principale di insicurezza per tutti; dimenticando che le cause maggiori di questa insicurezza sono la corruzione, le mafie e la criminalità organizzata, ben inserite dentro molte strutture dello Stato e delle attività produttive. Pensare di restituire la sicurezza agli italiani rendendo la vita sempre più difficile a che è costretto alla “clandestinità”, senza alcuna alternativa possibile, significa solo moltiplicare le cause dell’insicurezza. Più insicurezza c’è più le false promesse di Salvini di eliminarla hanno presa sul suo elettorato. Per questo il ministro e il suo governo combattono in tutti i modi le esperienze - come gli Sprar o i Comuni che accolgono i migranti, prime tra tutti, ma non solo, Riace - che producono inclusione e, insieme all’inclusione, sicurezza e benessere per tutti. A Riace, in una regione dominata dalla n’drangheta, malavita e insicurezza sono state sconfitte, lo spopolamento è stato arrestato e il territorio è rinato a beneficio tanto dei vecchi abitanti che dei nuovi arrivati. Il problema dell’Italia, e non solo di Riace, o degli altri comuni della Calabria e di altre regioni che si sono impegnate nell’accoglienza, non è l’immigrazione ma l’emigrazione: i tanti giovani e non giovani, spesso laureati e diplomati, costretti a emigrare per cercare lavoro all’estero, e che nella rinascita dei borghi come delle periferie, proprio grazie all’arrivo degli immigrati, potrebbero trovare invece una ragione per restare. Una ragione valida per milioni di persone se in tutto il paese venissero intraprese quelle opere di risanamento del territorio e del tessuto sociale imposte dal deterioramento locale e globale dell’ambiente e che potrebbero dare una collocazione produttiva, invece di costringerli a una inattività forzata (di cui si parla con disprezzo come “stare sul divano a guardare la tv”), tanto gli italiani che tanti i migranti imprigionati nei Cas che non aspettano altro che di potersi impegnare per il bene sia loro che di tutti. Dalla Crimea a una cella russa: a Sentsov il premio Sakharov di Giuseppe Agliastro La Stampa, 26 ottobre 2018 Il riconoscimento dell’Europarlamento al regista condannato a 20 anni. La protesta di Mosca: “Decisione assolutamente politicizzata”. È Oleg Sentsov il vincitore del Premio Sakharov 2018. L’Unione europea ha assegnato il suo più prestigioso riconoscimento nella difesa dei diritti umani al regista ucraino rinchiuso in un carcere russo di massima sicurezza per una condanna che molti ritengono di matrice politica. La decisione dell’Europarlamento è uno schiaffo a Putin e al Cremlino. Sentsov è infatti contrario all’annessione russa della Crimea e ha messo a repentaglio la sua vita con uno sciopero della fame durato quasi cinque mesi chiedendo la liberazione di “tutti i prigionieri politici ucraini”. Mosca ha subito reagito bollando la mossa come “totalmente politicizzata” e denigrando l’opera del cineasta 42enne: “Nessuno ha visto i suoi film”, ha affermato la portavoce della diplomazia russa. Il Premio Sakharov però non ha nulla a che fare col cinema. Le motivazioni del Parlamento europeo, annunciate dal presidente Antonio Tajani, sono chiare: “Il cineasta ucraino è diventato il simbolo della lotta per i prigionieri politici in Russia e nel mondo”. Non solo, l’Aula di Strasburgo ha lodato il regista per il suo “coraggio e la sua determinazione” e - secondo schiaffo al Cremlino - ha chiesto che sia “immediatamente liberato”. Ma chi è il vincitore del Premio Sakharov? Oleg Sentsov è stato condannato a 20 anni di reclusione da un tribunale militare russo nell’agosto del 2015. Un anno e tre mesi dopo essere finito in manette. Secondo gli inquirenti, avrebbe tentato di “organizzare atti terroristici” in Crimea. In particolare, sarebbe stato a capo di un commando che voleva far saltare in aria una statua di Lenin a Simferopoli e dare fuoco agli uffici di due organizzazioni, compresa una sede locale del partito di Putin “Russia Unita”. Lui però si dice innocente e denuncia che la confessione gli è stata estorta a suon di percosse. D’altronde sono in molti a pensare che dietro i guai giudiziari di Sentsov vi sia in realtà solo la sua avversione all’annessione russa della Crimea, la terra in cui è nato. La condanna appare inoltre di una severità inaudita. Il regista di “Gamer” ha iniziato a non toccare più cibo a metà maggio chiedendo la sua scarcerazione e quella di altri 64 ucraini che ritiene “prigionieri politici”. Il 6 ottobre però, dopo “145 giorni di lotta, 20 chili in meno e l’organismo sull’orlo del collasso”, si è deciso a mettere fine al digiuno per evitare l’alimentazione forzata. I precedenti sono inquietanti. Il dissidente sovietico Anatoly Marchenko, per esempio, morì in carcere nel dicembre del 1986. Neanche due settimane prima aveva interrotto uno sciopero della fame durato 117 giorni ed era stato sottoposto ad alimentazione forzata. Appena dieci giorni fa, era stata la cugina Natalya a lanciare l’allarme. Secondo lei, Oleg era ricoverato in un reparto di terapia intensiva a Labytnangi, la città dell’estremo nord della Russia in cui è detenuto nel carcere “Orso Bianco”. “La situazione è critica - raccontava - ci sono conseguenze irreversibili per fegato, cuore, cervello, reni e intestino”. Le autorità russe però smentiscono che Sentsov sia in pericolo di vita. Il leader ucraino Petro Poroshenko si è detto convinto che l’assegnazione del Premio Sakharov “accelererà la liberazione” di Sentsov. La cerimonia è in programma a Strasburgo il 12 dicembre. Sarà presente il vincitore? Forse bisognerà sperare in uno “scambio di prigionieri” tra Mosca e Kiev. Caso Khashoggi, Arabia Saudita ammette “omicidio premeditato” di Silvia Morosi Corriere della Sera, 26 ottobre 2018 Le dichiarazioni del procuratore sulla base delle informazioni fornite dalla task force congiunta con le autorità turche. Il principe Mohammed bin Salman ha presieduto la prima riunione della commissione incaricata di riformare i servizi segreti di Riad dopo l’omicidio del reporter. La condanna del Parlamento europeo: “Embargo armi”. L’autorità giudiziaria saudita ammette che quello di Jamal Khashoggi è stato un omicidio premeditato (Il ritratto, dai viaggi con Bin Laden fino all’interrogatorio finito male). Lo riconosce in una nota l’ufficio del procuratore generale sottolineando che “l’inchiesta va avanti”. La televisione al-Ekhabariya riferisce, poi, che gli inquirenti stanno interrogando diverse persone sospettate dell’assassinio del giornalista dissidente - avvenuto il 2 ottobre scorso all’interno del consolato saudita a Istanbul (in 7 minuti) - sulla base degli elementi raccolti da una task force congiunta turco-saudita. Si tratterebbe della prima ammissione da parte di Riad, che finora aveva parlato di una morte a seguito di una “colluttazione”, escludendo che il delitto fosse stato pianificato (qui tutti i misteri ancora irrisolti sul caso). Ci sono ancora “delle domande” alle quali l’Arabia Saudita deve rispondere nell’ambito dell’inchiesta, in particolare l’identità dei mandanti e dove si trova il corpo, ha fatto presente il ministro degli Esteri della Turchia, Mevlut Cavusoglu. “Diciotto persone sono state arrestate in Arabia, perché loro? Chi ha dato loro gli ordini? Il corpo di Jamal Khashoggi non è ancora stato ritrovato. Dov’è?”. Parlamento europeo: “Embargo armi e possibili sanzioni” - Una forte condanna è arrivata dal Parlamento europeo che, con una risoluzione non legislativa, e quindi non vincolante, ha chiesto un’inchiesta internazionale indipendente sul caso e ha sollecitato gli Stati membri dell’Unione a imporre un embargo sulla fornitura di armi all’Arabia Saudita. Strasburgo ha anche chiesto alle nazioni di essere pronte a imporre sanzioni mirate, incluso il blocco dei visti e il congelamento degli asset verso personalità saudite se i fatti saranno accertati. Bin Salman e la commissione per riformare 007 - Poco dopo l’annuncio del procuratore, alcuni media hanno annunciato che il principe ereditario Mohammed bin Salman ha presieduto la prima riunione di una commissione istituita dopo l’omicidio, con l’incarico di ristrutturare i servizi di intelligence. L’iniziativa rientra nei tentativi della Corona di placare l’indignazione internazionale per l’omicidio del reporter, dopo aver arrestato almeno 18 sospetti e allontanato cinque alti funzionari.