Quando il carcere perde significato di Alessandra Carrea Il Secolo XIX, 25 ottobre 2018 La mia riflessione consiste nella personale convinzione che gli istituti di detenzione in molti casi non servano a nulla e che non siano realmente riabilitativi per l’individuo. O meglio, lo sarebbero se il sistema prevedesse un reale sostegno ai detenuti nel momento che quasi per un paradosso è il più delicato e fragile della loro vita ovvero l’esatto istante in cui tornano ad essere persone “libere”. Gli ex detenuti escono dal carcere privi di strumenti per affrontare quel mondo dal quale sono stati lontani, magari anche per parecchio tempo. E allora spesso tutto il lavoro che viene fatto dentro al carcere, tutti gli sforzi compiuti sia da parte del detenuto stesso sia da parte di docenti, volontari impegnati in vari laboratorio, degli educatori che credono veramente nel loro lavoro, rischia di essere vanificato nel momento stesso in cui il detenuto mette piede fuori di lì. Perché nel momento in cui le porte del carcere si chiudono dietro le sue spalle l’uomo, nuovamente libero, nella maggior parte dei casi non ha più nulla. Né una casa dove andare a dormire e posare semplicemente le sue cose, né soldi, né lavoro. Ed è lì che il carcere, nel suo ruolo riabilitativo e non punitivo, rischia seriamente di fallire. Se non si studia un reale percorso di reinserimento, è tutto inutile. Il detenuto va aiutato dal primo istante, con la possibilità di avere un alloggio dignitoso e non meno importante la possibilità di tornare a lavorare al più presto per poter provvedere al proprio sostentamento. Purtroppo nella mia esperienza all’interno della Onlus ho potuto constatare che nella maggior parte dei casi non è così. E allora poi non meravigliamoci se molti di loro commettono una recidiva e tornano in carcere in men che non si dica. Inutile riabilitarli se le associazioni che dovrebbero lavorare in quella direzione, che sono pagate o sovvenzionate per fare questo molto spesso fanno solo tante promesse e tante parole. Ma le promesse andrebbero mantenute perché le persone che sono in una fase così delicata della loro vita a quelle promesse danno un peso enorme e ci si aggrappano come un naufrago si aggrappa ad una zattera in mezzo all’oceano. La finta beneficenza non serve a nessuno se non a chi ci guadagna sopra. A questo punto mi chiedo: a cosa serve mettere queste persone in carcere indistintamente? Mettiamoci solamente i delinquenti veri, quelli che fanno del male fisico alle persone, quelli che uccidono, che stuprano, che fanno male ai bambini. I “delinquenti di serie B” aiutiamoli immediatamente e diversamente inserendoli in un processo di riabilitazione che li possa offrire misure alternative di qualità e realmente riabilitative dell’individuo. Mettiamoli a svolgere lavori socialmente utili dove possono fare qualcosa davvero per il bene collettivo. Aiutiamoli con un sostegno di tipo psicologico che lavori nel profondo. *Vicepresidente Compagnia Teatrale “Scatenati Onlus”, che sostiene i detenuti nel momento della loro scarcerazione “Mamma con figlio in cella? Deve essere l’estrema ratio” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 ottobre 2018 Intervista a Carolina Varchi, Capogruppo Fratelli d’Italia in Commissione Giustizia alla Camera. Alice Sebesta, la detenuta tedesca di 31 anni che il 18 settembre ha ucciso nel carcere romano di Rebibbia i figlioletti, era capace di intendere e volere? A stabilirlo sarà lo psichiatra Valerio Mastronardi, nominato dal gip Antonella Minunni, durante l’incidente probatorio dello scorso 22 ottobre. Procura e difesa hanno nominato esperti Alessio Picello e Gabriele Mandarelli. L’avvocato Andrea Palmiero punta infatti a provare l’incapacità della propria assistita che, secondo una documentazione in arrivo dalla Germania, sarebbe stata ricoverata per diversi anni e avrebbe un passato psichiatrico rilevante. Secondo le statistiche del ministero della Giustizia alla data del 30 settembre 2018 sono presenti negli istituti penitenziari 26 detenute italiane con 31 figli a seguito e 24 recluse straniere con 28 bambini. Per fare il punto della situazione, ad un mese dalla tragedia di Rebibbia, Fratelli d’Italia ha organizzato alla Camera dei Deputati una tavola rotonda dal titolo “Bambini dietro le sbarre”. Tra i relatori l’onorevole Carolina Varchi, avvocato e capogruppo Fratelli D’Italia in Commissione giustizia alla Camera, che abbiamo incontrato a margine dell’incontro per discutere del tema ma anche di altre questioni riguardanti la giustizia. Onorevole Varchi, cosa non ha funzionato a Rebibbia? Appena si è verificata la tragedia siamo andati a Rebibbia per verificare lo stato delle cose. Abbiamo trovato un carcere con una sezione nido assolutamente idonea, una eccellenza nel panorama carcerario italiano. Per questo abbiamo ritenuto eccessivi i provvedimenti adottati, senza un minimo di attività istruttoria, dal ministro Bonafede nei confronti della direttrice, della sua vice e della vice comandante di polizia penitenziaria. Il tema dei bambini in carcere però esiste come problema e ciò ci ha indotto a organizzare un momento di confronto con tutti gli attori che a vario titolo sono coinvolti nella tutela di questi minori. La tutela deve contemperare due esigenze: della comunità affinché la madre sconti la pena o la misura cautelare ma anche la tutela del primario interesse del bambino. Il punto di equilibrio da adottare per una soluzione deve essere tra queste due esigenze. Quali le soluzioni allora? In questo caso la misura cautelare deve essere l’estrema ratio, una madre deve stare in carcere col figlio quando non è possibile fare altrimenti. In tutti gli altri casi vanno valorizzati gli strumenti esistenti: Icam, case famiglie, sospensione o posticipazione della pena. Non essendo eccessivo il numero dei bambini in carcere la situazione si può affrontare in maniera risolutiva. Nel suo intervento ha parlato anche del tema della custodia cautelare. I dati del ministero della Giustizia ci dicono che al 30 settembre 2018 su un totale di 59.275 detenuti sono in carcere, tra italiani e stranieri, 10.008 in attesa di giudizio e 9.823 senza una condanna definitiva. Quindi quasi il 34% del totale. Crede che ci sia un abuso della misura cautelare? Le misure cautelari per come sono codificate in Italia in linea astratta dovrebbero avere una applicazione limitata ai casi veramente che la necessitano. La privazione della libertà è un rimedio davvero drastico che lo Stato va ad adottare. Tuttavia le cronache giudiziarie consegnano una realtà diversa per cui questo tema è uno di quelli in cui tra la previsione normativa e l’applicazione della stessa vi è un divario. Probabilmente anche nell’applicazione delle misure cautelari ci vuole un controllo più penetrante per capire se effettivamente la privazione della libertà sia l’unica soluzione per il rispetto di uno di quei presupposti che servono per l’applicazione della stessa. Del resto anche le statistiche che ci consegna la giurisprudenza del riesame vedono una buona percentuale di provvedimenti del gip che vengono modificati nel senso più favorevole per l’indagato. È evidente che c’è qualcosa che non va. Una delegazione di Fratelli d’Italia ha preso parte al Congresso Nazionale Forense che si è svolto poco fa a Catania. Uno dei temi più affrontati è stato quello dell’avvocato in Costituzione. Lei ritiene che nell’equilibrio della democrazia occorra rafforzarne il ruolo nella Carta fondamentale? Abbiamo partecipato con grande interesse al congresso di Catania, io ho personalmente seguito due dei tre giorni di lavoro. Noi crediamo che i tempi siano maturi affinché il ruolo dell’avvocato sia riconosciuto in Costituzione; la professione di avvocato vi trova già un riconoscimento seppur in maniera embrionale in quanto a più riprese è nominato nella nostra Carta Costituzionale; peraltro, soprattutto con riferimento al processo penale, noi viviamo una situazione in cui il giudice e il pm fanno parte della stessa macro categoria che è quella dei magistrati mentre l’avvocato inevitabilmente ha una posizione che di fatto è di minore incisività rispetto alle altre posizioni. Valga per tutti l’esempio delle indagini difensive che quasi mai godono della stessa considerazione al fine del convincimento del giudice rispetto alle indagini preliminari svolte dall’ufficio della procura. Da qui la vostra adesione alla separazione delle carriere? Noi lo abbiamo sempre sostenuto e anche sull’avvocato in Costituzione abbiamo ritenuto di sposare l’iniziativa del Consiglio Nazionale Forense. Qualora il governo, come ha fatto intendere il ministro Bonafede, decidesse di intraprendere questa strada certamente Fratelli d’Italia sarebbe pronta a contribuire. Fratelli d’Italia può definirsi un partito garantista? Noi abbiamo una posizione molto netta: i colpevoli devono essere assicurati alla giustizia alla quale il cittadino deve ricominciare a credere perché credere in essa significa credere nello Stato. Sotto questo profilo noi chiediamo certezza della pena. A titolo personale posso dirle che io sono garantista fino al terzo grado di giudizio perché nel momento in cui interviene una sentenza di condanna essa va eseguita. La forza di uno Stato non è tanto emettere sentenze quanto più vicine alla realtà storica dei fatti ma farle eseguire. Protesta per le ore d’aria negate al 41bis, finisce in cella “liscia” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 ottobre 2018 A Spoleto recluso chiede il rispetto di una recente sentenza della Cassazione. Protesta al 41bis per ottenere il rispetto delle ore d’aria come recentemente ha riconosciuto la Corte di Cassazione. A inscenarla è Alessio Attanasio, recluso al carcere duro e già conosciuto per aver nel passato fatto denunce alla magistratura di sorveglianza per reclamare i propri diritti, alcuni in seguito anche accolti. Lui è recluso nel carcere di Spoleto, secondo i familiari venerdì scorso, finita l’ora d’aria “si è messo semplicemente seduto in mezzo al piazzale, ma gli agenti lo hanno preso e lo hanno trascinato di peso nella “cella liscia”. Il suo atto di disobbedienza era volto a chiedere alla direzione del carcere il rispetto delle ore d’aria, così come stabilito dalla Cassazione. La sentenza, resa pubblica ad ottobre, nel respingere un ricorso del ministro della Giustizia avverso un’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Sassari in tema di fruizione di ore all’aperto, ha chiaramente affermato che in esito a una lettura sistematica delle norme in materia “la sovrapposizione della permanenza all’aria aperta e della socialità costituisce un’operazione non corretta”. Sì, perché molti istituti penitenziari che ospitano il 41bis, hanno interpretato, in senso restrittivo, la circolare del Dap che ha uniformato le regole del carcere duro. Come? Il detenuto nel regime duro può usufruire di due ore giornaliere all’aria aperta, in alternativa ad un’ora massima di tempo da impiegare nelle attività ricreative-sportive, nell’accesso alla sala pittura o alla biblioteca. Ma non entrambe. Il detenuto deve, quindi, scegliere come impiegare le due ore massime di accesso all’aria aperta. Quindi fino a poco tempo fa permaneva l’interpretazione restrittiva che non coglie le riflessioni prospettate di recente da parte della dottrina e di una parte della giurisprudenza di merito, che - in presenza di determinate condizioni soggettive e alla luce di fattori ambientali favorevoli - ha ribadito l’importanza di concedere al detenuto in regime di 41bis la possibilità di accedere all’aria aperta per due ore al giorno, senza con ciò penalizzare eccessivamente lo stesso, scomputando da tale soglia i servizi “rieducativi” garantiti dall’istituto penitenziario. Infatti, nel secondo rapporto al Parlamento presentato dal Garante nazionale delle persone privata della libertà, viene sottolineato che alcuni elementi interpretativi del “decalogo” del Dap - forniti successivamente alla Direzione di un istituto e fatti circolare, seppure in maniera non formale e istituzionale, in tutti gli istituti - hanno finito col determinare applicazioni ben più restrittive di quelle proposte nel complesso e lungo dibattito che ha accompagnato la sua redazione. Il Garante ha evidenziato innanzitutto l’interpretazione che è stata data alle ore da trascorrere all’aperto: di fatto, l’ora nella sala di socialità viene sottratta alle due ore da trascorrere all’aperto. Ma la recente sentenza della Cassazione ha messo ordine e stabilito che le due ore d’aria e una dedicata ad altre attività sono “due distinte situazioni che hanno differente finalità e che, anche nell’impianto normativo, non risultano fungibili tra di loro: la permanenza del detenuto all’aria aperta risponde ad esigenze igienico-sanitarie, mentre lo svolgimento delle attività in comune in ambito detentivo è valorizzata nell’ottica di una tendenziale funzione rieducativa della pena, che non può essere del tutto pretermessa neppure di fronte ai detenuti connotati da allarmante pericolosità sociale, come appunto quelli sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41bis Ord. Pen”. La Corte di Cassazione ha quindi recentemente riconosciuto ai carcerati sottoposti al 41bis il diritto a due ore d’aria più una di socialità. Stando alla protesta del detenuto Alessio Attanasio, al momento ciò a Spoleto non avviene. Carcere duro per Provenzano: la Corte Ue condanna l’Italia Ansa, 25 ottobre 2018 Tenerlo in regime di 41bis fino alla morte "trattamento inumano e degradante". La sentenza del tribunale per i diritti umani fa riferimento al regime di 41 bis applicato al boss malato dal 2016 fino al giorno della sua morte. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia perché decise di continuare ad applicare il regime duro carcerario del 41bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo 2016 alla morte del boss mafioso. Secondo i giudici, il ministero della giustizia italiano ha violato il diritto di Provenzano a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Allo stesso tempo la Corte di Strasburgo ha affermato che la decisione di continuare la detenzione di Provenzano non ha leso i suoi diritti. Cappellani carceri: “grazie a Papa Francesco si è creato un ponte tra dentro e fuori” di Gigliola Alfaro agensir.it, 25 ottobre 2018 In 230 hanno partecipato alla terza edizione dell’incontro, che si è svolto a Montesilvano, in provincia di Pescara, dal 22 al 24 ottobre. Tra i temi affrontati, percorsi di fede, ecumenismo e dialogo interreligioso con detenuti di altre confessioni e religioni, giustizia riparativa, giovani, reinserimento. Una grande partecipazione ha caratterizzato il terzo convegno nazionale dei cappellani e degli operatori pastorali nelle carceri: 230 persone si sono riunite da lunedì 22 a mercoledì 24 ottobre a Montesilvano (Pe) per riflettere sul tema “Chiesa riconciliata in carcere”. Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, fa un bilancio dell’incontro per il Sir. Don Raffaele, quali temi avete messo a fuoco durante il convegno? L’appuntamento ci ha permesso di spaziare sui temi che ci stanno più a cuore e sui problemi che affrontiamo quotidianamente nelle nostre carceri, come il cammino di fede da proporre nelle carceri, in un tempo in cui si registra la crisi di un rapporto con Dio. In questo noi cappellani siamo accomunati alle difficoltà che incontrano tanti parroci. Al tempo stesso, siamo artefici di ecumenismo e di dialogo interreligioso, perché curiamo molto il rapporto con le altre confessioni e religioni nelle carceri. In questo senso, però, sarebbe anche opportuna una formazione adeguata per avviare un miglior dialogo. Tra le attenzioni al centro del convegno, anche la giustizia riparativa? Certamente, è un tema che interpella tutti gli operatori, non solo noi cappellani, perché tutti vorremmo avviare dei cammini di riconciliazione. Ne parliamo da anni, ma c’è sempre difficoltà: se non c’è reale volontà di incontro e un’attenzione reciproca, con il desiderio di riconoscere il proprio errore, da un lato, e di perdonare, dall’altro, questo discorso è fallimentare. È un problema anche di cultura, di sensibilità, al quale noi stiamo cercando di dare il nostro contributo creando gruppi formati per questo tipo di mediazione. Ma le leggi non ci aiutano. Con il Sinodo che volge ormai quasi al termine, si è parlato anche di giovani? Proprio in occasione del Sinodo, noi cappellani abbiamo chiesto che la pastorale giovanile entrasse nelle carceri per rapportarsi ai giovani detenuti, avviando un dialogo tra coetanei. In alcune diocesi il nostro appello è stato accolto e i giovani delle diocesi hanno incontrato i ragazzi ristretti, in particolare durante il pellegrinaggio verso Roma, intrapreso in occasione dell’incontro di Papa Francesco con i giovani italiani ad agosto scorso. Ora chiediamo un’attenzione più costante da parte dei giovani, che non si limiti ad un evento unico. Quanto è difficile il reinserimento dei detenuti anche nelle nostre comunità? È necessaria una maggiore attenzione delle parrocchie ad accogliere giovani che escono dal carcere. Noi all’interno delle carceri cerchiamo di creare delle comunità, riflesso di quelle che i detenuti dovrebbero trovare fuori. Per agevolare gli ex ristretti che vogliono continuare un percorso di fede nelle nostre comunità parrocchiali c’è bisogno dell’accoglienza e dell’attenzione; viceversa, devono mancare il pregiudizio e la paura. Nei giorni scorsi i Radicali hanno denunciato già 50 suicidi tra i detenuti nel 2018… Il carcere deve essere una realtà ben vigilata. E questo non solo a vantaggio dei detenuti, ma anche della polizia penitenziaria. Infatti, quest’anno ci sono stati suicidi anche tra gli agenti. La realtà del carcere è sempre contraddistinta dall’emarginazione. Tanti suicidi avvengono perché c’è poca attenzione verso le fasce più deboli e ciò è dovuto anche alla mancanza di personale e di educatori all’interno degli istituti. Episodi di violenza sono avvenuti nei giorni scorsi, come la rissa a Terni tra detenuti o l’aggressione a personale medico e agenti a Marassi… Queste tensioni all’interno delle carceri ci saranno sempre perché non sono luoghi sereni: le persone che scontano una pena si sentono mortificate nella loro dignità. Pesa anche la scarsità di attività trattamentali, di incontri con educatori e volontari, di possibilità di lavoro e di progetti. Grande sgomento ha causato l’uccisione dei due figli da parte della madre detenuta a Rebibbia. Come ovviare a questi drammi? I bambini non dovrebbero stare nelle carceri. Sarebbe necessaria un’attenzione particolare verso le madri che hanno dei bambini in prigione con loro. Di qui la necessità di strutture ad hoc dove sia garantita la vigilanza delle detenute, ma anche la libertà dei piccoli. Ora si è fatto anche un passo indietro sulla facilitazione delle misure alternative… Per tutta quella fascia di popolazione carceraria, che non si è coperta di gravi reati, è importante un lavoro, per riappropriarsi della vita e del futuro. Lo Stato e la società civile dovrebbero dare delle risposte concrete, perché la recidiva si abbassa molto quando si offrono reali occasioni di riscatto. La Chiesa di Papa Francesco cosa sta facendo per il pianeta carcere? Noi continuamente ringraziamo il Pontefice. Da quando ha iniziato il suo ministero ha aperto il cuore della misericordia a molti, entrando nelle carceri e risvegliando le coscienze di molti, nella politica e tra la società civile. Il Giubileo della misericordia ci ha dato un grande aiuto: molte comunità esterne sono entrate in carcere creando un ponte tra dentro e fuori. Ci sono nuove iniziative in cantiere? Stiamo cercando di promuovere in tutte le regioni italiane la Giornata della misericordia, con il coinvolgimento, oltre che dei cappellani, della magistratura, delle direzioni, dei volontari, dei religiosi. La Giornata dovrebbe coincidere con la Domenica della Misericordia, che è quella successiva alla Pasqua. Già diverse regioni hanno aderito all’iniziativa, come Campania, Sicilia, Calabria, Marche. Per adesso, la Giornata si svolge a macchia di leopardo, ma l’intento è di far aderire tutte le regioni per dare un messaggio forte alla società e alla politica affinché ci sia una maggiore attenzione al mondo del carcere. Queste sono le riforme che vogliamo di Valter Vecellio lindro.it, 25 ottobre 2018 Mentre gli avvocati sono sul piede di guerra, ancora condanne dalla Corte di Giustizia europea. “No allo stop della prescrizione, processi più corti e meno demagogia”. Ha le idee chiare l’appena eletto presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Gian Domenico Caiazza. Chiaro il programma e carattere combattuto, da mastino che sa coniugare realismo duttile con intransigenza difesa di valori. Lo dimostra nelle aule dei tribunali di mezza Italia, nelle difese dei suoi clienti; lo ha dimostrato quando ha guidato la Camera penale di Roma; e, ultimo non ultimo, da segretario della Fondazione Enzo Tortora. Caiazza si dice ben consapevole del fatto che si vivono “tempi durissimi, in cui sono in discussione le garanzie delle persone”, e si rammarica per il fatto che la pubblica opinione “non percepisce questo allarme, pensa che la reazione securitaria li metta al sicuro. Invece i diritti in gioco sono i loro. Ci si accorge di che cosa significa un Paese che non rispetta le regole del processo penale solo quando ci si finisce dentro. Solo allora si scopre il valore della presunzione di non colpevolezza e della libertà personale”. Intervistato da Il Tempo riconosce: “C’è una maggioranza schiacciante su posizioni opposte alle nostre. Abbiamo di fronte uno schieramento populista e giustizialista molto compatto e intorno il deserto, a parte l’eccezione dei radicali. Non c’è più niente, non c’è una sponda. Dobbiamo cercare di riunificare le forze politiche sparpagliate e nascoste”. Non saranno giorni facili. Un segnale, certamente non positive, viene da via Arenula, sede del ministero di Giustizia. Il ministro Alfonso Bonafede, non certo per caso, ha disertato il congresso. Uno sgarbo istituzionale, lo definisce Caiazza. Un minimo di dialogo comunque ci dovrà inevitabilmente essere; più diplomazia da parte del ministro, sarebbe stata cosa saggia. Forse qualche suggerimento sulla questione delle carceri, che gli sta esplodendo in mano, potrebbe gli poteva tornare utile. Sul tappeto i contrasti e i dissensi sono tanti. Paziente, Caiazza li elenca: “Chi vuole fermare i tempi della prescrizione si assume la responsabilità di decuplicare la durata del processo penale. I ruoli dei tribunali, delle corti d’appello e della Cassazione si affollano perché c’è il rischio della prescrizione. In alternativa si lavorerà meno e i processi si allungheranno ancora di più. Nel nostro Paese la prescrizione raggiunge già un numero di anni insensato. È scandaloso che uno venga imputato di rapina aggravata a 20 anni e possa essere processato fino a 40. Abbiamo bisogno di accorciare i tempi del processo, non di finire di sfasciarlo”. Caiazza annuncia poi le future iniziative: “Vogliamo avere assicurazioni circa la calendarizzazione della discussione del nostro disegno di legge sulla separazione delle carriere dei magistrati. Non è più un’istanza degli avvocati, ma di 71 mila cittadini. La magistratura è compatta contro questa nostra proposta; noi lanciamo un guanto di sfida: la Costituzione impone la terzietà del giudice rispetto al Pubblico Ministero e il difensore. Ai magistrati non vi piace la nostra proposta? Ci dicono qual è la loro, per rispondere al dettato costituzionale”. La giustizia continua a essere un’emergenza. I processi civili e penali del nostro Paese continuano a essere celebrati con esasperante lentezza. Il settimo rapporto della Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (Cepej), fornisce un quadro allarmante e avvilente. Nel 2016, la durata media in primo grado di un procedimento civile-commerciale è stata di 514 giorni; peggio di noi solo la Grecia (610), e la Bosnia-Erzegovina (574). Nel campo penale si è registrato qualche miglioramento; non sufficiente per perdere il primato nella lunghezza dei procedimenti in primo grado. Il raffronto con la media dei paesi europei è quanto mai significativo: 233 giorni in primo grado (in Italia più del doppio); 244 in secondo (in Italia quasi il quadruplo); 238 nell’ultimo (in Italia si sfiora il quintuplo). Non solo i processi. Le carceri italiane sono vere e proprie polveriere. Quelli che seguono sono dati ricavati dal quattordicesimo rapporto dell’associazione Antigone. La sovrappopolazione carceraria è ormai un dato uniforme e costante. Nella romana Regina Coeli il tasso di sovraffollamento del 156,1 per cento. A Como il tasso è del 200 per cento; a Taranto del 190 per cento. I detenuti sono passati dai 56.289 del marzo 2017 ai 58.223 del marzo 2018. Il tasso di suicidi dietro le sbarre è salito dall’8,3 del 2008, al 9,1 del 2017: in numeri assoluti significa passare da 46 morti del 2008 a 52 morti del 2017. Prima di chiudere questa nota, la storia di Antonio Saladino, morto il 18 marzo scorso nel carcere Arghillà di Reggio Calabria. La madre e la sorella attendono ancora che si faccia piena luce sul caso: “Della morte noi avvisati solo il giorno dopo da un prete”. La procura ha disposto l’autopsia ma, ancora le due donne attendono le risultanze del medico legale. “Non so cosa sia successo, so solo che allo Stato ho dato un figlio vivo e me l’ha restituito morto”. Racconta la sorella: “Mio fratello da circa un mese non stava bene, aveva sempre la febbre. Quel giorno in particolare vomitava anche. Ora io mi chiedo: ma se stava male fin dal mattino perché solo la sera tardi hanno richiesto l’intervento del 118? Non potevano richiederlo prima?”. Quando arrivano i sanitari del 118 l’unica cosa che possono fare è constatarne il decesso.infatti, giungeranno presso il carcere reggino non potranno fare altro che constatare il decesso. “La magistratura ci dica come è morto. Vogliamo sapere solo questo”. “Quella sera - racconta la sorella - hanno fatto solo una telefonata a mia madre, intorno all’una di notte, che purtroppo non ha risposto vista l’ora e poi non hanno più richiamato. Solo il giorno dopo un prete è venuto ad avvisare e non l’ha detto neanche a noi direttamente ma, ad alcuni familiari perché quella mattina sia io che mia madre non eravamo in casa”. Tra stampa e magistratura né guerre né flirt di Renato Balduzzi Avvenire, 25 ottobre 2018 Nelle forme di Stato di derivazione liberale, come quella italiana ancora vigente, il ruolo degli organi di informazione nella costruzione dell’opinione pubblica è sempre stato considerato decisivo, e la dialettica tra stampa (l’insieme degli organi e strumenti di informazione e comunicazione) e detentori del potere politico è normalmente intesa come strutturale alla vita democratica. Più complesso è il rapporto tra stampa e magistratura. L’autonomia e l’indipendenza della seconda sono un principio costituzionale irrinunciabile, un principio supremo al quale si legano altre scelte del Costituente: in primis, l’istituzione del Csm e la presidenza del medesimo affidata al Capo dello Stato, a suggello e conferma della posizione di garanzia e super partes che il presidente della Repubblica riveste nella nostra forma di governo. L’indipendenza della stampa, la sua obiettività come requisito per una libertà dell’informazione e per un diritto all’informazione effettivi e non soltanto proclamati, sono esigenze imprescindibili della vita democratica. Pur non potendo l’ordinamento esigere, in via generale, tale indipendenza attraverso norme cogenti, ma solo garantire la libertà della stampa e degli altri media come esplicazione della più generale libertà di manifestazione del pensiero (anche in forza del possibile intreccio con la libertà di iniziativa economica), è intuitivo che la qualità della convivenza civile deve molto alla qualità e alla professionalità degli operatori della comunicazione, alla loro capacità di mettere i destinatari dell’informazione nelle condizioni di potere apprezzare i comportamenti di tutti gli attori istituzionali. Da qui l’indispensabilità di una corretta relazione tra media e magistratura, sia per consolidare la necessaria fiducia della generalità dei cittadini verso chi amministra la giustizia (in nome del popolo), sia per sminare alla base tentazioni di protagonismo improprio dei magistrati. Di questi temi si è discusso nella sede del Csm nell’ultimo dei “Martedì” dell’Associazione Bachelet, commentando la deliberazione del luglio scorso con cui il Consiglio ha dettato linee guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari in tema di comunicazione istituzionale. L’esigenza che la magistratura rispetti la specificità della professione del giornalista, soprattutto in ordine alla riservatezza sulle fonti, deve combinarsi con l’esclusione di rapporti preferenziali tra un magistrato e questo o quel professionista dell’informazione: su ciò hanno convenuto i molti partecipanti, sia le introduzioni di Marco Damilano e Luigi Ferrarella, sia i numerosi interventi (Balduzzi, Ermini, Mammone, Fuzio, Canzio, Lipari, D’Ambrosio, Bruti Liberati). Insomma: tra stampa e magistratura è bene non vi siano guerre, ma neanche flirt. La legittima difesa azzera la valutazione del giudice di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2018 Quello che non riuscì nel 2006 all’allora Lega Nord di bossiana conduzione, perché disinnescato dalla magistratura nell’applicazione, può invece essere centrato senza troppi sforzi alla Lega di Matteo Salvini: una riforma della legittima difesa che azzeri i margini di discrezionalità dei giudici. Ieri il Senato, con 195 voti a favore e 52 contrari, ha approvato il disegno di legge, che ora passa alla Camera con obiettivo approvazione finale entro dicembre, che riscrive l’articolo 52 del Codice penale. E lo fa precisando che nei casi di legittima difesa domiciliare si considera “sempre” esistente il rapporto di proporzionalità tra la difesa e l’offesa. Oggi invece la valutazione sulla proporzionalità è comunque riservata all’autorità giudiziaria. Si precisa inoltre, casomai non fosse già chiaro, aggiungendo un comma all’articolo, che agisce sempre in stato di legittima difesa chi, all’interno del domicilio ma anche dei luoghi di lavoro, respinge l’intrusione da parte di una o più persone “posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica”. Esulta allora con un tweet il ministro dell’Interno Matteo Salvini: “La difesa è sempre legittima! Dalle parole ai fatti”. Un po’ più problematica la riscrittura dell’eccesso colposo di legittima difesa che sembrerebbe lasciare uno spazio alla magistratura per valutare quello “stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”, tanto che a votarla è stato anche il Pd. Scelta peraltro criticata da Pietro Grasso, senatore LeU, che collega il consenso di oggi alla proposta di ieri, cioè a quel “turbamento notturno” che, nella passata legislatura aveva fondato una proposta di riforma targata Pd. A valorizzare questo punto è anche il presidente dell’Anm, Francesco Minisci: “Le indagini per capire come si è svolta la vicenda devono essere sempre fatte, ciò a tutela e a garanzia di tutti, anche se si è aggiunto l’avverbio “sempre”. E sotto questo profilo è evidente che l’introduzione nel sistema del concetto di “grave turbamento” dimostra chiaramente che per accertarne la sussistenza occorre fare un’indagine, non c’è spazio per alcun automatismo”. Si interviene anche sul Codice Civile, escludendo la possibilità che chi è uscito assolto in sede penale dal reato di eccesso di legittima difesa, sia obbligato a rimborsare il danno causato dal fatto. Esteso poi il gratuito patrocinio a favore di chi è stato prosciolto a vario titolo per fatti commessi in stato di legittima difesa. Del disegno di legge fa poi parte anche un generale innalzamento delle sanzioni a carico dei colpevoli dei reati di furto, rapina e violazione di domicilio. Legittima difesa, ok del Senato. Il “turbamento” esclude la colpa di Dino Martirano Corriere della Sera, 25 ottobre 2018 Con la nuova modifica dell’art. 52 del Codice penale, voluta dalla maggioranza giallo-verde, la magistratura avrà meno paletti per chiedere l’archiviazione del fascicolo. Sulla “difesa sempre legittima”, il dissenso interno al M5S si è dissolto come neve al sole e la coalizione giallo verde ha raccolto pure i voti di Forza Italia e di Fratelli d’Italia. Al Senato - dove è stato approvato in prima lettura (195 sì, 52 no, 1 astenuto) il disegno di legge fortemente voluto da Matteo Salvini - Lega e M5S hanno allargato l’intesa a una “maggioranza securitaria”: tutto il centrodestra e il movimento di Grillo stavolta uniti per introdurre paletti più robusti a tutela di chi, in casa propria e con un arma legittimamente detenuta, reagisce a una rapina. “Sono felicissimo, un’altra promessa mantenuta con gli italiani”, ha commentato Salvini. All’articolo 2 è passato il principio del “grave turbamento”, come causa di non punibilità per chi si difende in casa. Un meccanismo condiviso dal Pd che anni fa, con la legge Ermini, aveva proposto per primo la causa di giustificazione legata al “turbamento” e “all’intrusione notturna” nelle case. Il Pd ha poi votato no sull’intero testo perché, ha detto la vice presidente del Senato Anna Rossomando che si è astenuta sull’articolo 2, “il governo crea allarme sociale”. È andato oltre il capogruppo Andrea Marcucci: “Sarà il Far West”. Perfido l’ex presidente del Senato Pietro Grasso (Leu): “Sorprende il voto del Pd insieme alla Lega sull’articolo 2 pur di non sconfessare il precedente “turbamento notturno”. La proporzionalità c’è “sempre” - Per i magistrati sarebbe così più facile chiedere l’archiviazione del procedimento a carico di chi reagisce in casa con le armi: è “sempre” sussistente “il rapporto di proporzionalità tra difesa e offesa... per chi, all’interno del domicilio o nei luoghi ad esso equiparati, respinge l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di suo delle armi”. Aumentate le pene per furto e violazione di domicilio e varato il gratuito patrocinio per chi invoca legittima difesa. “È un passo in avanti nella civiltà del diritto, un grande successo - precisa il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone (Lega) - non è il via libera per i giustizieri “fai da te”. La Lega però avrebbe pagato un pegno al M5S, come ha scoperto Giacomo Caliendo (FI): “Con la previsione, anche quando c’è la legittima difesa riconosciuta, di un risarcimento da valutare in sede civile”, per il rapinatore ferito o per gli eredi se ci è scappato il morto. L’effetto sulle indagini - “Abbiamo votato sì ma alla Camera chiederemo l’inversione dell’onere della prova per un vero diritto alla difesa”, ha detto la capogruppo azzurra Anna Maria Bernini. Il M5S si è affidato alle parole molto tecniche di Francesco Urraro, presidente degli avvocati di Nola: erano suoi i 3 emendamenti ritirati perché non graditi dalla Lega. Francesco Minisci, presidente dell’Anm, si rallegra perché il testo recepisce molti rilievi dei magistrati. Ma chiarisce: “Anche con l’avverbio “sempre”, per la legittima difesa non ci sono automatismi. Le indagini andranno sempre fatte...”. Sulla legittima difesa evitate inganni: chi uccide sarà comunque indagato di Gian Domenico Caiazza* Il Dubbio, 25 ottobre 2018 Lettera aperta ai parlamentari che dovranno riesaminare la legge votata ieri in Senato: ricordate che non c’è modo di creare una zona franca per chi compie un omicidio: dovranno essere sempre un pm e un giudice, per ogni singolo caso, a riconoscere che si è stati costretti a uccidere. Illustri Deputate e Deputati, dalle cronache parlamentari apprendiamo che il Senato della Repubblica ha approvato il disegno di legge in tema di legittima difesa senza introdurre alcuna modifica, e che anche il via libera da parte della Camera sarebbe ugualmente scontato e il dibattito in Aula una mera formalità. Noi nutriamo un rispetto autentico verso le istituzioni democratiche, sicché rifiutiamo l’idea stessa di dover considerare la discussione parlamentare una inutile ritualità. L’Unione delle Camere Penali ha già interloquito - audita dalla Commissione Giustizia del Senato poche settimane fa - sugli aspetti più strettamente tecnici del testo, sviluppando osservazioni (non esclusivamente critiche, aggiungo: mi riferisco all’intervento sull’eccesso colposo, ed a quello delle spese processuali dell’indagato poi prosciolto) che restano a Vostra disposizione, e che auspico possano utilmente contribuire ad un dibattito parlamentare serio e costruttivo. Consentitemi allora di richiamare la Vostra attenzione non più sul dettaglio tecnico, ma su profili più generali di razionalità di questo intervento normativo. Voi state intervenendo sulla definizione normativa di una causa di giustificazione, la cui applicazione entra in gioco in presenza di una condotta che riveste tutti i connotati oggettivi di una condotta criminosa. Commetto un omicidio, ma in condizioni e per ragioni tali da esserne giustificato e dunque non punito. Ora, l’argomento politico che ha accompagnato questa proposta di riforma è sin dall’inizio, e nella stessa relazione che accompagna il testo, molto esplicito: si vuole impedire che la vittima - nell’esempio più classico - di una tentata rapina nella propria abitazione, che abbia reagito sparando ed uccidendo il rapinatore, debba subire altresì l’onta di essere, anche solo per una fase iniziale ed ipotetica, indagata per il reato di omicidio. Si tratta - ne converrete - di una argomentazione schiettamente emotiva, perché mira a proteggere quella vittima non da una conseguenza afflittiva o addirittura punitiva, ma ben prima dal semplice rischio - considerato moralmente iniquo - di poter essere fatto oggetto di una mera ipotesi di responsabilità omicidiaria. Ebbene, sappiate che - molto semplicemente - non c’è modo alcuno di ottenere per previsione normativa una zona franca che faccia salvo il cittadino dalla valutazione giurisdizionale di un proprio comportamento che abbia i connotati oggettivi di una condotta criminosa. Non è possibile - come dire - concettualmente. Una causa di giustificazione si applica al caso concreto. È (appunto!) la giustificazione di un fatto - la soppressione di una vita umana, per stare nell’esempio - che è in sé illecito. Una volta accaduto il fatto drammatico, chi e come dovrebbe secondo Voi stabilire se, per esempio, l’aggressore sia davvero entrato contro la volontà del padrone di casa? Se la effrazione non fosse preesistente al fatto? Se le intenzioni del presunto aggressore non siano state clamorosamente fraintese? E potremmo continuare a fare esempi all’infinito. Non c’è avverbio, locuzione, formulazione di una norma o di una fattispecie astratta che possa sottrarci alla valutazione di un P.M. prima e di un Giudice dopo in ordine quantomeno alla materiale ricostruzione della condotta (astrattamente illecita) che affermiamo di aver tenuto o che attribuiamo ad altri nei nostri confronti. Per fare la qual cosa, un P. M. dovrà inevitabilmente iscrivere il materiale autore dell’omicidio nel registro degli indagati. Dunque, Voi state discutendo di un disegno di legge irrazionale nelle premesse, irrealizzabile nelle sue dichiarate finalità, ingannevole nei confronti delle “aspettative di giustizia” della pubblica opinione alla quale intendete rivolgervi. Sia ben chiaro: i penalisti italiani, come abbiamo con chiarezza argomentato in sede d’audizione parlamentare, sono fieramente contrari a questo disegno di legge per ragioni di principio ben più radicali. Guardiamo con grande preoccupazione, ed anzi con profonda indignazione, al crescente costume di dare in pasto ad una opinione pubblica eccitata ed impaurita ad arte norme penali “manifesto”, attente solo al facile consenso popolare. Ma possiamo almeno chiedere alle Deputate e ai Deputati di riflettere sulla razionalità di questo intervento normativo? Sulle concrete aspettative di efficacia che è lecito attendersi dalla sua approvazione? Sul dovere, davvero elementare e direi fondativo del nostro patto sociale, di non ingannare cinicamente la pubblica opinione? Vi ringrazio per l’attenzione che avrete voluto prestare a queste brevi riflessioni, e formulo i più sinceri auguri di buon lavoro. Con viva cordialità. *Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Paura e violenza, le voragini nelle nostre città di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 25 ottobre 2018 Da dopo il caso di Pamela Mastropietro, non molto sembra cambiato in Italia. La questione migratoria e la questione delle periferie (non solo geografiche, San Lorenzo e i Giardini Diaz certo non lo sono) restano intrecciate e irrisolte. I sociologi li chiamano interstizi urbani. Chi ci vive attorno sa che sono voragini di paura, crepe dolenti nel tessuto delle nostre città: posti così hanno inghiottito Desirée Mariottini e, in circostanze assai simili, Pamela Mastropietro. Reca infatti con sé la terribile suggestione del dejà vu e il grave fardello dell’emergenza sociale non risolta dalla politica la fine inaccettabile della ragazzina di Cisterna di Latina. Salita a Roma per una serata di divertimento e forse di sballo, in quella San Lorenzo che fu borgata operaia e ora è uno dei molti cuori della movida capitolina, Desirée è stata drogata, abusata e uccisa dentro un palazzo abbandonato di via dei Lucani. Lì, da tempo, si sono installati gli spacciatori della nuova eroina, soprattutto nordafricani e nigeriani. Nulla di segreto, intendiamoci: gli abitanti della zona avevano mandato persino filmati e foto dei pusher alle forze dell’ordine chiedendo invano lo sgombero di quelle baracche che dovevano diventare appartamenti residenziali e, abbandonate per un contenzioso amministrativo, si sono trasformate in inferno quotidiano. Ieri Matteo Salvini, venuto in via dei Lucani “a deporre una rosa”, ha sperimentato per la prima volta la scomoda posizione di chi sarebbe tenuto - essendo da cinque mesi ministro dell’Interno - a risolvere i problemi più che a denunciarli. Tra i consueti applausi ha raccolto i primi fischi e insulti (“sciacallo”), forse neppure tutti provenienti dagli antagonisti schierati davanti al palazzo; s’è cavato dall’impaccio promettendo - come quand’era all’opposizione - di tornare con la solita ruspa e additando altrui (presunte) responsabilità: della Procura, “cui ho chiesto il pugno di ferro, perché ciascuno deve fare la sua parte” e dei privati, “che abbattano gli stabili abbandonati”. In realtà, al di là dei proclami sempre identici, si inizia a intravedere un’imbarazzante linea di continuità nella gestione della materia, quasi un testimone passato da un governo all’altro nella difficoltà di agire. Perché tutto è, ed era, sotto i nostri occhi. Non era un mistero per nessuno, un anno fa, che gli spacciatori nigeriani (alcuni fuorusciti dal sistema Sprar e diventati “fantasmi” per la nostra burocrazia) si fossero impossessati dei Giardini Diaz di Macerata, creando lì il crepaccio urbano dove il 30 gennaio 2018 Pamela Mastropietro è precipitata incontrando il pusher accusato della sua morte, Innocent Oseghale. Sul destino della diciottenne romana e sullo strascico del raid razzista di Luca Traini, “approvato” da una non piccola parte della città, si giocò l’ultimo brandello della campagna elettorale. In tutti questi mesi non molto sembra cambiato in Italia. La questione migratoria e la questione delle periferie (non solo geografiche, San Lorenzo e i Giardini Diaz certo non lo sono) restano intrecciate e irrisolte. C’erano in giro (fonte Commissione parlamentare) seicentomila “invisibili”, migranti irregolari fuorusciti dal nostro sistema d’accoglienza e naturalmente concentrati nelle aree di disagio. Salvini, prima del 4 marzo, promise di rispedirli tutti indietro in tempi brevi. Di recente ha sostenuto che molti di essi “sono già andati via”, non si sa su quali basi. La realtà è nelle nostre stazioni, nei nostri parchi, sotto gli occhi dei cittadini che sperimentano quanto attuali siano le diagnosi riferite dai sociologi della Scuola di Chicago a un altro convulso periodo, i primi trent’anni del secolo scorso: “Le nostre grandi città rigurgitano di rifiuti, molti dei quali umani, cioè uomini e donne che per un motivo o per l’altro non sono riusciti a stare al passo con il progresso industriale”. Si sostituisca “industriale” con “globale” e si avrà un quadro assai prossimo al presente. E qui, dunque, s’incrocia la grande, e attualissima, questione urbana. La periferia, intesa anche come marginalità economica e sociale, sarebbe la vera sfida del cambiamento, visto che in condizioni “periferiche” vivono circa 15 milioni di italiani: i più in difficoltà. Mancano soprattutto strade, scuole,servizi, ovvero il tessuto che servirebbe a rammendare gli interstizi urbani da troppo tempo abbandonati (si pensi che dal 2007 al 2017 gli oneri di urbanizzazione sono stati distratti dai Comuni in rosso per farne spesa corrente). Che il governo abbia congelato, per le note ragioni di bilancio, un miliardo e 600 milioni destinati dalla precedente maggioranza al Bando periferie non sembra una buona idea. Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno un merito storico: lo sdoganamento di parole come “paura” e “povertà” che, per quanto sentite nella carne dalla gente, erano di fatto cancellate dal dizionario dei governi a guida Pd. Ma evocare un problema non equivale a risolverlo: il rischio è che presto gli italiani debbano accorgersene, assieme ai loro nuovi leader. Sicurezza, si apre il caso Roma. Un fermo per l’omicidio Desirée di Simone Canettieri Il Messaggero, 25 ottobre 2018 Più poteri al sindaco di Roma. Con “più fondi per la prevenzione dei reati” ma anche più “potere di sgomberare “immobili occupati in pieno centro” e riaccompagnare gli immigrati nei centri. In generale “più poteri su sicurezza e ordine pubblico”, “più forze di polizia”. Dopo una giornata convulsa per Roma - che si sveglia con i particolari della tragica fine di Desirée Mariottini - il vicepremier Luigi Di Maio interviene a sostegno di Virginia Raggi. E annuncia appunto una serie di provvedimenti per la Capitale. Di Maio fa sul serio e annuncia che dalla prossima settimana sarà inserito nel dl sicurezza, in discussione al Senato, “un emendamento per iniziare ad ampliare i poteri di Roma Capitale e del suo sindaco”. La sindaca Raggi coglie l’assist - il post su Facebook del leader M5S - e rilancia: “Roma ha diritto ad avere più poteri - dice - ad avere almeno duemila agenti di polizia locale in più. Ma devono arrivare presto. Così come i 250 agenti annunciati oggi dal Viminale”. I fari del governo si accendono su Roma dal mattino, da quando l’altro vicepremier e ministro dell’Interno, Matteo Salvini partecipa al Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. Sul tavolo del prefetto c’è appunto la morte della sedicenne, drogata e violentata dal branco in uno stabile abbandonato nel quartiere di San Lorenzo, ma anche la vicenda delle occupazioni. E cioè 90 palazzi. Su sei di questi c’è un’intesa per procedere subito con gli sgomberi. Per quanto riguarda Casapound, Salvini fa capire che ci sono casi più urgenti da cui partire. E che ce ne sono in generale altri “23 che hanno un procedimento giudiziario in corso e che quindi saranno la seconda priorità”. Terminato il comitato in Prefettura la scena si sposta in via dei Lucani, una piccola traversa di San Lorenzo, dove il ministro dell’Interno ha fatto sapere - ore prima - che passerà per deporre una rosa davanti al cancello dello stabile dove è morta la sedicenne. Ad attenderlo ci sono i residenti, una cinquantina di ragazzi legati ai centri sociali, rappresentanti dell’Anpi, parlamentari della Lega, il collettivo femminista “Non una di meno” e un centinaio di operatori dell’informazione. La via, stretta, è blindata dagli agenti di polizia. Appena Salvini scende dall’auto iniziano i cori di protesta. Tipo: “Sciacallo, sciacallo”. Oppure: “Fuori Salvini dai quartieri”. Ma non ci sono solo le contestazioni, i residenti, soprattutto donne, applaudono e incitano il titolare del Viminale. Altre grida: “Vai avanti così, solo tu ci puoi salvare”. E ancora: “L’Italia agli italiani”, “Sei l’unico che è venuto nel nostro quartiere”. C’è anche chi spara nell’aria frasi così: “Ci vuole zio Benito”. L’effetto è quello di una sfida tra ultras. Salvini prova ad avanzare, circondato da una selva di telecamere. E dice: “Si sta lavorando per mettere questi vermi in galera”. Promette quindi “un piano straordinario di sgomberi”, ricordando che nello stabile di via dei Lucani, “che appartiene peraltro ad una Srl amministrata dal fratello di Walter Veltroni”, la forza pubblica “è dovuta intervenire sette volte ed ora c’è stato il morto”. Alla fine per non creare incidenti - mentre le opposte tifoserie si insultano - il ministro decide di andar via. “Se ci sono 30 ragazzotti dei centri sociali che preferiscono gli spacciatori ai residenti, è un problema loro. Tornerò con la ruspa”. Nel pomeriggio, senza clamore, Salvini ritorna a San Lorenzo ma con una rosa per Desirée. Nicola Zingaretti, governatore e candidato alla segreteria del Pd: “Le ruspe spostano il problema di 300 metri: spiace che il ministro abbia usato quel luogo di tragedia come palcoscenico per il suo ennesimo comizio”. In serata la mossa di Di Maio, la notte è scesa su Roma, rimane la scritta sul cancello dedicata a Desirée: “San Lorenzo non ti dimentica”. Dalla mafia non se ne esce? di Massimo Bordin Il Foglio, 25 ottobre 2018 Perché forse è venuto il momento di rivedere la logica della legislazione antimafia. La storia paradossale denunciata da Rita Bernardini e raccontata da Damiano Aliprandi sul Dubbio due giorni fa riguardava un ex detenuto, per di più riabilitato legalmente, cui è stato negato il posto di lavoro in una cooperativa di ex detenuti perché pregiudicato. La motivazione appare da un lato surreale, dall’altro del tutto illegale, se davvero, come scrive Aliprandi, la procedura di riabilitazione andata a buon fine. Quello che, se non spiega, motiva il bizzarro provvedimento è il reato per il quale l’aspirante cooperatore era stato condannato: associazione di stampo mafioso. Per capire occorre considerare le misure antimafia e i rischi in cui può incorrere una impresa che abbia fra i suoi dipendenti uno con un cognome effettivamente ingombrante e precedenti di quel tipo. Il punto chiave della questione sta nella logica della legislazione antimafia che, pensata prima del pentimento di Buscetta, prospettava l’appartenenza alla mafia come una scelta senza ritorno. La conseguenza logica era considerare il mafioso come irredimibile. Una scelta legislativa senza dubbio in contrasto con i princìpi, e la lettera, della Costituzione ma non per questo infondata. Almeno a quei tempi. Si tratta di capire se oggi sia possibile, sempre sulla base empirica che motivava se non giustificava quella evidente eccezione, rivedere il concetto alla base di quella legge. È evidente che il tema è delicatissimo e scivoloso, e non è detto che sia facilmente risolvibile, ma prima o poi bisognerà farci i conti. Cucchi, la frase choc del carabiniere: “Sta male? Magari morisse” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 ottobre 2018 La riunione coi vertici dopo la morte: pareva gli alcolisti anonimi. A raccontare l’inquinamento delle prove sono altri carabinieri coinvolti nella vicenda: in primis il luogotenente inquisito per falso che ha rivelato la manomissione dei resoconti. La notte fra il 15 e il 16 ottobre 2009, quando Stefano Cucchi si trovava in una camera di sicurezza della stazione carabinieri di Tor Sapienza a Roma, il capoturno della centrale operativa dell’Arma chiamò la stazione Appia, da dove venivano i militari che lo avevano arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti. “Sta andando al Policlinico, dice che si sente male, c’ha attacchi epilettici e compagnia bella”, disse. E l’altro carabiniere rispose: “E vabbè, chiamasse l’ambulanza... Magari morisse, li mortacci sua...”. A pronunciare questa frase, secondo gli investigatori fu l’allora appuntato scelto Vincenzo Nicolardi, oggi imputato al processo Cucchi per calunnia: al dibattimento contro gli agenti penitenziari (poi assolti) disse che Cucchi quella sera “camminava bene, era in condizioni normali, tranquillissimo proprio”. Sfortunatamente per Cucchi e molti altri, l’auspicio (con insulto) di Nicolardi si avverò una settimana più tardi. E dal giorno dopo la morte del detenuto, all’interno dell’Arma si cominciarono a orchestrare i falsi e i depistaggi che stanno emergendo nel processo-bis attraverso la nuova indagine del pubblico ministero Giovanni Musarò. A raccontare nei dettagli l’inquinamento delle prove sono altri carabinieri coinvolti nella vicenda, testimoni e indagati, con il riscontro di recentissime intercettazioni telefoniche. Primo fra tutti il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, inquisito per falso, che la scorsa settimana ha rivelato l’origine della manomissioni delle due relazioni di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano sulle condizioni di salute di Cucchi. Avevano scritto che il detenuto denunciava “forti dolori al capo e giramenti di testa”, nonché “di non poter camminare, dolori al costato e tremore”. L’indomani, racconta Colombo Labriola, “il maggiore Soligo (suo diretto superiore, ndr) mi telefonò e mi disse che le annotazioni non andavano bene, perché erano troppo particolareggiate e venivano espresse valutazioni medico legali che non competevano ai carabinieri”. In caserma Soligo parlò con Colombo, Di Sano e Colicchio, infine fece trasmettere i due documenti via e-mail al colonnello Francesco Cavallo, all’epoca capo ufficio del Comando gruppo Roma diretto dal colonnello Alessandro Casarsa. Cavallo rispedì a Colombo due nuove versioni, scrivendo nella email: “Meglio così...”. La situazione fisica di Cucchi era stata un po’ edulcorata (spariti i riferimenti ai dolori alla testa, al costato e al non poter camminare, con l’aggiunta della tossicodipendenza), Colombo passò le relazioni a Soligo che le sottopose a Di Sano e Colicchio per la firma. Il primo accettò senza problemi, il secondo rilesse e protestò: per lui la nuova versione non andava bene. “Il maggiore Soligo cercò di farmi calmare - ha testimoniato Colicchio il 19 ottobre. Stava parlando al telefono con il colonnello Cavallo per cui me lo passò dicendogli “il carabiniere è un po’ agitato”“. Cavallo spiegò che in fondo era stata cambiata solo una frase, “ma io non volevo sentire ragioni”. Il documento falso, a differenza di quello sottoscritto da Di Sano, non fu trasmesso alla Procura, ma rimase agli atti ed è saltato fuori nella nuova inchiesta. “Non ricevetti minacce esplicite da Soligo né da Cavallo - sostiene Colicchio, però l’Arma è una struttura militare, e quando una richiesta proviene da un superiore, specie se fatta con una certa insistenza, inevitabilmente chi la riceve la vive come un’intimidazione. Per quello che percepii, anche il maggiore Soligo stava dando esecuzione ad ordini provenienti dalla sua gerarchia. La “regia” in quel momento veniva dal Gruppo di Roma”. Uscito dall’interrogatorio il carabiniere chiama la moglie e le confida: “Gliel’ho dovuto dì... mo’ se scoperchia tutto il vaso di Pandora”. In una telefonata con il fratello, intercettata il 26 settembre scorso, il luogotenente Colombo spiega i motivi del falso confezionato in un periodo, l’ottobre 2009, in cui i carabinieri di Roma erano già in imbarazzo per il coinvolgimento nel ricatto all’allora governatore della Regione Piero Marrazzo: “L’Arma ci teneva alla sua immagine... tutto il fatto “caso Marrazzo”... muore Cucchi, un secondo caso con l’Arma romana?... Perché dovete ingenerare dei pensieri sbagliati?! E fa correggere le due annotazioni...”. Al pm, Colombo ha raccontato anche i dettagli della riunione con l’allora comandante provinciale Vittorio Tomasone, alla presenza di Casarsa, Soligo, il maresciallo Mandolini (imputato al processo bis) e altri militari che avevano avuto a che fare con Cucchi. Cavallo non c’era. “Sembrava una riunione degli alcolisti anonimi - dice Colombo; ognuno si alzava in piedi e spiegava il ruolo che aveva avuto nella vicenda. Ricordo che uno dei carabinieri che aveva partecipato all’arresto di Cucchi aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro, e un paio di volte intervenne Mandolini per integrare... come fosse un interprete. A un certo punto il colonnello Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con parole sue, perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato”. L’agente penitenziario scagionato: “noi mandati al macello per coprire le colpe di altri” di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 25 ottobre 2018 “Io sono un pubblico ufficiale. Mi dica lei cosa devo pensare di chi, pubblico ufficiale come me, ha falsificato le carte per nascondere le sue responsabilità. Io posso solo dire che non sarei mai riuscito a farlo. Perché di reati, se davvero verrà accertato che le cose sono andate come sembra, ne sono stati commessi due. I falsi, certo. Ma anche quello di mandare degli innocenti al patibolo. Io e due miei colleghi siano stati a processo per sei anni per questa storia”. Nicola Minichini, assistente capo coordinatore della polizia penitenziaria, è stato imputato nel primo processo per la morte di Stefano Cucchi. Ora è parte civile, sempre assistito da Diego Perugini, nel processo bis. Come sono stati quei sei anni e cosa prova ora? “Se le dicessi che sono stati un tormento sarei riduttivo. Sono stati anni di pianti e disperazione. Ho una moglie e due figli. Uno all’epoca faceva le elementari, il maggiore le medie. Lei sa che cosa vuole dire dovere spiegare al proprio bambino che non sei un mostro? Che non è vero ciò che gli dicono, che io non ho ucciso nessuno? Lei sa cosa vuole dire camminare per le strade del quartiere e essere additato come quello che ha ammazzato un ragazzo di 30 anni? Perché, anche se tutti sanno che sono una persona perbene, il tarlo s’insinua. Anche i miei figli hanno visto quella foto di Stefano Cucchi tumefatto. Ecco, io ho dovuto spiegare loro che io non c’entravo niente. Nonostante il processo, nonostante i giornali”. Ma lei è stato sempre assolto. “Sì, ma da innocente sono stato sotto processo sei anni”. E ora? Cosa prova scoprendo che il pestaggio avvenne per mano dei carabinieri? “Provo tanta rabbia per quello che mi è successo. Solo ora realizzo la mia innocenza. Finalmente la mia verità non è più solo la mia come è successo in tutti questi anni”. Ma lei non ha mai pensato che Stefano Cucchi potesse essere stato picchiato prima? “Certo. In alcuni momenti del processo era evidente. E io ancora oggi non so perché non si sia voluto indagare su quello che era successo prima che Cucchi arrivasse a piazzale Clodio. C’erano tanti elementi che suggerivano di farlo”. Lei sospettava quindi, che fossero stati i carabinieri? “Certamente, già dagli atti della prima indagine. Ma lui non me lo disse, altrimenti avrei relazionato. Quando è entrato questo ragazzo, ho visto dei segni sotto agli occhi. Lo feci visitare perché mi disse che aveva mal di testa”. Come si sente oggi? “Solo ora sfogo la rabbia che ho avuto in corpo per anni. A volte ho l’impressione che l’opinione pubblica dimentichi che, oltre alla famiglia Cucchi, ci sono altre tre famiglie che hanno vissuto uno strazio. Ora che ci sono nuove pedine in gioco, si volta pagina e noi veniamo dimenticati. Il mio era l’unico stipendio in casa: per difendermi ho chiesto soldi ai miei genitori, ai suoceri, agli amici. Per fortuna la mia amministrazione mi ha permesso di continuare a lavorare”. Toscana: suicidi in carcere, formazione agli agenti per prevenirli Redattore Sociale, 25 ottobre 2018 La Regione vara un programma di prevenzione tra i detenuti e gli operatori di tutti i penitenziari della Toscana. Un investimento di 78mila euro che sarà impiegato per la formazione del personale sanitario e penitenziario. Saccardi: “Il carcere sia luogo rieducativo”. Suicidi in carcere, la Regione Toscana vara un programma di prevenzione tra i detenuti e gli operatori di tutti i penitenziari della Toscana. Un investimento di 78mila euro che sarà impiegato per la formazione del personale sanitario e penitenziario. La formazione sarà organizzata dall’Agenzia per la formazione dell’Azienda Usl Toscana Centro con sede a Empoli e si svolgerà con il supporto del Centro di Riferimento regionale sulle Criticità Relazionali dell’Azienda ospedaliera universitaria di Careggi. Docenti di questa formazione saranno psichiatri e psicologi che saranno individuati all’interno delle Aziende Usl. La formazione sarà in primis rivolta agli operatori del carcere, tra cui agenti penitenziari e personale medico, dopodiché saranno coinvolti direttamente i reclusi, alcuni dei quali saranno a loro volta formatori verso altri detenuti. Un programma, quello messo a punto dalla Regione, che intende prevenire non soltanto il suicidio tra le sbarre, ma anche i frequenti atti di autolesionismo dei reclusi. Un progetto sviluppato nell’ambito dell’approvazione, da parte della Conferenza Unificata, del Piano Nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti. La delibera della giunta regionale toscana su “Prevenzione del suicidio nel sistema penitenziario” impegna le Aziende USL a redigere, concordemente con l’Amministrazione penitenziaria, il proprio piano locale, uno per ogni Istituto penitenziario. Fornisce inoltre gli strumenti clinici utili per gli operatori sanitari al fine di individuare il livello di rischio suicidario nelle persone adulte detenute, prevede una formazione in materia del personale sanitario, del personale dell’amministrazione penitenziaria, dei detenuti. “Intendiamo potenziare il sistema sanitario all’interno dei penitenziari toscani, affinché il carcere non sia soltanto il luogo della reclusione e della marginalità, ma uno spazio di pena rieducativo che fa parte dell’architettura delle città - ha detto l’assessore regionale alle politiche sociali e alla sanità Stefania Saccardi - Per questo riteniamo fondamentale destinare parte delle risorse per la sanità in carcere alla prevenzione dei suicidi e degli atti di autolesionismo tra i detenuti. E lo faremo potenziando l’aspetto psicologico nei penitenziari, attraverso l’impiego di psicologi delle aziende sanitarie toscane che formeranno adeguatamente gli agenti e gli operatori del carcere ad affrontare situazioni di potenziale rischio. Aiutare al reinserimento chi vive recluso nel carcere è un aiuto a tutta la comunità”. Crotone: istituita la figura del Garante comunale dei diritti dei detenuti cn24tv.it, 25 ottobre 2018 “L’istituzione del Garante Comunale dei detenuti è stata una scelta che il Consiglio Comunale nella sua unanimità ha fortemente voluto nella consapevolezza dell’importanza che questa figura assume nel panorama della tutela dei diritti civili. Il Comune di Crotone, dopo Reggio Calabria, è il primo comune capoluogo calabrese a dotarsi di questo importante istituto. Abbiamo costituito l’ufficio e siamo pronti ad una proficua collaborazione” ha detto il presidente del Consiglio Comunale Serafino Mauro in occasione della conferenza stampa che si è tenuta questa mattina nella Sala Giunta per la presentazione dell’avv.to Federico Ferraro, neo Garante Comunale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Presenti all’incontro con i giornalisti il provveditore regionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dott. Massimo Parisi, la direttrice della Casa Circondariale di Crotone Emilia Boccagna e il garante dei detenuti del Comune di Reggio Calabria Agostino Siviglia. Ha fatto pervenire un messaggio di buon lavoro il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali Stefano Anastasìa. “La figura del Garante dei detenuti o delle persone private della libertà personale rappresenta un organismo di garanzia, una sorta di difensore civico di settore, in grado di costruire un rapporto di collaborazione propositiva con le autorità responsabili, attraverso il monitoraggio e la visita, nei luoghi di privazione della libertà personale come le carceri, i luoghi di polizia, ed i centri per gli immigrati. Mi impegnerò per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale anche mediante la promozione dell’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e fruizione di servizi comunali e promuove iniziative volte ad affermare per le persone sottoposte a misure restrittive il pieno esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione” ha detto il Garante Comunale Federico Ferraro. “La sinergia istituzionale in questo settore è fondamentale. Deve prevalere su tutto la dignità della persona. Ecco perché è necessario che si pongano le condizioni e si realizzino progetti affinché il tempo della pena detentiva non sia tempo perduto” ha detto il provveditore regionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Massimo Parisi. “L’interlocuzione con le istituzioni è cruciale. Il nostro ruolo è finalizzato anche ad accompagnare il successivo percorso di reinserimento, una volta esaurita le pena detentiva, delle persone nel contesto sociale” ha detto il garante dei detenuti del Comune di Reggio Calabria Agostino Siviglia. “Abbiamo già avuto un confronto positivo con il Garante Comunale che rappresenta un tassello importante nella rete di istituzioni finalizzata ad applicare l’esecuzione della pena secondo principi di umanità e di rispetto della dignità della persona” ha detto la direttrice della Casa Circondariale di Crotone Emilia Boccagna. Pavia: concorso per le carceri boicottato dai medici, restano vacanti 12 posti di Roberto Lodigiani La Provincia Pavese, 25 ottobre 2018 Si presentano in 10 e l’Asst dopo le paghe taglia anche festivi e notturni, a Voghera coperti solo 3 incarichi su 6 “Violati i patti col ministero”. Restano vacanti dodici posti su ventidue del personale medico in servizio nelle carceri provinciali, a causa del boicottaggio di protesta dei professionisti della sanità contro i tagli agli stipendi e le condizioni di lavoro. La conseguenza immediata è lo stop da parte dell’Asst alle presenze festive e ai turni notturni, per cui l’assistenza medica interna a detenuti e agenti verrà garantita solo di giorni e dal lunedì al sabato, stante l’impossibilità di coprire anche gli altri turni, proprio in seguito alla carenza di personale: una decisione subito contestata dai “ribelli”, che parlano di “palese violazione degli accordi con il ministero della Giustizia”, che prevedevano, tra l’altro, una presenza h24 negli istituti penitenziari, per le cure generiche e specialistiche, in particolare quelli di Voghera e Vigevano, caratterizzati da un numero elevato di detenuti con patologie ad alto rischio. Ai colloqui per il rinnovo (annuale) del contratto, che si sono tenuti negli uffici di viale Repubblica a Voghera, si sono presentati solo dieci medici, sui diciotto in scadenza; la precedente intesa era valida fino al giugno scorso ed è stata poi prorogata di tre mesi fino al 31 ottobre. Dal 1° novembre, dunque, il personale medico delle carceri si riduce a 10 unità, rispetto all’organico teorico di 22; a Voghera, per capirci, i medici in servizio saranno soltanto tre, rispetto ai sei precedenti e unicamente nei giorni feriali, non nei festivi e di notte; effetti a cascata anche negli altri istituti provinciali. Il fronte della protesta tiene duro, l’Asst anche. I medici che hanno boicottato il concorso contestano aspramente la politica salariale dell’Asst, che in due anni ha ridotto le paghe orarie da 30 a 25 euro (ad Alessandria, sottolineano polemicamente, la paga è invece di 31 euro); nel mirino pure le condizioni di lavoro particolari delle carceri, dove i medici sono costantemente esposti a rischi per la propria salute e per la stessa incolumità fisica, trovandosi ad operare in realtà ben diverse dalle altre strutture sanitarie, come ospedali e ambulatori. Chi ha ceduto, partecipando al concorso, lo ha fatto, in molti casi, perché il lavoro in carcere rappresenta l’unica fonte di reddito. Benevento: i familiari dei detenuti dormono in auto in attesa de colloquio La Repubblica, 25 ottobre 2018 Non ci sono terminal dei bus o stazioni ferroviarie nei pressi del carcere di Benevento e questo obbliga tante famiglie a raggiungere la struttura carceraria della Campania la sera prima del giorno previsto per il colloquio con i detenuti. Non è insolito, poi, trovare di notte tante persone che nel quartiere popolare di capodimonte dormono nella propria auto, in attesa di poter fare visita al proprio caro di buona mattina. A denunciarlo è Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, in un report in possesso dell’agenzia dire sulle condizioni della struttura detentiva di Benevento. Un carcere “complessivamente in buone condizioni” dove “non ci sono particolari elementi di trascuratezza o decadenza degli spazi interni”, rileva Antigone, ma il problema principale riguarda proprio la quasi totale assenza di collegamenti con l’istituto con i mezzi pubblici che rende “difficili le visite ai familiari sprovvisti di auto”. Il sito del ministero della giustizia indica alcuni mezzi pubblici con cui è possibile raggiungere il carcere. Da Roma, ad esempio, è si può prendere un bus che effettua quattro corse al giorno, l’ultima delle quali arriva a Benevento alle 2,40 del mattino, ma la fermata dista quasi 3 chilometri dal carcere, percorribili a piedi in 40 minuti. Ferrovie dello stato prevede tre corse con Frecciargento che permettono di raggiungere Benevento in 1 ora e 50 minuti, anziché le 3 o 4 ore previste per intercity e regionali. Anche in questo caso, la stazione dista 4 chilometri (46 minuti a piedi) dall’istituto penitenziario. Un lungo viaggio se si parte da Roma Termini ma chiaramente la situazione si complica per le famiglie che vivono in città poco collegate o in piccoli centri. Le visite, inoltre, non sono previste il sabato e la domenica ma solo durante la settimana e non sono previsti colloqui via Skype. All’interno della Casa circondariale, Antigone denuncia un forte dato di sovraffollamento: la capienza massima prevista è di 261 detenuti ma al momento della visita effettuata dall’associazione a settembre di quest’anno c’erano 394 persone in cella. Un tasso di sovraffollamento del 151%, percentuale molto alta se si pensa che la media degli istituti visitati dall’associazione è del 117,1%, un dato quest’ultimo su cui anche da Strasburgo il Consiglio europeo ha bacchettato l’Italia, inserendola tra i paesi dove esiste un problema di eccessiva popolazione carceraria. Nelle celle della struttura capodimonte gli stranieri sono 64 (il 16,2% del totale); le donne 73. Alto anche il numero di persone in attesa del giudizio, sono quasi il 40% secondo il rapporto di Antigone. Eppure “nelle sezioni visitate c’erano alcune celle chiuse senza detenuti, ma non per motivi di ristrutturazione o inagibilità”. Nonostante la presenza di un’articolazione psichiatrica nel carcere, c’è un “consumo spasmodico” di psicofarmaci, che vengono assunti dalla maggior parte dei detenuti (quasi il 70%). Non esistono spazi dedicati ai 6 detenuti disabili e il campo sportivo non è agibile. All’ingresso in carcere, viene consegnata la carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati ma non sono rari i cosiddetti eventi critici in cella: la fotografia dell’istituto scattata da Antigone mostra 41 casi di autolesionismo nell’anno precedente, con un suicidio, e 63 scioperi della fame. Latina: i detenuti diventano pizzaioli, gli ex carcerati donano gli ingredienti radioluna.it, 25 ottobre 2018 Il corso finanziato dalla Diocesi nel carcere di Via Aspromonte. Fanno la pizza sotto la guida di un pizzaiolo professionista che si è messo a disposizione volontariamente e gratuitamente, poi la servono a tutti i loro compagni, circa 130 persone in un’occasione di convivialità diversa dal solito. Sono i detenuti della casa circondariale di Latina che hanno chiesto di partecipare al progetto del cappellano, don Nicola Cupaiolo. Così il salesiano, che trascorre molto del suo tempo in Via Aspromonte credendo fermamente nelle occasioni di riscatto, vuole fornire un’arma benefica a chi sta scontando la sua pena, per avere l’opportunità di fare altro, una volta terminato il periodo di detenzione. Non è il primo anno, ma questa volta, una somma messa a disposizione dal vescovo Mariano Crociata, consente di aprire il corso proprio a tutti i detenuti che vorranno partecipare. E c’è la fila. Intorno al progetto c’è un mondo silenzioso in movimento: un pizzaiolo di Latina Scalo si è messo a disposizione della causa e fa da maestro; ci sono i volontari con i loro diversi compiti; l’aiuto del personale della polizia penitenziaria diretto da Nadia Fontana. E ci sono anche generosi e inattesi donatori di materie prime: “Ci servono materie prime, farina, pomodoro, formaggi, olio, lievito. E mi ha sorpreso veder arrivare in parrocchia (a San Marco) alcuni ex carcerati che vogliono aiutare chi si trova oggi nella situazione in cui si sono trovati prima anche loro. Sono gesti che ti fanno tirare un sospiro di sollievo”, dice il salesiano. E non sono piccole donazioni, ma decine di chili di alimenti. Quello per pizzaioli non è il solo corso che si tiene nel carcere di Latina, ma ora, il sogno del sacerdote, è trovare maestri di musica: “Mi piacerebbe avere la disponibilità di musicisti per poter insegnare ai detenuti a suonare uno strumento. La musica è sempre bella e rilassa”. Quindi può essere terapeutica. E chissà che dopo la compagnia teatrale non possa nascere l’orchestra di Via Aspromonte. Gela (Ct): lavorazione latte come mezzo d’integrazione, tre giorni di attività per i detenuti accentonews.it, 25 ottobre 2018 La lavorazione del latte e i suoi derivati, quale mezzo di crescita culturale e integrazione sociale dei soggetti limitati nella libertà o migranti. È questo il tema dell’iniziativa che si terrà presso la casa circondariale di Gela, diretta dalla dottoressa Gabriella Di Franco. Tre giorni di formazione teorico-pratica, volta a fornire conoscenze sulla composizione e sulla qualità del latte nelle diverse specie lattifere e sul modo di conservazione del latte e sulle principali tecnologie di trasformazione lattiero-casearia, al fine di dare una formazione tecnico-pratica ai destinatari del corso, da usare come opportunità di reinserimento nel mondo produttivo. A promuovere questa iniziativa sono stati l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia “A. Mirri” (IZS Sicilia), l’Università degli studi di Palermo (Unipa) e la Coldiretti Sicilia, in sinergia con il Rotary Club. Il corso prevede un breve excursus sulle modalità di produzione del latte e dei suoi derivati, spaziando dalla descrizione delle razze da latte allevate in Sicilia fino al consumo intelligente di derivati e latticini. “Il progetto - ammette il Rotary club, presieduto da Manlio Galatioto - vuole valorizzare le competenze tipiche, nel settore caseario, della tradizione locale, mettendole a disposizione di soggetti limitati nella libertà, anche extracomunitari, in particolare africani del Maghreb e dell’Africa sub-sahariana e dei paesi dell’est europeo”. Il corso si terrà a partire da domani, giovedì 25 ottobre e vedrà nella giornata conclusiva, in programma per sabato 27, la consegna degli attestati e una breve cerimonia, alla quale dovrebbero partecipare figure istituzionali e i rappresentanti dei club service e delle associazioni della città. Seguirà un rinfresco a base dei prodotti caseari preparati dai detenuti. Responsabile del progetto è il delegato del club Francesco Città. Firenze: studiare in carcere, nuovo impegno per il Polo universitario penitenziario unifi.it, 25 ottobre 2018 Incontro del rettore con il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. Favorire sempre di più la partecipazione dei detenuti alle attività formative del Polo universitario penitenziario della Toscana (Pup). Questo l’obiettivo dell’incontro in San Marco questo pomeriggio fra il rettore dell’Università di Firenze Luigi Dei e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana e Umbria Antonio Fullone. Un nuovo accordo esecutivo riguardante il PUP - già deliberato dagli organi di governo dell’Ateneo fiorentino e in corso di approvazione presso gli altri atenei toscani - prevedrà una collaborazione per elaborare e attuare progetti di ricerca e di formazione, oltre a iniziative culturali. Rientra in questo sforzo la realizzazione di una rivista, dal nome “Spiragli”, a cura degli studenti detenuti con la supervisione del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. L’intesa istituirà nuovi organi di coordinamento per facilitare la gestione di aspetti di tipo organizzativo e amministrativo. Il Pup della Toscana nasce per iniziativa dell’Università di Firenze nel 2000 e assume carattere regionale nel 2010 con un protocollo d’intesa tra Università di Firenze, Pisa e Siena, Regione Toscana e Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. All’unità fiorentina del Polo universitario penitenziario sono iscritti attualmente 34 studenti, la maggior parte dei quali è detenuta nel carcere di Prato e di Firenze. In diciotto anni dalla sua istituzione sono stati circa 200 gli studenti fiorentini iscritti. I corsi più richiesti sono quelli di Scienze politiche, Scienze umanistiche e Agraria. Per iscriversi al Pup della Toscana, gli studenti sostengono un colloquio preliminare mentre le lezioni e gli esami sono tenuti dai docenti all’interno del carcere. L’organizzazione della didattica si svolge in collaborazione con diverse figure, tra cui i tutor (docenti in pensione, operatori del servizio civile, tirocinanti e studenti volontari) che svolgono una preziosa funzione di raccordo tra le istituzioni. Padova: convegno sulla giustizia predittiva, la tecnologia al servizio della giustizia Corriere Veneto, 25 ottobre 2018 L’intelligenza artificiale può ridurre le cause pretestuose in ambito civile ma il suo uso nel penale crea ancora più di qualche remora. E se a stabilire il confine tra colpevole e innocente fosse un algoritmo? Mercoledì 24 ottobre se n’è parlato all’Università di Padova nel corso di un convegno sulla giustizia predittiva, organizzato dal dipartimento di Diritto pubblico e dall’Ordine degli avvocati di Padova in collaborazione con Digital-meet per capire come la tecnologia sta cambiando il diritto. Negli Stati Uniti c’è il precedente di un uomo condannato a sei anni per ricettazione e resistenza a pubblico ufficiale anche sulla base del responso di un algoritmo, in Inghilterra c’è un giudice automatico che ha emesso lo stesso verdetto della corte nel 79% dei casi, in Francia c’è un algoritmo che suggerisce le argomentazioni con la probabilità di successo più alta. Gli orientamenti - E in Italia, giusto la scorsa settimana, la Corte d’appello di Venezia ha pubblicato sul suo sito gli orientamenti prevalenti per scoraggiare ricorsi analoghi a quelli già respinti. Paolo Ferragina (Università di Pisa) ha mostrato che lo stesso algoritmo può dare risultati garantisti o giustizialisti a seconda dell’utilizzo, modificando radicalmente il giudizio in base a minime variazioni: “I sistemi attualmente disponibili - ha detto - non sono ancora in grado di rispondere a domande inespresse e di spiegare i risultati”. “La componente tecnologica nel diritto è sempre più marcata, ma siamo ancora lontani da un utilizzo ampio di questi strumenti e occorre usarli con cautela - commenta Giuseppe Zaccaria, docente emerito di diritto all’Università di Padova. Le nuove possibilità tecniche infatti vanno nella direzione opposta alla teoria del diritto contemporanea, che esalta il ruolo crescente dell’argomentazione, e mettono in discussione aspetti fondamentali della cultura giuridica, dal libero convincimento del giudice al contraddittorio. Riduzione delle “cause pretestuose” - L’intelligenza artificiale può ridurre le cause pretestuose in ambito civile, ma pensare che la Cassazione possa prendere decisioni sulla base di un algoritmo fa paura”. Riccardo Borsari (Università di Padova) nota una contraddizione: “Da una parte si chiede di conoscere la durata delle controversie e il loro possibile esito, dall’altra si chiede al magistrato di considerare le conseguenze economiche delle sue decisioni. Il vantaggio delle tecnologie è nella prevedibilità della decisione, il rischio è nell’approdo a una giustizia che cancella creatività e innovazione”. Roma: il 7 novembre convegno “Uscire dentro. Pluralismo religioso e carcere” nev.it, 25 ottobre 2018 Un convegno nella Casa circondariale di Rebibbia a Roma affronterà una riflessione sul tema del pluralismo religioso e la cura spirituale in carcere. Obbligatorio accreditarsi entro il 26 ottobre. Mercoledì 7 novembre, presso la sala teatro della Casa circondariale Rebibbia nuovo complesso “Raffaele Cinotti” (via Raffaele Majetti 70, Roma) avrà luogo il convegno dal titolo “Uscire dentro. Pluralismo religioso e carceri”, al quale partecipa anche la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei). Promosso dalla rivista Confronti, in collaborazione con l’associazione Spondé e l’associazione Antigone, l’incontro riprende i temi contenuti nell’ultimo numero monografico del periodico. Nelle intenzioni degli organizzatori il convegno, che gode del patrocinio del Ministero della giustizia e del supporto del Comitato interministeriale per i diritti umani (Cidu), rappresenterà un momento di confronto e riflessione condivisa intorno al tema del pluralismo religioso e della cura spirituale in carcere, valutazioni sullo stato dell’arte, punti di forza e punti di debolezza nel rapporto carcere/detenuto-cura spirituale/libertà religiosa. All’evento prenderanno parte i rappresentanti delle principali religioni in Italia, fra cui il pastore Francesco Sciotto in rappresentanza della Fcei, Hamid Adb al-Qadir Distefano (Consigliere direttivo Comunità religiosa islamica italiana - Coreis), Izzeddin Elzir (Consigliere direttivo Unione delle comunità islamiche d’Italia - Ucoii), Raffaele Grimaldi (Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane), Marisa Iannucci (Presidente associazione Life onlus), Bogdan Petre (Consigliere della Diocesi ortodossa romena per i problemi della pastorale penitenziaria), Riccardo Plati (Responsabile relazioni esterne Istituto buddista italiano Soka Gakkai), Giorgio Raspa (Presidente Unione buddhista italiana - Ubi), Abdellah Redouane (Segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia), Svamini Hamsananda Ghiri (Vicepresidente Unione induista italiana - Uii), Ven Seiun (Liberation prison project Italia - Ubi). L’iniziativa è finanziata con i fondi 8 per mille dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (Ucebi). È obbligatorio accreditarsi (entro il 26 ottobre): accrediti@confronti.net. Roma: “Fare teatro in carcere, un lavoro che amo e odio al tempo stesso” di Renata Savo scenecontemporanee.it, 25 ottobre 2018 Intervista a Francesca Tricarico, regista delle “Donne del Muro Alto” di Rebibbia. Scriveva lo studioso Claudio Bernardi in un saggio diventato in Italia una autorità sul tema, Il teatro sociale: arte tra disagio e cura (Carocci, 2004), che “Il teatro sociale si distingue dal teatro d’arte, da quello commerciale e da quello d’avanguardia, perché non ha come finalità primaria il prodotto estetico, il mercato dell’intrattenimento o la ricerca teatrale, bensì il processo di costruzione pubblico e privato degli individui”. Tra le esperienze più significative dell’ultimo decennio, che lavorano nel centro Italia sulla costruzione di questa relazione, si annovera senza dubbio quella del progetto nato nel 2013 presso la Casa Circondariale Femminile di Rebibbia “Le Donne del Muro Alto”, iniziato e portato avanti con tenacia dalla regista Francesca Tricarico dell’associazione culturale Per Ananke, che ha iniziato a occuparsi di teatro e carcere nel 2010. Un lavoro difficile, e non tanto o non solo per il contesto di disagio sociale, che viene abbracciato e accettato. Piuttosto, per la fatica di chi entra da artista in questi ambienti non artistici, dove spesso il proprio ruolo viene considerato non essenziale, subordinato alla macchina più grande e più feroce della burocrazia, e, purtroppo, neppure finanziato in modo adeguato. Al telefono con Francesca Tricarico si avverte quella stanchezza, dietro l’energia del corpo e della voce squillante, sintomi di una forza di volontà più forte mentre si destreggia in mezzo al traffico di Roma per arrivare puntuale alle prove serali e nel frattempo ci dedica un po’ del suo tempo per rispondere a qualche domanda. La sua è una forza tutta femminile, instancabile, coraggiosa, testarda, oseremmo dire, persino brutale. Non potrebbe essere altrimenti, per fare teatro insieme alle donne che hanno sofferto, commesso crimini, e ora in cerca di un riscatto morale. Domani 25 ottobre, però, Francesca Tricarico sarà “oltre il muro”, al Teatro Biblioteca del Quarticciolo di Roma accanto all’ex detenuta Daniela Savu, per ricordare che queste storie reali di sofferenza possono finire, e possono finire bene. E che magari la vita può ricominciare a pulsare, nel petto, proprio su un palcoscenico. Di tutto questo, del senso di fare teatro per lei e per le detenute con cui lavora, abbiamo discusso assieme nell’intervista che qui vi proponiamo in occasione di “Oltre il muro: Didone, una storia sospesa”, questo il titolo dell’evento, che consiste in un reading tratto dal IV canto dell’Eneide di Virgilio. Non una storia casuale, quella della regina Didone abbandonata dal guerriero troiano Enea... Nel mito antico si racchiude il presente. Purtroppo ne è stata triste e inaspettata conferma l’episodio sconcertante di cronaca, avvenuto appena un mese fa, di una Medea reale che, morsa da un profondo senso di colpa, ha “liberato” - questo il verbo che è stato usato dalla detenuta infanticida - i suoi figli piccoli, uccidendoli perché obbligati a convivere con lei nel carcere mentre scontava la sua pena; proprio a Rebibbia, dove “Le Donne del Muro Alto” stavano lavorando all’allestimento di Medea. Ecco, allora, che per rispetto alla tragica vicenda, la scelta è ricaduta sulla figura di Didone. Entrambe, Medea e Didone, sono storie di maternità negate, annullate: chi per scelta, chi per un destino avverso; e il teatro, lo strumento che può servire a sensibilizzare verso la sofferenza procurata a tutte le donne che vivono o hanno vissuto questa negazione. Quando un artista opera all’interno di un contesto sociale disagiato ha sempre qualche difficoltà nell’inquadrare, valorizzare, la sua identità. Tu come definiresti il tuo lavoro? E cosa ti piace, soprattutto, di questo lavoro? Il mio lavoro è, in carcere come al di fuori del carcere, un lavoro sul teatro, che conserva le caratteristiche di ciò che è il teatro per me, cioè la possibilità di poter esprimere delle proprie necessità e urgenze protetti dallo strumento del testo e del teatro stesso. È un lavoro che amo follemente, proprio per questa opportunità che mi dà di poter raccontare e far arrivare a tante persone esperienze che sono più complesse, come quella del carcere. In questo senso il teatro è uno strumento potente per raccontare quel luogo a un pubblico molto più vario dei soli addetti ai lavori. Spesso si fanno convegni, conferenze, dedicati al carcere che sono solo per addetti ai lavori, mentre il teatro ti consente di comunicare con molti altri tipi di pubblico, dai parenti agli operatori, ai teatranti ai curiosi. Perciò, in sintesi, il mio lavoro lo definirei come una grande opportunità di comunicazione; ma è anche un lavoro difficile, che si può arrivare a odiare: ciò accade quando diventa frustrante, quando la burocrazia ti schiaccia e diventa complicato farlo da un punto di vista economico, perché in questo momento storico, in Italia e non solo in Italia, è veramente difficile sopravvivere di teatro. È quindi è un lavoro che odio anche, per la fatica che richiede; per lo sforzo emotivo, fisico, di tempo, di energie. A volte devi combattere non solo con questo, ma con tutta una serie di problemi che hanno a che fare sempre con il teatro, ma non con ciò di cui vorresti occuparti: la parte burocratica, i permessi, il reperimento dei fondi. Questa, da un lato, è la parte che odio, ma dall’altro lato riconosco che ciò significa imparare a lavorare nei luoghi complessi, dove bisogna fare di ogni difficoltà una risorsa: dalla mancanza di tempo alla mancanza di spazio, nei centri diurni, questi limiti che vivo all’esterno possono essere trasformati in risorse utilizzabili nella scrittura o nella messa in scena. È allora che convertire tutte le mancanze in punti di forza diventa per me un grande esercizio, non solo a teatro. Hai detto che il testo è uno strumento che permette di sentirsi “protetti” per comunicare alcune urgenze. È un aggettivo affascinante. Puoi spiegare questa funzione? Le parole di un grande autore, per quanto un artista rimaneggi il testo o ne disponga liberamente nella sua interpretazione, sono in qualche modo uno scudo rispetto al messaggio che voglio veicolare. Tutto ciò che viene fatto con il teatro in carcere per me è un riflesso di ciò che dovrebbe essere il teatro fuori. Lo stesso carcere è una grande lente d’ingrandimento sulla società e sull’uomo, che consente all’ennesima potenza di esprimere delle urgenze attraverso il teatro. Per esempio, Didone ci offre l’opportunità di parlare del tema della maternità negata. A un certo punto Didone dice ad Enea: “Se almeno avessi avuto un figlio da te non mi sentirei così abbandonata”. Il testo costituisce un’occasione per noi di poter parlare di tutte quelle donne che entrano in carcere a trent’anni e ne escono a quaranta. Al di là di se sia giusto o sbagliato, si tratta di una constatazione, di un dato di fatto, che riguarda le detenute, per quanto riguarda la loro circostanza, ma anche le donne in un senso molto più ampio, universale. In questo senso le parole di Didone sono offerte come uno scudo per non affogare completamente nel tema che si sta affrontando. Il testo è altro da me, e contemporaneamente mi permette di scendere dentro di me. Quali sono solitamente i tempi concessi per le prove in carcere? Come si fa a metter su uno spettacolo di teatro in carcere? Abbiamo la possibilità di lavorare nel teatro del carcere due volte la settimana; e in più, a ridosso dello spettacolo, possiamo avere delle ore extra che richiediamo per intensificare il lavoro. Considera che per fare due ore di teatro in carcere bisogna trascorrere lì cinque ore: da che arrivi e fai i permessi, e magari ti chiamano, o mentre aspetti, perché qualcuna è andata a fare un colloquio o perché c’è stato un problema. È tutto molto complesso. Le ore che trascorriamo in carcere sono tante, ma quelle effettive per lavorare sono veramente poche. Due volte la settimana a partire da quando ? Solitamente i laboratori si fanno da settembre fino a maggio. Dipende dai laboratori, dagli anni, dalle possibilità che abbiamo, dal tipo di lavoro, dai fondi; che in realtà sono sempre scarsi. Come vivono l’esperienza teatrale le detenute? Il teatro per loro è prima di tutto la possibilità di uscire fuori dalle celle. Sicuramente, all’inizio non c’è passione, desiderio, vedono soltanto quella possibilità di sostare in uno spazio “altro”, in un tempo “altro” e con un personale che non è quello del carcere. Successivamente, quando iniziano a fare teatro, scoprono la potenza della parola. Uno strumento per essere ascoltate, uno strumento di libertà, di espressione per dire cose, attraverso il personaggio, che altrimenti non si potrebbero dire. Uno strumento di liberazione delle proprie emozioni anche, in un posto che invece è, per struttura, contenitivo e dove le emozioni, come la rabbia, la gioia, devono essere contenute. A teatro tutto questo viene stravolto. E una volta che le detenute comprendono la forza di tutto questo, il teatro, per loro, diventa vitale. Aiuto al suicidio, la Consulta scarica sul Parlamento di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 ottobre 2018 Dj Fabo, processo a Marco Cappato. La Corte costituzionale dà un anno di tempo al legislatore per modificare la norma contenuta nell’articolo 580 c.p. introdotto nel nostro ordinamento in epoca fascista. Con una decisione senza precedenti, la Corte Costituzionale ha dato un anno di tempo al Parlamento affinché legiferi su eutanasia e aiuto al suicidio, rinviando al 24 settembre 2019 il verdetto di incostituzionalità (di fatto già anticipato) sull’articolo 580 c.p. introdotto nel nostro ordinamento in epoca fascista, con il Codice Rocco. Un pronunciamento - arrivato dopo parecchie ore di camera di consiglio - che a memoria di costituzionalista non era mai stato emesso prima dalla Consulta, e che lascia trapelare la difficoltà di trovare unanimità di giudizio tra i quindici membri della Corte. “L’attuale assetto normativo sul fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti - si legge sul comunicato della Consulta che anticipa l’ordinanza - Per consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina, la Corte Costituzionale ha deciso di rinviare la trattazione della questione di costituzionalità dell’articolo 580 codice penale, sull’aiuto al suicidio, all’udienza del 24 settembre 2019”. Va da sé che fino a quel momento, almeno, si sospende il processo a Marco Cappato, imputato davanti alla Corte d’Assise di Milano per aver accompagnato in Svizzera a morire dj Fabo. Sono stati infatti gli stessi giudici milanesi a rinviare alla Consulta la norma che vieta l’aiuto al suicidio, considerandola inapplicabile in quanto superata dal diritto attuale che riconosce la libertà di lasciarsi morire rifiutando le cure. Le pm Tiziana Siciliano e Sara Arduini, in dibattimento, avevano infatti chiesto l’archiviazione delle indagini su Cappato (che si era autodenunciato per l’aiuto non negato a dj Fabo) o in subordine l’illegittimità costituzionale dell’art. 580. In questo contesto, secondo Cappato e secondo l’avvocata Filomena Gallo che ha coordinato il pool di legali costituzionalisti, anche il giudizio della Consulta va letto come “un risultato straordinario”, “un successo”. Perché “dà un anno di tempo al Parlamento per fare ciò che chiedevamo da 5 anni”, da quando cioè i leader dell’associazione Luca Coscioni depositarono la proposta di legge di iniziativa popolare per legalizzare l’eutanasia. Legge che nel frattempo ha raccolto 130 mila firme. Cappato, che ieri sera ha improvvisato una conferenza stampa davanti Montecitorio, ha ricordato di aver aiutato, insieme a Mina Welby e agli altri militanti dell’Associazione, “650 persone a reperire informazioni per interrompere le proprie sofferenze. Questa era la ragione della nostra disobbedienza civile - ha precisato - e oggi è anche la richiesta della Corte Costituzionale che chiede al Parlamento di assumersi le proprie responsabilità”. Eppure la sentenza della Consulta, che è di fatto un rimpallo di responsabilità verso il legislatore, solleva alcune perplessità e pone alcune domande: cosa succede se il Parlamento avvierà l’iter legislativo per modificare l’art. 580 c.p. appena prima dello scadere dell’anno previsto dalla Corte? Potrà la Consulta a quel punto pronunciarsi mentre è in itinere una legge ad hoc? E ancora: chi avrà la responsabilità delle sofferenze causate per un anno da una norma che i giudici costituzionalisti hanno già preannunciato come incostituzionale? Forse è su queste domande che riflettono anche i Radicali italiani che esprimono “rammarico per il rinvio della decisione della Consulta” che avrebbe invece “potuto risolvere la questione defascistizzando il codice penale” nel rispetto “della Costituzione repubblicana e dei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia che assicurano piena autodeterminazione della persona”. Suicidio assistito, la parola va al legislatore Italia Oggi, 25 ottobre 2018 Undici mesi di tempo “per consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina” e legiferare su suicidio assistito e fi ne vita. Spetta insomma al potere legislativo rivedere “l’attuale assetto normativo” che “lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”. Ecco perché la Corte costituzionale “ha deciso di rinviare la trattazione della questione di costituzionalità dell’articolo 580 codice penale all’udienza del 24 settembre 2019”. Nel frattempo, il processo milanese che vede Marco Cappato imputato per aiuto al suicidio resterà congelato. Nessuna decisione, dunque, sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’assise di Milano sul reato di aiuto al suicidio. Il collegio di giudici togati e popolari presieduti da Ilio Mannocci Pacini si era rivolto alla Consulta per sciogliere un dubbio giuridico: chiarire, cioè, se il reato di aiuto al suicidio (equiparato da una norma del 1930 all’istigazione al suicidio) può essere applicato al caso di Cappato, finito sotto processo per aver aiutato, con un’azione di disobbedienza civile, il disk jockey Fabiano Antoniani nella sua scelta di ricorrere al suicidio assistito. Una libera scelta, la sua, che però non si sarebbe mai potuta concretizzare senza l’aiuto dell’esponente radicale, logistico e organizzativo, ma anche materiale dato che Cappato, oltre a prendere contatti con la clinica Dignitas, centro specializzato in questo tipo di interventi a pochi chilometri da Zurigo, e a sbrigare tutta una serie di pratiche burocratiche, accompagnò fisicamente Fabiano nel suo ultimo viaggio. Migranti. “La Libia non è un porto sicuro”: scarcerati i tunisini arrestati a Lampedusa di Giorgio Ruta La Repubblica, 25 ottobre 2018 Le motivazioni del tribunale del Riesame sul ritorno in libertà di Chamseddine Bourassine: le persone soccorse non potevano tornare in Nordafrica. I migranti soccorsi dai pescatori tunisini, arrestati il 30 agosto a Lampedusa, non potevano essere portati in Libia “perché non è un porto sicuro”. Lo scrivono i giudici del Tribunale del riesame di Palermo che hanno depositato le motivazioni del provvedimento con cui, lo scorso 22 settembre, hanno scarcerato i sei componenti di un peschereccio tunisino finiti in carcere con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. “Non ci sono elementi per sostenere che abbiano avuto un ruolo nell’organizzazione del viaggio, la circostanza che si siano messi a pescare solo per allontanare i sospetti appare allo stato poco verosimile”. Secondo quanto ipotizzato dalla procura di Agrigento e dal gip, i pescatori avevano deliberatamente trainato un barchino con quattordici migranti in difficoltà verso Lampedusa senza avvisare le autorità. “Sei pescatori che hanno soccorso un’imbarcazione in difficoltà sono stati scambiati per trafficanti di esseri umani”, sostengono gli avvocati Leonardo Marino, Giacomo La Russa e Roberto Majorini. Il collegio presieduto da Emilio Alparone aggiunge: “È inverosimile che si siano messi a pescare solo per allontanare sospetti e non potevano portarli in Libia perché non era un porto sicuro”. In altre parole i giudici sottolineano che la scelta di trainare i migranti verso le coste di Lampedusa non sia indicativa della volontà di farli entrare illegalmente in Italia, perché “pur trovandosi in Sar libica, non potevano essere trasportati in Libia, che non può certo definirsi porto sicuro”. Sulle osservazioni della procura, secondo cui il barchino sarebbe stato in buone condizioni e non vi fosse alcuna avaria, sottolineano: “Allo stato è un’osservazione superficiale e poi bisogna considerare che era sovraccarico”. In definitiva, secondo il tribunale del riesame, si è in presenza di due differenti versioni dei fatti e “gli indizi, sebbene esistenti, non sono gravi”. Chamseddine Bourassine, difeso dall’avvocato Salvatore Cusumano, e gli altri pescatori, a sostegno dei quali si sono mobilitati associazioni in Italia, in Francia e nel loro paese, sono noti in Tunisia per aver salvato decine e decine di migranti davanti alle coste nordafricane. “È la prima volta che abbiamo problemi di questo genere. Abbiamo salvato tante vite umane, lo abbiamo fatto in molte altre circostanze. Per salvare vite umane abbiamo fatto tanta formazione”, disse appena scarcerato Chamseddine Bourassine. Cina. I “Centri vocazionali” per uiguri gestiti come prigioni Askanews, 25 ottobre 2018 Alla televisione di stato i “centri vocazionali” che la Cina ha aperto nell’estremo occidente del Paese, lo Xinjiang abitato in maggioranza dalla minoranza uiguro-musulmana, appaiono come moderne scuole dove studenti felici studiano il cinese mandarino, migliorano le loro competenze lavorative e coltivano i loro hobby, facendo sport o danze folkloristiche. Ma quest’anno uno dei dipartimenti del governo locale, che si occupa di queste strutture nella prefettura di Hotan, ha fatto una serie di acquisti che hanno poco a che fare con l’educazione: 2.768 manganelli, 550 bastoni elettrificati per bestiame, 1.367 manette e 2.792 bombolette di spray al peperoncino. Le strutture sono oggetto di polemiche internazionali, con gli attivisti per i diritti umani che li descrivono come campi di rieducazione dove sono detenuti qualcosa come un milione di uiguri e componenti di altre minoranze musulmane. Pechino in un primo momento ha negato la loro esistenza. Ma poi, di fronte alle accuse arrivate anche dall’Onu, ha lanciato una controffensiva mediatica, sostenendo che si tratta di centri finalizzati al contrasto del separatismo, del terrorismo e dell’estremismo religioso, nei quali viene fornita educazione e addestramento al lavoro. Tuttavia un esame dell’agenzia di stampa France Presse su oltre 1.500 documenti del governo pubblicamente disponibili mostra che questi centri sono gestiti più come prigioni che come scuole. Migliaia di guardie equipaggiate con gas lacrimogeni, taser, pistole stordenti e mazze ferrate tengono sotto stretto controllo gli “studenti” in queste strane scuole circondate dal filo spinato e controllate da videocamere a infrarossi, come si deduce da documenti. I centri devono “insegnare come scuole, essere gestite come strutture militari e difese come prigioni”, si legge in un documento che cita il segretario del Partito comunista dello Xinjiang Chen Quanguo. Per costruire nuovi, migliori cittadini cinesi, si legge in un altro documento, i centri devono prima di tutto “rompere il loro lignaggio, tagliare le loro radici, rompere le connessioni, staccarli dalle loro origini”. Il centro mostrato la scorsa settimana sulla televisione pubblica cinese Cctv è uno dei 181 esistenti in Xinjiang, secondo i dati raccolti dalla France Presse. La partecipazione, secondo la Cctv, è volontaria. All’inizio i centri apparvero nel 2014, con le autorità che annunciarono un’offensiva contro il “terrorismo” dopo una serie di attacchi e violenze. Ma l’accelerazione nella costruzione è avvenuta nel 2017, coi governi locali nel sud Xinjiang, prevalentemente uiguri, che ricevettero l’ordine di far presto nella costruzione di “centri di trasformazione educativa concentrata per gruppi specifici”. Dopo poco il governo regionale ha emesso regolamenti per gestire “l’estremismo religioso”. Gli estremisti, hanno avvertito i funzionari, istruendo i quadri a individuare 25 attività religiose illegali e 75 segni dell’estremismo, compreso attività innocue come smettere di fumare e comprare una tenda. “Arrestate quelli che devono essere arrestati nel più gran numero possibile”, è stato detto ai quadri. E così il numero di detenuti è cresciuto enormemente, trovando. i governi locali impreparati. Nel 2017 i costi per gli uffici giudiziari nel Xinjiang è esploso, sospinto principalmente dalle grandi spese per costruire e gestire questi centri vocazionali. Si sono spesi circa 3 miliardi di yuan (432 milioni di dollari), il 577 per cento di quanto era stato pianificato, secondo un calcolo di Afp. Attorno ad aprile, i governi locali hanno lanciato delle gare di appalto per le strutture. Alcuni ordini - mobili, condizionatori, letti - non sono fuori luogo in una classica università cinese. Ma altri sembrano apparati per prigioni: sofisticati sistemi di sorveglianza, videocamere per le stanze degli studenti, filo spinato, un sistema per intercettare le telefonate, apparati di monitoraggio a infrarossi. Ma anche uniformi della polizia, elmetti, spray al peperoncino, lacrimogeni, bastoni elettrificati, mazze ferrate, manette e ancora tanti altri strumenti. Almeno un centro ha richiesto le “sedie della tigre”, uno strumento che la polizia cinese utilizza per tenere bloccati i soggetti sottoposti a interrogatorio.