Allarme dei Radicali “50 detenuti morti suicidi nel 2018” di Laura Distefano livesicilia.it, 24 ottobre 2018 Parla Rita Bernardini, da 7 giorni in sciopero della fame. La situazione all’interno delle carceri rischia di esplodere. Ed è necessario intervenire prima che questo accada. Non nasconde la sua preoccupazione Rita Bernardini, presidente del Partito Radicale, in Sicilia per partecipare a una giornata di studio che si terrà domani all’Università Kore di Enna dal titolo “Diritto è Giustizia”, che parla di “bomba ad orologeria”. La rivolta al carcere di Sanremo di alcuni giorni fa potrebbe essere solo la punta dell’iceberg. Rita Bernardini, che da sette giorni è in sciopero della fame, chiede un incontro al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Partiamo da un dato di fatto - afferma Rita Bernardini - la popolazione carceraria è notevolmente aumentata, siamo alla soglia dei 60 mila detenuti. Le condizioni di vita dei detenuti sono fuori da ogni parametro di legalità”. La Presidente dei Radicali non punta il dito contro questo Governo, ma traccia una fotografia nitida di quanto sta accadendo all’interno degli Istituti penitenziari. “Il rischio è che si ritorni a quando le rivolte erano all’ordine del giorno”, spiega Rita Bernardini. “In questi anni, ricordando specialmente l’impegno di Marco Pannella, noi abbiamo coinvolto decine e decine di migliaia di detenuti che invece di fare le rivolte hanno fatto lo sciopero sposando il metodo non violento. Però la situazione rischia di incattivirsi”. L’esponente dei Radicali snocciola dati allarmanti: “Dall’inizio dell’anno si sono verificati 50 casi di suicidio”. E avverte: “Stiamo arrivando per quanto riguarda la detenzione inumana e degradante ai livelli della sentenza Torreggiani del 2013, quella che condannò l’Italia per violazione dell’articolo 3 della convenzione dei Diritti Umani”. In attesa di un incontro con il ministro Rita Bernardini sente proposte che non paiono poter risolvere la situazione di emergenza. “Le parole che ho sentito - dice - sono più carcere più carceri. Più carcere significa meno misure alternative alla detenzione. E - ricorda l’esponente dei Radicali - tutti gli studi fatti sul tema hanno dimostrato che sono le pene alternative a quella detentiva quelle più efficaci per combattere la recidiva. Dal carcere - aggiunge - si esce peggiori di come si è entrati”. Sulla realizzazione di nuove carceri Rita Bernardini invece afferma: “Noi abbiamo istituti penitenziari che hanno addirittura meno detenuti di quelli che dovrebbero contenere, mentre metà sono sovraffollati. Costruire nuove carceri che cosa vuol dire? - si interroga - Intanto vuol dire che ci vogliono i soldi e di questo non si è parlato e poi ci vogliono almeno dai 10 ai 15 anni per costruirli. E nel frattempo che facciamo? - si chiede Rita Bernardini - Tolleriamo che uno Stato violi la sua stessa legalità?”. Nel programma della giornata di studi che si svolgerà domani nell’aula Napoleone Colajanni dell’ateneo ennese si terrà una tavola rotonda dal tema “Fine pena mai! Istituzionalizzazione nei luoghi di reclusione totale”. Tra i relatori il segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino, Sergio D’Elia che intanto vuole smentire un luogo comune: “Non è vero che in Italia non esiste il fine pena mai. Su 1.600 ergastolani - spiega - 1.200 scontano quello che tecnicamente si chiama ergastolo ostativo”. In parole povere carcere fino alla morte. “L’ergastolo ostativo - chiarisce D’Elia - in Italia può essere solo superato solo se il condannato all’ergastolo diventa collaboratore di giustizia. Quindi quel mai, quella parola direi ultimativa, può essere cancellata - aggiunge - soltanto nei casi in cui un condannato magari dopo 30 anni di carcere decide di collaborare con la giustizia”. Per D’Elia questa regola rappresenta “una violazione palese del principio costituzionale sulla possibilità rieducativa della pena”. Su questo punto il segretario dell’Associazione Nessuno tocchi Caino evidenzia il ruolo dello Stato, di uno Stato che ama definirsi civile. “Il pericolo e il rischio di pene come la pena di morte o del fine pena mai, come l’ergastolo ostativo, e che lo Stato comportandosi in tal modo si rispecchia nel comportamento violento di colui che ha commesso il reato”. “Non ci si può abbassare al livello di un assassino”, chiosa D’Elia. I cappellani nelle carceri: “un’altra giustizia è possibile” di Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 24 ottobre 2018 Al convegno Nazionale dei Cappellani nelle carceri a Montesilvano, Luciano Eusebi, professore di diritto penale, e Mons. Tommaso Valentinetti arcivescovo metropolita di Pescara-Penne, si confrontano. “Non è solo questione di misericordia”, dicono, “è che l’occhio per occhio non previene il crimine”. Un’altra giustizia è possibile? Una giustizia che non si limiti a retribuire il dolore causato con il dolore di una sanzione punitiva inflitta? È il tema di fondo del Convegno nazionale dei Cappellani delle carceri in corso a Montesilvano (Pescara) “Chiesa riconciliata in carcere”. Nessuno si nasconde neppure a voce alta, pur nell’ottimismo della fede e della volontà, che siano domande spinose nella società civile, tentata da pulsioni securitarie, e pure in una Chiesa in cui l’istanza di Papa Francesco per il primato della misericordia trova le resistenze di coloro che Luciano Eusebi, professore di Diritto Penale all’Università cattolica di Milano, chiama scherzando ma non troppo più “cattolici del papa”, pronti a leggere alla lettera alcune pagine veterotestamentarie sulla giustizia. È convinto che, sì, una giustizia non meramente retributiva (l’occhio per occhio, per intenderci) sia non solo possibile e auspicabile in quanto misericordiosa, ma pure conveniente per la società civile: “Una giustizia meramente retributiva”, spiega il professore, “dice che tutto quello che c’è da fare è applicare un corrispettivo, ma così non si risolve il problema della criminalità, che fuori continua come prima e magari si ripete se il recluso diventa recidivo, si dimentica invece l’importanza prevenzione primaria contro i fattori che generano criminalità: in Italia non c’è una sola cattedra universitaria che si occupi di progettazione politico criminale. La prevenzione ha dimensione da un lato educativo-culturale, dall’altro politico-sociale”. Passa agli esempi, perché tutto sia chiaro: “Il crimine si previene anche scrivendo una buona legge sugli appalti, scrivendo norme per superare i paradisi bancari, contro il nero fiscale, lavorando a potenziare, non a demolire il servizio sociale, ma questo non porta consenso alle elezioni come aumentare le pene, che però certo non servono a prevenire gli omicidi in famiglia. Non dimentichiamo che, esclusi i reati d’impeto, quelli sessuali e di terrorismo, per la stragrande maggioranza i reati perseguono tornaconti economici, se vogliamo prevenirli dobbiamo renderli poco convenienti: aumentando i controlli non aumentando le pene”. Alla parte più laica e tecnica - anche se immersa in un discorso più lungo e complesso che mostra una profonda conoscenza delle Scritture e una altrettanto profonda adesione alla sensibilità cristiana - del professore, fa eco il contraltare più strettamente religioso, ma concreto, dell’arcivescovo metropolita di Pescara-Penne, Monsignor Tommaso Valentinetti: “Quando si pensa al reato nella Scrittura si pensa alla legge del taglione: occhio per occhio, che però storicamente non è nato per invitare alla reciprocità della pena, ma per disinnescare la vendetta. Per dire all’individuo: se tu ricevi offesa non ti è lecito ridare più di quello che ti è consentito ridare e non spetta a te ridarlo direttamente ma a chi ha titolo per ridare. E rimette a Dio l’esecuzione della giustizia”. “Se partiamo”, spiega ancora l’arcivescovo, “da questo concetto base e non dai concetti che vorrebbero far passare in modo fondamentalista l’idea di perpetuare nel tempo quelle pene, dobbiamo dire che l’unico che ci ha mostrato il vero volto del Padre è Gesù: Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio ce lo ha rivelato. Sul tema del male commesso Gesù viaggia su tre direttrici: misericordia, perdono, pentimento”. Queste tre direttrici sono valide: “non solo da un punto di fede ma anche da un punto di vista umano, e infatti su di esse fondano i presupposti la cosiddetta mediazione penale e la giustizia riparativa. Se si esclude una delle tre, infatti, si esclude una delle parti e non si arriva al risultato di riparare la ferita inferta alla società con il reato. Devono agire tre persone: il colpevole, la vittima, la comunità”. I tre elementi - ribadisce l’arcivescovo - sono imprescindibili: “Se agisce solo il colpevole c’è solo il pentimento. Se agisce solo la vittima c’è solo il perdono. Se agisce solo la comunità c’è solo la misericordia”. Le domande dei tanti presenti, al termine delle relazioni, dicono di come il tema sia sensibile e aperto. Ma quello che più si respira è il timore che, nel contesto del dibattito presente, in cui si parla tanto di “buttare le chiavi”, si facciano passi indietro sull’articolo 27 della Costituzione, sulle conquiste degli ultimi trent’anni rivolte a un diritto penale che tenda a rieducare e che non vincoli il reo a vita al proprio errore mettendo in conto almeno, nel pagare il debito con la società, la possibilità di un ripensamento. Non è difficile prevedere le domande di fuori - fanno eco in tanto non detto - e con esse il rischio che quello che si dice in questo incontro sia percepito, in contesti diversi, come ingenuamente ottimistico nella migliore delle ipotesi, ma è un rischio che chi, come i tanti sacerdoti suore presenti, obbedisce all’ “Ero carcerato e mi avete visitato”; a “Quello che avete fatto a ognuno di questi piccoli l’avete fatto a me”, accetta volentieri di correre per non perdere il senso di una missione, di un ministero, di una scelta di vita. Ma anche nella constatazione quotidiane che così com’è il carcere non promette ciò che mantiene neppure in termini di sicurezza sociale e civile. Trasferimenti automatici dei detenuti per motivi disciplinari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 ottobre 2018 Una circolare del Dap stabilisce la nuova modalità di gestione dei detenuti e i loro spostamenti. l’unica eccezione è per i reclusi con gravi problemi psichici che, a causa della loro patologia, commettono atti violenti, meritevoli di cure e trattamenti terapeutici. Il trasferimento per motivi disciplinari non è più l’extrema ratio. Automatizzato il ricorso al trasferimento dei detenuti presso altri istituti, in alcuni casi anche extra territoriali, come strumento risolutivo al sempre più frequente ripetersi di eventi critici e violenze. Questa in sintesi è stata la disposizione della circolare del 9 ottobre scorso del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, inviata ai Provveditori regionali e ai direttori degli istituti penitenziari per tentare di porre un argine all’impennata di aggressioni ed eventi critici degli ultimi mesi. Il ministro della Giustizia, con un comunicato, fa sapere che da inizio settembre 2018, sono stati 77, fra trasferimenti per motivi di sicurezza e assegnazioni a regime di sorveglianza particolare, i provvedimenti emessi nei confronti di detenuti violenti, compresi quelli che hanno riguardato i tredici detenuti del carcere di Sanremo. A fronte di quasi novanta episodi di varia gravità, 56 sono stati i trasferimenti disposti dai Provveditorati regionali fra istituti dello stesso ambito di competenza territoriale; degli altri 21 provvedimenti disposti dal Dap, 16 hanno riguardato il trasferimento in istituti extra- distretto e 5 l’attivazione, la proroga o l’applicazione del regime di sorveglianza particolare previsto dall’art. 14 bis dell’Ordinamento penitenziario. La circolare del Dap risulta di respiro diverso rispetto a quella del 2014 emessa dalla scorsa amministrazione a guida di Santi Consolo. Sì, perché in base alla vecchia circolare, tale trasferimento non poteva essere utilizzato come modalità di gestione dei detenuti che presentano aspetti di problematicità, ma doveva essere l’extrema ratio, poiché la gestione del detenuto va piuttosto improntata al dialogo e al processo di conoscenza. Il trasferimento, quindi, sempre secondo la circolare a firma dell’ex capo del Dap, doveva essere esperito solo previa conoscenza dei problemi collegati al detenuto, al fine di capire come affrontarli nel suo interesse; in ogni caso, occorreva fornire elementi probatori concreti e oggettivi da cui risulti l’impossibilità di gestione. Altro elemento importante è che la circolare prevedeva il rispetto della territorialità della pena, quindi il trasferimento per motivi disciplinari - sempre applicati come ultimo rimedio - dovevano avvenire entro il territorio di appartenenza. Il trasferimento per motivi di sicurezza è disposto quando la permanenza di un detenuto nell’istituto comporti un rischio effettivo per la sicurezza interna e per l’incolumità dello stesso detenuto. Questi motivi devono essere gravi, ma spesso sono indicati genericamente e sono sforniti dei necessari elementi probatori. La nuova circolare del Dap rende più fruibile il ricorso al trasferimento. Si tratta di uno strumento risolutivo, oppure un rimandare il problema in altri Istituti? Sempre la recente circolare, però, fa le dovute distinzioni tra i detenuti “normali” e quelli con gravi problemi psichici che, a causa della loro patologia, commettono atti violenti. Quest’ultimi, secondo il Dap, sono meritevoli di cure e trattamenti terapeutici che il più delle volte gli ambienti penitenziari non riescono a garantire. Per questo motivo il Dap suggerisce il coinvolgimento del partner pubblico regionale, deputato a garantire adeguati percorsi trattamentali e curativi a favore dei detenuti psichiatrici. Se hai voglia di shopping, soddisfala con “Made in Carcere” tgcom24.mediaset.it, 24 ottobre 2018 Sviluppo sostenibile, mercato responsabile e sostegno a iniziative etiche e nobili: da oggi puoi acquistare tanti oggetti belli e fatti a mano dalle detenute. Casa e arredo, ma non solo: borse, shopper, braccialetti, cuscini, presine, accessori per prodotti hi-tech sono solo alcuni degli oggetti che si possono comprare da Made in Carcere, brand della Onlus “Officina Creativa” che dal 2008 garantisce a donne e minori in stato di detenzione di lavorare, percepire una retribuzione ed utilizzare il periodo di reclusione per cominciare un nuovo percorso di reinserimento sociale. Forse non tutti lo sanno, ma è stato creato un nuovo modello di produzione, il BIL: Benessere Interno Lordo. Già, perché la strada scelta da Made in Carcere è quella di competere sul mercato in maniera responsabile, dando valore e sostegno a iniziative etiche nobili con l’obiettivo non soltanto di sostenere l’ambiente attraverso il recupero di scarti e residui tessili, ma anche e soprattutto per cercare di contenere la recidiva dell’80% (ovvero, l’80% di chi non lavora torna a delinquere una volta scontata la pena) delle persone in stato di detenzione e ridurre i costi a carico della collettività. Made in Carcere permette a donne e a minorenni detenuti, che vivono ai margini della società, di lavorare, restituendo consapevolezza e dignità alle persone. Nello stesso tempo, si tratta di una attività dal forte impatto ambientale, perché i tessuti inutilizzati e scartati dalle imprese vengono riutilizzati e diventano la materia prima per le lavorazioni in carcere; inoltre è stata realizzata una sartoria dove i materiali di scarto delle aziende partner viene raccolto e trasformato in nuovi prodotti solidali o anche in gadget personalizzati per eventi e convegni, tutti fatti rigorosamente a mano dalle detenute. Per i più golosi, non mancano i dolcetti: con le Scappattelle è stato avviato un nuovo laboratorio artigianale di pasticceria all’interno delle carceri minorili dove vengono prodotti biscotti con materia prima di primissima qualità adatti anche a chi è vegano. Insomma, tante cose belle e buone che non bisogna lasciarsi scappare: un’idea in più per portarsi avanti con i regali di Natale in maniera etica e solidale. Qualche proposta per risolvere il problema delle carceri sovraffollate di Bruno Ferraro* Libero, 24 ottobre 2018 Rieducazione da migliorare. La detenzione in carcere non è la migliore soluzione possibile, bensì l’unica soluzione a disposizione della società civile per difendersi, isolandoli, dai delinquenti che minano le basi su cui essa si fonda: quelle che esigono il reciproco rispetto e l’osservanza delle leggi che disciplinano il rapporto tra i consociati. Senza arrivare agli estremi della società nordamericana, che risolve il problema della crescita dei detenuti e della intangibilità della pena costruendo nuove carceri, auspico qui da noi un pragmatismo ed un realismo di fondo che spesso fa difetto nelle concezioni di quanti parlano del sistema carcerario senza minimamente conoscerlo. In un periodo della mia vita professionale, coincidente con quello della restrizione di numerosi criminali politici od ideologizzati, me ne sono direttamente occupato e quindi ne posso discutere a ragion veduta. Quali i problemi più rilevanti è presto detto. Sovraffollamento. Se è vero che esiste un surplus nel numero dei detenuti rispetto alla capienza ottimale di circa 50mila posti, è pur vero che le carceri costano sia per costruirle sia per mantenerle in funzione. Peraltro il problema si risolverebbe da solo se ogni Paese si riprendesse i detenuti suoi cittadini che, per quanto riguarda l’Italia, sono circa il 40% del totale (per l’esattezza 20mila sul totale di 57.393 a settembre 2017). Occorre quindi attivarsi per giungere ad intese bilaterali o plurilaterali. Che un detenuto romeno, condannato da un tribunale romeno per reati commessi in quel Paese, sia stato ritenuto dalla Cassazione qualche mese fa “meritevole” di scontare la pena in un carcere italiano in quanto la Romania non garantirebbe una carcerazione non umiliante né degradante, costituisce un precedente pericoloso e paradossale: pericoloso perché potrebbe essere esteso a migliaia di altri detenuti (marocchini, albanesi, tunisini su tutti); paradossale perché la Romania fa parte come noi dell’Ue. Quanto meno, bisognerebbe obbligare i Paesi di provenienza a rimborsarci le spese di vitto e mantenimento in carcere che ammontano a poco meno di 150 euro al giorno! Corpo degli agenti di polizia penitenziaria. Va sicuramente rimpolpato l’organico, coprendo i vuoti che ascendono ad alcune migliaia. Va ritoccato il trattamento economico piuttosto basso. Vanno previste misure per assicurare i contatti con le proprie famiglie, spesso residenti a centinaia di chilometri di distanza. Vanno forse ridotti anche i turni, visto che con gli attuali depressioni e suicidi sono all’ordine del giorno. Va stabilito un supporto psicologico, che paradossalmente è previsto in misura maggiore per i reclusi. La vita in carcere. Certamente è penosa la restrizione, ma non se ne può fare a meno. La rieducazione va migliorata, rafforzata ed incoraggiata, ma a chi sgarra non si deve usare indulgenza, prendendo esempio dai Paesi del Nord Europa che registrano percentuali più basse di recidivi. Va soprattutto accresciuta la vigilanza interna per impedire che le carceri si trasformino in scuole di perfezionamento e reclutamento di delinquenti. Sono misure minime che mi sento di auspicare. Gli agenti che hanno scelto di non partecipare l’anno scorso ai festeggiamenti per i 200 anni del corpo, hanno protestato anche per il regime di “vigilanza dinamica” varato dal Dap (detenuti fuori cella per otto ore al giorno con controlli sporadici) che ha dato luogo ad episodi di “insofferenza” inenarrabili. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Meglio non abusare della parola “popolo” di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 24 ottobre 2018 Viene associato al governo, al premier, alla manovra di bilancio, ma nessuno ha il coraggio di chiedersi cosa ci sia dietro quel termine generico. Coltivo una insofferenza, non so quanto collettivamente condivisa: non ne posso più dell’eccessivo uso che si fa, nella dialettica politica, della parola “popolo”. Tutto è del popolo (il governo, il premier, la manovra di bilancio), ma nessuno ha il coraggio di chiedersi cosa ci sia dietro quel generico “popolo”. Per carità, il genericismo è obbligato quando si vuole dare valore politico a dinamiche sociali complesse, ma rischia di diventare solo un riferimento retorico (ai poveri, agli esclusi, agli oppressi), magari con una veloce incidenza nell’opinione pubblica, ma destinato ad una decrescente incisività nel medio termine. Mi permetto allora di sperimentare uno slittamento semantico: cioè di non parlare di popolo, ma di “popolazione italiana adulta”, cioè di quella maggioranza attiva (fra i 30 e i 65 anni di età) che manda avanti la ordinaria dinamica dell’economia, che vive più o meno felicemente la quotidianità del sociale, e che peraltro fa maggioranza elettorale. Per questo ultimo motivo è comprensibile che in molti ci si occupi di quanto la popolazione adulta (30-35 milioni di persone) possa ondeggiare verso contrastanti orientamenti politici. Ma comincia anche ad affermarsi una attenzione a quanto possa oggi significare l’aggettivo “adulto” applicato agli atteggiamenti e ai comportamenti di quel maggioritario segmento sociale. In proposito, lontano dai rimbombi della comunicazione di massa, si comincia a sospettare che in tali atteggiamenti e comportamenti non ci sia quella maturità umana che nella storia si è identificata con il temine “adulto”. Per decenni, se non per secoli, si diventava adulto quando si erano terminati gli studi; si cominciava a lavorare; si andava a vivere per proprio conto; si decideva di comprare una casa; si presagiva una prospettiva di matrimonio; si coltivava la possibilità di una carriera professionale e di un avanzamento sociale. Raggiungendo con tutto ciò un equilibrio di vita e di stabilità nel lungo periodo che potevamo chiamare sia maturità che età adulta. Questi tradizionali convincimenti non hanno più riscontro nella realtà dei fatti: il ciclo degli studi non finisce mai; il lavoro non si trova se non in spezzoni piccoli e senza continuità; è sempre più difficile lasciare il grembo sicuro dei genitori; si è sempre più restii a sposarsi ed a fare nuova casa e nuova famiglia (ci si sposa sempre di meno e addirittura ci si sposa solo se si ha la garanzia di poter sciogliere il vincolo); l’avanzamento di carriera è sempre meno possibile, essendosi frenata la mobilità sociale (il cosiddetto ascensore sociale). Va quindi preso atto che le dinamiche antiche del diventare adulto sono sempre più deboli, così la nostra “popolazione adulta” non ha passato le prove di entrata nella mentalità adulta e matura. Anzi, in ricerche e sondaggi recenti, riscontriamo una soggettività così spinta, quasi adolescenziale, da fomentare il sospetto (almeno in noi più anziani) che ci sia in essa una consistente vena di immaturità, solo che si pensi che in essa ci sono 6 milioni di persone che hanno scelto e deciso di tatuarsi, 4 milioni di persone che consumano cannabis; 3 milioni di persone che usano integratori alimentari, e oltre mezzo milione che sono patologicamente dipendenti dal giuoco e dalle scommesse, sono cioè in piena ludopatia. Ci troviamo allora in presenza di una figura (la popolazione adulta) che tende a caratterizzarsi in una differenziata esperienzialità dei singoli e che difficilmente non può diventarne caratteristica sociale complessiva, e compattarsi in una netta configurazione di “popolo” sempre meno quindi utilizzabile. La cosa, mi rendo conto, è complicata, ed anche discutibile, specialmente nel mondo dei social; ma è proprio tale complicazione che ci dovrebbe spingere a un uso non eccessivo del termine “popolo”, sostenendo e stravolgendo un concetto che sta perdendo di consistenza chiara e forte. Sono lontani i tempi in cui Moro parlava di un impegno comune di “governo e popolo”; forse non ci tornerebbe sopra, ma sicuramente non andrebbe indietro ad unificare i due termini (governo del popolo), il che andrebbe contro la dignità di due mondi vitali ognuno per proprio conto. Troppi processi vanno in fumo. Si sa perché, ma non si fa nulla di Bruno Tinti Italia Oggi, 24 ottobre 2018 Se evitassimo di ingolfare il Tribunale (e quindi la Corte d’Appello e la Cassazione) di processi inutili (perché destinati alla prescrizione) si potrebbero fare più celermente i processi che restano e si riuscirebbe a concluderli. Una mia sconfitta mostruosa, incredibile, da magistrato, al limite del grottesco fu quella sulla prescrizione e sui connessi criteri di priorità. Lo sanno tutti che, passato un certo numero di anni, un reato si prescrive e che, a quel punto, puoi essere più colpevole di Giuda ma te ne vai “assolto perché il reato è estinto per prescrizione”. Anche qui, era ed è inutile discutere se è cosa idiota e ridicola o intelligente e civile (buona la prima, naturalmente); si deve prenderla come con la pioggia che non ti chiede se ti fa piacere bagnarti: apri l’ombrello. Che fu quello che cercai di fare io per gli ultimi dieci anni della mia vita da magistrato. Il tempo perché un reato si prescriva è variabile: per una contravvenzione si arriva a poco più di 5 anni; per tutti i reati puniti con la pena massima fino a 6 anni (sono la stragrande maggioranza) a 7 anni e mezzo; per i reati con pena massima più grave, la prescrizione arriva quando sono passati tanti anni quanti sono quelli previsti come pena massima più un terzo: per esempio, per un reato punito con 10 anni di pena massima, la prescrizione matura dopo 13 anni e 4 mesi. Dopo il mio volontario esilio, c’è stato un aumento dei termini: un anno e mezzo dopo la sentenza di primo grado e un anno mezzo dopo quella di secondo grado. Detta così, ognuno, ragionevolissimamente, si chiede dove sta il problema: possibile che non si riesca a concludere un processo penale in 9 anni e addirittura in 15/16 e così via? Possibile sì. Per via di un codice di procedura demenziale che costringe a rifare tutto quello che è stato fatto durante le indagini ma soprattutto per via della enorme quantità di processi che ci sono in Italia. Pensate che ogni anno se ne aprono 3 milioni di nuovi; in Inghilterra, Paese con la stessa quantità di abitanti e con un numero di giudici più o meno uguale, ne arrivano 300 mila. Questo significa che un fascicolo giunto oggi in Procura sarà istruito molto tempo dopo (salvo, si capisce, casi particolari), quando arriverà il suo turno: uno o anche due anni. Poi il Tribunale fisserà il processo non prima di un anno e mezzo, inoltre il processo non si chiude mai in una sola udienza, almeno un anno dura. E così siamo arrivati a 4 o 5 anni. Per arrivare al processo d’Appello bisogna aspettare (a Torino, nel resto d’Italia va peggio) altri 5 anni: siamo a 9, 10 anni, nella stragrande maggioranza dei casi il processo è già morto. Poi c’è la Cassazione, ancora 3 anni di attesa. Capite che, per un imputato, non c’è molto di cui preoccuparsi. Poi c’è un altro problema. La prescrizione decorre dal momento in cui il reato è stato commesso. Sicché, per una rapina, un omicidio, una diffamazione, la Giustizia si attiva tempestivamente: i Carabinieri cominciano le indagini, la parte offesa querela, insomma non si perde tempo. Ma pensate ai reati contro l’economia e alle corruzioni. La Guardia di Finanza comincia oggi una verifica (che copre tre anni di attività pregressa, per esempio 2015, 2016, 2017); alla fine del 2019 comunicherà alla Procura che, nel primo anno preso in verifica (il 2015), ha constatato una frode fiscale o un falso in bilancio e che c’è ragione di ritenere che queste somme siano finite nella tasca del deputato tale. Le indagini cominciano subito ma 5 anni del tempo necessario a prescrivere (7 anni e mezzo) sono già trascorsi: per arrivare a una condanna confermata in Cassazione restano solo 2 anni e mezzo; più l’anno e mezzo dopo la sentenza di Tribunale e l’anno e mezzo dopo la sentenza d’appello. Ma alla sentenza di Tribunale non ci si arriverà mai: indagini, udienza preliminare, dibattimento i due anni e mezzo se li “fumano” come niente; e poi, “assolto, assolto”, come disse l’avvocato Bongiorno quando ad Andreotti fu applicata la prescrizione. E, se anche ci si arrivasse, tra il Tribunale e l’Appello passano almeno 5 anni: prescrizione garantita. Adesso che ne sapete quanto me sulla prescrizione, potete capire che non avevo tutti i torti quando dissi a capi e colleghi vice capi:” Sentite, noi sappiamo che ci mettiamo da un anno a due anni per chiudere un’indagine; che il Tribunale comincerà il processo dopo un anno e mezzo e che questo durerà circa un anno; che l’Appello lo fisserà dopo 5 anni e che la Cassazione lo fisserà dopo altri 3.Totale 13 anni mal contati. Non dico che dobbiamo fare solo gli omicidi e il traffico di droga che si prescrivono dopo 15, 20 anni; proviamo a fare anche qualcosa d’altro. Ma mi dite perché dobbiamo puntigliosamente mandare a giudizio migliaia di processi che non si faranno mai perché il Tribunale quasi certamente e l’Appello certamente dichiareranno la prescrizione?” Aggiunsi: “Inoltre, se evitassimo di ingolfare il Tribunale (e quindi la Corte d’Appello e la Cassazione) di processi inutili (sono destinati alla morte) si potrebbero fare più celermente i processi che restano e riuscire a concluderli prima che maturi la prescrizione. Andassimo avanti così per due o tre anni, innescheremmo un circuito virtuoso e si potrebbero fare sempre più processi. Insomma, i processi prescritti non solo sono una perdita di tempo ma tolgono tempo a quelli che potrebbero essere fatti e conclusi prima della prescrizione. In giuridichese si dice “danno emergente e lucro cessante”, in napoletano “cornuto e mazziato”; e noi così siamo messi”. E conclusi: “Ovvio che l’iniziativa deve essere nostra: noi siamo alla base della catena, siamo il rubinetto che manda l’acqua al lavandino (il Tribunale e poi l’Appello ecc.). Se non chiudiamo noi, chi lo fa?” È qui che sbagliai: una cosa condivisa, si poteva vedere. Ma un’iniziativa autonoma... Poi c’erano le solite obiezioni: è una questione politica, non tocca a noi scegliere quali processi fare e quali no, ma tu davvero vuoi fare una circolare in cui spieghi che centinaia di reati non saranno perseguiti? (qui, devo dire, tremavano i polsi anche a me). E insomma non se ne fece nulla. È così che siamo arrivati al violentatore di una bambina di 7 anni, assolto in Appello per prescrizione dopo 20 anni: la vittima ne aveva ormai 27. Violenze in famiglia: condanne in aumento. Crescono le aggressioni a ex mogli o compagne di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 24 ottobre 2018 Bassa l’età delle vittime, poche nei Centri d’aiuto. Sempre più incapace di gestire crisi di coppia e separazioni. Così appare l’uomo, in un dossier curato da legali e magistrati. Analizzate 218 sentenze su maltrattamenti e atti persecutori in famiglia. È nei momenti più difficili e negativi della coppia, quelli dell’incrinazione o della rottura del rapporto, che la donna diventa la vittima quasi predestinata delle violenze dell’uomo. Da uno studio su 218 sentenze per reati come maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e atti persecutori commessi all’interno della coppia o dopo la separazione emerge un uomo che sembra sempre più giovane e incapace di gestire le crisi. Il lavoro sarà presentato oggi nel convegno sugli “Strumenti giuridici di protezione delle donne vittime di violenza” organizzato al Pirellone dall’Ordine degli avvocati di Milano e dalla Regione Lombardia. A realizzarlo è stato un team di magistrati e avvocati che ha analizzato le decisioni dei Tribunali di Milano (157 sentenze), Como (21) e Pavia (40) tra il 1° settembre 2017 e il 31 agosto 2018. È emerso che poco più della maggioranza degli imputati maschi sono italiani (56%), così come lo sono le donne che chiamano in aiuto le forze dell’ordine. “È un fenomeno trasversale, nella mia esperienza professionale ho avuto sia clienti italiane che straniere”, dice l’avvocato Silvia Belloni che fa parte del gruppo di lavoro dell’Ordine professionale di Milano presieduto da Remo Danovi che in collaborazione con la Regione tiene corsi di formazione sulla materia ai quali hanno già partecipato 600 legali lombardi. È un dato “positivo”, secondo il giudice Fabio Roia, presidente della sezione “Misure di prevenzione” del tribunale di Milano, dovuto al “lavoro di sensibilizzazione fatto con la rete dei consolati in Lombardia che ha favorito l’emersione del fenomeno da parte delle donne straniere”. Il 68% dei processi si chiude con la condanna dell’imputato, in 63 casi su 161 a pene superiori a 4 anni di reclusione. Le assoluzioni piene sono il 16%, quelle parziali il 6%, il 10% i proscioglimenti. L’analisi fa registrare un aumento delle condanne rispetto al periodo temporale precedente, risultato che l’avvocato Belloni interpreta in modo positivo per le donne, perché dimostra che si “sta riducendo il fenomeno delle denunce ritenute false o strumentali”, anche grazie alla sempre migliore specializzazione dei giudici. E dietro i proscioglimenti, spiega il legale, può esserci il ritiro della querela da parte di una donna che rinuncia ad andare oltre perché è consapevole che dovrà tornare a convivere con il compagno anche dopo un eventuale processo. “Quello delle false denunce è un mito infondato. Spesso l’unica prova è data dalla testimonianza della donna. Può anche capitare che ritiri la denuncia ingannata dall’atteggiamento dell’uomo che sembra pentito”, afferma Fabio Roia il quale ricorda come di recente il Csm ha mandato a tutti i capi degli uffici giudiziari una circolare per migliorare la qualità dell’azione della magistratura sulla materia attraverso una maggiore specializzazione dei giudici e dei pubblici ministeri e una riduzione dei tempi dei processi. Solo il 49% delle vittime va al pronto soccorso. Bassissima la percentuale di maltrattate o violentate che ricorre ai centri antiviolenza: appena il 18%. Tra l’imputato e la parte offesa i legami ricorrenti sono la convivenza o il matrimonio (55%), ma le violenze (32%) avvengono anche dopo la fine del legame. Nel 29,9 % dei casi chi picchia, maltratta e violenta soffre di dipendenze da alcolici (29,9%), da droghe (14,3%) e, seppure in maniera minore, dal gioco (2%). “La dipendenza agisce come fattore di accelerazione della violenza che il soggetto si porta dentro”, spiega Roia. Illuminante l’età sempre più bassa di vittime e carnefici. Nell’81% dei processi le prime hanno tra 17 e 45 anni; percentuale che per i secondi si attesta al 68%. “E un dato preoccupante perché significa che le attività di prevenzione ed educazione al rispetto non funzionano” dice il giudice Roia. L’Ordine degli avvocati, evidenzia Belloni, per contrastare il fenomeno delle violenze interviene con sportelli dove le donne possono ottenere gratuitamente un orientamento sugli strumenti legali a loro disposizione. Sportellate su Mafia Capitale. Intervista con Pignatone di Claudio Cerasa Il Foglio, 24 ottobre 2018 Caso Consip, sentenza su Raggi, abusi sulle intercettazioni, rischi del populismo penale e storia della “piccola mafia capitale”. Pazza chiacchierata con il procuratore capo di Roma. Abbiamo fatto una mezza pazzia e abbiamo provato a capire se ciò che ci sembrava difficile sarebbe stato possibile. Abbiamo passato anni, su questo giornale, a spiegare le ragioni per cui a nostro avviso l’inchiesta su Mafia Capitale aveva tutti i tratti di un’inchiesta sbagliata, carica di fatti alternativi tutti tendenti a trasformare la Capitale d’Italia una nuova Corleone dominata da benzinai piuttosto che da padrini, e abbiamo anche provato a spiegare perché, a prescindere da quale sarà l’iter giudiziario di una delle più famose inchieste italiane degli ultimi anni, dire che a Roma esistono i requisiti classici dell’organizzazione per delinquere di stampo mafioso è un qualcosa che meriterebbe di essere lasciato solo agli sceneggiati televisivi. Abbiamo fatto dunque una mezza pazzia e dopo la sentenza con cui la Corte di appello, a settembre, ha confermato ciò che la sentenza di primo grado non aveva confermato, ovvero che a Roma esiste una Mafia Capitale e che “la forza intimidatrice” di un’associazione di tipo mafioso non deve essere esclusivamente fondata sulla “violenza” ma anche sulla “contiguità politica ed elettorale” che trova nel “metodo corruttivo” la sua peculiarità, abbiamo chiesto in modo sfacciato al procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, di discutere di questa storia della mafia a Roma proprio con noi. Pignatone ha accettato con un sorriso, promettendoci di farci cambiare idea su Mafia Capitale - non è successo, ma qualcosa in più l’abbiamo capito - e noi abbiamo colto quest’occasione per provare a ragionare, per quanto possibile, su una serie di inchieste delicate che passano oggi dalla procura di Pignatone e a osservare con un taglio non convenzionale cosa c’è che non funziona oggi nella giustizia italiana. L’elenco delle indagini note partite dalla procura di Roma, Mafia Capitale a parte, è notevole e nei prossimi mesi la procura romana tornerà a essere al centro dei riflettori per via di alcuni casi giudiziari che in un verso o in un altro contribuiranno a scrivere alcuni pezzi della storia italiana. Entro l’anno, sarà chiaro che fine farà Alfredo Romeo, rinviato a giudizio per una tangente da 100 mila euro che avrebbe versato all’ex dirigente di Consip Marco Gasparri, che da parte sua ha già patteggiato la pena di un anno e otto mesi per il reato di corruzione. Entro l’anno sarà chiaro che fine faranno le inchieste aperte dalla procura di Roma su Gianpaolo Scafarto, accusato dei reati di falso, depistaggio e rivelazione di segreto istruttorio nell’ambito dell’inchiesta Consip. Entro l’anno sarà chiaro che fine faranno le indagini a carico di Luca Lotti, Filippo Vannoni, Emanuele Saltalamacchia, Tullio Del Sette accusati sempre nel filone Consip di rivelazione di segreto d’ufficio. Entro l’anno, dovrebbe essere chiaro anche il futuro dell’indagine sul braccio destro di Virginia Raggi Luca Lanzalone, arrestato a giugno con l’accusa di associazione per delinquere. In tempi brevi si saprà se verrà presentata la richiesta di rinvio a giudizio e se arriverà a sentenza il processo a carico di Raffaele Marra per corruzione. Ed entro l’anno, infine, dovrebbe essere anche chiaro il futuro di Virginia Raggi, accusata di falso per la nomina a capo della direzione Turismo di Renato Marra, fratello di Raffaele, e il cui processo, salvo novità delle prossime settimane, andrà a sentenza il dieci novembre - la pena per il falso arriva al massimo fino a sei anni, in caso di condanna il sindaco di Roma ha annunciato che si dimetterà, in caso di assoluzione il sindaco di Roma potrà rivendicare il fatto di non avere la minima idea di quello che succede nel suo comune. La nostra conversazione con Giuseppe Pignatone comincia da lontano e, premesso naturalmente che per tutti gli indagati vale la presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva, comincia da un altro caso che negli ultimi anni ha portato la procura di Roma al centro del dibattito pubblico: il caso Consip. Con Pignatone partiamo da qui. Il procuratore capo di Roma inizia e la mette così: “Sotto la dizione di caso Consip si indicano tanti e diversi filoni di indagine, alcuni dei quali già arrivati davanti ai giudici; ma, al di là di quello che sarà il destino dell’inchiesta, credo sia stato importante avere accertato che l’informativa dei carabinieri del Noe conteneva delle affermazioni non corrispondenti al vero”. Il riferimento di Pignatone è relativo ad alcuni punti dell’inchiesta che ha coinvolto anche i famigliari dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi e il procuratore capo di Roma - la cui procura una volta ricevuta l’indagine da Napoli ha revocato al Nucleo operativo ecologico scelto da Henry John Woodcock la delega per le ulteriori indagini affidandole al Nucleo investigativo di Roma dell’Arma dei carabinieri - rivendica di aver già raggiunto un risultato: “Nell’informativa ci sono affermazioni non corrispondenti al vero” ma “a oggi non è stato stabilito se siano state fatte in buona o cattiva fede”. Chiediamo al procuratore: ma se fossero state fatte in cattiva fede, un cittadino cosa dovrebbe desumere? “Non è compito mio rispondere a questa domanda. Noi non abbiamo mai parlato di complotto”. A sua memoria era mai successo che la famiglia legata a un presidente del Consiglio fosse oggetto di una informativa non corrispondente al vero? Il procuratore dice di non poter rispondere alla domanda, ci pensa e la prende alla larga. “Credo siano stati raggiunti alcuni risultati significativi. Così come credo sia stato importante provare ad accertare le singole responsabilità sulle rivelazioni di notizie coperte da segreto investigativo”. Pignatone si riferisce non solo al sospetto che Scafarto abbia passato al Fatto quotidiano il 22 dicembre del 2017 alcune notizie che non potevano essere rivelate ma anche “alle gravissime rivelazioni illecite che hanno costellato la prima fase delle indagini, probabilmente pregiudicandone alcuni possibili esiti”. Lo spunto di Consip ci permette dunque di restare su un tema a cui il procuratore di Roma ha dedicato molta attenzione negli ultimi anni: le intercettazioni. Più o meno tre anni fa Pignatone inviò ai magistrati del suo ufficio una circolare relativa alla corretta individuazione del materiale da trascrivere. Tre anni dopo Pignatone dice che qualcosa è cambiato in positivo e coglie l’occasione di questa chiacchierata per provare a spiegare perché un paese che sottovaluta il tema delle intercettazioni date in pasto all’opinione pubblica senza controllo è un paese che ha smesso di avere a cuore lo stato di diritto. “La circolare aveva un obiettivo: ricordare che il materiale manifestamente irrilevante non deve essere trascritto. Questa circolare è stata la prima di una serie, molti uffici poi hanno fatto circolari simili e credo abbia fornito uno stimolo anche al Consiglio superiore della magistratura, che ha poi emanato una direttiva che raccoglie le indicazioni dei procuratori. Il punto dovrebbe essere evidente. Il codice prevede che le intercettazioni irrilevanti vengano stralciate dal giudice. La circolare aveva come obiettivo quello di far capire che ancora prima dell’intervento del giudice è necessario fare attenzione a ciò che ha una rilevanza processuale e a ciò che non ne ha. Quello che però coloro che si occupano di questi temi, anche sui giornali, dovrebbero avere chiaro è che il concetto di irrilevanza purtroppo non è un qualcosa di oggettivo che possa essere stabilito a priori: una data circostanza può essere irrilevante per il pubblico ministero ma decisiva per il difensore, e viceversa; inoltre l’importanza di una notizia, apparentemente neutra, intercettata oggi può emergere ed essere compresa tra due mesi in relazione ad altri sviluppi dell’indagine. E ancora, vanno tenuti in considerazione la natura e l’oggetto del procedimento: una cosa è fare accertamenti chiaramente limitati su un furto o una rapina, un’altra cosa è indagare su una associazione manosa o su una rete corruttiva in cui si devono ricostruire tutti i rapporti tra i vari soggetti e possono diventare significativi anche i dati personali. Su un piano più generale, in questa delicata materia ci sono almeno quattro interessi costituzionalmente garantiti che devono essere messi in equilibrio. Primo: quello dello sta to di perseguire il reato. Secondo: il diritto di difesa. Terzo: il diritto di informazione e la libertà di critica. Quarto: quello alla privacy”. Il ragionamento di Pignatone è chiaro ma non ci aiuta a comprendere un problema sul quale proviamo a incalzare ancora il procuratore: cosa può fare oggi il sistema giudiziario e politico per combattere la dittatura dello sputtanamento? Pignatone risponde che il punto di equilibrio lo fissa il legislatore, mentre i magistrati, la polizia giudiziaria e le altre parti devono rispettarlo scrupolosamente, e ricorda che per richiamare su questo punto l’attenzione e la sensibilità degli operatori si sono dimostrate utili anche le circolari. Il procuratore, sempre su questo terreno, ci offre poi un ulteriore elemento di riflessione: se il problema sono le pubblicazioni sui giornali, dice Pignatone, “la prima osservazione da fare è che nella quasi totalità dei casi le notizie pubblicate non sono segrete perché depositate come prescrive il codice. Problema diverso è invece che anche la pubblicazione di notizie non segrete spesso costituisce reato, ma queste violazioni possono oggi essere definite in via amministrativa con il pagamento di una modesta somma. E questo è un tipico esempio di scelta discrezionale del legislatore che in questo caso ha voluto privilegiare la libertà di informazione”. Il tema delle intercettazioni, che è uno dei punti chiave del programma del governo del cambiamento, e i lettori del Foglio sanno cosa pensa questo giornale di tutti i politici che lo sputtanamento piuttosto che combatterlo lo alimentano anche a costo di violentare lo stato di diritto, ci consente di provare a entrare nel merito di alcune riforme proposte dall’attuale governo sul terreno della lotta della corruzione. Pignatone ricorda che fino a quando un testo definitivo non c’è non si può entrare nel merito di una riforma, ma su alcuni punti il procuratore non ha mai nascosto le sue posizioni e accetta di rispondere. “Il disegno di legge del governo saggiamente non ha previsto la possibilità di usare un agente provocatore per combattere la corruzione. È uno strumento pericoloso che si presta a strumentalizzazioni perché non serve necessariamente a scoprire colpevoli ma può servire invece a crearli. E ho forti dubbi anche sulla esclusione della punibilità per chi denunzia fatti di corruzione, di cui è stato responsabile, prima dell’inizio delle indagini. Si rischia in questo modo di reintrodurre dalla finestra la figura dell’agente provocatore, peraltro sganciata da qualsiasi controllo preventivo da parte del pubblico ministero”. Chiediamo al procuratore, prima di arrivare al dossier di Mafia Capitale, se per combattere in modo più efficace alcuni crimini è corretto giocare con le pene, e inasprirle. Pignatone ricorda che sulla corruzione ci sono già pene molto elevate, e che sono state anche aumentate di recente, ma concorda sul fatto che quello che il Foglio definisce “populismo penale” non è la giusta strada per migliorare il sistema della giustizia. “Il punto cruciale è l’efficienza del meccanismo processuale che ti consente di scoprire i colpevoli e poi fare un processo in tempi ragionevoli. Lo stato può anche decidere che per un delitto sia prevista la detenzione fino vent’anni, ma la minaccia cade nel vuoto se non si fanno tempestivamente i processi. Le cause della crisi sono molteplici ma certamente il sistema processuale italiano paga oltre misura la scarsità di risorse esistenti e paga naturalmente la scelta di avere tre gradi di giudizio. Non sta a me dire se sia giusto o no avere tre gradi, sono scelte del legislatore, e io ho amore per Montesquieu e la separazione dei poteri, ma bisogna sapere che le cose stanno così e regolarsi di conseguenza. Per questo non ha senso polemizzare perché in Italia ci sono molti più detenuti in attesa di giudizio che in altri paesi dove però non è previsto l’appello. Se si vuole un sistema più giusto occorre lavorare per avere un sistema più efficiente”. E come si fa a rendere più efficiente questo sistema? È una strada corretta per esempio intervenire non per ridurre i tempi dei processi ma per allungarli lavorando per rendere meno efficace il rito abbreviato e il patteggiamento e per aumentare i tempi della prescrizione come sogna di fare il governo del cambiamento? Pignatone dice che “prima di indebolire il patteggiamento e l’abbreviato sarebbe bene pensarci su”. Poi fa una pausa e riparte dal tema fogliante del populismo penale. “Non parlo di questo governo, ma osservando quanto è accaduto negli ultimi decenni in Italia mi sembra che ci sia una tendenza della politica ad aumentare le pene di fronte a problemi che hanno un grande impatto sociale. Il legislatore è libero nelle sue scelte, ma creare delle aspettative che non si è in grado di soddisfare non è un modo per rendere il sistema della giustizia più forte. Anzi, in alcuni casi rischia persino di innescare un circuito perverso di grandi attese e di conseguenti delusioni che ricadono sul sistema della giustizia penale di cui siamo tutti in qualche modo partecipi, come fruitori o come vittime”. Procuratore, ma non c’è un problema in Italia se il presidente della Repubblica è costretto a ricordare che non esiste alcun cittadino al di sopra della legge? “Non dovete chiederlo al procuratore della Repubblica”. Il procuratore non tradisce Montesquieu e allora arriviamo al tema da cui siamo partiti: la storia di Mafia Capitale. Chiediamo a bruciapelo a Pignatone: ma lei rifarebbe il famoso intervento al convegno del Pd romano che anticipò di qualche giorno gli arresti di mafia capitale? Pignatone ci fredda con lo sguardo e mentre dice “eccoci qui, aspettavo da tempo di rispondere a questa domanda” tira fuori da una carpetta alcuni fogli di carta. È il suo intervento alla conferenza programmatica del Pd del 27 novembre 2014. Pignatone ci gira le due paginette e ci dice: “Adesso mi dovete dire cosa c’era di male in quell’intervento”. Leggiamo il discorso, la prima parte scorre via bene, la seconda parte pure ma a un certo punto troviamo il passaggio incriminato: “Le indagini dei prossimi mesi ci diranno se vi sono altre organizzazioni di tipo mafioso operanti in città. E quali caratteristiche esse abbiano”. Eccolo, procuratore! “E cosa ci sarebbe di scandaloso?”, dice Pignatone, “e cosa ci sarebbe di male? Qui c’è un procuratore che viene invitato a un’assemblea programmatica di un partito, e vi assicuro che sarei andato all’assemblea programmatica di un qualsiasi altro partito che avesse voluto parlare della città in cui lavoro, dopo di che il procuratore dice che dopo alcune indagini già note a Roma, come quelle di Ostia, ce ne sarebbero state altre per verificare se sul territorio della Capitale d’Italia esiste o no la mafia. Lo abbiamo fatto con spirito laico e serio e oggi possiamo dire che chi nel 2014 diceva che a Roma la mafia non esiste aveva torto. Ma allo stesso tempo dissi, e ridirei oggi, che il problema principale di Roma non è la mafia ma è la corruzione. Così come dissi, e lo rivendico, che avremmo tenuto sempre fermo un principio base: che le indagini si fanno a 360°, senza pregiudizi di alcun tipo ne positivi ne negativi. E ovviamente noi abbiamo sempre detto, fin dal primo giorno, che Roma non è Palermo o Reggio Calabria”. Pignatone parla alla luce della sentenza di appello che su Mafia Capitale ha confermato le tesi della sua procura dopo la bocciatura in primo grado e rispetto a quella sentenza chiediamo al procuratore se non fosse stato più opportuno chiamare quell’inchiesta non “Mafia Capitale” ma “corruzione capitale”. Se il problema è la corruzione, e se la presunta mafia romana, che fino al terzo grado di giudizio resterà tale, non è la vera emergenza di Roma perché puntare tutto sull’idea che Roma sia devastata da un virus che si chiama più mafia che corruzione? “Perché noi abbiamo fatto decine di indagini e di processi sulla corruzione, a tutti i livelli, ma il dato fondamentale di questa specifica inchiesta non è la corruzione ma è la mafia. Più in generale oggi possiamo dire che, allo stato attuale dei processi, questa procura aveva ragione. La mafia a Roma esiste. Esistono i metodi mafiosi di Ostia e sono ormai numerose le sentenze dei giudici di merito e della Cassazione che hanno condannato per il reato di associazione manosa o per uso del metodo mafioso esponenti dei clan Fasciani e Spada, di quello dei Pagnozzi e di uno dei clan Casamonica, oltre che di altri gruppi criminali meno noti. C’è la mafia a Roma. E non parlare di mafia quando c’è è sbagliato e porta a sottovalutare le situazioni di crisi, come dimostra il caso di Ostia, e a non adottare le misure volute dal legislatore”. Insistiamo: era proprio necessario chiamare Mafia Capitale un’inchiesta il cui titolo ha contribuito a dare l’impressione che Roma fosse diventata la nuova Corleone? “Noi non abbiamo mai chiamato così l’inchiesta, l’abbiamo chiamata ‘Mondo di mezzo’ e abbiamo sempre detto che è una sciocchezza dire che Roma è la nuova Corleone”. Mondo di mezzo in effetti è l’espressione usata dalla procura ma, facciamo notare a Pignatone, nell’ordinanza di custodia cautelare firmata il 28 novembre 2014 dal giudice Flavia Costantini l’espressione “mafia capitale” compare, per l’esattezza, ottantasette volte, addirittura con un ammiccamento già alle prime righe della sentenza: “Mafia Capitale, volendo dare una denominazione all’organizzazione”. Pignatone fa un respiro e prova a essere diplomatico. “Dobbiamo metterci d’accordo sull’espressione. È quasi offensivo dire a me, che vengo dalla Sicilia e da Reggio Calabria e che sulla mafia a cui fa riferimento lei ho fatto indagini e processi, che confondo Carminati e compagni con la cupola di Palermo. Il punto è che c’è chi, come lei, pensa che la mafia è solo quella tradizionale delle regioni meridionali con centinaia di affiliati, un controllo militare del territorio e l’uso continuo e manifesto della violenza fisica. Ma per il codice penale non è così. E quella di Roma è una piccola mafia, ma pur essendo piccola è sempre una associazione di tipo mafioso”. Pignatone si riferisce a una sentenza della Cassazione che il 28 dicembre del 2017 si è pronunciata in merito alla configurabilità del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416bis c.p.) con riferimento alla così detta mafia “non tradizionale”, rappresentata, nel caso specifico, dalla attività criminale del clan Fasciani di Ostia”. In tema di mafia “non tradizionale” (o “non storica”), la Cassazione ha ribadito l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “nello schema normativo previsto dall’art. 416-bis c.p. non rientrano solo grandi associazioni di mafia ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti, e in grado di assicurare l’assoggettamento e l’omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone, ma vi rientrano anche le piccole mafie con un basso numero di appartenenti (bastano tre persone), non necessariamente armate che assoggettano un limitato territorio o un determinato settore di attività avvalendosi, però, del metodo dell’intimidazione da cui derivano assoggettamento ed omertà”. E si riferisce ancora alla sentenza della Cassazione dell’aprile 2015 che, confermando proprio le misure cautelari di Mafia Capitale ha affermato che “ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, ed il suo esterno in termini di assoggettamento non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale”. Pignatone dice che “le piccole mafie esistono e continuano a esistere a Roma”, ricorda che ancora oggi a Roma sono operative “diverse organizzazioni mafiose” nel senso che anche negli ultimi anni “sono emersi altri gruppi che utilizzano il metodo mafioso come modo tipico di operare e stare sul mercato della criminalità”, oltre che, naturalmente, gli esponenti delle mafie tradizionali, attivi soprattutto nel traffico di droga e nel reinvestimento di grandi capitali. E rivendica il fatto che è “anche grazie alle indagini della polizia giudiziaria e della procura e al lavoro dei giudici se ciò che esisteva a Roma è stato finalmente provato”. Le convinzioni di Pignatone restano solide, le nostre pure, e alla fine ci congediamo da Piazzale Clodio con una domanda e un sorriso: procuratore, ma se tutti quanti avessero chiamato Mafia Capitale solo “piccola mafia capitale” non sarebbe stato un bene per tutti? Pignatone sorride: “Mafia Capitale è una piccola mafia ma resta sempre una mafia anche se è diversa da quella tradizionale. E se mafia capitale è stata scompaginata ne restano altre, troppe altre, che a Roma operano e si arricchiscono in danno di tutti noi, grazie anche alla sottovalutazione della loro pericolosità e della loro capacità di condizionamento”. Piccola mafia capitale. Sarebbe bello se i prossimi sceneggiati e i prossimi romanzi sulla nuova Corleone d’Italia iniziassero così. Ma abbiamo un sospetto: purtroppo siamo sicuri che non succederà. Non solo Cucchi: il silenzio é di Stato di Gian Giacomo Migone Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2018 Ilaria Cucchi ha reso un ennesimo servizio alla sicurezza democratica del nostro Paese (in ultima analisi, alla stessa Arma) quando, a conclusione del loro incontro, ha accusato pubblicamente il comandante generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, di essersi accanito contro coloro che hanno trovato il coraggio per accusare - in tribunale, Francesco Tedesco - i responsabili delle violenze mortali subite da suo fratello, in stato di arresto. In tal modo si è chiarito come, anche di fronte all’evidenza dei fatti, successivamente ricostruiti, gli alti comandi non abbiano rinunciato alla logica corporativa che costituisce purtroppo una costante che si ripete nella storia degli apparati di sicurezza del nostro Paese. Sempre secondo una logica, intrinsecamente vile, in cui il più forte colpisce il più debole, che si tratti della vittima inerme di violenza o del semplice milite che la rifiuta, obbedendo alla propria coscienza; con la pretesa di ammantarsi di un male inteso senso dello Stato che, in democrazia, esigerebbe trasparenza e un senso del dovere proporzionato ai livelli di comando. Purtroppo questa sindrome attraversa tutta la storia del nostro Paese, anche nel mutare dei regimi che lo hanno governato, con una ricorrenza che non può essere imputata soltanto agli alti comandi militari. Si tratta, insomma, di un problema di alta politica che investe le istituzioni in tutte le loro articolazioni. L’elenco sarebbe lungo, anche se alcuni esempi, lontani ma purtroppo anche recenti, bastano a confermarlo. Nel corso della Prima Repubblica sono occorsi decenni d’impegno di storici indipendenti (in primo luogo Angelo Del Boca) a desecretare gli archivi del ministero degli Esteri e della Difesa che nascondevano l’uso di gas tossici nella guerra di conquista dell’Abissinia, stupri e assassini commessi da formazioni della milizia a seguito dell’attentato a Graziani, la fredda eliminazione di un migliaio di monaci etiopi da parte dell’esercito. Quando, nel corso di una missione di peace keeping in Somalia, negli anni Novanta, alcuni militari italiani e di altra nazionalità, per loro ammissione - o, meglio, vanto perché ne diffusero la documentazione fotografica a mo’ di trofeo di caccia - commisero violenze efferate nei confronti di presunti ribelli somali, il ministro della Difesa canadese fu costretto alle dimissioni, mentre un’apposita commissione d’inchiesta, malgrado gli sforzi isolati di Tullia Zevi che ne fece parte, fu l’occasione del totale insabbiamento da parte nostra. E dico nostra, anche perché vivo tuttora con senso di colpa di non avere avuto la capacità di ottenere un diverso risultato nella posizione di responsabilità istituzionale che allora occupavo. Del G8, della Diaz e delle torture a Bolzaneto, molto è stato scritto e va sottolineato che la magistratura genovese ha compiuto un lavoro encomi abile nello sforzo di sanzionare alcuni diretti colpevoli. Ancora una volta l’intreccio di poteri omertosi politico-istituzionali è riuscito a far sì che i livelli superiori di responsabilità governativa e di comando ne siano usciti non solo esenti, ma addirittura premiati. Come se il vice questore La Barbera e altri suoi colleghi presenti sul campo, di propria iniziativa, senza ordini o gradimento superiore, avessero aggredito a freddo manifestanti innocui, seminandovi prove artefatte per poi consegnarli a camere di tortura. Persino l’attuale capo della polizia, Franco Gabrielli, ha dovuto ammettere che, al posto del suo predecessore allora in carica (Gianni De Gennaro), avrebbe sentito il dovere di dimettersi e, aggiungo io, piuttosto che procedere nella propria carriera, a capo dei Servizi segreti e, a oggi, presidente di Leonardo. Ma ciò che più colpisce, anche a distanza di tempo, oltre all’inconcludenza della stessa opposizione parlamentare dell’epoca, è il fatto che, in quelle tragiche giornate di Genova, le forze d’ordine abbiano lasciato il campo libero ai black bloc, armati di tutto punto, che hanno messo a soqquadro la città, consentendo loro una comoda ritirata. Resterebbe da affrontare il tema connesso del ripetuto abuso della ragion di Stato - com’è avvenuto in occasione del caso Abu Omar, conclusosi con sole condanne in contumacia, peraltro non perseguite - la cui storia richiede un attenzione specifica. Qui basta richiamare il fatto che, ancora una volta, alcuni responsabili funzionali di un atto di violenza, a cui è seguita una vicenda di tortura, sono stati protetti ai più alti livelli dello Stato. Lo stesso dicasi per quanto è avvenuto e sta avvenendo il Libia, sotto la responsabilità di due ministri dell’Interno di diversa collocazione (Marco Minniti e Matteo Salvini). Ancora una volta la repressione, protetta nella sua irresponsabilità violenta, risulta venata da una viltà sia morale che fisica. È scontato concludere che, per assicurare al Paese una sicurezza conforme alla Costituzione, occorre una rieducazione profonda sia nei ranghi di chi deve assicurarla sul campo sia di buona parte di una classe dirigente, politica e istituzionale. Calabria: serve un piano contro la violenza sulle donne di Mario Nasone* corrieredellacalabria.it, 24 ottobre 2018 Recentemente Papa Francesco ha affermato che “di fronte a tante donne sopraffatte dal peso della vita e dal dramma della violenza non si può guardare dall’altra parte, non si può “normalizzare” la violenza verso le donne. Queste donne il Signore le vuole libere e in piena dignità”. Anche per la nostra società calabrese è venuto il momento di guardare in faccia questa triste piaga e cercare di avviare una vera azione di prevenzione e contrasto. Per cogliere l’urgenza di risposte basti ricordare che nella statistica dei femminicidi siamo al secondo posto nel Paese dopo la Liguria, mentre cresce ogni anno il numero delle donne che si rivolgono ai centri anti-violenza o alle forze dell’ordine a seguito di aggressioni, maltrattamenti e varie forme soprattutto di violenza domestica. Un mondo di disperazione e sofferenza che colpisce anche tantissimi minori che si trovano ad assistere alla violenza che avviene tra le mura domestiche nei confronti delle loro mamme, nella quasi totalità dei casi compiute per mano dell’uomo, o che ne prendono coscienza in maniera indiretta notando i lividi, le ferite o i cambiamenti di umore nella loro madre, o osservando porte, sedie o tavoli rotti in casa. Un dramma quello della violenza sulle donne in Calabria poco conosciuto e poco raccontato anche dai media, uno spaccato di sofferenza e di maltrattamenti che nella loro gran parte non vengono alla luce per carenza di denunce che derivano anche dalla carenza di centri anti-violenza, (solo sette in tutta la Calabria) e di case rifugio. Per questo sarà importante la prima conferenza regionale sulla violenza di genere indetta in Calabria il 26 ottobre in consiglio regionale, che vedrà gli interventi di magistrati, forze dell’ordine, operatori sociali, amministratori, studiosi per fare il punto sulle azioni di contrasto attivate a livello regionale e locale, raccogliere indicazioni e proposte per l’elaborazione di un Piano regionale di contrasto alla violenza di genere. Uno strumento importante che è stato chiesto al presidente della giunta regionale Mario Oliverio che potrebbe mettere la Calabria al passo di altre regioni più virtuose prevedendo anche l’utilizzo dei fondi comunitari. La conferenza si aprirà non a caso con la testimonianza di Anna Maria Scarfò (vittima di violenza sessuale di gruppo a Taurianova quando era ancora una ragazzina, ndr), una donna che ha avuto il coraggio di ribellarsi e di denunciare, un esempio da seguire, ma anche un appello alle istituzioni a non lasciare sole tutte quelle donne che decidono di riprendersi la loro vita. *Coordinatore Osservatorio regionale sulla violenza di genere Roma: morì mentre era detenuto a Regina Coeli, la Cassazione “risarcire i parenti” Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2018 La vicenda penale riguarda la morte di Simone La Penna, avvenuta il 26 novembre 2009. I giudici hanno assolto definitivamente il direttore sanitario del reparto sanitario del carcere e ha riconosciuto la estinzione per prescrizione delle accuse nei confronti del medico. Quest’ultimo e l’Asl Roma 1 però risponderanno civilmente e dovranno risarcire i parenti. Avrà conseguenze civilistiche, in tema di risarcimenti, la vicenda penale legata alla morte di Simone La Penna, detenuto a Regina Coeli e deceduto il 26 novembre 2009 all’interno del carcere. La IV sezione della corte di Cassazione ha, infatti, assolto definitivamente il direttore sanitario del reparto sanitario del carcere, Andrea Franceschini, con la formula “per non avere commesso il fatto” e ha riconosciuto la estinzione per prescrizione delle accuse nei confronti del medico Andrea Silvano. Quest’ultimo e l’Asl Roma 1 però risponderanno civilmente e dovranno risarcire i parenti. In primo grado i due imputati erano stati condannati ad un anno di reclusione per omicidio colposo. Sentenza confermata dai giudici di secondo grado. La Penna, nel gennaio del 2009, venne portato nel carcere di Viterbo per scontare una condanna di due anni, quattro mesi e 29 giorni per detenzione di sostanze stupefacenti. Allora pesava 79 chili. Il 27 luglio venne ricoverato all’ospedale Sandro Pertini dove restò due giorni. La difesa, quindi, avanzò le richieste di arresti domiciliari ma furono respinte dal Tribunale di sorveglianza, secondo il quale il regime detentivo era compatibile con il suo stato di salute. Le condizioni continuarono a peggiorare al punto che La Penna, dopo essere dimagrito 34 chili, venne trovato morto nella sua cella il 26 novembre di nove anni fa. La sua vicenda fu accostata a quella di Stefano Cucchi morto mentre si trovava ricoverato all’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre del 2009. “Questa drammatica storia - spiegano gli avvocati Sergio Maglio e Roberto Randazzo, legali di parte civile - ha caratteristiche sotto il profilo sanitario molto più gravi di quelle del caso Cucchi, e potrebbero riguardare anche un numero ben più cospicuo di casi, considerando che la morte del giovane avvenne a distanza di 9 mesi dalle prime ed evidenti manifestazioni dei disturbi alimentari accusati dal giovane”. Lecco: il Comune ancora in cerca di un Garante dei detenuti leccoonline.com, 24 ottobre 2018 Dopo oltre un anno il Comune di Lecco è ancora alla ricerca del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale: il mandato di Alessandra Gaetani è scaduto nel giugno 2017 e nessuna candidatura è pervenuta. Il Garante dei detenuti è una figura istituita dal Consiglio comunale nel gennaio del 2014 a disposizione delle persone sottoposte a restrizione della libertà personale e delle loro famiglie. Tra i suoi compiti c’è quello di promuovere iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà e dell’umanizzazione della pena detentiva. Il Garante incontra regolarmente le persone sottoposte a limitazione della libertà nei luoghi ove essi sono ristretti e promuove l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali, aiutandole ad avere accesso ai diritti fondamentali, al lavoro, alla formazione professionale, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport, tenendo conto della loro condizione. Altre funzioni in capo al Garante dei detenuti sono quelle di promuovere iniziative congiunte e coordinate con altri soggetti pubblici, esaminare e predisporre azioni rispetto a segnalazioni che riguardino violazioni di diritti e prerogative delle persone private della libertà personale; deve poi interfacciarsi con le autorità competenti informando rispetto alle condizioni dei luoghi di reclusione, con particolare attenzione all’esercizio dei diritti riconosciuti ma non adeguatamente tutelati e promuovendo con le pubbliche amministrazioni interessate dei protocolli d’intesa utili a poter espletare le sue funzioni anche attraverso visite al luogo di detenzione, infine promuove i rapporti con le Associazioni interessate ai problemi penitenziari. Per poter presentare la propria candidatura c’è tempo fino alle 12.30 di lunedì 19 novembre: bisogna tenere presente che l’incarico è incompatibile con l’esercizio di funzioni pubbliche nei settori della giustizia e della pubblica sicurezza nonché della professione forense. È esclusa la nomina nei confronti del coniuge, di ascendenti, discendenti, parenti e affini fino al terzo grado di amministratori comunali e del personale che opera nella Casa circondariale. Sarà il Sindaco a nominare il Garante scegliendolo fra cittadini residenti nella provincia di Lecco, di indiscusso prestigio e notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, delle attività sociali. Il mandato durerà tre anni e non è prevista alcuna indennità ad eccezione di un rimborso spese documentate. Livorno: carcere, il sopralluogo dei sindacati alle Sughere livornopress.it, 24 ottobre 2018 “Le condizioni di vita e di lavoro all’interno del carcere Le Sughere sono insostenibili. I locali sono fatiscenti, cadono a pezzi. Abbiamo avvistato molti escrementi di ratti. La caserma degli agenti va ristrutturata completamente. Non sono davvero queste le condizioni migliori per favorire la rieducazione dei detenuti a una vita civile”. È quanto ha dichiarato il segretario provinciale della Fp-Cgil Giovanni Golino nel corso della conferenza stampa tenutasi presso la sede Cgil di Livorno, a seguito della visita di alcuni esponenti della Fp-Cgil all’interno del carcere. Alla conferenza stampa hanno partecipato anche Stefano Branchi (coordinatore nazionale Fp-Cgil Polizia penitenziaria), Antonio Costanzo (delegato Fp-Cgil Polizia penitenziaria), Alberto Ragusa (coordinatore provinciale Fp-Cgil Polizia penitenziaria), Stefano Turbati (coordinatore regionale Fp-Cgil giustizia) e Pietro Gambino (responsabile salute e sicurezza sui luoghi di lavoro Fp-Cgil Livorno). “Bisogna ripartire dalla dignità delle persone - ha detto Branchi - invece i nostri colleghi vengono trattati solo come numeri, costretti a lavorare in ambienti insalubri. Lo stesso discorso vale per i luoghi in cui vivono i detenuti. Questa situazione non fa altro che aumentare le tensioni all’interno della struttura. L’amministrazione penitenziaria e il ministro devono darci spiegazioni. A breve organizzaremo iniziative sempre più significative per accendere i riflettori sul carcere di Livorno”. Nel mirino di Golino anche le aree verdi: “Manca del tutto la manutenzione. Servirebbe inoltre la derattizzazione”. Capitolo cucine: “Locali invivibili”. Stesso ritornello per le docce: “inadeguate”. A quanto si capisce “mancano anche banalmente le sedie per i posti di servizio”. Anche Gambino ha evidenziato “gravi carenze strutturali”. Un esempio? “cemento armato che si stacca dal ferro”. Criticità anche per quanto riguarda la segnaletica di sicurezza: “È in gran parte assente e quando è presente è spesso sbagliata”. Gambino accusa: “L’igiene è scarsa e in alcuni locali assente. È un ambiente che non garantisce le condizioni minime di sicurezza e salubrità. Ci risulta inoltre che un protocollo di sorveglianza sanitaria non venga redatto da anni”. Ragusa ricorda i danni causati dalla tragica alluvione di un anno fa: “Gravi danni ai servizi di automazione non ancora pienamente risolti”. Gli ascensori? “Il nuovo padiglione ne ha 3: due non sono entrati mai in funzione mentre un altro funziona a singhiozzo”. “Non autorizzano neanche i detenuti a tagliare l’erba” - Come si risolvono i problemi delle Sughere? “Per intervenire servono autorizzazioni e permessi che si bloccano nel pantano della burocrazia”, spiegano i sindacalisti Cgil. “Basterebbe pochissimo - dice Golino, intanto autorizzare i detenuti a tagliare l’erba. Ma nessuno si muove. Mi rivolgo al provveditore, al direttore, al campo del dipartimento e al ministro Bonafede. Quando a maggio si è trattato di organizzare le Olimpiadi del Cuore, tutti si sono messi in mostra, parlando delle Sughere come un esempio. Quell’iniziativa, però, non solo non ha portato un euro alla struttura, ma le ha addirittura sottratto del denaro. Ci chiediamo come sia stato possibile organizzare una manifestazione, con tutte le problematiche che ci sono? Prima, forse, sarebbe stato meglio spendere tutte le energie per risolverle”. Pavia: i medici delle carceri disertano il concorso e denunciano “condizioni capestro” di Alessandro Disperati La Provincia Pavese, 24 ottobre 2018 Continua il braccio di ferro con l’Asst sui tagli allo stipendio Ma c’è chi partecipa ai test: “Ho famiglia, devo guadagnare”. Continua il braccio di ferro tra i medici delle carceri pavesi e l’Asst, dopo il taglio agli stipendi (con la paga oraria scesa nel giro di due anni da 30 a 25 euro) e il mancato rinnovo dei contratti. Ieri mattina, diciotto professionisti in servizio negli istituti penitenziari della provincia si sono recati nella sede di viale Repubblica dov’erano in programma i colloqui per il rinnovo dei contratti. Alcuni medici hanno deciso di sottoporsi al test mentre altri, in segno di protesta, sono arrivati a Voghera, ma non si sono presentati alla commissione esaminatrice. Le ragioni della protesta - “Non accettiamo i rinnovi - spiega uno dei “ribelli”, Graziella Sciacca -,perché oltre al ridimensionamento dello stipendio, abbiamo gli stessi doveri di un dipendente fisso, con turni anche di dodici ore e presenze notturne, pur essendo liberi professionisti, e questo non va bene. Come se non bastasse, lavorare all’interno di un carcere non è la stessa cosa di qualsiasi altra struttura sanitaria: i rischi sono notevolmente maggiori, sia dal punto di vista della salute che della stessa incolumità fisica. Per questo motivo io ed altri miei colleghi non intendiamo partecipare alla prova orale”. Michele Zavaglia invece è tra coloro che sono stati costretti a cedere: “Per me era impossibile rinunciare al colloquio. Sono sposato, mia moglie non lavora e ho 4 figli da mantenere, il mio reddito è l’unico per mandare avanti la famiglia. Cosa potevo fare? Il problema è che con 25 euro lordi all’ora e tutte le tasse da pagare, la situazione è davvero drammatica”. Altri due medici, Anna Davì e Elena Mori, spiegano: “Il contratto proposto dall’Asst è un insulto alla nostra professione visto che siamo passati dai 30 euro iniziali ai 25 attuali. C’è stato un decurtamento troppo elevato a fronte di un aumento del costo della vita, mentre quando eravamo in carico al Ministero di Grazia e Giustizia, la retribuzione era più congrua”. “Chiediamo all’Asst - concludono i medici in rivolta - un confronto immediato per trovare una soluzione a un sistema che assolutamente non funziona”. Ascoli Piceno: giornalisti in carcere a confronto con i detenuti Corriere Cesenate, 24 ottobre 2018 “Per tre ore mi sono sentito fuori”. Lo dice Toni, 53 anni, che nel complesso ha più di 20 anni di detenzione sulle spalle. Lo incontro nel carcere di massima sicurezza di Ascoli Piceno dove per venerdì 19 ottobre è in calendario un incontro formativo per giornalisti. Non mi lascio sfuggire l’occasione e così decido di partecipare, assieme ai 50 colleghi che gremiscono la piccola sala riunioni della casa circondariale. Tra questi anche il direttore del quotidiano Avvenire, Marco Tarquinio, e il caporedattore di InBlu Radio, Andrea Domaschio, moderati da Giovanni Tridente della Pontificia università della Santa Croce. La mattina, proposta come quinta tappa del “Meeting nazionale giornalisti cattolici e non”, non delude le attese, soprattutto quando prendono la parola i tre detenuti che la direttrice, Lucia Feliciantonio, ha pensato di fare intervenire. “Ora sono qua da protagonista - dice Toni in avvio di testimonianza -. Prima ero bellicoso, ma ora sono cresciuto. Vado a scuola per riacquistare la mia dignità. Frequento anche un piccolo laboratorio di teatro e questo mi ha destabilizzato. È un mio modo per chiedere scusa a mio padre. Lui era analfabeta e io sono uno dei suoi sette figli. Il futuro ora per me è una scommessa. La mia è una vita incompiuta”. Gli fa eco Antonio, di origini pugliesi, da sei anni in carcere. “Ho sempre ammesso le mie colpe e non è la prima volta che entro qua. Non me la sono mai presa con la società. Ho due figli, uno di 40 anni, l’altro di 30. Facevo l’ambulante. Ora ho la possibilità di lavorare e di poter guadagnare anche qualcosa”. “È la mia 18esima detenzione - dice Giampiero, 50 anni -. Sono sempre stato irrequieto e trasgressivo. Oggi ho fatto pace con me stesso. Riesco anche a occuparmi degli altri. Non so cosa mi sia successo. Mi basta un sorriso, quello che ti ripaga di tutto. Da boss a Oss (operatore socio sanitario, ndr) posso dire ora, per il volontariato che svolgo”. “Il pregiudizio si vince conoscendo - aggiunge la direttrice Feliciantonio. Il carcere è luogo di periferia e di confine. Tra giustizialisti e permissivisti, vorremmo collocarci tra quanti hanno a cuore un umanesimo che mette al centro la persona. La pena andrebbe interpretata come progetto di vita e il lavoro come tempo detentivo costruttivo, contro l’ozio in cella e l’abbruttimento davanti alla tv. Il carcere è una risorsa e i detenuti pure. Non sono rifiuti della società”. Il vescovo di Ascoli Giovanni D’Ercole ricorda come sia stata una mattina speciale, senza cellulari, con i presenti impegnati nell’ascolto reciproco e nell’attenzione ai dettagli. “Ciò che si vive da dentro non si può capire da fuori”, aggiunge con la forza di chi viene spesso qui, dietro queste sbarre, mentre il direttore Tarquinio ricorda come le parole possano essere usate contro le persone, per ferire e colpire. Una grande responsabilità per i giornalisti. Al termine scattano i saluti, gli abbracci, lo scambio di piccole esperienze di vita, il desiderio di una maggiore conoscenza. Parte anche una promessa di un nuovo incontro, magari per ridare forma al giornale del carcere, fermo all’edizione del 2013. Le emozioni sono state forti, quelle vissute dentro quelle mura, dietro dieci porte blindate che ci separano dal nostro mondo, quello libero. Si rimane senza parole, barcollanti, dopo incontri così intensi, senza veli. Non resta che prendere la penna per scrivere una dedica: “Ascoli Piceno, 19 ottobre 2018. A tutti i detenuti. Voi siete dentro e io fuori. Vi guardo negli occhi e mi chiedo perché”. Parma: “Le alternative al carcere: una strategia possibile”, aspettando don Ciotti comune.parma.it, 24 ottobre 2018 Nell’ambito di “Parma per don Luigi Ciotti” il 2° dei 4 “incontri di avvicinamento” alla laurea ad honorem dell’Università di Parma al fondatore del Gruppo Abele e di Libera. Giovedì 25 ottobre a Palazzo del Governatore. Dopo il successo del primo dei 4 “incontri di avvicinamento” alla laurea ad honorem a don Luigi Ciotti, che gli sarà conferita dall’Università di Parma il 23 novembre, è in programma giovedì 25 ottobre, alle 17, a Palazzo del Governatore, il secondo appuntamento dedicato alla condizione carceraria in Italia e alle sue possibili alternative, da sempre uno degli ambiti di impegno di don Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera. Valentina Calderone, Direttrice dell’Associazione “A buon diritto”, dialogherà con Luisa Molinari, docente di Psicologia dell’educazione al Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali - Dusic dell’Università di Parma, alla presenza anche della sociologa Vincenza Pellegrino, Delegata del Rettore per i rapporti tra Ateneo e carcere. L’incontro si propone come un’occasione per discutere sulla riforma dell’ordinamento penitenziario e sulle misure alternative al carcere, intese come strumento di riduzione delle recidive, sollecitando una riflessione sull’educazione in carcere e sulla possibilità data ai detenuti di curare le loro relazioni affettive con i familiari e in particolare con i figli. Si tratta di temi di stretta attualità (recentissimo il caso della donna che nel carcere romano di Rebibbia ha ucciso i due figli piccoli gettandoli dalle scale) e che la ricerca scientifica ha già individuato come centrali, ma che sono ancora profondamente ostacolati dal sentire e dal senso comune. L’incontro si propone dunque come un momento di promozione di una cultura di “rieducazione del condannato” come prevista dall’articolo 27 della Costituzione, che ha come base il rispetto della dignità umana del detenuto. Valentina Calderone si occupa principalmente di temi legati alla privazione della libertà e alle migrazioni. Ha scritto, con Luigi Manconi, Quando hanno aperto la cella. Storie di corpi offesi. Da Pinelli a Uva, da Aldrovandi al processo per Stefano Cucchi, ed è tra i curatori del Primo Rapporto sullo stato dei diritti in Italia (Ediesse 2014). Recentemente ha scritto con Manconi, Anastasia e Resta Abolire il carcere, con presentazione di Gustavo Zagrebelski. Collabora a titolo volontario con l’associazione Antigone, entrando in varie carceri italiane a svolgere l’attività di monitoraggio che contribuisce all’Osservatorio sulle condizioni detentive. L’incontro “Le alternative al carcere: una strategia possibile” prosegue il ciclo di iniziative del progetto “Parma per don Luigi Ciotti”, realizzato con il contributo del Comune di Parma e il coinvolgimento di numerose altre realtà cittadine, nell’ottica di una coralità che vuol dare l’idea in primis proprio dell’omaggio di un intero territorio. In calendario, prima del conferimento della laurea ad honorem del 23 novembre, ci sono altri due appuntamenti, su temi forti, legati all’attività di don Ciotti. Questo il calendario: 8 novembre 2018, Palazzo del Governatore, ore 17 - Le religioni come linguaggi della contemporaneità. Gabriella Caramore, Scrittrice e conduttrice radiofonica, dialoga con Giancarlo Anello (Dipartimento Dusic, Università di Parma). L’incontro si propone di esaminare quali sono i protagonisti, le dinamiche, le problematiche del dialogo tra religioni nella società italiana contemporanea. 15 novembre 2018, Palazzo del Governatore, ore 17 - Migrazione e società. Stefano Allievi, docente dell’Università di Padova, presenta la conferenza-spettacolo Immigrazione. Cambiare tutto. Modera Tiziana Mancini (Dipartimento DUSIC, Università di Parma). L’incontro si propone come occasione per riflettere su teorie, significati, esperienze e ricadute positive dell’integrazione, oltre che su cosa significhi costruire una società interculturale. Tutti gli appuntamenti sono rivolti a studenti, studiosi e alla popolazione tutta: ogni ospite sarà introdotto e dialogherà con un docente del Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali - DUSIC dell’Università di Parma, che sottolineerà la stretta correlazione tra ricerca, formazione e intervento nel contesto sociale, e con altri interlocutori del territorio. La mattina del giorno della laurea ad honorem, poi, vale a dire venerdì 23 novembre, don Ciotti incontrerà gli studenti delle scuole del territorio e dell’Università all’Auditorium del Campus, per un confronto e un dibattito sui temi della legalità, della democrazia e della solidarietà. Palermo: nove ragazzi in barca senza barriere e filtri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 ottobre 2018 Fanno parte del circuito penale minorile e con “viva” hanno circumnavigato a vela la Sicilia. Fino a martedì sera c’era una barca a vela che da un mese circumnavigava la Sicilia e i marinai erano nove ragazzi del circuito penale minorile. Ad organizzare il viaggio è il Centro Koros, Eterotopia Laboratorio Navigante e Unione Italiana Vela Solidale. “Il mare come scuola di vita. Come luogo senza barriere e senza filtri, capace di raccontare e custodire le storie di giovani che proprio su quel mare - spiegano gli organizzatori - tra le onde della vita dove spesso s’infrangono i sogni, ritrovano l’autostima e vincono le sfide, accettando le regole e osservando la terra da un nuovo punto di vista”. La barca ha solcato il mare increspato a largo delle Isole Eolie, mentre il timone cercava di governare le correnti. La vela bianca, gonfia di vento e di ricordi, si spiegava verso l’orizzonte quasi a voler raggiungere quella meta, prima lontana, che finalmente darà inizio a un nuovo percorso di vita. Diverse sono state le tappe e in ogni luogo i ragazzi hanno appreso lezioni di legalità. È questo il senso del progetto “Vento da Sud”, un’iniziativa ideata e promossa dal Centro per la giustizia minorile per la Sicilia e realizzata con il supporto logistico delle Capitanerie di Porto della Sicilia, di Addiopizzo, della Fondazione Giuseppe Fava, dell’Associazione Libera, della Libreria del Mare, del Giardino di Scidà, di Arci Sicilia, della cooperativa Moltivolti e dell’Agenzia I Press. Una circumnavigazione in barca di tutta la Sicilia per promuovere la legalità. I ragazzi siciliani a bordo di “Viva”, hanno imparato ad ascoltare e conoscere in questi venti giorni di viaggio (iniziato il 3 ottobre), attraverso incontri, conoscenze e confronti con le numerose iniziative associative e imprenditoriali dell’Isola. Il loro diario di bordo è stato giorno dopo giorno arricchito di esperienze uniche, di regole, valori e consapevolezze. Nuove visioni che, con il supporto di psicoterapeuti, skipper e operatori di vela solidale, hanno permesso di segnare una nuova rotta nella mappa della loro vita. “Vento da Sud ha rappresentato un’opportunità di crescita per i ragazzi - spiega Francesca Andreozzi, presidente Centro Koros e vicepresidente Fondazione Fava - il mare è un contesto positivo per attivare concretamente un percorso di inclusione sociale, e la barca, con il suo clima di complicità, offre la possibilità di acquisire le regole per non perdere la “rotta” e raggiungere, non senza fatica e sacrificio, il proprio obiettivo”. Dopo aver imbarcato il secondo gruppo a Siracusa sabato scorso (13 ottobre), “Vento da Sud” ha continuato il suo viaggio in direzione di Catania (14 ottobre) dove è stato ospite del Giardino di Scidà, bene confiscato alla mafia, dell’associazione Gapa, dell’Arci e della Fondazione Giuseppe Fava. Momenti di riflessione con la vista sullo Stretto di Messina, hanno scandito invece la tappa di Reggio Calabria (15-16 ottobre), mentre a Lipari (17 ottobre) - dopo aver avvistato stenelle e delfini - il giovane equipaggio ha potuto respirare l’atmosfera e la tranquillità di un’isola che vive ancora nel passato grazie alle sue tradizioni. In compagnia dei ragazzi dell’associazione Magazzini del Mutuo Soccorso, hanno visitato i luoghi simbolo di Lipari e partecipato alla lettura del romanzo vincitore del Premio Strega “L’isola di Arturo” di Elsa Morante. “È stato un modo per sperimentarsi insieme ai propri compagni di equipag- gio - afferma il comandante dell’imbarcazione Antonio Sciabica dell’associazione Eterotopia Laboratorio Navigante Asd - hanno potuto confrontarsi sia in mare e sia in terra, sui temi della condivisione, della convivenza, della gestione delle risorse, vivendo a pieno l’esperienza della navigazione”. Dopo il giro alle Eolie, “Viva” ha ormeggiato a Cefalù (19- 20 ottobre) in compagnia dello scrittore Fabio Giallombardo, autore del libro “La bicicletta volante”. L’ultima tappa prima dell’evento conclusivo è stata domenica scorsa a Termini Imerese. Martedì sera, alle 21.30, infine, si è svolta nello spazio sociale di Moltivolti (nel quartiere di Ballarò, a Palermo) lo spettacolo aperto al pubblico “I Cunti del Mare - Storie di pescatori siciliani” prodotto da Area Teatro e con la partecipazione di Alessio Di Modica, che ha segnato la conclusione dell’iniziativa nata per recuperare minori del circuito penale minorile. Roma: a Rebibbia nasce “Beccati a scrivere”, il giornale dei detenuti di Giacomo Di Stefano radiocolonna.it, 24 ottobre 2018 Diretto e ideato dal giornalista Fabio Venditti: racconti di vita e storie dal carcere. Presentazione stamattina alla sede della Fnsi. Si potrebbero giornalisti “d’assalto” i protagonisti di una particolare iniziativa editoriale che non è nata in una redazione ma in un penitenziario romano. Si chiama “Beccati a Scrivere” ed è il nuovo giornale della III Casa Circondariale di Rebibbia scritto dai detenuti dell’istituto a custodia attenuata. Il progetto è nato da un’idea di Fabio Venditti, giornalista e regista romano da anni impegnato sui temi del disagio sociale e della detenzione. Venditti ha diretto Socialmente Pericolosi, film dal cast di livello (Vinicio Marchioni e Fortunato Cerlino) che racconta l’amicizia tra un giornalista e un camorrista. Ora riprende il tema dell’incrocio tra informazione e detenzione con un giornale che racconta le storie personali delle persone ristrette e le loro attività quotidiane. “Beccati a scrivere” rientra nel novero delle attività per formare, intrattenere e impegnare detenuti che stanno scontando una pena e che troppo spesso sono costretti all’ozio forzato. Un progetto in sintonia co quell’articolo 27 del dettato costituzionale che parla della pena come qualcosa che deve “tendere alla rieducazione del condannato”. E non all’abbandono e all’apatia. Il mensile verrà presentato stamattina, alle 11.30, presso la Federazione Nazionale della Stampa Italiana in compagnia del regista, di alcuni detenuti e della direttrice di Rebibbia Terza Casa Annunziata Passannante. Roma: viaggio nell’Italia delle leggi razziali. Per non dimenticare di Roberto Zanini Avvenire, 24 ottobre 2018 Aperta da ieri al Quirinale, voluta da Mattarella, un’innovativa mostra che “avvolge” i visitatori e, grazie a tecnologie multimediali immersive, li conduce sulla dolorosa discesa nell’abisso della Shoah. “Vagoni merci chiusi dall’esterno. E dentro uomini, donne, bambini compressi senza pietà, come merce, in viaggio verso il nulla”. La citazione è di Primo Levi, da Se questo è un uomo. Nella mostra multimediale voluta dal presidente Sergio Mattarella in alcune sale del Quirinale è pronunciata dalla voce narrante dell’attore Francesco Pannofino. Sottolinea uno dei passaggi più intensi: quello che il visitatore vive dall’interno di un vagone riscostruito con i piedi collocati su binari che vanno idealmente a collegarsi alla strada ferrata proiettata sulla parete in un video d’epoca, che conduce nel campo di Auschwitz attraverso il cancello principale. Stiamo parlando di “1938: l’umanità negata. Dalle leggi razziali italiane ad Auschwitz”, mostra inaugurata ieri pomeriggio dal capo dello Stato alla presenza del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, che resterà aperta fino al 27 gennaio, Giorno della memoria. Una mostra storica che utilizza con efficacia le moderne tecniche multimediali di ‘realtà aumentata’. Ideata, scritta e curata da Giovanni Grasso e dal fisico Paco Lanciano (lui preferisce parlare di “realtà emotivamente orientata”), noto al grande pubblico per i suoi interventi scientifici a Super Quark e autore di tutte le ricostruzioni virtuali delle trasmissioni di Piero Angela, è finanziata dal Miur e si avvale della collaborazione del Memoriale della Shoah di Milano, di Rai Storia, Istituto Luce e Treccani. Un’iniziativa che, come hanno spiegato gli autori, è soprattutto diretta ai giovani e alle classi scolastiche con l’idea di offrire loro un’efficace ricostruzione, facendo anche intuire emotivamente il contesto di normalità, sempre riproponibile, in cui si sono collocati quei fatti. Lo spunto è ancora una citazione di Levi da Se questo è un uomo: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre”. Ecco allora la suggestione del treno merci che entra fra le baracche di Auschwitz, ma soprattutto ecco la soluzione narrativa costruita sulla vita di due famiglie italiane, una ebrea e l’altra cattolica, delle quali sono giunte fino a noi le pellicole con le quali i due padri (Francesco cattolico, Bruno ebreo) hanno realmente documentato le quotidiane vite di normalità nella Roma fra gli anni Venti e Trenta: le mogli Giovanna e Sara, i figli Paolo, Anna e Daniele, il lavoro, la scuola. Un po’ come succederebbe oggi con le foto e i video fatti col telefonino, ma in bianco e nero. Una storia che nella prima sala della mostra inizia con proiezioni su schermi che avvolgono il visitatore. E le prime immagini sono quelle che documentano le colonne di giovani soldati che vanno verso il fronte il 24 maggio 1915. Ragazzi da tutta Italia, cattolici, ebrei, protestanti, atei, che combattono per tre anni fianco a fianco e fraternizzano. Nel sangue e nel dolore di quelle trincee, si è sempre detto, si è costruita l’unità d’Italia. E fra quei ragazzi in marcia, ripresi di spalle, la ricostruzione di Grasso e Lanciano estrae i volti di due che, casualmente si girano verso la macchina da presa. Sono loro i nostri Francesco e Bruno. Due italiani fra tanti. Due italiani che dopo il 4 novembre 1918 tornano a casa e negli anni che seguono sono impegnati nella ricostruzione del Paese, due italiani che dopo la Marcia su Roma, come quasi tutti, diventano fascisti senza rendersi conto fino in fondo di quanto accade davvero in Italia e in Europa. Due italiani dalle vite pressoché parallele, ma che dal 1938 in poi divergono spaventosamente così che Francesco e Bruno diventano nemici in forza di legge con la sequenza crescente fra settembre e novembre delle cosiddette leggi razziali. Poi ancora una guerra, l’armistizio, il rastrellamento nel ghetto di Roma dove vengono presi anche Bruno e la sua famiglia. La mostra racconta, facendola rivivere immersivamente, una sequenza di fatti che per quelle due famiglie ebbe un epilogo del tutto inatteso e che ancora oggi si stenta a crederlo come razionalmente possibile. “Le azioni compiute erano mostruose ma chi le compì era pressoché normale”, scrisse a riguardo Hannah Arendt. E non mancano, con i filmati autentici, suggestivi documenti storici e prima pagine di giornale che collocano quelle vicende nel tempo e nello spazio raccontando, come ha detto Mattarella, “una lezione terribile” che invita a essere sempre vigili di fronte ai “focolai di odio, di intolleranza, di razzismo presenti nelle nostre società e in tante parti del mondo”. A chiudere il percorso, nell’ultima sala, una delle tre copie autentiche della Costituzione italiana con le firme, in data 27 dicembre 1947, di Enrico De Nicola, Alcide De Gasperi, Umberto Terracini; quella spesso sottostimata conquista politica e sociale che all’articolo 3 recita: “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Nel 2019 è previsto che la mostra diventi itinerante, poi dovrebbe trovare una collocazione definitiva. Roberto Jarach, presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano, “Binario 21”, ha spiegato a riguardo che si spera in una sistemazione definitiva in locali limitrofi alla Fondazione. Costituzione e clemenza, idee controcorrente di Grazia Zuffa Il Manifesto, 24 ottobre 2018 L’Italia non è affatto il paese delle ricorrenti misure facili “svuota carceri”. O meglio, non lo è più, come spiega il volume curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto. Oggi su amnistia e indulto, in tempi in cui il carcere, inteso sempre più come il luogo principe per pene lunghe e certe, domina la scena politico mediatica e l’immaginario popolare. E dove la clemenza e i suoi istituti sono vissuti non come strumenti della giustizia, ma come simbolo di iniquo affronto alle vittime. La tematizzazione controcorrente è il primo pregio del volume appena uscito, “Costituzione e clemenza. Per un rinnovato statuto di amnistia e indulto”, curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto (Ediesse, euro18), che raccoglie gli atti del convegno promosso dalla Società della Ragione nel gennaio scorso. Controcorrente è anche la ricostruzione della storia dell’amnistia e indulto, in opposizione alla percezione dominante: l’Italia non è affatto il paese delle ricorrenti misure facili “svuotacarceri”. O meglio, non lo è più. Se fino agli anni novanta sono stati frequenti i provvedimenti di amnistia e indulto (ventitré, dal 1948 al 1992), da quell’anno si sono bruscamente interrotti (con la sola esclusione dell’indulto del 2006). E neppure l’amnistia è stata concessa quando sarebbe stata assolutamente necessaria per ripristinare la legalità. È il caso della sentenza della Corte Costituzionale del 2014 sulla legge delle droghe, che ha reso illegittime migliaia di condanne erogate sulla base delle norme abrogate: ciononostante, i condannati sono rimasti in carcere in assenza della misura di clemenza. Quali le ragioni dell’eclissi degli istituti di clemenza? L’analisi proposta si snoda attraverso due assi principali. Il primo approfondisce la normativa e gli effetti inibenti della riforma del 1992 dell’art. 79 della Costituzione, che ha affidato unicamente al Parlamento la decisione, pretendendo una maggioranza dei due terzi. Un quorum così alto da consentire paralizzanti veti incrociati e impedire i provvedimenti di clemenza (Pugiotto). Da qui la proposta di modifica costituzionale e il dibattito, di cui il testo dà ampiamente conto. Il secondo asse di analisi si concentra sul limite politico culturale, più che istituzionale, alla base della “sterilizzazione” degli istituti di clemenza: individuandolo nell’eccesso di penalizzazione del sistema, appesantito dai molti recenti giri di vite (dalla stabilizzazione del regime speciale carcerario del 41bis nell’ordinamento penitenziario, ai tanti “pacchetti sicurezza”, dall’inasprimento delle pene, alla incessante produzione di nuovi reati (Azzariti, Flick). Alla base dell’impasse, “la completa abdicazione da parte degli attori politici del loro ruolo, che non è quello di “seguire” una presunta volontà popolare, bensì quello di assumere su di sé una precisa responsabilità culturale in nome della Costituzione” (Grosso). Le due letture trovano una convergenza nel giudizio circa la necessità della clemenza come strumento di politica criminale, per bilanciare gli eccessi possibili del principio di legalità penale; evocando perciò una iniziativa a tutto campo, sul piano giuridico e politico culturale. (Anastasia, Corleone). Oltre alle proposte di modifica delle procedure e del quorum, si delinea il rilancio di una “nuova narrazione” della clemenza: agganciandola strettamente all’art.27 della Costituzione, che vieta trattamenti “contrari al senso di umanità”. L’esempio più immediato è quello del sovraffollamento, con gli effetti “degradanti” già denunciati dalla Cedu. In questo caso, l’amnistia riporterebbe la detenzione nell’ambito della legalità. Come costruire nel senso comune una nuova visione della clemenza? Si può dire che questo testo inaugura il cantiere, per una battaglia culturale controcorrente di lunga lena. Non a caso è richiamato nelle ultime pagine il monito di Pierpaolo Pasolini a “continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso”. Popolo costituente e migrante di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 24 ottobre 2018 Il diritto a emigrare ha radici antiche, teoriche e politiche, che si scontrano con la miseria xenofoba del presente. Uno stralcio tratto dall’ultimo numero di “Critica marxista”. Il principale segno di cambiamento manifestato finora dall’attuale sedicente “governo del cambiamento” è la politica ostentatamente disumana e apertamente illegale da esso adottata nei confronti dei migranti. Di nuovo il veleno razzista dell’intolleranza e del disprezzo per i “diversi” sta diffondendosi non solo in Italia ma in tutto l’Occidente, nell’Unione Europea e negli Stati Uniti, quale veicolo di facile consenso nei confronti degli odierni populismi e delle loro politiche di esclusione. È su questo terreno che rischia oggi di crollare l’identità civile e democratica dell’Italia e dell’Europa. Le destre protestano contro quelle che chiamano una lesione delle nostre identità culturali da parte delle “invasioni” contaminanti dei migranti. In realtà esse identificano tale identità con la loro identità reazionaria: con la loro falsa cristianità, con la loro intolleranza per i diversi, in breve con il loro più o meno consapevole razzismo. Laddove, al contrario, sono proprio le politiche di chiusura che stanno deformando e deturpando l’immagine dell’Italia e dell’Europa, che sta infatti vivendo una profonda contraddizione: la contraddizione delle pratiche di esclusione dei migranti quali non-persone non soltanto con i valori di uguaglianza e libertà iscritti in tutte le sue carte costituzionali e nella stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, ma anche con la sua più antica tradizione culturale. Il diritto di emigrare fu teorizzato dalla filosofia politica occidentale alle origini dell’età moderna. Ben prima del diritto alla vita formulato nel Seicento da Thomas Hobbes, il diritto di emigrare fu configurato dal teologo spagnolo Francisco de Vitoria, nelle sue Relectiones de Indis svolte nel 1539 all’Università di Salamanca, come un diritto naturale universale. Sul piano teorico questa tesi si inseriva in una edificante concezione cosmopolitica dei rapporti tra i popoli informata a una sorta di fratellanza universale. Sul piano pratico essa era chiaramente finalizzata alla legittimazione della conquista spagnola del Nuovo mondo: anche con la guerra, in forza del principio vim vi repellere licet, ove all’esercizio del diritto di emigrare fosse stata opposta illegittima resistenza. Tutta la tradizione liberale classica, del resto, ha sempre considerato lo jus migrandi un diritto fondamentale. John Locke fondò su di esso la garanzia del diritto alla sopravvivenza e la stessa legittimità del capitalismo: giacché il diritto alla vita, egli scrisse, è garantito dal lavoro, e tutti possono lavorare purché lo vogliano, facendo ritorno nelle campagne, o comunque emigrando nelle “terre incolte dell’America”, perché “c’è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio dei suoi abitanti”. Kant, a sua volta, enunciò ancor più esplicitamente non solo il “diritto di emigrare”, ma anche il diritto di immigrare, che formulò come “terzo articolo definitivo per la pace perpetua” identificandolo con il principio di “una universale ospitalità”. E l’articolo 4 dell’Acte constitutionnel allegato alla Costituzione francese del 1793 stabilì che “Ogni straniero di età superiore a ventuno anni che, domiciliato in Francia da un anno, viva del suo lavoro, o acquisti una proprietà, o sposi una cittadina francese, o adotti un bambino, o mantenga un vecchio, è ammesso all’esercizio dei diritti del cittadino”. Lo ius migrandi è da allora rimasto un principio elementare del diritto internazionale consuetudinario, fino alla sua già ricordata consacrazione nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Fino a che l’asimmetria non si è ribaltata. Oggi sono le popolazioni fino a ieri colonizzate che fuggono dalla miseria provocata dalle nostre politiche. E allora l’esercizio del diritto di emigrare è stato trasformato in delitto. Siamo perciò di fronte a una contraddizione gravissima, che solo la garanzia del diritto di emigrare varrebbe a rimuovere. Il riconoscimento di questa contraddizione dovrebbe non farci dimenticare quella formulazione classica, cinicamente strumentale, del diritto di emigrare: perché la sua memoria possa quanto meno generare - nel dibattito pubblico, nel confronto politico, nell’insegnamento nelle scuole - una cattiva coscienza sull’illegittimità morale e politica, prima ancora che giuridica, delle nostre politiche e agire da freno sulle odierne pulsioni xenofobe e razziste. Queste politiche crudeli stanno avvelenando e incattivendo la società, in Italia e in Europa. Stanno seminando la paura e l’odio per i diversi. Stanno screditando, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita. Stanno fascistizzando il senso comune. Stanno, in breve, ricostruendo le basi ideologiche del razzismo; il quale, come affermò lucidamente Michel Foucault, non è la causa, bensì l’effetto delle oppressioni e delle violazioni istituzionali dei diritti umani: la “condizione”, egli scrisse, che consente l’”accettabilità della messa a morte” di una parte dell’umanità. Che è il medesimo riflesso circolare che ha in passato generato l’immagine sessista della donna e quella classista del proletario come inferiori, perché solo in questo modo se ne poteva giustificare l’oppressione, lo sfruttamento e la mancanza di diritti. Ricchezza, dominio e privilegio non si accontentano di prevaricare. Pretendono anche una qualche legittimazione sostanziale. Un secondo effetto è non meno grave e distruttivo. Consiste in un mutamento delle soggettività politiche e sociali: non più le vecchie soggettività di classe, basate sull’uguaglianza e sulle lotte comuni per comuni diritti, ma nuove soggettività politiche di tipo identitario basate sull’identificazione delle identità diverse come nemiche e sul capovolgimento delle lotte sociali: non più di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma di chi sta in basso contro chi sta ancora più in basso. È un mutamento che sta minando le basi sociali della democrazia. Una politica razionale, oltre che informata alla garanzia dei diritti, dovrebbe muovere, realisticamente, dalla consapevolezza che i flussi migratori sono fenomeni strutturali e irreversibili, frutto della globalizzazione selvaggia promossa dall’attuale capitalismo. Dovrebbe anzi avere il coraggio di assumere il fenomeno migratorio come l’autentico fatto costituente dell’ordine futuro, destinato, quale istanza e veicolo dell’uguaglianza, a rivoluzionarie i rapporti tra gli uomini e a rifondare, nei tempi lunghi, l’ordinamento internazionale. Il diritto di emigrare equivarrebbe, in questa prospettiva, al potere costituente di questo nuovo ordine globale: giacché l’Occidente non affronterà mai seriamente i problemi che sono all’origine delle migrazioni se non li sentirà come propri. I diritti fondamentali, come l’esperienza insegna, non cadono mai dall’alto, ma si affermano solo allorquando la pressione di chi ne è escluso alle porte di chi ne è incluso diventa irresistibile. Per questo dobbiamo pensare al popolo dei migranti come al popolo costituente di un nuovo ordine mondiale. Papa Francesco: “non si può vivere seminando odio” Avvenire, 24 ottobre 2018 Le domande di giovani e anziani a papa Francesco per il progetto “La saggezza del tempo”. “I giovani devono conoscere come nasce un populismo”. “Accogliere i migranti è un mandato biblico”. I giovani devono conoscere come nasce e cresce un populismo, “seminando odio”. Ma “non si può vivere seminando odio, anche se seminare odio è facile: si comincia anche con le chiacchiere, in famiglia, nel quartiere, nel luogo di lavoro”. Papa Francesco incontra giovani e anziani per la presentazione del libro e del progetto “La saggezza del tempo”, col quale promuove una nuova alleanza tra le generazioni, risponde alle domande di alcuni di loro, tra cui un ospite illustre, il regista Martin Scorsese, e riflette sul “tesoro” lasciato comunque in eredità dalle due guerre mondiali del secolo scorso per mettere in guardia dal risorgere dei populismi. Non esitando anche a evocare a tale proposito i danni del nazismo e la figura di Adolf Hitler. “Penso ad Hitler nel secolo scorso, che aveva promesso lo sviluppo della Germania”, dice sollecitato da una domanda riguardo alla “durezza” percepita oggi nei confronti dei rifugiati. E proprio la domanda offre lo spunto a Bergoglio per tornare a parlare di migranti. “I migranti - spiega - vanno accolti col cuore e le porte aperte. La chiusura è la strada del suicidio. È vero che si devono accogliere i migranti, ma si devono accompagnare e soprattutto si devono integrare”. Il suo ragionamento, precisa, “non è per parlare di politica ma di umanità”. Tuttavia, offre la sua indicazione: “Un governo deve avere cuore aperto per ricevere, le strutture buone per fare la strada dell’integrazione, e anche la prudenza di dire: fino a questo punto posso, poi non posso più”. “Accogliere i migranti - aggiunge - è un mandato biblico. Pensiamo all’Europa che è stata fatta dai migranti, le culture si sono mischiate, l’Europa deve avere la coscienza che nei momenti brutti alcuni Paesi dell’America del Nord e del Sud hanno ricevuto i migranti europei”. Per questo Francesco chiede all’Europa di farsi carico di questa “emergenza” anche perché finora, avverte, “il peso più grande lo hanno portato la Spagna, l’Italia e la Grecia ed anche Cipro”. Francesco parla quindi della sua sofferenza per i morti nei viaggi della speranza a bordo dei barconi dall’Africa. “Che cosa faccio quando vedo che il Mediterraneo è un cimitero? - dice - Dico la verità, soffro, prego, parlo. Non dobbiamo accettare questa sofferenza, dire ma tanto si soffre dappertutto, e andare avanti. No, oggi c’è la terza guerra mondiale a pezzetti, guardate alla mancanza di umanità, all’aggressione, all’odio, anche alla deformazione della religione. Seminare odio è la strada del suicidio per l’umanità”. A dialogare per ultimo con papa Francesco è il regista Martin Scorsese che chiede al Pontefice come possono gli anziani aiutare la Chiesa a far sopravvivere la fede in un mondo segnato da violenza e crudeltà. Bergoglio indica la strada della “tenerezza”, della “mitezza”, della “vicinanza, come lei ha dimostrato con i suoi film” e di un dialogo con i giovani in cui si realizzi una vera empatia: “Non si può avere una conversazione con i giovani senza empatia, non vanno condannati”. Di fronte alle crudeltà del mondo, è anche il suo invito, “c’è una parola che dobbiamo dire: la saggezza del piangere, il dono del piangere davanti a queste violenze. Il pianto è cristiano, chiediamo la grazia delle lacrime”. Dj Fabo e aiuto al suicidio, oggi la decisione della Consulta La Repubblica, 24 ottobre 2018 Gli avvocati di Cappato: “non chiediamo diritto a morire ma ad essere aiutati in situazioni estreme”, e sei italiani su dieci favorevoli all’eutanasia. Slittata a oggi la decisione della Corte costituzionale sulla questione che riguarda l’aiuto al suicidio legata al caso di Marco Cappato e dj Fabo. L’udienza per l’esame di tutte le cinque cause che erano a ruolo ha occupato la mattina e si è protratta anche nel pomeriggio di ieri. I giudici hanno quindi deciso di aggiornare a questa mattina, a partire dalle 9.30, la camera di consiglio per decidere sull’aiuto al suicidio e la legittimità dell’art. 580 del codice penale. A chiedere la vautazione della Consulta sulla costituzionalità della norma, introdotta durante il fascismo, sono stati i magistrati di Milano che hanno assolto nei mesi scorsi Marco Cappato dall’accusa di istigazione al suicidio di Fabiano Antoniani, il disk jokey giramondo reso tetraplegico da un incidente stradale, che aveva chiesto aiuto alla Coscioni per andare a morire in Svizzera. “Non chiediamo che venga riconosciuto un diritto a morire ma il diritto a essere aiutati” quando ci sono situazioni estreme. Questa la posizione espressa dai legali di Marco Cappato dell’udienza sull’auto al suicidio in Corte costituzionale. “Le richieste poste - ha spiegato Filomena Gallo - riguardano ipotesi del tutto eccezionali, malati affetti da patologie irreversibili, con dolore senza speranza, situazioni che irragionevolmente ricadono nell’orbita dell’articolo 580 del codice penale” producendo “una compressione irragionevole dei diritti”. “Nessuno vuole chiedere alla corte un lugubre diritto a morire o di accogliere un liberismo sfrenato dove tutto è concesso, ma solo di rinunciare a un paternalismo irragionevole e cieco che omologa situazioni che non possono essere omologate”, ha aggiunto Federico Manes. “Ci sono casi - ha detto ancora Manes - in cui la pulsione alla morte supera quella alla vita. È ancora suicidio - si è chiesto l’avvocato - la scelta di un congedo dalla vita di chi ha un corpo che si è congedato dalla persona, di un individuo che è scisso dal corpo. E mentre si aspetta la decisione della Corte Costituzionale arriva la notizia che quando ci sono casi eclatanti di cronaca aumentano gli italiani favorevoli all’eutanasia e al suicidio assistito. È quanto osserva l’Eurispes analizzando la “serie storica” ovvero l’andamento dell’opinione degli italiani dal 2007. I risultati dell’ultimo sondaggio condotto sul tema nel 2016 dall’Eurispes vedono 6 italiani su 10 favorevoli all’eutanasia (59,6%), oltre 7 su 10 al testamento biologico (71,6%) e 3 su 10 al suicidio assistito (29,9%). Nel 2007, dopo i due casi “eccellenti” di Terry Schiavo e Piergiorgio Welby, si registra il picco più alto degli italiani favorevoli all’eutanasia, con il 68% di “sì”. Nel 2010, all’indomani del caso Englaro, la percentuale è pressoché invariata al 67,4%. I consensi a favore poi diminuiscono, arrivando nel 2012 a rappresentare la metà degli italiani (50,1%). Nel 2013, l’Eurispes registra un balzo in avanti di oltre 14 punti percentuali, rilevando il 64,6% dei consensi. Anche sul testamento biologico, approvato dopo anni di limbo, i favorevoli hanno sempre rappresentato nel tempo la maggioranza: nel 2007 ad essere d’accordo è il 74,7% dei cittadini, nel 2010 si registra poi il picco più alto con 8 italiani su 10 favorevoli (81,4%). Nel 2011 dice sì al testamento biologico il 77,2% degli italiani, nel 2012 il 65,8%, nel 2013 la quota sale al 77,3%, per poi diminuire di nuovo nel 2014 al 71,7% e nel 2015 al 67,5%. Sul tema del suicidio assistito, il monitoraggio che parte dal 2012, evidenzia nel 2013 il piccolo più alto delle dichiarazioni favorevoli (36,2%) e nel 2015 il dato più basso (25,3%). Migranti. Claviere e il caso dei minori respinti “violazione sistematica” di Francesco Verderami Corriere della Sera, 24 ottobre 2018 Il Viminale accusa la Francia. Organizzazioni umanitarie lo denunciano da tempo. Alla frontiera di Ventimiglia si supera quasi quotidianamente il confine della vergogna. Perciò non può essere elevata a “caso” la notizia filtrata ieri dal ministero dell’Interno, secondo cui “la sera del 18 ottobre la Francia ha cercato di restituire all’Italia anche dei minori”: non è un episodio isolato, sono anni che accade, c’è un dossier che lo prova. È singolare quindi che gli esperti del Viminale lo abbiano rilevato durante la missione a Claviere, dove pochi giorni fa si è registrato l’ennesimo sconfinamento della gendarmeria francese: è da aprile che un report - redatto da alcune organizzazione umanitarie - giace sui tavoli del governo italiano e della Commissione europea. E non è neppure il primo. Le prove - In quelle pagine ci sono le prove testimoniali e anche fotografiche sulle “sistematiche violazioni delle norme nella gestione dei migranti” da parte delle autorità di frontiera transalpine, che al confine italiano si sono rese protagoniste di “numerosi respingimenti di minori stranieri non accompagnati”, con “atti contrari alla legislazione internazionale”, a quella “europea”, e addirittura alle rigide “regole di Dublino”. In questo caso il condizionale non è d’obbligo, siccome a riconoscerlo formalmente c’è già un’ordinanza del tribunale di Nizza, datata 22 gennaio. Un’altra ventina di esposti sono in attesa di sentenza. Insomma, sull’immigrazione nessuno ha la coscienza a posto, nemmeno chi nei mesi scorsi ha tacciato l’Italia di “contravvenire irresponsabilmente ai suoi obblighi”, con parole che hanno fatto sfiorare la crisi diplomatica. Il dossier - firmato anche dalla Caritas - lo rivela. E così come viene evidenziato che dentro i confini italiani “continuano a esservi numerose realtà in cui non sono adeguatamente tutelati i diritti dei minori non accompagnati”, viene anche raccontato cosa accade a questi ragazzi che provano ad arrivare sul territorio francese. Si tratta per lo più di giovani provenienti dall’Africa sub-sahariana, “a volte di 12-13 anni”, ai quali non sono riconosciuti quei diritti che spesso nemmeno conoscono. E quando li rivendicano, in certi casi li vedono calpestati. Gli avvocati - Le organizzazioni italiane, insieme ad altre francesi e ad alcuni avvocati, monitorano da anni la frontiera, riferendo casi “particolarmente significativi”. Nel marzo del 2017, per esempio, “T.” - un eritreo sedicenne - fu bloccato alla stazione di Menton-Garavan dagli agenti transalpini con altri tre minori e fu rispedito subito in Italia. “Dublino” prevede il respingimento automatico solo per i maggiorenni, mentre per i minorenni correrebbe l’obbligo di “garantirne la protezione, l’accoglienza e l’assistenza”. Nel dossier c’è scritto che “T.” vide gli agenti francesi cambiare la sua data di nascita, per questo fotografò il provvedimento che “risulta cancellato e modificato”. Ed è agli atti. Per verificare cosa fosse accaduto, tre europarlamentari - a marzo di quest’anno - si sono recati al posto di polizia di frontiera di Menton-Garavan: durante la visita a sorpresa “hanno potuto osservare con i loro occhi la prassi di falsificare la data di nascita”, capitata “a danno di due minori”. Andare incontro al sogno può essere rischioso: a novembre del 2016 una ragazzina eritrea fu uccisa da un Tir mentre attraversava a piedi un tunnel per giungere in Francia; a giugno del 2017 un ragazzino sudanese ci arrivò senza vita, trascinato dalla corrente del fiume Roja. Il resto è la fredda contabilità di 4.307 tentativi non riusciti. Sono solo i numeri ufficiali di giovani ombre in fuga. Regno Unito. “Prigioni da incubo” tra sovraffollamento e droga di Angela Napoletano Avvenire, 24 ottobre 2018 Un rapporto del dipartimento di Giustizia parla di situazione “fuori controllo”. Sempre più frequenti gli scontri tra reclusi e guardie spesso “inesperte”. Il report degli ispettori che, il mese scorso, hanno visitato il carcere di Bedford, a poco più di 70 chilometri da Londra, parla di una situazione ormai “pericolosamente fuori controllo”. Lo ha riferito il Financial Times, ieri, rivelando i dettagli dello scenario descritto dai funzionari del dipartimento di Giustizia, ovvero celle sovraffollate invase da ratti e insetti e corridoi pervasi dal fumo di marijuana. Non è, purtroppo, la prima volta che lo squallore e la pericolosità delle prigioni inglesi finiscono in prima pagina. Oltre che a Bedford, uno speciale protocollo di emergenza necessario a stabilizzare la situazione è stato applicato, nei mesi scorsi, anche nelle case circondariali di Birmingham, Exeter e Nottingham. La cronaca racconta di prigionieri reclusi in celle sporche di vomito, sangue e immondizia. Nel carcere di Birmingham, uno dei più grandi dell’Inghilterra, sembra siano stati registrati anche casi di detenuti abbandonati a sé stessi in preda agli effetti dell’overdose da stupefacenti pesanti o addirittura chimici. Più le condizioni di vita dei detenuti sono difficili più alta è la tensione con il personale di sorveglianza e quindi il rischio di volente rivolte tra le sbarre. Non è un caso che proprio nelle quattro carceri poste in “stato di emergenza” sia stato registrato il più alto numero di scontri tra reclusi e guardie. Sempre a Birmingham, scenario di una recente rivolta molto violenta, gli agenti sono stati attaccati con zucchero e acqua bollente. Le ragioni che alimentano questo drammatico stato di “anarchia” sono molteplici. Ciò che pesa, in primo luogo, è il sovraffollamento. La popolazione carceraria è cresciuta a dismisura negli ultimi anni superando la soglia delle 83mila unità (in Italia sono meno di 60mila). Il problema è che a questa crescita non corrisponde un adeguato stanziamento di risorse destinate all’ampliamento delle strutture e all’assunzione di personale specializzato. In una recente intervista a un quotidiano nazionale, un funzionario del carcere di Bedford che ha chiesto di rimanere anonimo ha denunciato la totale mancanza di esperienza degli agenti appena assunti, tra cui molte donne. La questione relativa al personale di sorveglianza pone al centro del dibattito anche l’annoso dilemma sull’opportunità, o meno, di affidare la gestione della sicurezza delle carceri a società private, come avviene in Inghilterra ormai da anni. Quello che gli ispettori ministeriali hanno infatti denunciato delle prigioni in cui il controllo è affidato ad aziende esterne è un certo lassismo degli agenti, in qualche situazione sorpresi a godersi il comfort di un ufficio chiuso a chiave mentre l’inferno si scatenava nell’edificio. Ciò che aggiunge tensione al problema della sicurezza carceraria è il fatto che, come è noto, le prigioni inglesi, come quelle di tutta Europa, sono il luogo in cui si consuma l’indottrinamento all’estremismo islamico che sfocia poi nel terrorismo. In questa chiave, gli investimenti da 10 milioni di sterline attesi dal ministero della Giustizia per riportare il rigore nelle carceri assumono una portata ancor più grande. Migranti d’America, la carica dei 7.500 sfida quattro governi di Fabrizio Lorusso León Il Manifesto, 24 ottobre 2018 La carovana degli honduregni in Messico dopo 10 giorni di marcia. Destinazione Usa. Trump: “Emergenza”. E c’è una seconda carovana in arrivo. La presenza dei media offre la protezione che di solito qui manca. Ma molti finiscono comunque in arresto. Stanno sfidando il sole, la fame, le intemperie e l’opposizione di ben quattro governi i 7.500 migranti centroamericani, in gran parte dell’Honduras, che dal 13 ottobre marciano verso nord per raggiungere gli Stati uniti. È un esodo inedito per la quantità di persone che si sono unite per inseguire il “sogno americano” e, dopo dieci giorni consecutivi di marcia, gli ultimi tre in Messico tra Ciudad Hidalgo e Tapachula, gli integranti della carovana hanno deciso di fare tappa a Huixtla, nel Chiapas, a 70 km dal confine. “Oggi (ieri, ndr) riposano tutto il giorno e la notte, le loro forze sono esaurite”, dice Rodrigo Abeja della Ong Pueblos sin Fronteras che accompagna la carovana. Grazie alla solidarietà della gente e ad alcune strutture preposte dalle autorità, i migranti hanno potuto lavarsi e rifocillarsi prima di passare la notte in rifugi temporanei e in accampamenti improvvisati nelle piazze del centro. Mentre si preparano per altri 2000 km di cammino, arriva la notizia di una seconda carovana di 1.500 persone partita domenica, che sta attraversando il Guatemala. La presenza di giornalisti, Ong e attivisti gli sta fornendo quella protezione che, normalmente, manca totalmente in Messico, paese che è diventato il filtro migratorio degli Usa, un luogo di abusi terribili e violenze contro le persone in transito da parte delle autorità migratorie e della criminalità organizzata. La carovana migrante, composta per oltre la metà da donne e bambini, ha fatto ingresso domenica in Messico non senza difficoltà. Minacciati da Trump, che vuole militarizzare la frontiera statunitense e cancellare gli aiuti economici ai paesi centroamericani, e osteggiati dalle polizie messicane, del Guatemala e dell’Honduras, in tanti hanno scelto di entrare senza un visto umanitario che, comunque, non è concesso facilmente. Dunque solo pochi sono passati dai filtri dell’Istituto nazionale della migrazione messicana lungo il ponte sul fiume Suchiate, al confine col Guatemala: le file erano lunghissime e gli scaglionamenti imposti dalle autorità servivano più che altro a rallentare gli ingressi e ad estenuare chi era in attesa sul ponte. La maggior parte ha attraversato il fiume a nuoto o su zattere precarie rischiando la pelle. Circa mille honduregni sono stati convinti dalle autorità messicane a salire su autobus che li ha portati in un vero e proprio centro di reclusione e Tapachula, 37 km a nord dell’ingresso di frontiera. Per loro la carovana è finita, restano privi di comunicazione con l’esterno e dovranno attendere da 45 a 90 giorni per sapere se verranno deportati o se otterranno l’asilo. Varie associazioni per la difesa dei migranti, come American Friends Service Committee e Servizi gesuiti ai rifugiati, hanno emesso un comunicato in cui denunciano questi arresti arbitrari e deportazioni di massa, il rifiuto di avviare speditamente le pratiche per l’asilo, l’insufficienza di aiuti umanitari e i respingimenti, anche violenti, alla frontiera. “Stiamo scappando dal nostro paese per le gang maras, la violenza, la povertà, ma ne vale la pena, alla fine arriva la ricompensa, una vita migliore, dobbiamo andare avanti”, dice una donna. “Ringrazio che il Guatemala e il Messico per ora ci hanno trattato bene, ma la mia meta finale è negli Stati Uniti”, conclude. Non tutti sono stati, però, fortunati. Lunedì il 25enne honduregno Melvin Josué è morto dopo essere scivolato da un camion in movimento e aver battuto la testa sull’asfalto. A un altro suo concittadino è toccata la stessa sorte per via del calore estremo e della mancanza di energie. “Non possiamo tornare indietro, ci ammazzerebbero”, commentano alcuni compagni di viaggio. “Non siamo terroristi, né delinquenti, vogliamo solo guadagnarci la vita”, spiega un uomo alle telecamere in risposta a Trump che, in piena campagna elettorale per le mid-term, non ha esitato a denunciare presunte infiltrazioni di “terroristi mediorientali”. Il presidente messicano Peña li ha invitati “a non uscire dalla legalità” e a chiedere l’asilo, ma i rifugiati di questo nuovo esodo centroamericano hanno capito che si tratta di strategie dilatorie per compiacere Trump e continuano il loro viaggio perché ormai non hanno più niente da perdere. Arabia Saudita. La lezione di Merkel sul caso Khashoggi e le armi ai sauditi di Paolo Lepri Corriere della Sera, 24 ottobre 2018 La decisione di sospendere le vendite di armi tedesche a Riad, in segno di protesta per la spietata eliminazione del giornalista poco gradito al principe Salman, è una scelta chiara in uno scenario dominato dalla logica degli interessi nazionali. È una lezione di politica estera “vecchio stile”, nel senso buono del termine, quella che arriva da Berlino sul caso Khashoggi. Sarà anche finita la sua epoca (e magari proprio questa potrebbe essere una delle ragioni per cui è finita), ma Angela Merkel continua a voler essere la portavoce di quei valori positivi sempre meno di moda nel disordine mondiale. La decisione di sospendere le vendite di armi tedesche all’Arabia Saudita, in segno di protesta per la spietata eliminazione del giornalista poco gradito al principe ereditario Mohammad bin Salman, è infatti una scelta chiara in uno scenario dominato dalla logica degli interessi nazionali e dal disinteresse per le basi sulle quali è stata costruita la nostra civiltà comune. Facendo così, la cancelliera ha ricordato tra l’altro a Trump - un presidente a cui non interessano i crimini compiuti dalla Russia “fuori dal territorio degli Stati Uniti” - cosa siano quei principî di cui parlava nel messaggio inviato alla Casa Bianca all’indomani delle elezioni americane. Non si tratta però solo di valori. Anche se va detto - ad onore del vero - che fino ad oggi la Germania ha esportato armamenti in Arabia Saudita per oltre 400 milioni di euro, nonostante la guerra nello Yemen. A Berlino, in realtà, si vuole ricordare che l’Europa esiste o dovrebbe esistere. Lo ha fatto il ministro dell’Economia Peter Altmaier invitando i Paesi Ue ad unirsi alla scelta tedesca: “Non avrebbe conseguenze positive fermare le vendite di armi ai sauditi se allo stesso tempo altri riempissero il vuoto”. Di questi tempi ognuno va per la propria strada. Lo si vede dal duro comunicato congiunto con cui Londra, Berlino e Parigi hanno condannato l’operazione saudita, seguito dalle esitazioni spagnole e dalle parole tardive del presidente del consiglio i Giuseppe Conte. Un tempo si parlava con disappunto di “ordine sparso”. Oggi il rischio è addirittura quello della concorrenza per spedire più armi a Riad, come sembra temere Altmaier. E di concorrenza i tedeschi se ne intendono. Medio Oriente. Human Rights Watch: “Anp e Hamas torturano sistematicamente i detenuti” Nova, 24 ottobre 2018 L’Autorità nazionale palestinese (Anp) e il movimento Hamas conducono arresti arbitrari che contravvengono alle leggi fondamentali, sopprimono i dissidenti, criminalizzano le critiche sui social media e usano la tortura per estorcere confessioni e limitare l’opposizione. È quanto emerge da un rapporto di 149 pagine pubblicato oggi dall’organizzazione Human Rights Watch. Il rapporto sulle procedure di arresto e condizioni di detenzione in Cisgiordania e Striscia di Gaza comprende anche testimonianze dirette di palestinesi arrestati perché sospettati di un presunto reato e torturati, in particolare tra il 2016 e il 2017. Sulla base delle testimonianze di 47 arrestati in Cisgiordania e 48 a Gaza, di 52 parenti dei fermati, di avvocati e rappresentanti di Ong, Human Rights Watch è giunta alla conclusione che sia le autorità di Ramallah che di Gaza agiscono in questo modo sistematicamente. In Cisgiordania, amministrata dall’Anp, ad essere oggetto delle torture e di condizioni illegali di detenzione, secondo Human Rights Watch, vi sono sostenitori di Hamas e siti informativi ad esso collegati, membri del partito islamista Hizb al Tahrir, e sostenitori di Mohammed Dahlan, esponente di Fatah in esilio negli Emirati Arabi Uniti, inviso al presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas. Per l’organizzazione, al contrario, a Gaza, amministrata da Hamas dal 2007, le vittime sono esponenti di Fatah e delle forze di sicurezza dell’Anp, membri della Jihad islamica e del Fronte popolare. L’organizzazione si rivolge al procuratore della Corte penale internazionale, Fatou Bensouda, per fermare il fenomeno e “tenerne conto in qualsiasi futura indagine sulla situazione in Palestina”. Madagascar. Amnesty International denuncia condizioni detentive spaventose di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 ottobre 2018 Un rapporto diffuso oggi da Amnesty International denuncia le spaventose condizioni delle prigioni del Madagascar, in cui solo nel 2017 sono morte 129 persone. A rendere così grave la situazione è l’abuso della detenzione preventiva: 52 dei 129 detenuti morti in carcere lo scorso anno erano in attesa di processo. Secondo il codice di procedura, le sessioni processuali si tengono due volte l’anno o di più, se il numero di casi pendenti lo richieda, ma “solo se vi sono risorse disponibili”. Nelle nove prigioni visitate dai ricercatori di Amnesty International a settembre si trovavano oltre 11.000 persone in detenzione preventiva, il 55 per cento della popolazione carceraria. Le percentuali aumentano se si considerano le donne (70 per cento) e i minori (80 per cento). La detenzione preventiva può durare anni, anche quando le persone sotto indagine sono sospettate di piccoli reati: un uomo accusato di aver rubato del bestiame era in attesa del processo da tre anni e mezzo. In tutte e nove le prigioni visitate da Amnesty International il quadro è risultato sempre lo stesso: celle sovraffollate, sporche, prive di fonti esterne di aria e di luce. Le malattie dilagano: la tubercolosi è tra le prime cause di morte nelle carceri dell’isola. Le donne in gravidanza non ricevono cure mediche adeguate, i bambini non hanno spazio per giocare e non seguono programmi educativi, le razioni di cibo sono così scarse da poter stare, nelle parole di un detenuto, “nel palmo di una mano”. Amnesty International ha chiesto al governo malgascio di affrontare con urgenza questi problemi, iniziando col rilasciare tutti i detenuti in attesa di processo la cui carcerazione sia ingiustificata, prolungata o per sospetti reati minori e che non abbiano implicato il ricorso alla violenza.