Viaggio del Capo del Dap Francesco Basentini negli 11 provveditorati regionali agenpress.it, 23 ottobre 2018 Prende il via oggi, da quello della Toscana-Umbria, il viaggio del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria negli undici Provveditorati Regionali. Nel corso delle sue visite, che si svolgeranno nel giro di un mese, Francesco Basentini incontrerà i Provveditori insieme ai Direttori e ai Comandanti di reparto degli istituti del territorio, per un momento di confronto e di raccolta di idee sulle criticità e le questioni più significative. In ogni tappa, il Capo del Dap chiederà di esporre le specifiche esigenze delle singole realtà, con riguardo tanto alla situazione del personale di Polizia Penitenziaria quanto a quella dei detenuti, per poi valutare concrete proposte risolutive e creare linee programmatiche condivise. La prima riunione si svolgerà domani nella Casa di Reclusione di San Gimignano e riguarderà gli istituti penitenziari toscani di Arezzo, Firenze Mario Gozzini, Firenze Sollicciano, Grosseto, Livorno, Livorno Gorgona, Lucca, Massa, Massa Marittima, Pisa, Pistoia, Porto Azzurro, Prato, Siena, Volterra, nonché quelli umbri di Orvieto, Perugia, Spoleto e Terni. Dopodomani, mercoledì 24 ottobre, seconda tappa nella Casa Circondariale Rocco D’Amato di Bologna, per l’incontro con i referenti del Provveditorato Emilia Romagna-Marche. Il viaggio proseguirà poi con le visite ai Provveditorati Sud e del Centro Italia; successivamente sarà la volta delle Isole e infine di quelli del Nord. L’Ispettore Generale dei Cappellani: “vicini a tutti i detenuti, anche ai pedofili” Il Mattino, 23 ottobre 2018 La pedofilia è una piaga ed “è giusta la tolleranza zero. Ma chi ha commesso un reato di pedofilia per noi è come gli altri, ha bisogno del nostro sostegno, non possiamo fare distinzioni”. A parlare è don Raffaele Grimaldi, Ispettore Generale dei Cappellani delle Carceri italiane, i sacerdoti che passano la loro vita dietro le sbarre per portare una parola di conforto a chi sta scontando una pena. “Sono tutte uguali per noi le persone che sono in carcere e noi siamo chiamati a dare loro sostegno. Spesso chi è in carcere perché ha abusato di un minore viene isolato, anche dagli altri detenuti. E per i sacerdoti che hanno commesso questi reati il dramma è ancora più grande perché sono davvero abbandonati da tutti”, dice in un’intervista all’Ansa don Grimaldi, che per 23 anni è stato cappellano del carcere di Secondigliano, a Napoli. Con questa attenzione alle vittime, ma anche a chi ha sbagliato, il Convegno Nazionale dei Cappellani e degli Operatori Pastorali nelle Carceri, che si è aperto oggi pomeriggio a Montesilvano (Pescara), prevede la testimonianza di don Fortunato Di Noto, da molti anni impegnato nella lotta alla pedofilia e alla pedopornografia. I cappellani che operano nelle carceri italiane sono attualmente 240 “ma ci sono anche tanti religiosi e volontari laici che condividono la loro vita con le persone che hanno sbagliato e che stanno scontando una pena”. Una pastorale difficile - alla quale è particolarmente attento Papa Francesco - ma che sa aprire i cuori pur in contesti complicati. “Siamo accolti da tutti, anche da detenuti di altre fedi perché ci vedono come un punto di riferimento”, spiega don Raffaele aggiungendo che quel legame in alcuni casi continua nel tempo “perché una volta usciti dal carcere queste persone sono estremamente fragili, in qualche modo restano marchiate e hanno enormi difficoltà di reinserimento. Noi ci siamo anche dopo ma non basta”. L’evento di questi giorni organizzato dai cappellani degli istituti penitenziari vuole dunque essere un appello al mondo che è fuori le sbarre. “Chiediamo a tutti, a partire dalle istituzioni, ma anche agli altri, alla società civile, alle stesse comunità parrocchiali, di non lasciarci soli. Nessuno deve chiudersi perché queste persone hanno diritto ad un’altra possibilità, ad essere accolte. È difficile recuperare la persone se vivono in ambienti che non li accolgono”. In questa volontà di collegamento tra chi è negli istituti penitenziari e il mondo esterno si inserisce anche l’iniziativa “Liberi nell’arte” dedicata ai detenuti nell’ambito del Sinodo dei vescovi sui giovani. Spettacoli e momenti di confronto, che si tengono in questi giorni, hanno fatto sì che il Sinodo “entrasse” nelle carceri. Don Raffaele Grimaldi spiega: “Si entra nelle carceri per portare uno spiraglio di luce e di libertà. Un’azione questa che, con tale iniziativa, diviene anche un aiuto concreto finalizzato al reinserimento. Infatti ci sono anche borse lavoro e di studio istituite all’interno del progetto hanno l’obiettivo di favorire processi di integrazione”. Stop al rito abbreviato per i reati più gravi. Asse Pd, Lega e 5Stelle di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 23 ottobre 2018 Niente processo breve per chi rischia l’ergastolo. Stop al rito abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo. Salvo improbabili ripensamenti dell’ultima ora, la modifica verrà votata dall’Aula di Montecitorio la prossima settimana. Il giudizio abbreviato è uno dei riti alternativi del processo penale. Ha natura “premiale”, consentendo in caso di condanna una riduzione di un terzo della pena, e al contempo “deflattiva”, essendo il processo in camera di consiglio davanti al Gup, senza esame testimoniale e solo sul materiale dell’accusa. La riforma è voluta dalla Lega e dal Pd per evitare che reati che destino allarme sociale nell’opinione pubblica siano puniti con pene notevolmente ridotte. Durante le audizioni in Commissione giustizia, professori universitari, rappresentati del Consiglio nazionale forense e delle Camere penali, hanno evidenziato nel testo in discussione profili di incostituzionalità per violazione dell’articolo n. 3 della Costituzione. “La proposta di legge in esame parte dall’assunto errato che il giudizio abbreviato è un beneficio per l’imputato colpevole, che così ottiene uno sconto di pena immeritato ed eccessivo”, ha dichiarato ieri in Aula durante la discussione generale l’azzurro Pierantonio Zanettin. Forza Italia è l’unico partito al momento intenzionato a votare contro. “L’abbreviato - prosegue - è un diritto dell’indagato innocente che sceglie questo rito perché appare chiaro che le accuse formulate dal pubblico ministero non reggono ed il suo fascicolo è privo di riscontri. L’innocente ha anche il diritto ad aspirare ad un rapido proscioglimento e ad evitare la gogna mediatica di un pubblico dibattimento”. Per Zanettin, “se si vuole evitare che gli autori di gravissimi fatti di sangue siano in libertà solo dopo pochi anni dal reato commesso, e magari senza aver manifestato alcun rimorso, non è questa la strada”. Forza Italia, senza toccare l’abbreviato, aveva presentato tre emendamenti: eliminare la riduzione di un terzo della pena, agendo sulla liberazione anticipata; eliminare la riduzione di un terzo della pena in caso di condanna all’ergastolo per reati più gravi, indicati dall’art. 4 bis Legge 354/ 1975; agire sugli istituti della legge Gozzini, liberazione condizionale, semilibertà, licenze e liberazione anticipata, limitandoli per i condannati per pene che comportano l’ergastolo che abbiano optato per il rito abbreviato e subordinando la concessione di questi benefici ad un interpello delle parti offese. La maggioranza gialloverde ha però respinto le proposte di modifiche in quanto il testo base corrisponde ad ‘ scelta politica’. Attualmente il rito abbreviato ha consentito di accelerare i processi, anche per i reati di maggior allarme sociale, nei quali gli imputati sono spesso detenuti, evitando così le scarcerazioni per decorrenza termini che costituiscono un rischio, proprio nei processi più complessi con un gran numero di imputati. È poi interesse delle parti offese che il processo sia celebrato in tempi ristretti, sia per conoscere i responsabili dei reati, sia per ottenere le conseguenti pronunce in sede di risarcimento danno. “Che senso ha trasferire tutti quei processi che oggi vengono celebrati davanti al gup, innanzi ai Tribunali, in sede collegiale, o innanzi addirittura le Corti di Assise, scomodando anche i giudici popolari?”, prosegue Zanettin. Anche l’Anm aveva espresso la propria contrarietà al riguardo in considerazione delle notevoli difficoltà che si incontreranno nel gestire i maxi processi di criminalità organizzata se non sarà più possibile far accedere al rito abbreviato i collaboratori di giustizia, che rendono dichiarazioni auto ed etero accusatorie o i rei confessi. Lo stralcio di tali posizioni agevola poi la celebrazione con maggiore efficacia del dibattimento nei confronti della pluralità degli imputati. Lo stesso Csm aveva insistito sulle tematiche organizzative degli uffici giudiziari che consentono di ottenere notevoli progressi nello smaltimento. “Trovo incomprensibile che il Pd ora insegua la maggioranza sul piano del populismo giudiziario: l’ex ministro Andrea Orlando che tanto si è speso per una politica giudiziaria deflattiva come potrà votare un testo come questo? Approvare questa proposta di legge significherebbe per lui contraddire il buon lavoro svolto al Ministero della giustizia”, puntualizza il parlamentare azzurro. “Si finge di ignorare che il testo di legge in ogni caso non riguarderà gli omicidi semplici che non sono puniti con l’ergastolo ma con la pena della detenzione non inferiore agli anni ventuno”, ha poi precisato Zanettin. Decreto sicurezza. Il M5S cede, solo 19 gli emendamenti di Carlo Lania Il Manifesto, 23 ottobre 2018 Una lista di Paesi sicuri per rendere più veloce l’esame delle richieste di asilo. Adesso bisogna vedere cosa faranno gli ortodossi del Movimento 5 Stelle, ma la Lega sembra aver vinto lo scontro interno alla maggioranza giallo verde sul Decreto sicurezza grazie a un accordo raggiunto con i vertici del Movimento. A confermarlo è stato ieri il capogruppo della Commissione Affari costituzionali del Senato, il leghista Stefano Borghesi, secondo il quale gli 81 emendamenti targati 5 Stelle che avevano fatto arrabbiare Matteo Salvini sarebbero ormai solo un ricordo, essendo stati ridotti ad appena 19. “Gli emendamenti M5S non sono stati ancora ritirati, ma saranno approvati solo quelli concordati con la Lega. Il confronto è aperto, ma su 19 di questi 81 si può convergere”, ha spiegato Borghesi che è anche relatore del testo in commissione. Tutto come previsto, dunque. A questo punto è facile che a passare saranno le modifiche che meno danno fastidio ai leghisti, come la possibilità di prorogare per sei mesi il permesso di soggiorno per chi proviene da un Paese colpito da una calamità naturale o la tracciabilità dei soldi destinati alle cooperative per l’accoglienza. Ma il nocciolo duro del decreto, dalla possibilità di espellere un richiedente asilo sulla sola base di una denuncia per un reato di particolare pericolosità sociale, all’abrogazione della protezione umanitaria, tutto sembra destinato a rimanere invariato. Proprio i punti sui quali gli ortodossi del movimento avevano annunciato battaglia. Intanto il governo si prepara a peggiorare ulteriormente il provvedimento con una serie di emendamenti. Uno di questi, ancora allo studio, prevede la preparazione di una lista di Paesi sicuri in modo da accelerare l’esame delle domande di protezione internazionale. Spetterà al richiedente asilo, se originario di uno dei Paesi inseriti nella lista, il compito di dimostrare che la sua vita sarebbe in pericolo se rimpatriato. In caso contrario la domanda di asilo potrà essere rigettata. Non tutti i Paesi Ue dispongono di una lista di questo tipo, anche se una direttiva del 2013 invita gli Stati membri a redigerne una e la riforma del regolamento procedure, ancora non approvata, ne prevede addirittura l’obbligo. In Europa alcuni Stati, tra i quali la Francia, già ne hanno una ma per l’Italia sarebbe una novità assoluta. La lista verrebbe preparata su indicazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo in base anche ai dati forniti da organizzazioni internazionali relative alla situazione di ogni Paese sul rispetto dei diritti umani e l’esistenza di eventuali conflitti. Se approvata permetterà di valutare le richieste di asilo attraverso procedure accelerate direttamente alle frontiere e negli hotspot. Non si tratta, però, dell’unica novità. Tra i 600 emendamenti al decreto ce ne sono altri due del governo (a firma Matteo Salvini) che prevedono la reclusione da uno a quattro anni per lo straniero che tenti di rientrare Italia dopo essere stato espulso e multe salate per chi chiede l’elemosina: da 3 a 6 mila euro, o l’arresto da 3 a 6 mesi, per chi chiede soldi fingendosi disabile; da 5 a 10 mila euro, o l’arresto da 6 mesi a un anno, per chi, chiedendo l’elemosina, mette a rischio l’incolumità delle persone o provochi disagi al traffico, ad esempio presidiando un semaforo. Decreto sicurezza, il tribunale circoscrive gli effetti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 23 ottobre 2018 È il primo provvedimento giudiziario a Milano sul “decreto sicurezza”, e già si intuisce che, per una dimenticanza, il pacchetto del ministro dell’interno Matteo Salvini - in tema di domande di protezione internazionale presentate da migranti, e in particolare di “permessi umanitari”, non produrrà la sforbiciata immaginata. Colpa della mancanza (per svista o per scelta, comunque per assenza nel testo in vigore dal 5 ottobre) di una norma transitoria sulle questioni intertemporali, che cioè dica quali regole (le nuove del decreto Salvini o ancora le vecchie) i Tribunali dovrebbero applicare alle centinaia di migliaia di ricorsi pendenti al 5 ottobre perché già proposti contro rigetti pronunciati in via amministrativa dalle Commissioni Territoriali. Nel 2017 su 81.527 domande d’asilo esaminate ne sono state accolte 33.873, di cui appunto 20.166 protezioni umanitarie, molte più dei 6.827 status di rifugiato e delle 6.88o protezioni sussidiarie: il Viminale, ravvisando una eccessiva manica larga dei magistrati nel concedere il permesso di soggiorno per motivi umanitari, con il decreto del 5 ottobre puntava a “delimitare l’ambito di esercizio di tale discrezionalità” a tre soli casi (calamità, atti di particolare valore civile, e eccezionale gravità di salute). Ma ora la sezione immigrazione del Tribunale di Milano, con orientamento unanime espresso per la prima volta da un provvedimento redatto dalla giudice Maria Cristina Contini, osserva che il decreto, nel cambiare le regole del procedimento, incide però radicalmente sullo status, e perciò ha “carattere sostanziale” (valido solo per i nuovi futuri casi), e non processuale (che varrebbe già nei processi in corso). E poiché “manca una norma transitoria per le domande pendenti all’entrata in vigore del decreto”, in base all’ordinaria bussola delle “preleggi” le nuove regole “non trovano applicazione ai processi in corso”. Significa che il decreto Salvini, vista la riduzione degli arrivi in Italia, si applicherebbe agli ormai pochi ricorsi post 5 ottobre 2018, e non invece all’enorme stock di domande (336 mila nel 2015-2017) proposte negli anni del boom di arrivi e in buona parte non ancora a giudizio. La pezza di una norma transitoria potrebbe essere messa dal governo nell’iter in Parlamento di conversione in legge del decreto. Una svolta sulla giustizia indispensabile per la crescita di Carlo Nordio Il Messaggero, 23 ottobre 2018 Nella lettera inviata alla Commissione Europea il ministro Giovanni Tria ha scritto che le riforme strutturali previste dal governo avranno un impatto determinante nel miglioramento della nostra economia e nell’abbattimento del deficit; tra queste riforme campeggia quella della giustizia, e in particolare la riduzione dei tempi dei processi. Purtroppo nutriamo scarsa fiducia in questo benemerito auspicio perché mancano le concrete iniziative necessarie alla sua realizzazione: la semplificazione delle procedure, la diminuzione del contenzioso, una radicale depenalizzazione e, non ultima la discrezionalità dell’azione penale. A queste ragioni strutturali se ne aggiungano due contingenti, che peraltro ne costituiscono la conferma. La prima riguarda la magistratura, e la seconda proprio la politica. Due significativi esempi recenti ne chiariranno le dimensioni. Primo esempio. La Procura di Agrigento aveva avviato, con grande clamore mediatico, un’indagine nei confronti del ministro dell’Interno in seguito all’approdo a Catania della nave “Diciotti”, e del conseguente divieto di sbarco dei migranti. Avevamo scritto subito, su queste pagine, che l’inchiesta era nata male e suscitava più di una perplessità. Primo perché quell’ufficio non era competente, Secondo perché era stato ipotizzato un reato, l’arresto illegale, che non stava in piedi, perché non era stato arrestato nessuno. E infine, terzo, perché l’altro reato ascritto a Salvini, il sequestro di persona, sarebbe stato commesso sotto gli occhi dello stesso pubblico ministero che lo aveva ipotizzato, ma che non aveva fatto nulla per porgli fine. Ora è accaduto che la procura di Palermo, cui gli atti erano stati inviati per la trasmissione al Tribunale dei Ministri, si è dichiarata incompetente, e ha spedito gli atti a Catania, dopo avere peraltro eliminato l’ipotesi di arresto illegale. Essendosi verificate le prime due nostre previsioni aspettiamo la terza: che un’eventuale imputazione di Salvini sia accompagnata da una contestuale accusa al Pm di Agrigento, responsabile di omissione di atti d’ufficio e forse di concorso nel sequestro. Secondo il quale, ripetiamolo, non impedire un evento che si ha il dovere di impedire equivale a cagionarlo. Davanti a simile pasticcio la domanda è: può un Paese sopportare una simile confusione di ruoli e mantenersi credibile? Secondo esempio. Il vicepremier Di Maio, lamentando l’interferenza di una “manina” che avrebbe modificato la bozza del decreto sul condono ha minacciato di rivolgersi alla Procura della Repubblica. Ora, a parte l’impossibilità di individuare un reato in questa ipotetica alterazione, il dato significativo e allarmante dell’ iniziativa, peraltro opportunamente ritirata, è l’ennesimo riconoscimento, stavolta ai massimi livelli, della subalternità della politica di fronte alla Magistratura. Come altro può definirsi il comportamento di un ministro che davanti a una lamentata (e, se, reale, gravissima) violazione di lealtà politica non trova di meglio che rifugiarsi nell’intervento del Magistrato, come un bambino capriccioso invoca l’intervento della mamma? La seconda domanda quindi è: può un Paese sopportare una simile devoluzione impropria di funzioni? Evidentemente non può. Con queste premesse, è lecito supporre che la lettera di Tria, sarà accolta con scetticismo pur rivendicando il principio condivisibile che certe regole e la pura ortodossia non sono un tabù. Ma affidare (anche) alla auspicata ma non avviata riforma della Giustizia la possibilità del mantenimento degli impegni assunti e della riduzione del deficit, significa presentare un libro di sogni che un’Europa diffidente, e forse ostile, prenderà a pretesto della nostra inaffidabilità, considerandolo l’ennesimo tentativo di giocare a carte truccate. Un gioco pericoloso, salvo che qualcuno, qui da noi, faccia prima saltare il banco. Non punibili solo i reati di dichiarazione fraudolenta di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2018 Con la dichiarazione integrativa speciale scatta la non punibilità per i soli reati di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di falsi documenti e con altri artifici. Si rischia invece la reclusione fino a sei anni se le attività oggetto di integrazione hanno provenienza differente da tali delitti, mentre restano punibili tutte le altre fattispecie illecite tra cui il riciclaggio. Sono questi, in estrema sintesi, gli aspetti penali della presentazione dell’integrativa speciale che, a ben vedere, potrebbero presentare qualche spiacevole sorpresa ai contribuenti interessati. La norma si limita a prevedere: • la sanzione da 18 mesi a 6 anni (già introdotta qualche anno fa per le false informazioni e documenti in sede di voluntary disclosure) per coloro che fanno emergere attività, denaro contante o valori al portatore provenienti da reati diversi dalle due dichiarazioni fraudolente (articoli 2 e 3 del Dlgs 74/2000); • comunque la punibilità per i reati di riciclaggio, auto-riciclaggio e possesso ingiustificato di valori (articolo 12 quinquies del Dl 306/92). Così chi si avvarrà del nuovo istituto, per far emergere costi dedotti da fatture false o nuovi imponibili al tempo occultati con condotte idonee a configurare la dichiarazione fraudolenta con altri artifici, non sarà penalmente perseguibile (sempre entro i limiti di quanto integrato). Il delitto di dichiarazione infedele non viene citato in quanto dai maggiori imponibili integrabili (massimo 100.000 euro) non può mai scaturire una imposta al tempo evasa avente rilevanza penale (150.000 euro). Per coloro che integrano imponibili, non derivanti da evasione fiscale ma da altri illeciti penali (truffe, appropriazione indebite ecc.) non solo resta la punibilità per i reati a suo tempo commessi, ma scatta la sanzione penale da 18 mesi a 6 anni. Più delicata, invece, l’integrazione da parte di società di capitali. La norma infatti non fornisce alcuna copertura penale per i reati societari che potrebbero “emergere” dai nuovi imponibili. Tale integrazione (determinata da ricavi a suo tempo non imputati a conto economico o da costi inesistenti) comporta che il bilancio presentato al tempo contenesse dati e informazioni non veritiere. Questa circostanza potrebbe avere rilevanza penale sia perché alcune Procure non condividono la tesi secondo cui non è ipotizzabile il falso in bilancio se finalizzato esclusivamente a evadere le imposte, sia perché, da successive indagini, potrebbero emergere finalità differenti o concorrenti all’evasione fiscale. Anche l’espressa previsione della punibilità delle condotte di riciclaggio merita, infine, qualche riflessione. Al delitto di fatture false (sanato se dichiarate, non sanato se emesse), potrebbero infatti correlarsi somme di cui, al tempo, è stata ostacolata la provenienza o impiegate in attività economiche, configurandosi astrattamente così la condotta di riciclaggio o reimpiego. In ogni caso, essendo esclusa la non punibilità, occorrerà comprendere gli obblighi di segnalazione in capo ai professionisti che presenteranno le integrative. La violazione degli obblighi di assistenza familiare. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2018 Reati contro la persona - Delitti contro l’assistenza familiare - Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Autoriduzione dell’assegno - Esclusione - Revisione dell’assegno - Ricorrenza di situazioni temporanee - Rilevanza - Condizioni. In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, al fine di escludere l’antigiuridicità della condotta, non può essere considerata sufficiente la mera affermazione del diritto alla autoriduzione dell’assegno, dovendo la parte in ogni caso rivolgersi al giudice civile per ottenere eventuali revisioni dell’importo, a meno della ricorrenza di situazioni in cui ci si trovi dinanzi a un limitato ritardo, a un parziale adempimento, ovvero a una omissione dei pagamenti, che trovino ben precise giustificazioni nelle peculiari condizioni dell’obbligato e appaiano agevolmente collocabili entro un breve lasso di tempo, quando, a fronte di un più ampio periodo preso in considerazione, risulti accertata la piena regolarità nel soddisfacimento dei relativi obblighi. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 11 ottobre 2018 n. 46014. Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Inadempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli minori - Condizione soggettiva dello stato di bisogno - Sussistenza in re ipsa - Reato di natura permanente. In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’indisponibilità da parte dell’obbligato dei mezzi economici necessari ad adempiere si configura come scriminante soltanto se perdura per tutto il periodo di tempo in cui sono maturate le inadempienze e non è dovuta, anche solo parzialmente, a colpa dell’obbligato. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 24 luglio 2018 n. 35248. Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Condanna - Presupposti - Impossibilità ad adempiere - Stato di bisogno del figlio minore - Onere della prova - Elementi probatori - Valutazione del giudice di merito - Insindacabilità. Deve essere esclusa ogni automatica equiparazione dell’inadempimento dell’obbligo stabilito dal giudice civile alla violazione della legge penale e, nell’ipotesi di corresponsione parziale dell’assegno stabilito in sede civile per il mantenimento, il giudice penale deve accertare se tale condotta abbia inciso apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire ai beneficiari, ivi compresa l’oggettiva rilevanza del mutamento di capacità economica intervenuta, in relazione alla persona del debitore. (I giudici hanno ritenuto non sussistente il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare a carico del genitore tenuto al versamento che non si era attenuto ai tempi di pagamento previsti, ma che in definitiva, con saltuari raddoppi di quanto dovuto mensilmente, aveva corrisposto il quantum per il mantenimento del figlio). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 15 maggio 2017 n. 24050. Reati contro la famiglia - Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Ipotesi di cui al comma 2, numero 2, dell’articolo 570 del Cp- Reato - Ravvisabilità - Condizioni - Onere di accertamento. In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’espressione “mezzi di sussistenza” di cui all’articolo 570, comma 2, numero 2, del Cp, esprime un concetto diverso dall’assegno di mantenimento stabilito dal giudice civile, essendo in materia penale rilevante solo ciò che è necessario per la sopravvivenza del familiare dell’obbligato nel momento storico in cui il fatto avviene. Pertanto il giudice, ai fini della responsabilità, non può limitarsi ad apprezzare l’omesso versamento dell’assegno stabilito in sede civile, dovendosi interrogare sugli effetti della condotta, ossia sull’eventuale venir meno dei mezzi di sussistenza dei familiari, e deve altresì verificare se la mancata corresponsione delle somme dovute non sia da attribuire a uno stato di indigenza assoluta da parte dell’obbligato, giacché in tal caso l’indisponibilità di mezzi, se accertata e verificatasi incolpevolmente, esclude il reato, valendo come esimente, purché si tratti di una situazione di persistente, oggettiva e incolpevole indisponibilità di introiti. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 25 gennaio 2017 n. 3831. Reati contro la famiglia - Delitti contro l’assistenza familiare - Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Omessa prestazione dei mezzi di sussistenza ai figli minori da parte del genitore non affidatario - Altro genitore che vi provveda in via sussidiaria - Convincimento del genitore inadempiente di non essere tenuto in tale situazione all’assolvimento del proprio dovere - Errore di fatto - Esclusione. Nel caso in cui la condotta violatrice dell’art. 570 cod. pen. si esplichi nell’omissione da parte del genitore non affidatario dei mezzi di sussistenza ai figli minori o inabili al lavoro, il reato sussiste anche se l’altro genitore provvede in via sussidiaria a corrispondere ai bisogni della prole; infatti, l’eventuale convincimento del genitore inadempiente di non essere tenuto, in tale situazione, all’assolvimento del suo primario dovere, non integra un’ipotesi di ignoranza scusabile di una norma che corrisponde a un’esigenza morale universalmente avvertita sul piano sociale. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 5 agosto 2016 n. 34675. Reati contro la famiglia - Delitti contro l’assistenza familiare - Elemento oggettivo - Intervento di terzi coobbligati - Configurabilità del reato. In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, lo stato di bisogno non è escluso dall’intervento di terzi, coobbligati od obbligati in via subordinata, sicché il reato si configura anche se taluno di questi si sostituisca all’inerzia del soggetto tenuto alla somministrazione dei mezzi di sussistenza. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 17 ottobre 2012 n. 40823. Calabria: Quintieri (Radicali) “urge il Garante dei diritti dei detenuti, troppe violazioni” iacchite.com, 23 ottobre 2018 A breve il Consiglio Regionale dovrebbe eleggere il Garante Regionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Calabria. Nei giorni scorsi ho chiesto notizie agli Uffici competenti del Consiglio Regionale della Calabria per conoscere lo stato e la fase del Procedimento e con una nota ufficiale del Settore Relazioni Esterne mi è stato comunicato che “l’istruttoria burocratica è stata completata e gli elenchi dei candidati sono stati inviati all’Ufficio di Presidenza per la relativa presa d’atto dei requisiti” e che “la delibera con i relativi allegati verrà pubblicata sul sito istituzionale del Consiglio Regionale della Calabria e ogni candidato potrà visionare la propria posizione”. Lo afferma Emilio Enzo Quintieri, membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani e candidato alla carica di Garante dei Diritti dei Detenuti della Calabria, di cui è stato anche promotore. Non c’è più tempo da perdere perché negli Istituti Penitenziari della Calabria sono in atto gravissime violazioni ai diritti delle persone ristrette che, nella maggior parte dei casi, riguardano problematiche di competenza regionale come il diritto alla tutela della salute. Proprio nelle scorse settimane, prosegue l’esponente radicale Quintieri, nell’ambito delle visite che ho effettuato negli Istituti, autorizzate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, ho dovuto riscontrare e denunciare alle Autorità competenti la pessima organizzazione del Servizio Sanitario Penitenziario Regionale. Per tale ragione, mi auguro che l’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale, a cui invierò un appello, proceda con la massima sollecitudine alla “presa d’atto” delle candidature pervenute in modo tale da poter procedere alla iscrizione all’ordine del giorno della prossima seduta del Consiglio Regionale per la elezione del Garante Regionale. Attualmente, in Calabria, solo nelle dodici strutture penitenziarie per adulti, che hanno una capienza regolamentare di 2.734 posti (non tutti sono disponibili perché vi sono diverse camere inagibili), sono presenti 2.752 detenuti (58 donne di cui 1 straniera madre con 2 figli al seguito), di cui 598 stranieri (prevalentemente rumeni, marocchini, ucraini, albanesi, tunisini e nigeriani) con le seguenti posizioni giuridiche : 668 in attesa di primo giudizio, 253 appellanti, 201 ricorrenti, 1 internato e 1.573 condannati definitivi, 23 dei quali ammessi alla semilibertà. Peraltro, solo di recente, dopo circa 10 anni, il Governo ha inteso nominare un Dirigente Generale dell’Amministrazione Penitenziaria in pianta stabile come Provveditore Regionale della Calabria. L’incarico, con Decreto del Ministro della Giustizia On. Alfonso Bonafede, è stato affidato al Dott. Massimo Parisi, già Direttore della II Casa di Reclusione di Milano Bollate. Su molti aspetti, in Calabria, rispetto ad altre realtà penitenziarie, siamo all’anno zero per cui è estremamente urgente eleggere il Garante che oltre a salvaguardare i diritti dei detenuti (anche di quelli minorenni), si dovrà occupare anche di tanti altri cittadini che sono sottoposti a misure restrittive della libertà personale, come quelli agli arresti domiciliari, in affidamento in prova al servizio sociale o terapeutico o sottoposti ad altre misure alternative o di prevenzione o di sicurezza nonché a trattamento sanitario obbligatorio presso i Reparti Psichiatrici degli Ospedali civili. La decima legislatura, conclude Emilio Enzo Quintieri, volge al termine. Erano stati presi degli impegni precisi da parte del Presidente della Giunta Regionale Mario Oliverio che, per la gran parte, non sono stati rispettati. Lo stesso Garante dei Detenuti, ancora non è stato eletto e la Calabria resta una delle poche Regioni d’Italia insieme all’Abruzzo, alla Sardegna ed alla Basilicata a non avere questa importantissima Autorità di garanzia, punto di riferimento sul territorio del Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti istituito presso il Ministero della Giustizia. Roma: lavorava nella coop ex detenuti cacciato perché… ex detenuto Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 ottobre 2018 L’Avr, subentrata nell’appalto per la raccolta differenziata, aveva l’obbligo della clausola sociale. Le vicende della cooperativa “29 giugno, travolta da Mafia capitale, continuano a farsi sentire, soprattutto sui lavoratori. La “Cooperativa 29 giugno” era nata per far lavorare gli ex detenuti e quindi funzionale al reinserimento lavorativo, poi è arrivato il commissariamento e i contratti sono stati interrotti. Uno di questi, quello relativo alla raccolta differenziata dei rifiuti per le utenze non domestiche, è stato affidato alla Avr, la nuova azienda appaltatrice, con l’obbligo di attenersi alla clausola sociale. Ed è a questo punto che spunta fuori l’ipotesi dell’esclusione di alcuni lavoratori a causa del loro percorso giudiziario, nonostante l’obbligo di assunzione inserita nel bando pubblico. A denunciarlo è uno dei due operai esclusi dall’assorbimento di lavoratori nel servizio di raccolta differenziata dei rifiuti da parte dell’Avr. Si tratta di Michelangelo Misso che fin dal 2013 ha sempre lavorato onestamente, concentrato tutti i suoi sforzi per osservare “modalità di vita rispettose delle regole, con umiltà e spirito di sacrificio” come dice la stessa ordinanza della magistratura di sorveglianza che gli aveva revocato la misura di sicurezza dopo che aveva scontato una condanna al 416 bis. Ha lavorato, e lavora, quindi, con spirito di sacrificio nella cooperata romana 29 giugno, settore smaltimento rifiuti, che si trova in difficoltà a causa dei ritardi del pagamento della fatture da parte dell’Ama. L’interruzione del contratto con la “Cooperativa 29 giugno” per la utenze non domestiche, a cui erano affidati oltre 174 servizi di utenze non domestiche con due operatori e un mezzo ciascuno, ha contribuito ad aumentare i rifiuti per le strade di Roma, per questo l’Ama ha intensificato gli sforzi per rendere operativa subito l’Avr, la nuova azienda appaltatrice con l’obbligo di attenersi alla clausola sociale. Quest’ultima serve per tutelare i lavoratori nei cambi di appalto, per questo motivo le parti sociali hanno previsto una procedura da seguire da parte di entrambe le aziende ed il mantenimento in servizio, ove possibile, dei lavoratori precedentemente impiegati. Parliamo, nello specifico, dell’articolo 50 inserito nei bandi di gara, nel rispetto dei principi dell’Unione europea, volta a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato. Detto, fatto. L’Avr ha ricevuto la lista di una settantina di operai che operavano nei lotti ora sotto la loro gestione. Tutti riassorbiti, ad eccezione di Michelangelo Misso e Ciro Calone. Entrambi con un passato al 416 bis. Misso denuncia, quindi, di sentirsi discriminato a causa del suo passato, nonostante la sua accertata riabilitazione. Ed è lui a denunciare a Il Dubbio la sua vicenda. “Ero parte integrante della Cooperativa che aveva l’appalto per la raccolta differenziata - spiega Misso; nel contratto del Bando pubblico è specificato che tutti gli operatori, i quali erano in servizio per quello specifico settore, avrebbero dovuto essere assorbiti dalla nuova società subentrante. A questo proposito, la società subentrante ha recuperato i certificati del casellario e poi ha riferito ai sindacati che non avrebbero potuto assumere i condannati per reati di associazione a delinquere, perché avrebbero potuto avere l’interdittiva antimafia”. Il Dubbio ha contattato il referente della Cgil Lazio che si occupa del passaggio dei lavoratori da un appalto all’altro. “Stiamo tutelando tutti i lavoratori - assicura il sindacalista - che fanno parte del reinserimento sociale, ovviamente ci sono delle problematiche legate ad alcune leggi che permettono alle aziende di andarci cauti su alcune assunzioni”. Nel caso di Misso, il sindacalista aggiunge che l’Avr ha richiesto un nulla osta dal prefetto per essere tranquilli onde evitare problemi con l’interdittiva antimafia. Misso però obietta: “Io sono operaio, non un dirigente e l’interdittiva antimafia con la mia posizione non c’entra. Peraltro aggiungo che io sono stato usato come esempio di riscatto, di rescissa contiguità con la criminalità organizzata”. Misso si riferisce all’inchiesta Mafia capitale nella quale la Procura di Roma aveva passato al setaccio tutti i dipendenti della cooperativa di Buzzi, per vedere se c’era qualche persona coinvolta ed era emerso l’esempio virtuoso dell’ex detenuto, simbolo di riscatto dalla criminalità organizzata di appartenenza. Ad onore dei fatti, nel caso di Misso il rischio interdittiva per la società che ha vinto l’appalto per i rifiuti è, di fatto, impossibile. Una recentissima sentenza del Consiglio di Stato (n. 3138/ 2018) ha revocato l’interdittiva emessa dal prefetto contro l’impresa, a cui era stata applicata solo perché aveva dipendenti in odore di mafia. Nel caso di Michelangelo Misso non esiste nemmeno “l’odore di mafia”, visto che il magistrato di sorveglianza - sotto indicazione della Direzione distrettuale antimafia - ha scritto nero su bianco che lui non è più legato al clan di appartenenza, ha riconosciuto di aver “concentrato tutti i suoi sforzi per osservare modalità di vita rispettose” e “nonostante la condizione di grave indigenza” di non aver “fatto ricorso al reato per procacciare il sostentamento per sé e la sua famiglia”. Misso ha dichiarato che farà ricorso e ha chiesto sostegno all’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, che più volte, ha sempre denunciato le enormi difficoltà di chi ha scontato una pena con annesso 416 bis e abbia l’intenzione di cambiare strada comportandosi onestamente. “Non può partecipare per legge a pubblici concorsi - denuncia Rita Bernardini - né non intraprendere un’attività e non può nemmeno essere assunto in un’impresa perché quest’ultima se ne guarderebbe bene rischiando di essere raggiunta da interdittiva antimafia”. Della vicenda si è anche interessato il garante regionale di detenuti Stefano Anastasìa, recapitando una lettera alle sede legale dell’Avr segnalando “il profilo discriminatorio che in essa potrebbe rilevarsi qualora dovesse emergere che la violazione della citata clausola sociale contenuta nel Bando di gara fosse motivata dal percorso giudiziario del signor Misso, rispetto al quale, invece l’impiego lavorativo di cui trattatasi è stato fondamentale per garantire la previsione dell’articolo 27 della Costituzione in materia di reinserimento sociale dei condannati”. Il Garante del Lazio prosegue esortando l’azienda a valutare “con la massima attenzione la possibilità che il signor Misso, in adempimento a quanto previsto dalle disposizioni normative, venga riassorbito nell’organico di codesta azienda”. Il Dubbio ha contattato il responsabile dell’Avr Generoso Perna, il quale ha specificato che non c’è nessuna discriminazione nei confronti dell’operaio. “Il bando di gara - spiega Perna - detta le regole del procedimento di contrattazione. Nel bando era previsto l’obbligo di assumere i dipendenti dell’azienda che aveva vinto l’appalto con la gara: Michelangelo Misso non è stato assorbito nell’azienda perché è ancora assunto presso la Cooperativa e non aveva fatto la cessazione lavorativa”. Diverse sono le spiegazioni, ma che non aiutano a dipanare la vera questione per il quale Misso è rimasto escluso dall’assorbimento lavorativo presso l’azienda appaltatrice. Genova: a Marassi e Pontedecimo detenuti “assistenti” alla persona Il Secolo XIX, 23 ottobre 2018 Sono stati consegnati ieri i primi attestati di frequenza del “Corso di formazione con funzioni di assistenza alla persona tra pari”, destinato ai detenuti delle case circondariali di Marassi e Pontedecimo. Promosso da Regione, Provveditorato dell’amministrazione Penitenziaria e Asl 3 Genovese, è già in via di programmazione un secondo evento di consegna degli attestati. Si avvia così a conclusione il percorso di formazione destinato a 24 detenuti lavoratori. Obiettivo dell’iniziativa: trasmettere informazioni e competenze di base sull’assistenza alla persona e sulla possibilità di fornire sostegno individuale in favore di altre persone nella medesima situazione di detenzione. Catania: Rems di Caltagirone, dove il recupero dei pazienti psichiatrici è possibile sicilianetwork.info, 23 ottobre 2018 Quali sono le condizioni in cui vivono gli ex detenuti psichiatrici in Sicilia dopo l’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari? L’ultimo Opg a chiudere è stata quella di Barcellona Pozzo di Gotto, ultimo perché il baluardo di resistenza era molto forte. Dagli ospedali psichiatrici giudiziari alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, cosa è cambiato realmente? Ne abbiamo parlato con Raffaele Barone, direttore del dipartimento salute mentale dell’Asp di Caltagirone. “È sicuramente migliorata la qualità della vita degli utenti che sono usciti dall’ospedale psichiatrico giudiziario malgrado difficoltà e resistenze - afferma Barone -, dalla psichiatria alla magistratura. La Sicilia ha fatto uno sforzo enorme nell’arco di pochissimo tempo: sono stati dimessi tutti i pazienti ricoverati nella Opg, grazie all’assessore Lucia Borsellino che è stata determinata nel realizzare il progetto. La Sicilia ha smentito ogni incertezza e perplessità, portando avanti e realizzando questo passo. L’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto era considerato inviolabile e invece sono state dimessi più di 120 pazienti, molti dei quali ritenuti dei “casi impossibili”. Un percorso difficile ma virtuoso per la qualità della vita degli utenti”. Una esperienza, quella delle Rems, che si proclama come realtà democratica in cui il principio di fondo è la ricerca della responsabilità delle persone, le quali devono ritrovare in un percorso con un tempo definito, la capacità di rientrare in società. Una evoluzione: il passaggio delle funzioni della sanità penitenziaria al servizio sanitario regionale promuovendo la cura delle persone e della loro salute mentale dentro e fuori i luoghi di reclusione. Ma per realizzare programmi di cura e riabilitazione occorre un potenziamento dei servizi di salute mentale con una dotazione adeguata di personale. “Devono funzionare i dipartimenti di salute mentale integrati con del personale adeguato - ci spiega Barone -. Queste patologie sono in aumento se si pensa all’uso di stupefacenti, quanto distrugge la cocaina e tutte quelle sostanze che sempre più si stanno diffondendo, tutte queste dipendenze unite a disfunzioni familiari e sociali aumenteranno i casi. Noi lavoriamo con i familiari, con la rete sociale cercando di risanare queste crepe attraverso attività di gruppo, dialogo aperto, laboratori e gruppi multifamiliari”. Gli utenti a questo cambiamento hanno reagito bene. Non prevedevano i vantaggi della Rems, provenivano da un regime diverso, lontano dal sistema “comunitario”. E anche la Sicilia, come altre regioni, ha dovuto lottare e confrontarsi con pregiudizi e resistenze: i cittadini di Caltagirone erano prevenuti, spaventati. Poi, dinanzi a un sistema di trattamento di tipo comunitario, le paure si sono dissipate. E adesso a Caltagirone sono aperte due Rems. “Resta il problema del carcere- spiega Raffaele Barone - quello è un buco nero. In carcere occorre un personale adeguato, specialistico e formato perché è lì che si concentra una sofferenza enorme, i casi di stalker, i reati legati alla sessualità, molti di loro hanno alla base una componente psicopatologica e lo Stato dovrebbe avere interesse a curarle queste persone, affinché escano dal carcere con una visione positiva. Restituendoli alla società con un trattamento adeguato, liberi da ogni tormento e forti per non ricommettere il reato, lo Stato deve poter recuperare la parte sana di queste persone. I pazienti accolti nella Rems di Caltagirone hanno un vissuto devastante, storie di violenze subite, abusi, abbandoni., ma è chiaro: chi sbaglia deve pagare, ma è indispensabile che il detenuto venga rieducato e curato, e per ottenere questo “serve assumere del personale specialistico per dare concretezza a un percorso riabilitativo, una risposta psicoterapeutica e psicosociale. Noi abbiamo un protocollo con il carcere per la prevenzione al suicidio e garantiamo dei trattamenti psichiatrici indispensabili. Sono persone con vari disturbi della personalità e il lavoro che attuiamo noi è psicoterapeutico proprio per creare un percorso di presa di coscienza dell’utente che ha commesso il reato. La cura inizia quando si prende consapevolezza, questa è la sfida”. Quanta disinformazione e timore restano fuori da queste strutture? Troppo. “Alla base c’è lo stigma”, ovvero la discriminazione basata sul pregiudizio nei confronti del malato mentale. “Tutte le persone che abbiamo accolto sono il frutto di esperienze di maltrattamenti - racconta Raffaele Barone - di traumi, e di vite marginali. La gente fondamentalmente ha paura di tutto ciò che non conosce. Esiste e persiste ancora oggi il pregiudizio nei confronti del diverso, poi se è anche un malato mentale, ancor di più. Noi lavoriamo anche con le loro famiglie per dare supporto, sostegno, un aiuto concreto per migliorare la loro condizione emotiva non solo clinica. Una chance gli va data. Senza toni trionfalistici, chiaramente. In salute mentale il primo intervento da fare è la lotta allo stigma ricreando così un ambiente umano dove le persone possano recuperarsi. Le relazioni qui sono improntate alla non violenza, accogliendo la democrazia, educando al rispetto reciproco. È bene specificare che la forza e la violenza sono differenti: la violenza è quando si abusa della forza”. La metà di tutte le malattie mentali inizia all’età di 14 anni,e nella maggior parte dei casi non viene rilevata, o viene sottovalutata, e quindi non viene trattata. la malattia mentale più diffusa tra gli adolescenti è la depressione. E il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani di 15-29 anni. Senza considerare l’uso di alcool e sostanze stupefacenti, un problema cosi importante e considerato una emergenza nazionale, ma “ciò che realmente preoccupa è che non ci sono investimenti pari al disagio, alla malattia che viene portata. Non c’è una adeguata risposta, non ci sono investimenti sulla sanità mentale, sulle carceri. Capisco benissimo che la gente lì fuori esige la punizione, ma servono investimenti per il recupero”. Sassari: “inchiesta da riaprire sulla morte in cella di mio figlio Saverio” di Daniela Scano La Nuova Sardegna, 23 ottobre 2018 Detenuto deceduto nel 2014. Famiglia non crede al suicidio “Dvd alterati, troppi punti oscuri. Ma io non mi rassegno”. “Voglio che sia chiara una cosa: io non mi rassegno e non mi arrendo”. Il tono è irremovibile. Leonarda Pinna scandisce le parole: “Aspetto la verità da quattro anni, con tutto il dolore di una madre che ha perso un figlio di 34 anni. Una madre che non crede alla verità ufficiale, ma che nonostante tutto ha ancora fiducia nella giustizia”. Leonarda Pinna, 70 anni, originaria di Ploaghe ma algherese di adozione, è la mamma di Saverio Russo, 34 anni, morto in una cella del carcere di Bancali il 6 settembre del 2014. La donna è fermamente convinta che suo figlio non si sia suicidato, come invece risulta da una inchiesta sulla morte del detenuto, archiviata il 28 aprile del 2017 dal gip Michele Contini su richiesta della pm Cristina Carunchio. La donna, attraverso il suo avvocato Federico Delitala, ha chiesto alla Procura della Repubblica di riaprire il caso. Lo ha fatto a giugno, ma la notizia è trapelata solo nei giorni scorsi, quando Maria Leonarda Pinna è stata assolta dal tribunale dall’accusa di avere minacciato alcuni agenti della polizia penitenziaria. Un verdetto che la donna ha interpretato come un segnale di svolta nella storia di una morte che non accetta. “Io non ho minacciato nessuno e qualcuno comincia a credermi - si sfoga al telefono. Adesso aspetto la verità sulla fine di mio figlio. Io sono certa che Saverio non si sia suicidato e dico che nella inchiesta sulla sua fine ci sono troppe piste inesplorate”. Negli uffici della Procura della Repubblica sono convinti che ci siano pochi dubbi sul fatto che Russo si sia tolto la vita, volontariamente o come conseguenza non voluta. Un gesto per attirare l’attenzione, finito in tragedia. Per fare chiarezza su quelli che considera i punti oscuri delle indagini sulla morte di suo figlio, Maria Leonarda Pinna ha ingaggiato un team di esperti: la criminologa Roberta Bruzzone, il genetista forense Andrea Maludrottu, il consulente informatico Romolo Moragli esperto in sistemi informatici che gestiscono le videocamere di sorveglianza del corridoio del braccio dove era recluso Russo. Ed è proprio dalla relazione tecnica del consulente che la madre di Saverio Russo vuole far ripartire le indagini sulla morte di suo figlio. Secondo il consulente della famiglia Russo (oltre la madre, il fratello del trentaquattrenne di Alghero) le immagini contenute nei due Dvd non sarebbero state riprese il 5 e il 6 settembre ma in date diverse, antecedenti. “Il tecnico Moragli - scrive l’avvocato Delitala - dopo avere analizzato i Dvd della Procura e la documentazione consegnata alle persone offese, arriva alla conclusione che non tutto si è svolto come si sarebbe dovuto svolgere. I Dvd masterizzati presentano anomalie che fanno capire che le immagini sono state alterate”. Ma ci sono anche altri punti sui quali la mamma di Russo chiede chiarezza con una nuova inchiesta: tracce di Dna, la presenza di lacci nella cella di un detenuto che aveva compiuto gesti di autolesionismo. Venti le richieste che la madre ha fatto al procuratore capo Gianni Caria. Tra queste, oltre far prelevare campioni di saliva a detenuti e agenti presenti in carcere il giorno della morte di suo figlio, spicca la istanza di riesumazione della salma “al fine - si legge nel documento - di valutare la compatibilità della circonferenza del cappio con il diametro della testa”. Ma anche si chiede “una Tac alla schiena e al torace al fine di evidenziare la presenza di eventuali traumi alla colonna, allo sterno”. Ma la riesumazione, secondo la madre di Saverio, serve anche “a ottenere, attraverso l’esame del Dna presente sotto le unghie della salma, eventuali tracce di terze persone con le quali il detenuto potrebbe essere entrato in contatto o in colluttazione negli istanti precedenti la morte”. Salerno: chiude il carcere di Sala Consilina, ma il Tar “salva” gli agenti di Erminio Cioffi La Città di Salerno, 23 ottobre 2018 Le guardie penitenziarie furono costrette a trasferirsi dopo la chiusura. Il Ministero nega la diaria, ma i giudici lo bocciano- Il carcere viene soppresso, gli agenti della polizia penitenziaria trasferiti altrove e il Ministero di Giustizia nega l’indennità di trasferimento alle guardie carcerarie sostenendo, furbescamente, che sono state loro a scegliere di essere trasferite. La vicenda, che ha dei contorni paradossali visto che la tesi del Ministero è farsesca - gli agenti sono stati costretti al trasferimento dopo la chiusura del carcere di via Gioberti e dunque non è stata certo una loro scelta - è finita davanti ai giudici del Tar di Salerno che con una sentenza hanno accolto il ricorso presentato da un ispettore capo della polizia penitenziaria che fino a 3 anni fa ha prestato servizio a Sala Consilina. Oltre al danno stava per arrivare anche la beffa, evitata dai giudici amministrativi di primo grado. Tutto è iniziato a maggio del 2016 quando la direzione generale del personale e delle risorse del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha notificato il diniego del diritto a percepire l’indennità di trasferimento. Indennità contemplata da una legge del 2001 che prevede per le forze di polizia - trasferite d’autorità ad altra sede di servizio e sita in un Comune diverso da quello di provenienza - un’indennità mensile pari a trenta diarie di missione in misura intera per i primi dodici mesi di permanenza ed in misura ridotta del 30 per cento per i secondi dodici mesi. La legge poi prevede in un altro comma che “l’indennità o rimborso previsti nei casi di trasferimento d’autorità non competono al personale trasferito ad altra sede di servizio limitrofa, anche se distante oltre dieci chilometri, a seguito della soppressione o dislocazione dei reparti o relative articolazioni”. L’ispettore capo è stato trasferito presso il carcere di Eboli. Per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria l’indennità non sarebbe dovuta perché il trasferimento sarebbe stato volontario ed Eboli sarebbe sede “limitrofa” a Sala Consilina. Entrambe lo motivazioni non hanno convinto i giudici che nella sentenza hanno messo in evidenza che invece all’agente spetta “l’indennità di trasferimento - si legge nel provvedimento - prevista all’art. 1 della l. n. 86/2011, considerato che la relativa istanza avanzata dal ricorrente su specifica richiesta dell’amministrazione di indicare tre sedi di gradimento in ambito regionale non può incidere sulla natura del disposto trasferimento, il quale, trovando il proprio presupposto fondante nella soppressione dell’originario reparto di appartenenza, costituisce trasferimento d’autorità, non traendo origine il movimento dall’iniziativa del ricorrente bensì rispondendo al preminente interesse pubblico alla riorganizzazione dei reparti da parte dell’amministrazione resistente”. Per quanto riguarda invece l’applicazione del comma della legge 86 del 2011 che non prevede l’indennità se la nuova sede di servizio è “limitrofa” alla precedente il Tar ha condiviso la prospettazione dell’agente trasferito in quanto “nel caso di specie - si legge nella sentenza non ricorre la condizione ostativa all’indennità, non essendo la nuova sede di servizio comunque “limitrofa” a quella di provenienza intercorrendo tra le stesse una distanza, pari a circa settanta chilometri, tale da far ritenere superata quella soglia minima di tollerabilità del sacrificio derivante dallo spostamento in una nuova sede (non voluta) stabilita dal legislatore”. Il Tar ha così annullato il diniego del Ministero di Giustizia e lo ha condannato alla corresponsione dell’indennità oltre agli interessi legali calcolati dalla data del trasferimento. Reggio Calabria: corso sull’uso del defibrillatore da parte dei detenuti strill.it, 23 ottobre 2018 La Lega Italiana dei Diritti Umani di Reggio Calabria (Lidu), nella persona della Presidente, Dott.ssa Daniela De Blasio e l’Avv. Maria Antonia Belgio, nell’ambito delle sempre più forte sinergia con la direttrice delle Carceri di Reggio Calabria, Dott.ssa Maria Carmela Longo, ha dato inizio ad un corso di formazione, in collaborazione con la Croce Rossa Italiana nella persona del Presidente Dott. Giuseppe Mileto e con la Consigliera di Parità, avv. Paola Carbone, sull’acquisizione delle procedure di primo soccorso a supporto delle funzioni vitali di base e l’apprendimento dell’uso del defibrillatore da parte dei detenuti dell’Istituto Penitenziario reggino grazie anche all’ausilio della Polizia Penitenziaria. Lo scopo del progetto, svolto dai volontari qualificati dalla Croce Rossa, è quello di fornire strumenti teorici e di supporto pratico per un primo intervento di soccorso in cui la tempestività risulta fondamentale nei confronti dei compagni di detenzione in caso di malesseri, arresto cardiorespiratorio, assistenza a una persona priva di respiro o battito cardiaco, e non da ultimo determinante nei casi di tentati suicidi, nell’attesa dell’arrivo del servizio medico di emergenza. I detenuti, inoltre, apprenderanno le pratiche connesse con il Blsd, il supporto di base per le funzioni vitali con defibrillatore. Per la sezione femminile del Carcere di San Pietro saranno dedicate delle lezioni riguardo il primo soccorso pediatrico, con particolare riferimento alla disostruzione delle vie respiratorie, in considerazione della presenza di minori all’interno della sezione medesima. Il progetto ha l’autorizzazione del Ministero di Giustizia a seguito dell’allarmante incremento delle morti in carcere e di tentativi di suicidio. Cagliari giovedì l’incontro “I ragazzi invisibili e la vita nelle carceri minorili” castedduonline.it, 23 ottobre 2018 L’evento di sensibilizzazione sul tema è previsto a partire dalle 16 all’Hostel Marina (scalette San Sepolcro - Cagliari). Durante la serata verrà proiettato il film “Jimmy della Collina” e presentato il progetto Da le celle alle stelle: uno spazio auto-costruito al carcere minorile di Alice Salimbeni. Sono detenuti principalmente per reati contro il patrimonio, furto e rapina (rispettivamente 32 e 19 sul totale dei 62 registrati in tutto lo scorso anno, secondo i dati del Rapporto 2017 dell’Osservatorio Ragazzi Dentro dell’associazione Antigone), qualcuno per aggressione o per reati contro lo stato (14 e 8), pochi per violazione delle norme sull’immigrazione. Sono i ragazzi invisibili del carcere minorile di Quartucciu, giovani che si sono avviati sulla strada sbagliata, persone di cui si parla e conosce troppo poco. Il prossimo giovedì 25 ottobre a partire dalle 16 Acli provinciali Cagliari, con il contributo della Regione Sardegna e in collaborazione con Ipsia Sardegna e Giovani delle Acli, organizzano nella sala A dell’Hostel Marina (scalette San Sepolcro) a Cagliari, un incontro incentrato sul tema della vita quotidiana all’interno degli istituti penali per minorenni. “Vogliamo puntare l’attenzione sulle vicende difficili di questi ragazzi, perché si tratta di giovani di cui si sa poco, non si conoscono i volti, le storie, e neppure i sogni - spiega il presidente delle Acli di Cagliari Mauro Carta. Per questo, secondo noi, è difficile capire a pieno quanto società e Stato debbano impegnarsi per offrire loro una seconda opportunità. Come Acli vogliamo fare la nostra parte: il mondo dell’associazionismo e del volontariato possono rappresentare un’opportunità attraverso cui riscattarsi. In questa chiave da anni collaboriamo con il tribunale di Cagliari: dal 2015 abbiamo ospitato una decina di ragazzi che sono stati affidati alle Acli dal Ministero della Giustizia attraverso l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna (Uepe) per essere messi alla prova come misura alternativa alla detenzione. Accogliamo inoltre altri ragazzi attraverso i servizi sociali. Si tratta di giovani come gli altri che dagli errori commessi possono imparare”. L’evento inizierà alle 16 con la proiezione del film “Jimmy della Collina” del regista cagliaritano Enrico Pau, un racconto per immagini che racconta la vicenda della detenzione di un giovane trevigiano basato sull’omonimo libro dello scrittore Massimo Carlotto. Di seguito, verrà presentato il progetto “Da le celle alle stelle: uno spazio auto-costruito al carcere minorile”, un percorso ideato come progetto di tesi di laurea dalla studentessa di Architettura Alice Salimbeni, nel corso del quale è stato realizzato uno spazio all’aria aperta destinato agli incontri tra gli ospiti del carcere minorile di Quartucciu e i loro familiari. Lo spazio è stato inaugurato nei giorni scorsi. Per maggiori informazioni è possibile contattare gli uffici Acli chiamando il numero 07043039 o inviando una e-mail aacliprovincialicagliari@gmail.com. Pisa: il 25 ottobre un incontro dell’Associazione Controluce sui diritti dei detenuti Redattore Sociale, 23 ottobre 2018 L’Associazione di volontariato penitenziario Controluce organizza un momento di riflessione con Daniela De Robert e Tommaso Greco. L’Associazione di volontariato penitenziario Controluce organizza, con la collaborazione del Cesvot, delle Associazioni Allievi ed ex Allievi del Sant’Anna e di altre realtà del territorio pisano, l’incontro “Persone private della libertà e diritti negati”, in programma il 25 ottobre, alle ore 21, presso l’Aula Magna della Scuola Superiore Sant’Anna. L’incontro, aperto alla cittadinanza, intende mettere in luce l’importanza delle funzioni svolte dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, nonché, più in generale, l’esigenza per la comunità di vigilare affinché le situazioni di privazione della libertà non degenerino in situazioni che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo definisce “trattamenti inumani o degradanti” tali da violare la dignità della persona. La figura del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, istituita nel 2013 a partire dall’esperienza dei garanti locali, opera come organismo indipendente di controllo sui luoghi di privazione della libertà personale, quali gli istituti penitenziari, i luoghi di polizia, i centri per gli immigrati, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Relatori dell’incontro saranno Daniela De Robert, membro del Collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà; Tommaso Greco, docente di Filosofia del diritto dell’Università di Pisa. Modera l’incontro Francesca Biondi Dal Monte, ricercatrice di Diritto costituzionale dell’Istituto Dirpolis (Diritto, Politica, Sviluppo) della Scuola Superiore Sant’Anna. Verona: i volontari de “La Fraternità” da 50 anni allargano le sbarre del carcere di Adriana Vallisari veronafedele.it, 23 ottobre 2018 La Fraternità festeggia mezzo secolo di attività. Cinquant’anni in carcere. Non una condanna, ma una vocazione: è quella che muove dal 1968 l’associazione La Fraternità, realtà di ispirazione cristiana e francescana sorta per accompagnare i detenuti e le loro famiglie nel percorso di recupero. Un cammino in salita, spesso lastricato di ostacoli, incertezze e rimorsi; scontare la pena e sperare, un giorno, in un recupero nella società. La Fraternità è stata fondata a Verona da fra Beppe Prioli, affiancato da un gruppo di giovani desiderosi di fare da cerniera tra il mondo esterno e quello dietro le sbarre. “L’associazione è cresciuta seguendo i detenuti e anch’io ho imparato molto da loro”, sottolinea il fondatore. Ancora oggi, partendo dal convento di San Bernardino, percorre l’Italia in lungo e in largo per dare risposte a chi chiede aiuto. “Seguo soprattutto le persone che hanno commesso omicidi: quando se la sentono di parlare faccio anche mille chilometri per un’ora di colloquio”, dice. Il compleanno della Fraternità sarà festeggiato con un ricco calendario di appuntamenti. Si potrà fare un viaggio per immagini con la mostra allestita nel chiostro del convento di San Bernardino (aperta dal 25 al 28 ottobre, dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 18). Giovedì 25 ottobre alle 20.30 (nella sala Africa dei comboniani, in vicolo Pozzo, 1) politici e rappresentanti di enti e associazioni si ritroveranno in un convegno per parlare di carcere e misure di comunità. Sabato 27 ottobre, alle 10.30 al convento di San Bernardino, nella cornice della conferenza sul dialogo islamico-cristiano, ci sarà la testimonianza di Silvana Pozzerle, storica socia della Fraternità. I festeggiamenti per i 50 anni si concluderanno con una Messa di ringraziamento, presieduta dall’ispettore dei cappellani delle carceri don Raffele Grimaldi, domenica 28 ottobre alle 11.30. Roma: “Prove di libertà”, documentario sui detenuti lavoratori volontari comune.roma.it, 23 ottobre 2018 È stato presentato all’Auditorium del Maxxi il documentario “Prove di libertà. Roma, quelli dell’Articolo 21”, con la regia di Carlo Bolzoni e Guglielmo Del Signore, racconto delle attività svolte dai detenuti volontari della Casa Circondariale di Rebibbia per ripristinare il decoro di Roma. Le mansioni sono svolte a seguito del progetto “Lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale” partito il 26 marzo scorso dopo un accordo fra Roma Capitale e il Ministero della Giustizia - DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria). I detenuti volontari di Rebibbia sono stati coinvolti in un progetto della durata di sei mesi per il ripristino del decoro e del verde della Città, riqualificando diversi spazi, da Colle Oppio al Gianicolo fino a Castel Fusano, lavoro che stanno ancora svolgendo in varie zone della Capitale. Nel documentario emergono le testimonianze dei detenuti stessi, i quali hanno rappresentato un’idea di libertà che passa attraverso il lavoro, il contatto con la natura e la storia di Roma, connettendola al valore sociale che può palesarsi proprio attraverso l’impiego. Il lavoro rappresenta per i detenuti la possibilità di riscattarsi e, al medesimo tempo, dà agli stessi le basi per poter avviare una nuova attività lavorativa alla fine della pena avendo imparato un nuovo lavoro diminuendo così il rischio di recidiva. “Di concerto con la Garante per i diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Gabriella Stramaccioni, abbiamo lavorato fortemente per attivare tale progetto. Crediamo che per i detenuti e per la Capitale rappresenti una forte spinta positiva muoversi in questa direzione e l’entusiasmo registrato sia fra i detenuti che fra la gente che li vedeva lavorare ne è una testimonianza concreta. Proseguiremo in questa direzione, abbiamo steso una lettera d’intenti con Autostrade per l’Italia volta a iniziare un percorso anche per piccoli interventi di manutenzione stradale e cercheremo di ampliare quanto possibile il raggio di azione dei detenuti per sostenere il miglioramento della nostra Città”, ha dichiarato l’assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini con delega ai rapporti con la garante Stramaccioni, Daniele Frongia. “Questo docu-film racconta con parole, musica e immagini il successo di questo progetto. L’entusiasmo dei detenuti volontari, il loro lavoro, l’impegno, l’importante collaborazione con il nostro Servizio Giardini e i risultati raggiunti in tante aree verdi della città, da Colle Oppio al Gianicolo, da Villa Pamphilj a Villa Ada, da Castel Fusano al Parco della Romanina. Gli apprezzamenti per questo grande progetto di reinserimento sociale sono stati tanti, da parte di cittadini e istituzioni. Si tratta di un lavoro di squadra e di un percorso all’educazione ambientale che noi vogliamo continuare a sostenere e promuovere”, ha detto l’assessora capitolina alla Sostenibilità Ambientale Pinuccia Montanari. “Questa mattina abbiamo proiettato in anteprima presso la sezione femminile del carcere di Rebibbia il documentario girato per raccontare l’esperienza dei detenuti nella riqualificazione del verde della Capitale, nel pomeriggio è stato proiettato al Maxxi di fronte ai detenuti che vi hanno lavorato. Volevamo dare la possibilità anche alle ragazze di Rebibbia di vedere cosa hanno fatto i detenuti durante il progetto: il docu-film è stato accolto con grandissimo entusiasmo, anche le ragazze di Rebibbia hanno infatti manifestato la volontà di parteciparvi. Il documentario racconta una bella storia che da una parte parla di libertà per quei detenuti che dopo tanto tempo rivedono la Città, il verde, la vita; dall’altra di questa Roma che ha accolto benissimo il progetto, in un clima positivo che fa riflettere. Bisogna promuovere tali iniziative, rafforzare il progetto ed espanderlo incrementando il numero dei detenuti coinvolti”, afferma la Garante per i diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Gabriella Stramaccioni. “Stiamo mettendo in campo numerose e diverse azioni di sistema - spiega l’assessora alla Persona, Scuola e Comunità Solidale, Laura Baldassarre - per garantire piena attuazione all’articolo 27 della Costituzione, che prevede la funzione rieducativa della pena. Assicuriamo così piena dignità alle persone: una comunità solidale si costruisce con il contributo di tutti, nessuno escluso. Un valore aggiunto del nostro percorso risiede nella capacità di programmare e sviluppare sinergie istituzionali, affinché tutte le iniziative vengano inserite all’interno di una visione strategica e di uno sguardo complessivo”. Il suicidio assistito è lecito oppure no? Quest’oggi lo dirà la Consulta di Alfonso Celotto Italia Oggi, 23 ottobre 2018 Le grandi decisioni etiche spettano al Parlamento o alla Corte costituzionale? Quest’oggi il dilemma si riproporrà davanti ai giudici della Consulta, chiamati a decidere sul suicidio assistito, cioè sui delicati temi connessi alla eutanasia. Classicamente la sovranità popolare trova il suo sbocco naturale nel Parlamento. Ma nella maturazione dei sistemi di governo, al Parlamento si è affiancata la Corte costituzionale, perdendo ben presto la tradizionale configurazione kelseniana di semplice “custode della Costituzione”. Le Corti sono entrate sempre di più “dentro” la politica, in posizione di interlocutore istituzionale: le decisioni sul Lodo Alfano o sulle leggi elettorali ne sono esempi emblematici. Ora la Consulta deve pronunciarsi sullo spinoso caso del dj Fabo. Tetraplegico e non vedente a seguito di un grave incidente, il dj aveva deciso di ricorrere al suicidio assistito in svizzera, facendosi assistere da Marco Cappato, leader di Associazione Luca Coscioni per le libertà civili, anche quale forma di testimonianza pubblica della dignità nel morire. Subito dopo il suicidio legalmente avvenuto il 27 febbraio 2017, Marco Cappato, che lo aveva accompagnato assieme ai familiari, a seguito di autodenuncia, è stato inquisito dal Tribunale di Milano, per istigazione al suicidio, punito dall’art. 580 del codice penale, anche a prescindere dalla collaborazione nella formazione della volontà suicida. Nel corso del processo, il Tribunale ha dubitato della conformità alla Costituzione dell’art. 580 cod. pen. Ritenendo questa norma penale legata alla visione tradizionale del suicidio come evento comunque contrario ai principi di sacralità e indisponibilità della vita. E quindi ora superata dalla ampia tutela costituzionale del diritto alla vita e della libertà di autodeterminazione, anche in relazione ai trattamenti sanitari (artt. 2, 13 e 32 Cost). Ecco il punto. Oggi punire l’assistenza al suicidio contrasta con la libertà di autodeterminazione e la tutela della dignità del fine vita? In Italia il dibattito sul fine vita non è stato agevole. Come del resto su tutti i temi etici. Dopo i casi tumultuosi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, il Parlamento solo a fine 2017 è riuscito ad approvare una legge parziale, sulla possibilità del rifiuto delle cure, comunicabile anche in via anticipata (c.d. dat; legge n. 219 del 2017). Ma non è stata risolta la questione generale dell’eutanasia e degli aspetti connessi, come il suicidio assistito. Sarà ora la Corte costituzionale a chiarirlo in maniera definitiva? Dal punto di vista istituzionale gli spazi ci sono. Perché per usare le parole di Enzo Cheli, la Corte “misura la politica sul metro del diritto”, attraverso la natura (politica) delle questioni affrontate e gli effetti (politici) delle decisioni. Ma tutto dipenderà da “quanto” la Corte vorrà “entrare” sul tema, come accaduto su divorzio, aborto, laicità, procreazione assistita, matrimonio omosessuale. Cappato e fine vita. Quattro scenari per una sentenza storica di Giulia Crivellini* Il Manifesto, 23 ottobre 2018 Oggi l’attesa decisione della Corte. La parola passa alla Corte, che oggi dovrà esprimersi sulla fondatezza o meno del dubbio di costituzionalità sollevato il 14 febbraio scorso dalla Corte d’assise di Milano nell’ambito del processo a Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni che nel 2017 aveva aiutato Dj Fabo a ottenere l’eutanasia in Svizzera (Marco Cappato rischia una pena tra i 5 e i 12 anni di carcere) con i principi di autodeterminazione e di dignità della persona. Si tratta di un’occasione storica per superare un reato introdotto nell’epoca fascista e per garantire a tutte le persone affette da patologie gravi di ottenere legalmente l’assistenza per morire anche in Italia. Ma quali potrebbero essere gli esiti e le ricadute della decisione? Ecco i quattro scenari possibili. In primo luogo, la Corte potrebbe dichiarare la causa inammissibile. Tale decisione viene utilizzata dalla Corte costituzionale quando, per una serie di motivi, ad essa è precluso l’esame del merito della questione. Il processo contro Cappato continuerebbe così il suo iter davanti alla Corte d’assise di Milano e la “palla”, almeno in termini politici, passerebbe al legislatore, sino ad oggi rimasto silente sul tema dell’eutanasia. In base a un secondo scenario, la Corte potrebbe rigettare la questione ed escludere la sussistenza del vizio di costituzionalità dell’art. 580 del codice penale. Anche in questo caso la decisione comporterebbe l’immediata prosecuzione del processo contro Marco Cappato dinanzi alla Corte d’assise di Milano, processo che potrà concludersi con una decisione di condanna o di assoluzione, senza che allo stesso tempo si possa però più entrare nella valutazione di costituzionalità della norma. Seguendo una terza strada, la Corte potrebbe emanare una sentenza interpretativa di rigetto. Si giungerebbe comunque ad una dichiarazione di infondatezza della questione, ma fornendo, allo stesso tempo, una interpretazione della norma idonea a “salvarla” dall’incostituzionalità. La Corte potrebbe allora esortare i giudici di Milano a interpretare il reato di aiuto al suicidio in maniera conforme alla Costituzione, escludendo dall’area di punibilità penale le condotte di coloro che non hanno né determinato né rafforzato l’altrui proposito suicidario, ma che hanno prestato un aiuto nella realizzazione dell’altrui diritto di autodeterminazione. Infine un quarto scenario potrebbe condurre a una sentenza di accoglimento, con la quale la Corte dichiara che una norma è in contrasto con la Costituzione e sancisce il conseguente obbligo per tutti i giudici di disapplicarla. Quest’ultimo sarebbe lo scenario maggiormente auspicabile, perché in tal modo il divieto di istigazione e aiuto al suicidio rimarrebbe nel nostro ordinamento, ma nel caso di aiuto alla persona capace e determinata, in cui la condotta agevolatrice è solo accessoria alla volontà della persona, non sarebbe configurabile alcun reato. Qualunque sarà l’epilogo della vicenda, la pronuncia della Corte segnerà una pietra miliare nel dibattito intorno al fine vita. Quel che è certo è che, anche nel caso in cui la questione venga rigettata, l’azione politica e giuridica per il riconoscimento del diritto di ciascuno di vivere libero fino alla fine proseguirà dal giorno successivo, più forte e convinta di prima. *Avvocata, membro di giunta Associazione Luca Coscioni La Casa bianca prepara il ritorno degli euromissili di Manlio Dinucci Il Manifesto, 23 ottobre 2018 Il Trattato Inf e la messa in discussione da parte di Washington. Firmato da Gorbaciov e Reagan, eliminava i missili nucleari schierati a terra. L’annuncio che “Trump rottama lo storico trattato nucleare con Mosca” - il Trattato sulle forze nucleari intermedie (Inf) - non era inatteso. Ora però è ufficiale. Per capire la portata di tale atto, va ricordato il contesto storico da cui nacque il Trattato. Venne firmato a Washington, l’8 dicembre 1987, dal presidente degli Usa Ronald Reagan e dal presidente dell’Urss Michail Gorbaciov, accordatisi l’anno prima al vertice di Reykjavik. In base a esso gli Stati uniti si impegnavano a eliminare gli “euromissili”: i missili balistici Pershing 2, schierati in Germania Occidentale, e i missili da crociera lanciati da terra, schierati in Gran Bretagna, Italia, Germania Occidentale, Belgio e Olanda; l’Unione Sovietica si impegnava a eliminare i missili balistici SS-20, schierati sul proprio territorio. Il Trattato Inf stabiliva non semplicemente un tetto allo schieramento di una specifica categoria di missili nucleari, ma l’eliminazione di tutti i missili di tale categoria: entro il 1991 ne furono eliminati complessivamente 2692. Il limite del trattato consisteva nel fatto che eliminava i missili nucleari a gittata intermedia e corta lanciati da terra, non però quelli lanciati dal mare e dall’aria. Nonostante ciò, il Trattato Inf costituiva un primo passo sulla via di un reale disarmo nucleare. Questo importante risultato era dovuto sostanzialmente all’”offensiva del disarmo” lanciata dall’Unione Sovietica di Gorbaciov: il 15 gennaio 1986, essa aveva proposto non solo di eliminare i missili sovietici e statunitensi a gittata intermedia, ma di attuare un programma complessivo, in tre fasi, per la messa al bando delle armi nucleari entro il 2000. Progetto che rimase sulla carta perché Washington approfittò della crisi e della disgregazione della superpotenza rivale per accrescere la superiorità strategica, compresa quella nucleare, degli Stati Uniti, rimasti l’unica superpotenza sulla scena mondiale. Non a caso il Trattato Inf è stato messo in discussione da Washington quando gli Stati uniti hanno visto diminuire il loro vantaggio strategico su Russia, Cina e altre potenze. Nel 2014, l’amministrazione Obama ha accusato la Russia, senza portare alcuna prova, di aver sperimentato un missile da crociera della categoria proibita dal Trattato, annunciando che “gli Stati uniti stanno considerando lo spiegamento in Europa di missili con base a terra”, ossia l’abbandono del Trattato Inf (il manifesto, 9 giugno 2015). Il piano è stato confermato dalla amministrazione Trump: nell’anno fiscale 2018 il Congresso ha autorizzato il finanziamento di un programma di ricerca e sviluppo di un missile da crociera lanciato da terra da piattaforma mobile su strada. Il piano viene sostenuto dagli alleati europei della Nato. Il recente Consiglio Nord Atlantico a livello di ministri della Difesa, cui ha partecipato per l’Italia Elisabetta Trenta (M5S), ha dichiarato che “il Trattato Inf è in pericolo a causa delle azioni della Russia”, accusata di schierare “un sistema missilistico destabilizzante, che costituisce un serio rischio per la nostra sicurezza”. Mosca nega che questo sistema missilistico violi il Trattato Inf e, a sua volta, accusa Washington di aver installato in Polonia e Romania rampe di lancio di missili intercettori (quelli dello “scudo”), che possono essere usate per lanciare missili da crociera a testata nucleare. Secondo notizie trapelate dall’Amministrazione, gli Stati uniti si preparano a schierare missili nucleari a raggio intermedio lanciati da terra non solo in Europa contro la Russia, ma anche nel Pacifico e in Asia contro la Cina. “Missili Usa in Europa? Per Mosca sarebbe come una dichiarazione di guerra” di Paolo Valentino Corriere della Sera, 23 ottobre 2018 Il consigliere del Cremlino Dmitrij Suslov, e la linea russa dopo l’annuncio di Trump sul ritiro dal Trattato sul disarmo nucleare. “Il clima è di scontro. Sarebbe molto pericoloso se gli Stati Uniti, ritirandosi dal Trattato Inf, ipotizzassero l’installazione di missili intermedi in Europa. Una cosa è certa: un piano americano di spiegamento di questi ordigni, per esempio in Polonia, per Mosca non sarebbe solo inaccettabile, ma sarebbe considerato dal Cremlino casus belli, un atto di guerra”. Dmitrij Suslov pesa le parole. Direttore del Centro di studi europei e internazionali presso la Scuola superiore di economia di Mosca, egli è uno degli strateghi più ascoltati dal Cremlino nella elaborazione della politica estera russa. Perché la denuncia dell’Inf da parte di Washington avviene adesso? “L’accusa alla Russia di violarlo venne già formulata dall’amministrazione Obama. La novità con Trump è che il ritiro dal Trattato è una delle opzioni sul tavolo. Ci sono due ragioni per questa scelta di tempo. La prima è che l’amministrazione Trump, ottenuto l’appoggio della Nato sulle presunte violazioni della Russia, ha creduto che l’opposizione degli europei a un eventuale ritiro sarebbe stata inferiore. Il che non mi pare. Secondo, ci sono considerazioni di politica interna: Trump dev’essere duro con Mosca e lo sta mostrando, giustapponendo la sua fermezza all’atteggiamento incerto di Obama. Questo aspetto è importante sia nella prospettiva delle midterm, sia in quella più lontana della campagna per il secondo mandato”. Ma quali sono le ragioni strategiche? “Anche qui sono due: la logica dello scontro con Mosca e quella non meno importante del contenimento americano della Cina. Sulla prima è chiaro che nei prossimi mesi e anni, gli Usa intensificheranno la politica di confronto duro con la Russia: sanzioni, corsa al riarmo, spiegamenti di missili, sabotaggio dei rapporti di Mosca con i partner tradizionali. L’idea è che a un certo punto la Russia cederà e comincerà a far concessioni invece di rispondere colpo su colpo. Sulla Cina, Trump si preoccupa poiché non essendo contraente dell’Inf, Pechino può sviluppare e installare ordigni a medio raggio nel Pacifico, godendo di un vantaggio strategico rispetto agli Usa, sottoposti ai vincoli dell’Inf. Ritirandosi dall’accordo, Washington non avrebbe più le mani legate in quella regione del mondo”. La speranza che alla fine Mosca capitoli sotto la pressione Usa, include secondo lei anche il “regime change”, cioè la cacciata di Putin? “In un certo senso sì. La tesi di Washington è che la politica del confronto duro - politico, economico e militare - porterà a un cambiamento radicale della politica estera russa e quindi anche a un cambio all’interno, convincendo l’élite russa a liberarsi di Putin e accettare un compromesso nei termini degli Usa”. Ma l’obiettivo del “regime change” non era stato abbandonato con l’arrivo di Trump? “All’inizio è stato così, perché Trump ha un approccio de-ideologizzato ai rapporti con Mosca: per esempio, non attacca molto la Russia sul piano dei diritti umani. Diciamo che l’attuale amministrazione non ha più il regime change come strumento della politica estera, ma lo persegue come esito finale necessario di una strategia”. Ci riuscirà? “Conoscendo la Storia e la Russia, non credo”. Tornando all’ Inf, è fondata l’accusa americana che Mosca viola l’accordo? “Il solo fondamento è che ambedue sono d’accordo che Mosca ha sviluppato un nuovo sistema missilistico, il 9M729. Ma gli americani sostengono che sia in violazione, perché avrebbe una gittata superiore a 2 mila chilometri, mentre i russi ne ammettono l’esistenza, ma sostengono che il raggio d’azione sia inferiore a 500 chilometri, cioè il limite basso imposto dall’Inf. Inoltre Mosca accusa a sua volta gli Usa di violare il trattato, per esempio con i lanciatori dello scudo anti-missile in Romania, identici a quelli usati per i missili proibiti dall’Inf”. Ma è vero che il sistema 9M729 non viola l’Inf? “Non lo so. È un segreto militare. Ma la Russia ha detto e ripetuto di essere disposta a discutere, ammettere verifiche, test e controlli, anche con la partecipazione di esperti stranieri, che potrebbero provare l’assenza di violazioni dall’una e dall’altra parte. Ma gli Usa rifiutano ogni trattativa”. Stati Uniti. Lo Stato di Washington ha abolito la pena di morte di Patrizia Abello felicitapubblica.it, 23 ottobre 2018 Negli Stati Uniti d’America, il ventesimo Stato ad abolire la pena di morte è stato quello di Washington, dopo che la Corte Suprema ha stabilito, alcuni giorni fa, che la “punizione” è stata applicata in modo arbitrario e su base razziale. Quindi la Corte ha deciso, riferiscono diversi media americani, che per le otto persone attualmente detenute nel braccio della morte la pena verrà commutata in ergastolo. Del resto, se è vero che lo scorso anno nei civilissimi Usa sono state eseguite 23 condanne a morte è anche vero che nello Stato di Washington non è stata eseguita alcuna sentenza dal 2010. Non a caso il governatore Jay Inslee - pur essendo un sostenitore della pena capitale - aveva affermato che nel corso del suo mandato non vi sarebbero state esecuzioni. Sono stati diversi i motivi che hanno fatto raggiungere la decisione dell’abolizione della pena estrema in questo Stato. Infatti nella sentenza si fa esplicito riferimento a uno studio dell’Università di Washington che ha effettuato una ricerca esaminando il ruolo svolto dalla “razza” nelle condanne comminate tra il 1981 e il 2014, concludendo e precisando che “Nei casi di omicidio aggravato, i giurati sono stati quattro volte più favorevoli a imporre la condanna a morte, se l’imputato era una persona di colore”. Ma non basta, infatti i giudici della Corte hanno considerato l’appello per il detenuto Allen Eugene Gregory che nel 1996 violentò e uccise una donna. L’appello aveva incluso uno studio che dimostrava che i detenuti neri avevano 4,5 volte più probabilità di essere condannati a morte nello stato di Washington rispetto ai detenuti bianchi; la decisione di abolizione della pena è stata unanime. Gli USA sono attualmente uno degli Stati al mondo in cui vige la pena di morte e si trovano in buona compagnia, con Paesi come Giappone, Cina, Arabia Saudita, Brasile, Cuba, Marocco, Algeria, Egitto e tantissimi altri nel mondo. Naturalmente la pena è un argomento molto controverso e dibattuto, con buona pace di Cesare Beccaria che la deprecò fin dal lontano 1764 nel suo “Dei delitti e delle pene” e che influenzò l’intero Vecchio Continente con le sue idee. Gli Stati dell’Unione americana che attualmente non la prevedono nel proprio sistema giuridico sono: Alaska, Hawaii, Illinois, Iowa, Maine, Maryland, Massachusetts, Michigan, Minnesota, Nebraska, New Jersey, Dakota del Nord, Nuovo Messico, Rhode Island, Vermont, Virginia Occidentale, Wisconsin, mentre altri non la applicano dal 1976. Va anche segnalato che nel 2005 la Corte suprema degli Stati Uniti d’America ha stabilito a maggioranza (5 voti contro 4) l’incostituzionalità della pena di morte nei confronti dei minorenni all’epoca del reato. Nella motivazione della decisione la pena capitale su minori viene descritta come “una crudeltà sproporzionata nei confronti di persone immature, una crudeltà contraria ai principi della Costituzione”. Il dibattito rimane aperto, ci auguriamo che l’esempio dello Stato di Washington venga seguito da tutti i Paesi. Afghanistan. Non voto e vittime civili, i numeri non tornano di Giuliano Battiston Il Manifesto, 23 ottobre 2018 Il giorno dopo una complicata tornata elettorale. Najiba Ayubi di Radio Killid: “Qualche candidato presentabile c’era, ma il voto sarebbe valso carta straccia”. “Le elezioni? Un disastro completo”. Najiba Ayubi la pensa diversamente dal presidente Ashraf Ghani, che ha parlato di “successo” per le elezioni parlamentari tenute sabato e - inaspettatamente - domenica in Afghanistan. Direttrice di Radio Killid, rete di radio indipendenti con sedi in molte province del paese, Ayubi è tra i cittadini che non sono andati a votare. Tanti. Secondo la Commissione elettorale indipendente, sarebbero stati 4 milioni gli afghani che hanno votato. Un numero eccessivo, notano i ricercatori dell’Afghanistan Analysts Network di Kabul. Anche se si trattasse di 4 milioni, si tratterebbe comunque di meno della metà degli 8.5 milioni di afghani registrati nelle liste elettorali su un bacino di cittadini eleggibili di circa 15 milioni e su una popolazione di 35 milioni (ma non esistono censimenti recenti). A votare, dunque, soltanto una minoranza. Diverse le ragioni, due più rilevanti delle altre: l’insicurezza e la sfiducia nel sistema politico ed elettorale. I Talebani non hanno fatto il colpaccio clamoroso, ma - lontano dai riflettori, concentrati su Kabul - hanno dimostrato di controllare il territorio. Hanno intimidito, minacciato, negato il diritto al voto in molte aree rurali, lontane anni luce dalle principali città come Herat e Kabul, dove la partecipazione è stata alta. Le forze di sicurezza hanno dimostrato di essere più affidabili di quanto ci si aspettasse, ricevendo il plauso generale, ma anche i barbuti incassano un dividendo politico, perché sono riusciti a sabotare le elezioni senza affondare troppo il colpo sulle vittime civili: 17 secondo il ministero degli Interni, ma anche qui i numeri sembrano inverosimili, al ribasso. Così come è poco verosimile che sia stato aperto il 92% (circa 4.500) dei circa 5.000 centri elettorali previsti, come dichiarato dalla Commissione. Un documento interno dello stesso organismo recita infatti che soltanto il 63% (circa 3.200) avrebbe aperto. Una differenza sufficientemente ampia da permettere di manipolare i risultati finali. E la stessa decisione di aprire alcuni seggi nella giornata di domenica, non prevista, dà molto da pensare qui a Kabul. Ecco la seconda ragione che ha tenuto gli afghani lontani dalle urne: la sfiducia in un sistema considerato troppo corrotto per essere riformabile. “Non ho votato perché il mio voto non sarebbe stato al sicuro. Il sistema è troppo opaco”, continua Najiba Ayubi. “Qualche candidato presentabile c’era, anche qualcuno serio e onesto, da sostenere, ma il voto sarebbe valso carta straccia”. Le elezioni non sono finite con la chiusura delle urne. La parte più difficile arriva ora. La Commissione per i reclami dovrà verificare le migliaia di segnalazioni ricevute. La Commissione elettorale indipendente dovrà assegnare i seggi. La comunità internazionale dovrà fare buon viso a cattivo gioco plaudendo alla democrazia. Gli elettori, invece, potranno sapere se hanno avuto ragione a fidarsi delle istituzioni a partire dal 10 novembre, con l’arrivo dei primi risultati parziali. Quelli finali il 22 dicembre. Egitto. Arrestati economista ed editore dopo libro critico su politica sociale al-Sisi La Repubblica, 23 ottobre 2018 Il saggio dell’economista Abdel Khalik Farouk nel mirino delle autorità egiziane è intitolato “È l’Egitto davvero un Paese povero?”. La denuncia su twitter dell’attivista Amr Magdi. La polizia egiziana ha arrestato l’economista Abdel Khalik Farouk dopo la pubblicazione del suo libro nel quale veniva esposta un’analisi critica della crisi economica e sociale dell’Egitto. Lo denunciano la moglie e l’avvocato dell’economista all’emittente al-Jazeera. Farouk, noto analista dell’economia egiziana, aveva già denunciato nei giorni scorsi il sequestro da parte dalle forze di sicurezza delle copie del suo ultimo libro, dal titolo “L’Egitto è davvero un Paese povero?”, e l’arresto del proprietario della sua casa editrice. La Rete araba per l’informazione sui diritti umani ha spiegato che oggi la procura chiarirà le accuse formali contro Farouk. La moglie di Farouk ha raccontato a Reuters che i tre poliziotti che lo hanno prelevato dalla sua casa del Cairo hanno detto che la causa erano proprio i contenuti del libro. La moglie ha anche detto di averlo raggiunto nella stazione di polizia in cui è detenuto, e di essere riuscita a portargli medicine, cibo e vestiti. La notizia dell’arresto dell’economista è stata twittata anche dal ricercatore Egiziano Amr Amdi, attivista di Human Rights Watch, organizzazione non governativa che si occupa della difesa dei diritti umani.