Costituzione e carceri di Giorgio Lattanzi* penalecontemporaneo.it, 22 ottobre 2018 La Costituzione ha compiuto settanta anni. Li ha compiuti il 1° gennaio 2018, essendo entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Spesso si dice che la nostra Costituzione è la più bella del mondo. Non so se è così, ma so che è bella; bella per i suoi contenuti e anche per la sua forma. E la Corte costituzionale i suoi settanta anni li ha voluti ricordare con varie iniziative, che vanno anche oltre l’intento meramente celebrativo. La Corte ha avvertito l’esigenza di uscire dal Palazzo della Consulta di farsi conoscere e al tempo stesso di conoscere, di incontrare persone e di mettersi in discussione. Una di queste iniziative, la più significativa, è quella del “Viaggio in Italia”. A maggio si è concluso il “viaggio” nelle scuole d’Italia, dove la Corte costituzionale ha “raccontato”, più che illustrato, la Costituzione. Ora il “Viaggio”, e quindi “il racconto”, prosegue nelle carceri, e siamo qui oggi a illustrare questa nuova iniziativa e il suo significato. Può sembrare strano che la Corte sia venuta a fare l’elogio della Costituzione, cioè di una legge, nel luogo in cui la legge, per punire chi l’ha violata, si manifesta in forme costrittive, che possono farla apparire nemica. Ma a ben vedere una legge, se è giusta, se dà a ciascuno il suo, e la nostra Costituzione è sicuramente giusta, una legge così, dicevo, non è mai una nemica e rappresenta in molti casi un indispensabile strumento di tutela, che impedisce abusi e prevaricazioni. Di uno strumento del genere hanno soprattutto bisogno le persone che nella società, per ragioni diverse, vengono a trovarsi in condizioni di debolezza, di subordinazione o di dipendenza, e che perciò vedono limitata o condizionata in vario modo la propria vita, come accade alle persone detenute. E massima è la tutela che assicura a tutti la nostra legge fondamentale, la Costituzione. Con i suoi doveri e le sue responsabilità, ma anche con i suoi diritti e le sue tutele, la Costituzione si rivolge a tutti, anche a chi è detenuto, e garantendone i diritti, vuole che la detenzione non avvenga senza regole e non sia rimessa esclusivamente alla discrezionalità dell’Amministrazione penitenziaria. Voglio dire che l’esecuzione della pena deve essere regolata da leggi, che queste, a loro volta, devono essere conformi alla Costituzione e che alla base della nostra Costituzione c’è la persona umana, con la sua insopprimibile dignità. “Dignità e persona - si è detto (Silvestri) - coincidono: eliminare o comprimere la dignità di un soggetto significa togliere o attenuare la sua qualità di persona umana. Ciò non è consentito a nessuno”, e ciò significa che neppure la detenzione può incidere sul nucleo fondamentale della dignità personale e consentire atti e limitazioni non necessari ai fini detentivi. Nelle decisioni della Corte costituzionale è assegnato alla dignità della persona un ruolo decisivo. È nella dignità che la Corte riconosce il naturale presupposto di molti dei diritti che di volta in volta, nei vari giudizi vengono in considerazione. Ed è nell’art. 2 della Costituzione che innanzi tutto si radica questo presupposto, dato che, come si legge in una sentenza della Corte costituzionale (sent. n. 479 del 1987), in quell’articolo è sancito “il valore assoluto della persona umana”. Nelle carceri noi parleremo anche di questo; ricorderemo che la Costituzione, con il valore fondamentale della dignità che ne è alla base, appartiene anche a chi è detenuto. Il nostro discorso nelle carceri, il nostro “racconto”, vuole rappresentare il riconoscimento costituzionale della dignità delle persone detenute, vuole indicare che tra il “dentro” e il “fuori” delle mura del carcere non esistono barriere ideali, ma solo barriere fisiche, e che nella Carta costituzionale il carcere non significa esclusione ma impegno per l’inclusione, attraverso un’opera di risocializzazione alla quale non deve mancare l’apporto delle stesse persone detenute. “Mai più un carcere cimitero dei vivi” è stato l’impegno dei nostri padri costituenti, che durante il ventennio fascista avevano conosciuto la mortificazione del “carcere-cimitero”. Da quel giuramento è nato l’art. 27 della Costituzione, che finalizza le pene alla “rieducazione” del condannato, anche attraverso la progressiva apertura all’esterno del carcere e il pieno rispetto dei diritti del detenuto. Un “dentro” nella prospettiva di un nuovo “fuori”; non un “dentro” in cui si finisce ma, nel progetto costituzionale, un “dentro” da cui si ricomincia. E ciò nella logica di una pena che secondo l’art. 27 della Costituzione non può “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e deve tendere “alla rieducazione del condannato”. La sua esecuzione richiede l’osservanza di tutti i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, perché con questa possono essere compatibili solo i limiti di quei diritti che sono necessari per assicurare nelle carceri la sicurezza e la custodia. “Ogni limitazione nell’esercizio dei diritti del detenuto - si è detto (Silvestri) - che non sia strettamente funzionale a questo obiettivo acquista un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, incompatibile con l’art. 27 Cost. (sentenza n. 135 del 2013) e inammissibile in un ordinamento basato sulla assoluta priorità dei diritti della persona, che trova appunto nella privazione della libertà personale, il limite massimo di punizione non oltrepassabile per alcun motivo” Non si tratta di enunciazioni solo teoriche, e ciò è dimostrato dalle numerose decisioni della Corte costituzionale che negli anni hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di varie norme dell’ordinamento penitenziario o con le indicazioni e i moniti contenuti nelle sentenze, hanno indotto il legislatore a modificazioni normative per riconoscere diritti che prima erano esclusi. Tra queste modificazioni voglio ricordare quelle determinate dagli artt. 35-bis e 35-ter, inseriti nell’ordinamento penitenziari il primo dal d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito nella l. 21 febbraio 2914, n. 10 e il secondo dal d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito nella l. 11 agosto 2014, n. 117. Due articoli che, nell’accogliere le indicazioni di due sentenze della Corte, hanno introdotto due nuovi fondamentali istituti, quello del reclamo giurisdizionale e quello dei rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 della Cedu. Nell’ordinamento penitenziario i reclami al magistrato di sorveglianza davano luogo a provvedimenti privi di effettività sicché l’eventuale accoglimento delle richieste dei detenuti ben poteva essere disatteso dall’amministrazione. Che ciò non fosse conforme alla Costituzione era stato fatto rimarcare al legislatore dalla sentenza della Corte costituzionale n. 279 n. del 2013, che aveva fatto seguito alla sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma già in precedenza la Corte costituzionale, con la sentenza n. 135 del 2013, aveva affermato che “le decisioni del magistrato di sorveglianza, rese su reclami proposti da detenuti a tutela di propri diritti e secondo la procedura contenziosa di cui all’art. 14-ter ord. pen., devono ricevere concreta applicazione e non possono essere private di effetti pratici da provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria o di altre Autorità”. A questa affermazione la successiva sentenza n. 279 aveva aggiunto: “È inoltre necessario che, a garanzia della preminenza dei principi costituzionali ai quali deve conformarsi l’esecuzione della pena gli interventi dell’amministrazione penitenziaria si trovino inseriti in un contesto di effettiva tutela giurisdizionale”. E questa tutela finalmente è intervenuta con l’art. 35-bis che ha innestato sul reclamo un completo procedimento giurisdizionale, seguito, ove necessario, da un ordine di ottemperanza. Non c’è più alcuna possibilità per l’amministrazione di rendere ineffettivo il reclamo della persona detenuta evitando di dare esecuzione alla decisione del magistrato di sorveglianza. In questo caso era necessaria l’opera del legislatore, ma la maggior parte degli interventi modificativi dell’ordinamento penitenziario dovuti alla Corte costituzionale sono stati fatti direttamente con dichiarazioni di illegittimità costituzionale. Limitando il riferimento al solo anno 2018, voglio ricordare due decisioni assai significative con le quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di norme dell’ordinamento penitenziario che in situazioni particolari precludevano benefici altrimenti consentiti. Con la sentenza n. 149 del 2018 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui prevede che i condannati all’ergastolo per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati dal comma 1 dell’art. 4-bis ord. pen. se non hanno effettivamente espiato almeno 26 anni di pena. Si tratta di una decisione significativa per una serie di affermazioni sul percorso di progressivo reinserimento sociale dell’ergastolano e per alcune considerazioni critiche nei confronti di eventuali preclusioni rispetto a benefici che dovrebbero accompagnare tale percorso. In particolare la sentenza ha giudicato “Incompatibili con il vigente assetto costituzionale … previsioni … che precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso, l’accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati - i quali pure abbiano partecipato in modo significativo al percorso di rieducazione, e rispetto ai quali non sussistano indici di perdurante pericolosità sociale individuati dallo stesso legislatore nell’art. 4-bis ordin. penit. - in ragione soltanto della particolare gravità del reato commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti dei consociati”. Con la seconda decisione, la n. 174 del 2018, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 21-bis dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui alle detenute condannate per un reato ostativo non consente l’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore ai dieci anni. Con questa decisione la Corte ha ribadito quanto aveva già affermato con la sentenza n. 76 del 2017, vale a dire “che se il legislatore, tramite il ricorso a presunzioni insuperabili, nega in radice l’accesso della madre a modalità agevolate di esecuzione della pena, impedendo al giudice di valutare la concreta sussistenza nelle singole situazioni, di esigenze di difesa sociale, bilanciandole con il migliore interesse del minore in tenera età, si è al cospetto dell’introduzione di un automatismo basato su indici presuntivi, il quale comporta il totale sacrificio di quell’interesse”. Due dunque sono i principi, peraltro non nuovi, che hanno orientato la decisione: quello che un trattamento deteriore della persona detenuta non può essere giustificato con presunzioni negative di carattere assoluto, e cioè insensibili a un eventuale diverso accertamento dei fatti da parte del giudice, e quello che il trattamento di una madre con figli in tenera età non può prescindere dalla considerazione dell’interesse di questi “a beneficiare in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne”. Andando a ritroso nel tempo si incontrano molte altre pronunce di illegittimità costituzionale di norme dell’ordinamento penitenziario e molti altri i principi affermati dalla Corte per tutelare diritti che erano stati sacrificati. Si tratta, solo per citarne alcuni, del diritto di difesa, del diritto alla salute, del diritto all’istruzione, del diritto all’informazione e dei diritti del detenuto lavoratore relativi al rapporto di lavoro. È stato un percorso lungo quello fatto del giudice delle leggi per adeguare progressivamente l’ordinamento penitenziario alla Costituzione traendo da questa sempre nuovi significati di garanzia. E benché lungo quel percorso di certo non è ancora giunto alla fine. Da quanto ho detto credo emerga chiaramente che la Costituzione e la Corte costituzionale esistono anche per le persone detenute, e in modo particolare per loro, data la situazione di debolezza in cui necessariamente si trovano. Costituiscono per loro, come per tutti, uno scudo nei confronti dei poteri dello Stato, che neppure il legislatore con le sue mutevoli maggioranze può violare. Questa è la forza della Costituzione: è una “super-legge”, e la sua modificazione non può avvenire con una legge ordinaria ma richiede un complesso procedimento di revisione regolato dall’art. 138 della Costituzione. Ma è da aggiungere che anche la revisione non è senza limiti, perché ci sono dei “principi supremi” che non possano in alcun modo essere violati, rappresentano degli elementi identitari la cui soppressione o violazione comporterebbe non già una revisione della Costituzione ma un suo inconcepibile mutamento radicale Essa così è per tutti una protezione, ma è anche un punto di riferimento e una guida. Ricordo che Paolo Grossi, presidente emerito della Corte costituzionale, era solito dire che la Costituzione è il nostro breviario, da tenere sempre a portata di mano sul comodino. È un testo che ha preso vita dopo la fine del fascismo e la liberazione dell’Italia dall’occupazione tedesca, e che si è formato nel ricordo di quella tremenda esperienza, in modo che non si ripetesse più. Il 2 giugno 1946, quando il Paese portava ancora i segni tremendi della guerra, gli italiani erano stati chiamati alle urne, oltre che per scegliere tra repubblica e monarchia, anche per eleggere i membri dell’Assemblea costituente che avrebbe dovuto dare all’Italia la nuova Costituzione, ripristinando i diritti e le libertà soppressi o limitati dal regime fascista e disegnando un nuovo modello di Stato. Dopo un anno e mezzo di lavori intensi e appassionati, il 22 dicembre 1947 la nuova Carta costituzionale venne finalmente approvata. Oggi quel risultato sembra un miracolo. Di revisione di alcune parti della Costituzione si parla da anni, tra fortissimi dissensi e testi abortiti in seguito ai referendum popolari. Perciò, se ci guardiamo indietro, ci chiediamo come è stato possibile che in un anno e mezzo i costituenti, superando tutti i contrasti e tutte le divisioni, siano riusciti ad approvare un testo della completezza e della qualità della nostra Costituzione. Approvato a grande maggioranza, con 458 voti favorevoli, 62 contrari e nessun astenuto, su un totale di 520 votanti. Eppure erano tempi di grandi contrasti e di forti passioni politiche, in cui si contrapponevano due mondi, quello comunista e quello occidentale, e in cui si contendevano il terreno le diverse ideologie liberale, cattolica e comunista. I costituenti sono riusciti a permeare la Carta costituzionale di tutte e tre queste ideologie e a realizzare un sistema che garantisse sufficientemente tutti. Un traguardo che è stato possibile raggiungere perché comune era l’intento di dare al Paese una Carta in grado di assicurare un futuro di democrazia. E questo intento è prevalso su ogni prospettiva di parte. Sarebbe bello se potessimo ritrovare oggi quello spirito, almeno nei momenti fondamentali per la vita del Paese. Il frutto di quegli appassionati lavori fu un testo costituzionale nuovo per la sua impostazione di fondo e per i suoi contenuti. Furono superate le precedenti carte dei diritti di tipo liberale, incentrate sull’individuo, considerato isolatamente. E accanto ai diritti e alle libertà individuali, fu delineato, un ordinamento pluralistico, cioè un ordinamento in cui convivono in uno scambio di idee ed esperienze quell’insieme di persone e di organismi, familiari, sociali ed economici, che compongono la nostra società. Non a caso si è parlato di “piramide rovesciata”, perché alla base della costruzione normativa è stata collocata la persona, la singola persona, ogni persona - come ho già detto - anche quella detenuta, e proprio partendo dalla persona è stato ricostruito tutto l’ordinamento costituzionale. La Corte costituzionale è stata una delle novità più significative previste dalla Costituzione. La Corte è un giudice e da giudice deve comportarsi, anche quando, per il suo ruolo, sulla scena sociale e politica diventa necessariamente protagonista. È un protagonista che non deve mai trasformarsi in una parte. È importante che la Corte sia immersa nella società e sia consapevole delle idee, dei sentimenti e degli umori che si agitano ed eventualmente dominano nel Paese, ma non dipendere da questi nei suoi giudizi sulle leggi. Le sue direttrici la Corte non può che trarle dalla Costituzione e solo quelle direttrici deve seguire, avendo cura di evitare anche scostamenti momentanei dai principi costituzionali. È questo il nostro compito. Stiamo cercando di svolgerlo come meglio sappiamo e possiamo e di farlo conoscere al Paese. *Presidente della Corte Costituzionale Circolare Dap per detenuti violenti, già 77 trasferiti in altre carceri giustizia.it, 22 ottobre 2018 Saranno immediatamente trasferiti in altri istituti, anche lontani, per gravi motivi di sicurezza i detenuti responsabili di aggressioni, anche solo tentate, agli agenti di Polizia Penitenziaria, al personale sanitario, agli operatori o ad altri detenuti o che abbiano messo in atto qualsiasi evento a carattere violento o danneggiato beni dell’Amministrazione. È quanto prevede la circolare del 9 ottobre scorso del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini, inviata ai Provveditori regionali e ai Direttori degli istituti penitenziari per tentare di porre un argine all’impennata di aggressioni ed eventi critici degli ultimi mesi. “Il provvedimento - scrive Basentini - dovrà essere adottato dai Provveditori Regionali, che disporranno il trasferimento del detenuto presso altro istituto sito all’interno del territorio distrettuale”. Nei casi più gravi, il trasferimento avverrà invece in un altro distretto e sarà la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap ad attivarsi, anche su impulso del Capo Dipartimento. Valorizzando l’applicazione di strumenti normativi già previsti dalla legge 354/1975, viene in tal modo automatizzato un meccanismo di reazione deterrente al sempre più frequente ripetersi di eventi critici e violenze. Da inizio anno sono infatti 485 le sole aggressioni al personale di Polizia Penitenziaria, contro un numero di 587 registrate nell’intero 2017. Da inizio settembre 2018, sono stati 77, fra trasferimenti per motivi di sicurezza e assegnazioni a regime di sorveglianza particolare, i provvedimenti emessi nei confronti di detenuti violenti, compresi quelli che hanno riguardato i tredici detenuti del carcere di Sanremo. A fronte di quasi novanta episodi di varia gravità, 56 sono stati i trasferimenti disposti dai Provveditorati regionali fra istituti dello stesso ambito di competenza territoriale; degli altri 21 provvedimenti disposti dal DAP, 16 hanno riguardato il trasferimento in istituti extra-distretto e 5 l’attivazione, la proroga o l’applicazione del regime di sorveglianza particolare previsto dall’art. 14 bis dell’Ordinamento Penitenziario. L’Italia perde la sfida dei processi-lumaca di Marina Castellaneta e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2018 Processi civili e penali fra i più lunghi d’Europa e numero di giudici di molto inferiore alla media. È questo, in sintesi, il quadro italiano che risulta dal settimo rapporto della Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (Cepej). Nonostante i progressi conseguiti soprattutto in campo civile, dove dal 2010 al 2016 (il periodo monitorato dai rapporti Cepej) l’arretrato è costantemente diminuito, la situazione dell’Italia è ancora molto pesante: nel 2016, la durata media in primo grado di un procedimento civile-commerciale è stata di 514 giorni, “superata” solo da Grecia (610) e Bosnia-Erzegovina (574). E anche nel penale, i miglioramenti non sono bastati a farci perdere il primato nella lunghezza dei procedimenti in primo grado. La “capacità di produrre decisioni in tempi congrui e ragionevoli” era fra gli obiettivi previsti nelle linee programmatiche esposte in Parlamento dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, la scorsa settimana, ha annunciato la presenza nella Manovra di uno stanziamento di 500 milioni di euro per assumere magistrati, poliziotti e personale amministrativo e velocizzare i processi. Il rapporto ha cadenza biennale e raccoglie i dati di 45 Stati membri del Consiglio d’Europa (non ci sono Liechtenstein e San Marino, ma hanno aderito Israele e Marocco). I dati forniti dagli Stati sono poi supervisionati e riassemblati dagli esperti del Cepej per pubblicare solo numeri comparabili. I processi lenti - In campo civile e commerciale, solo in Grecia i processi durano più che in Italia. È vero che, nel nostro Paese, il trend è positivo e la capacità dei tribunali di “aggredire” l’arretrato ossia di chiudere, ogni anno, un numero di procedimenti superiore a quello delle iscrizioni, ha portato a una riduzione dei tempi, scesi (dal 2012 al 2016) da 590 a 514 giorni per il primo grado e da 1.161 a 993 per il secondo. Ma sono stati miglioramenti limitati che non hanno, inoltre, riguardato l’ultimo grado di giudizio (ossia la Cassazione) dove i tempi si sono allungati dai 1.316 giorni del 2014 ai 1.442 del 2016. Il gap con gli altri Paesi è evidente se di guarda alla durata media: 233 giorni in primo grado (in Italia è più del doppio), 244 in secondo (nel nostro Paese è quasi il quadruplo) e 238 nell’ultimo (e qui sfioriamo il quintuplo). Anche nel penale, pur migliorando un po’ la situazione, i processi in Italia con una durata media per il primo grado di 310 giorni (nel 2014 erano 386) sono i più lunghi d’Europa. Nel secondo grado invece, si arriva a 876 giorni (937 nel 2012) e veniamo battuti solo da Malta (1025 giorni). Ed è di nuovo la distanza con le medie (138 giorni in primo grado e 143 nel secondo) a rendere evidente la gravità della situazione. Dati decisamente più positivi per l’ultimo grado in cui i 191 giorni italiani sono molto più “vicini” alla media di 143. Fondi e giudici - Questi dati vanno però letti anche alla luce del fatto che, per quanto riguarda il numero dei giudici togati, l’Italia è molto al di sotto della media che vede 22 magistrati per 100mila abitanti. Nel nostro Paese ce ne sono invece 11 (6.395 in termini assoluti). I giudici onorari sono 6 per 100mila abitanti (3.522 il dato complessivo), con la media complessiva di 94 (molti Paesi, però, non hanno fornito i dati). Dopo la crisi del 2008, quasi tutti gli Stati hanno aumentato le risorse destinate alle spese di giustizia. La spesa per abitante in Italia è stata di 75 euro (72 nel 2014), al di sopra della media di 64,5 (in Italia, fra l’altro le somme destinate ai tribunali amministrativi è incluso in una voce di bilancio differente). Il budget più alto è stato stanziato dalla Svizzera con 214,8 euro. Dl sicurezza, nessun dietrofront M5S: “sugli emendamenti decidono i singoli” di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 22 ottobre 2018 “Al Circo Massimo è andata molto bene, è stato un momento anche per fermarsi, guardare tutto il percorso che abbiamo fatto fino ad oggi e ritrovarci tutti insieme come ai tempi dei meet-up”. Carlo Sibilia, sottosegretario al ministero dell’Interno, è raggiante dopo il bagno di folla alla presenza di Beppe Grillo, Di Maio e del premier Conte. Il parlamentare avellinese è però consapevole che già da oggi bisognerà lavorare duro per portare avanti un’unica linea nei delicati equilibri della maggioranza pentastellata. Negli ultimi giorni i rapporti tra il M5S e la Lega sono stati piuttosto tesi. Salvini, ad esempio, vi ha rimproverato gli 81 emendamenti presentati al Dl Sicurezza. Saranno ritirati? “Non so dire se saranno ritirati, spetta alla scelta dei singoli parlamentari e io ho il massimo rispetto per i colleghi e per il ruolo del Parlamento che ha tutto il diritto di modificare delle leggi. Faccio solo sommessamente notare che la Lega ne ha presentati più di noi”. Al di là del numero ci sono proposte che stravolgerebbero il senso della legge voluta da Salvini. Tra l’altro molti degli emendamenti sono presentati da parlamentari molto vicini al presidente della Camera, Roberto Fico. Un caso? “Noi facciamo parte di una coalizione e prima di formare questo governo abbiamo stilato un contratto che i parlamentari sono chiamati ad accettare visto che è stato votato online. Quello che è contenuto nel Dl Sicurezza è frutto di quel lavoro svolto prima che questo esecutivo nascesse. So che c’è un nostro senatore che ha presentato venti emendamenti, ognuno è libero di ritirarli come di farli votare: questa è la democrazia. Se poi qualcuno attraversa una crisi personale è liberissimo di farlo, ma ribadisco che vale il contratto”. Dalla nave Diciotti all’arresto del sindaco di Riace, Fico si è spesso smarcato. “La questione immigrazione è tecnica più che politica, troppo spesso utilizzata per farne una questione ideologica su vecchi schemi destra e sinistra che non esistono più. Vale per Riace ad esempio dove i rilievi tecnici sono partiti fin dal 2015, a dimostrazione che non c’è nessun tipo di accanimento, purtroppo in questi anni il sistema dell’accoglienza ha prodotto più indagati che integrati, noi stiamo facendo di tutto per fermare il business”. Quanto avvenuto a Cleviere, i continui scontri tra la Francia che dal Viminale non crede che possano alterare l’organizzazione della conferenza sulla Libia che si terrà il prossimo mese a Palermo? “Il Viminale non cerca scontri, semmai fa effetto guardare un video in cui ci sono poliziotti francesi che portano dei migranti in Italia senza aver ricevuto l’autorizzazione. Il governo ha reagito molto seriamente, poi Salvini ha invitato il collega francese per discuterne. Non si tratta di alimentare scontri, ma di farsi rispettare. Quanto alla Libia serve la collaborazione di tutti, l’Italia ha una naturale leadership su questo dossier e tutti devono capire che il problema immigrazione non è solo nostro, ma europeo”. Al momento non si è vista grande collaborazione… “Infatti tanti si sciacquano la bocca parlando di diritti umani, ma se si vogliono cambiare veramente le cose, l’Europa dovrebbe finalmente cambiare i Trattati di Dublino se si vuole dare una risposta condivisa. Invece fino ad oggi hanno prevalso solo egoismi”. C’è un altro nodo nel governo e riguarda la proposta di sanare gli abusi edilizi ad Ischia contenuti nel decreto sul ponte crollato a Genova. Questione sollevata dalla Lega, ci sarà un condono oppure no? “Escludo in maniera categorica possano esserci condoni di qualsiasi tipo, altrimenti si mettono in giro altre storie come accaduto con il condono fiscale”. È stato Di Maio a parlare di “manine”, sicuro che su Ischia non spunteranno altre mani? “Non seguo direttamente la questione, ma nessuno ha intenzione di fare condoni. Ci saranno risposte ai cittadini che hanno subito un evento catastrofico come il terremoto e nel semplificare domande che sono state fatte oltre trent’anni fa su leggi non fatte da noi. Se pendono domande da anni i cittadini meritano risposte dallo Stato”. Dl sicurezza, estesi Daspo urbano e “braccialetto” per i reati di stalking di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2018 Nel capo I del titolo II del decreto legge 4 ottobre 2018 n. 113, contenente disposizioni in materia di sicurezza pubblica e di prevenzione del terrorismo, troviamo alcuni interventi che riguardano specificamente il processo penale e più che la sicurezza pubblica mirano a salvaguardare e a tutelare la sicurezza “privata” della vittima del reato, implementando lo strumentario cautelare a disposizione dell’autorità giudiziaria. Allontanamento dalla casa familiare e braccialetto elettronico - È quest’ultima l’ipotesi dell’intervento realizzato con l’articolo 16, mediante il quale, operandosi sul disposto dell’articolo 282-bis, comma 6, del Cpp, si è estesa la possibilità di utilizzare il braccialetto elettronico come strumento di controllo dell’esecuzione del provvedimento di esecuzione del provvedimento di allontanamento dalla casa familiare anche nelle ipotesi in cui si proceda per i reati di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori. In realtà, il novum, oltre a rispondere a esigenze di ragionevolezza sistematica, quando estende la possibilità di applicare lo strumentario elettronico di garanzia anche per reati più gravi rispetto ad alcuni di quelli per cui tale possibilità era già prevista, presenta particolare utilità operativa anche e soprattutto per la polizia giudiziaria, ai fini dell’applicazione della misura dell’allontanamento urgente dalla casa familiare, consentita appunto per i reati di cui all’articolo 282-bis, comma 6, del Cpp, tra cui, ora, vengono ricompresi i maltrattamenti e lo stalking. Le disposizioni in tema di sicurezza pubblica - Mirano invece soddisfare le esigenze di sicurezza pubblica, sotto diversi profili, le disposizioni contenute negli articoli 18 (accesso della polizia municipale al Ced interforze), 19 (sperimentazione di armi ad impulsi elettrici da parte anche della polizia municipale), 21 (Daspo urbano), 23 (blocco stradale e ferroviario). Accesso al Ced interforze da parte della polizia municipale - Risponde infatti a una opportuna esigenza di garantire i flussi informativi tra le forze di polizia, in un’ottica di rafforzamento del sistema di prevenzione e di sicurezza, la disciplina contenuta con l’articolo 18, che estende anche ai Corpi e servizi della polizia municipale dei Comuni con popolazione superiore ai centomila abitanti la possibilità di interrogare il Ced interforze previsto dall’articolo 8 della legge 1° aprile 1981 n. 121. Ora, viene più ampiamente prevista la possibilità per il personale della polizia municipale addetto ai servizi di polizia stradale e in possesso della qualifica di agente di pubblica sicurezza di accedere al Ced interforze “al fine di verificare eventuali provvedimenti di ricerca o di rintraccio esistenti nei confronti delle persone controllate” (provvedimenti restrittivi della libertà personale, i rintracci degli scomparsi, ecc.). Sperimentazione taser da parte delle polizie municipali - Non presenta particolari problemi l’estensione anche alla polizia municipale della sperimentazione di armi ad impulsi elettrici, già in corso presso le altre forze di polizia (articolo 19). Pur nella consapevolezza della cautela nell’uso, è fin troppo evidente che la dotazione di uno strumentario ulteriore rispetto a quello tradizionale (armi da fuoco) consentirà una modulazione dell’intervento nel rispetto del principio di proporzionalità sotteso alla corretta applicazione della scriminante dell’uso legittimo delle armi (articolo 53 del Cp). Daspo in specifiche aree urbane - L’articolo 21 integra l’articolo 9, comma 3, del decreto legge 20 febbraio 2017 n. 14, convertito dalla legge 18 aprile 2017 n. 48, inserendo i presidi sanitari e le aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati e pubblici spettacoli nell’elenco dei luoghi che possono essere individuati dai regolamenti di polizia urbana ai fini dell’applicazione delle misure a tutela del decoro di determinati luoghi, con la possibilità di applicare il provvedimento di allontanamento del questore (Daspo urbano) nei confronti dei soggetti che pongono in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione di tali luoghi. Disposizioni in materia di blocco stradale - L’articolo 23 completa le misure a tutela della sicurezza pubblica, intervenendo in materia di blocco stradale e ferroviaria, attraverso l’irrigidimento dell’apparato sanzionatorio, con la palesata intenzione di contrastare più efficacemente gli episodi di blocco stradale o ferroviario, anche nella forma del mero assembramento, siccome lesivi non solo della sicurezza dei trasporti, ma anche della libertà di circolazione. Controlli sul noleggio di autoveicoli - Al contrasto del terrorismo risponde la disciplina introdotta con l’articolo 17, contenente prescrizioni in materia di contratto di noleggio di autoveicoli. Si è pensato di introdurre un sistema cautelare informativo, ponendo a carico dell’esercente l’attività di autonoleggio di veicoli senza conducente l’obbligo di comunicare i dati identificativi dei clienti al Ced interforze di cui all’articolo 8 della legge n. 121 del 1981, al fine di consentire di verificare (tramite un segnale di “alert”) se a loro carico risultino specifici precedenti o segnalazioni delle forze di polizia relativi a fatti o situazioni rilevanti per la prevenzione del terrorismo. Estensione Daspo sportivo - L’articolo 20 estende l’ambito di operatività del Daspo previsto per le manifestazioni sportive dall’articolo 6 della legge 3 dicembre 1989 n. 401 anche ai soggetti di cui all’articolo 4, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 6 settembre 2011 n. 159, ossia “agli indiziati di uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3-quater, del Cpp e a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, ovvero esecutivi diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I del titolo VI del libro II del Cp o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice, nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a prendere parte a un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’articolo 270 sexies del Cp”. Crimini in calo del 2,3%, ma è allarme per violenze sessuali, droga e incendi di Michela Finizio Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2018 Cambia il volto della criminalità in Italia. Il ladro “vecchio stampo” lascia il posto al truffatore di nuova generazione. E mentre si conferma la contrazione di omicidi, furti e rapine, crescono in parallelo i reati a sfondo sessuale, i fenomeni di spaccio e gli incendi sul territorio. A dirlo sono i dati elaborati dal Sole 24 Ore e forniti dal dipartimento di Pubblica Sicurezza del ministero dell’Interno, che fotografano unicamente i delitti “emersi” all’attenzione delle forze di Polizia. Restano nell’ombra i fenomeni di microcriminalità, anch’essi diffusi sul territorio, ma che per diversi motivi sfuggono al controllo delle autorità oppure la cui comunicazione da parte delle vittime non è affatto scontata. Nel 2017 in Italia sono stati commessi e denunciati in media 6.650 reati ogni giorno, circa 277 ogni ora. A Milano, Rimini e Bologna si concentra la maggiore densità di segnalazioni alle autorità. Nel capoluogo lombardo, in particolare, si rilevano in media 27 fatti criminosi all’ora. L’ultima mappa della criminalità resa disponibile dal ministero, comunque, ha confermato il trend al ribasso in corso dal 2013: seppur con numerose differenze su base provinciale, anche l’anno scorso si è registrato un calo delle denunce del 2,3% annuo su scala nazionale. Stando all’ultimo aggiornamento dei dati, l’allarme arriva però dalla fotografia di alcune tipologie di illeciti che - in controtendenza - segnano un incremento: nel 2017, anno in cui è esploso il movimento “Me too”, sono state denunciate fino a 13 violenze sessuali al giorno, in crescita del 15% rispetto all’anno prima; la diffusione degli stupefacenti alimenta i delitti (+10%), prevalentemente lo spaccio; gli incendi sono tornati, come accade ciclicamente, a divampare sul territorio, in media 28 al giorno (+29% rispetto al 2016). Le forme di criminalità più tradizionali, invece, sembrano perdere lentamente terreno. I furti, che come ogni anno rappresentano il grosso delle denunce pervenute (circa 1,27 milioni, più della metà sul totale), scendono ancora del 6% rispetto agli anni precedenti, in particolare quelli nelle abitazioni (-9%). A contribuire alla discesa sono diversi fattori: la diffusione di sistemi di allarme e videosorveglianza che scoraggiano i malintenzionati, gli accordi territoriali tra le forze di Polizia, le reti tra commercianti e Prefetture oppure la scarsa diffusione in alcune zone del Paese delle garanzie assicurative. L’Ania, infatti, stima che poco più del 15% delle abitazioni italiane sia coperto da un’assicurazione furto. E solo in caso di copertura serve la copia della tempestiva denuncia per l’accertamento dei danni. Al contrario, invece, continua la diffusione dei reati a stampo economico: fenomeni di riciclaggio e impiego del denaro sporco e frodi informatiche registrano un incremento, in entrambe i casi pari all’8% su base annua. In particolare, soprattutto nelle città del Nord, continuano a proliferare le truffe “digitali”: se ne contano in media 450 ogni giorno, complici la scarsa competenza degli utenti di internet oppure l’obsolescenza dei sistemi operativi utilizzati. È Milano a vestire la maglia nera della sicurezza, confermandosi al primo posto per numero di delitti denunciati nel 2017: oltre 7,200 ogni 100mila abitanti. L’indice di criminalità 2018, che fotografa le segnalazioni di reati per provincia dove si è compiuto l’illecito, mette in luce alcune criticità sul territorio in base alla tipologia di delitto denunciato. Il capoluogo lombardo, ad esempio, svetta per numero di furti (al secondo posto, dietro Rimini), e in particolare quelli negli esercizi commerciali. Sia su Milano che su Rimini - seconda con circa 6950 delitti per 100mila abitanti - pesa la presenza dei turisti. In entrambe le città, comunque, il trend della criminalità risulta in lieve calo rispetto al 2016. A Rieti invece i numeri sono decisamente inferiori (4.238 reati nel complesso), ma in crescita del 19 per cento. Dall’altra parte della classifica generale ci sono le province “più sicure”: Oristano, Pordenone e Belluno. Determinante, in questi casi, è il fattore demografico della scarsa densità abitativa. Va in questa direzione anche Asti, al 39° posto nella classifica generale, che nel 2017 segna un calo del 12% delle denunce su base annua. Le criticità sul territorio - In base alla tipologia dei illeciti commessi emergono alcune criticità locali: Cagliari e Genova, ad esempio, sono in testa per densità di reati legati agli stupefacenti, soprattutto spaccio e produzione di droga; Trieste e Cagliari spiccano per numero di denunce di violenze sessuali, sempre in rapporto ai residenti; a Savona e provincia si concentra la maggiore densità di furti in abitazione; a Prato e Firenze il picco di episodi di riciclaggio e impiego di denaro sporco. Confermata, infine, l’incidenza più elevata di furti di auto nelle province di Barletta Andria Trani e Bari. Caiazza (Ucpi): “così combatteremo il giustizialismo” di Valeria di Corrado Il Tempo, 22 ottobre 2018 “No allo stop della prescrizione, processi più corti e meno demagogia”. Priorità e proposte al governo del nuovo presidente dell’Unione Camere Penali Italiane. È Gian Domenico Caiazza il neo presidente dell’Unione delle Camere penali italiane. In passato presidente della Camera penale di Roma e segretario della Fondazione Enzo Tortora, l’avvocato Caiazza è stato eletto ieri a Sorrento a capo della giunta che guiderà l’Ucpi nel biennio 2018-2020, succedendo a Beniamino Migliucci. Quale sarà la cifra distintiva della sua presidenza? “Abbiamo la necessità di chiamare a raccolta tutte le energie politiche, parlamentari, accademiche e culturali che si riconoscono nei valori di una giustizia penale liberale. Sono tempi durissimi, in cui sono in discussione le garanzie delle persone. L’opinione pubblica non percepisce questo allarme, pensa che la reazione “securitaria” li metta al sicuro. Invece i diritti in gioco sono i loro. Ci si accorge di che cosa significa un Paese che non rispetta le regole del processo penale solo quando ci si finisce dentro. Solo allora si scopre il valore della presunzione di non colpevolezza e della libertà personale”. Su quale appoggi politici pensate di poter contare? “C’è una maggioranza schiacciante su posizioni opposte alle nostre. Abbiamo di fronte uno schieramento populista e giustizialista molto compatto e intorno il deserto, a parte l’eccezione dei radicali. Non c’è più niente, non c’è una sponda. Dobbiamo cercare di riunificare le forze politiche sparpagliate e nascoste”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha disertato il vostro congresso. È un segnale di chiusura al dialogo, oltre che uno sgarbo istituzionale? “Sicuramente è uno sgarbo istituzionale. Se non è il primo ministro che non partecipa al nostro congresso, è tra i primi. una scelta mediocre, che dimostra quali siano le sue priorità. Lo abbiamo visto incontrare sedicenti organizzazioni forensi. Non per questo non vogliamo rinunciare al dialogo. Non demordo, non mi metto a fare l’offeso. Magari qualche suggerimento sul tema delle carceri, che gli sta esplodendo in mano, potrebbe tomargli utile”. Bonafede però ha partecipato a Bologna al congresso dei vostri colleghi amministrativisti. Come mai? “Evidentemente con loro si sente più tranquillo. I temi penali sono più complessi socialmente. Noi siamo ormai un soggetto politico che si occupa di diritti delle persone. L’incontro con noi è un incontro politico, richiede più impegno”. Le divergenze con il governo sono tante, a cominciare dalla riforma sulla prescrizione. Cosa accadrà se dovesse essere approvata? “Chi vuole fermare i tempi della prescrizione si assume la responsabilità di decuplicare la durata del processo penale. I ruoli dei tribunali, delle corti d’appello e della Cassazione si affollano perché c’è il rischio della prescrizione. In alternativa si lavorerà meno e i processi si allungheranno ancora di più. Tra l’altro nel nostro Paese la prescrizione raggiunge già un numero di anni insensato. È scandaloso che uno venga imputato di rapina aggravata a 20 anni e possa essere processato fino a 40. Abbiamo bisogno di accorciare i tempi del processo, non di finire di sfasciarlo”. Il congresso di Sorrento l’avete intitolato: “La difesa delle garanzie nei tempi dei populismi”. Anche il neo vice presidente del Csm ha recentemente criticato il “populismo giuridico”. Ci voleva un governo giallo-verde per avvicinare avvocati e magistrati? “Il populismo che governa questo Paese è il frutto di una semina venticinquennale di populismo giudiziario. Da “Mani pulite” in poi, abbiamo avuto una politica soggiogata e spesso ricattata da un potere della magistratura, che è andato oltre i suoi limiti costituzionali e ha diffuso l’idea che la politica fosse tutta corruzione e sporcizia e che il popolo dovesse essere salvato dall’azione provvidenziale e materna dell’autorità giudiziaria. Il populismo è dilagato e si è fatto governo. E ora la magistratura ha perso il controllo. La politica populista fa a meno di loro, li tratta male. Alcune correnti, come Md, hanno iniziato a riflettere su cosa significhi aver marginalizzato i diritti processuali. Ci sono occasioni nuove di confronto che dobbiamo avere l’intelligenza di cogliere, senza pregiudizi ideologici. L’elezione di David Ermini a vice presidente del Csm e di Michele Cerabona come componente laico rappresentano un segnale che va in questa direzione”. La divergenza con le toghe resta insanabile sulla separazione delle carriere… “Chiederemo un incontro per assicurare la calendarizzazione della discussione del nostro disegno di legge. Non è più un’istanza degli avvocati, ma di 71 mila cittadini. La magistratura è compatta contro questa nostra proposta e noi le lanciamo un guanto di sfida. Visto che è la nostra Costituzione che impone la terzietà del giudice rispetto al pm e il difensore, diciamo ai magistrati: non vi piace la separazione delle carriere? Allora offrite un’alternativa per rispondere a questo comando costituzionale”. Il governo, soprattutto la sua componente leghista, sta invece spingendo per la riforma sulla legittima difesa. Cosa ne pensa? “Ne penso tutto il male possibile: è una riforma pericolosa, una delle tante risposte illusorie tipiche della politica populista. Non c’è nulla che possa sottrarre un fatto di rilevanza penale alla valutazione del giudice. Accadrà sempre che chi ha sparato e ammazzato, se le modalità non sono chiare, sarà oggetto di indagine. Non solo è barbaro il principio, ma è illusorio il risultato. Demagogia pura”. Il generale e gli ufficiali, così i vertici dell’Arma depistarono su Cucchi di Carlo Bonini La Repubblica, 22 ottobre 2018 L’indagine della procura coinvolge la catena di comando di Roma. La manipolazione decisa in un summit negli uffici di Tomasone. Nuovi documenti e circostanze di fatto accertate e verificate indipendentemente da Repubblica indicano che fu l’intera catena di comando dell’Arma dei carabinieri di Roma a coprire la verità e le responsabilità del pestaggio mortale di Stefano Cucchi nella caserma Casilina nella notte tra il 15 e il 16 Ottobre 2009. L’operazione di cover-up e manipolazione di verbali e annotazioni di servizio, di registri interni, e comunicazioni all’autorità giudiziaria, si consumò tra il 23 e il 27 Ottobre, con ordini trasmessi per via gerarchica ed ebbe il suo sigillo in una riunione che il 30 di quello stesso mese si svolse negli uffici del generale di brigata e allora comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone (oggi generale di corpo d’armata e comandante interregionale dei Carabinieri “Ogaden” di Napoli con competenza su Campania, Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise). Con lui, almeno tre gli ufficiali coinvolti. L’allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo (allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina). Infine, i marescialli Roberto Mandolini (vice comandante della stazione Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola (comandante della stazione Tor Sapienza). I fatti, dunque. A cominciare dall’ultimo fotogramma di questa storia. La mail con l’ordine di manomettere la verità Il maresciallo dei carabinieri Massimiliano Colombo Labriola, comandante della caserma di Tor Sapienza, è un uomo previdente. Ha conservato per nove anni la sua corrispondenza email e ogni documento utile in grado di dimostrare da chi e quando arrivò l’ordine di falsificare le carte da cui doveva scomparire ogni riferimento alle condizioni di Stefano Cucchi la notte in cui, in una camera di sicurezza di quella caserma, venne trasferito dopo il pestaggio in attesa del processo per direttissima dell’indomani. Quella notte, Stefano mostrava segni evidenti del pestaggio che aveva appena subito. Ma era necessario che si costruisse una narrazione in grado di imputare i segni di quella violenza alla magrezza costituzionale del “tossico”, alla sua epilessia. A maggior ragione per costituire futuri argomenti per la scienza medica nel suo apparente e ignavo brancolare nel buio nello stabilire le cause della morte di Stefano. Labriola, pure indagato per falso, è convinto che, trascorsi nove anni, nessuno verrà a ficcare il naso in quelle carte che custodisce nel suo alloggio di servizio, all’interno della caserma che comanda. Ma sbaglia, perché quando, all’inizio della scorsa settimana, gli agenti della squadra mobile di Roma, per disposizione del pm Giovanni Musarò, bussano a Tor Sapienza, capisce che il gioco è finito. Chiede che gli venga risparmiata la perquisizione del suo alloggio di fronte agli altri militari. E, spontaneamente, consegna tutte le carte e i file che ha appena finito di mettere insieme perché - dice - sarebbe stata comunque sua intenzione consegnarle al suo avvocato Antonio Buttazzo nel pomeriggio di quello stesso giorno. Le carte stampate dal maresciallo Labriola e in particolare una delle mail che la Polizia trova in quello scartafaccio indicano infatti al di là di ogni ragionevole dubbio che l’ordine di falsificazione delle annotazioni di servizio redatte dagli appuntati Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio (i due piantoni che presero in carico Stefano la notte dell’arresto) arrivò dal comando di compagnia Talenti-Montesacro, cui la stazione di Tor Sapienza dipendeva gerarchicamente. È la prova che Francesco Di Sano, il 17 aprile scorso, durante una delle udienze del processo Cucchi- bis - ha detto la verità. “È vero, modificai la relazione di servizio - aveva spiegato. Mi chiesero di farlo, perché la prima era troppo dettagliata. Io eseguii l’ordine del comandante Colombo, che lo aveva avuto da un superiore nella scala gerarchica, forse il comandante provinciale (il generale Tomasone, ndr), ma non saprei dirlo con esattezza”. Il falso cucinato da Colombo per ordine del Comando di Compagnia prevede che il corpo tipografico originale della annotazione di Di Sano venga rimpicciolito per trasformare e far stare nella stessa pagina, senza che si noti la manomissione testuale, l’iniziale ricostruzione (“Cucchi Stefano riferisce di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non potere camminare. Viene aiutato a salire le scale”) in un passaggio assai più prolisso. Che precostituisca spiegazioni alternative alla domanda sul perché quel ragazzo non riesca a stare sulle gambe: “Cucchi Stefano dichiara di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo umida che per la rigidità della tavola da letto priva di materasso e cuscino, ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza”. Anche l’annotazione del carabiniere Colicchio viene manomessa per mano del maresciallo Colombo e per ordine della scala gerarchica. In questo caso, a dire di Colicchio, senza che lui ne abbia contezza. Sentito anche lui in aula il 17 aprile, Colicchio ricorda infatti come suo il testo in cui era possibile leggere che Cucchi “dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia”. Ma esclude di aver mai redatto e firmato un’annotazione con stessa data e numero di protocollo in cui si dà atto che Stefano “dichiara di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio”. Il 18 ottobre, per quasi nove ore il maresciallo Colombo Labriola ha risposto alle domande del pm Giovanni Musarò. Il suo verbale è stato secretato e non ci vuole un indovino per immaginare che la sua deposizione si sia trasformata in una chiamata in correità dell’intera scala gerarchica. Di cui, per altro, questa storia è per altro disseminata. La riunione del 30 ottobre e l’appunto farlocco Che il carabiniere Francesco Di Sano, dopo la morte di Stefano Cucchi, sia stato assegnato a svolgere le mansioni di autista dell’allora Comandante provinciale Vittorio Tomasone, è di per sé una circostanza che autorizzerebbe, da sola, a pensar male. Ma è quel che accade il 30 ottobre negli uffici del Comando provinciale di Roma che dà la misura del coinvolgimento dell’intera catena di Comando nei falsi. Alla riunione, convocata dal generale Tomasone, partecipano il Comandante del gruppo Roma Casarsa, i due comandanti di compagnia Unali e Soligo, i marescialli Mandolini (stazione Appia) e Colombo Labriola (Tor Sapienza), che hanno materialmente disposto i falsi, nonché i carabinieri coinvolti quella notte, anche se mancano, perché in licenza, Tedesco e Di Sano. La riunione cade a una settimana esatta dalle 48 ore che possono travolgere l’intera Arma e mettere fine alla carriera di un ufficiale - Tomasone - che è la luce degli occhi dell’allora Comandante generale Leonardo Gallitelli ed è considerato il suo naturale successore (“Sono la stessa cosa”, si diceva di loro). Il 23 ottobre Ilaria Cucchi ha infatti fatto conoscere al Paese la storia di Stefano. Il giorno successivo, quattro carabinieri vengono arrestati per il ricatto “trans” ai danni dell’allora Governatore del Lazio Piero Marrazzo. Tomasone è sotto pressione. Segue ossessivamente le cronache di quei giorni su Cucchi e ai giornalisti che gli chiedono, giura sulla propria persona, sul suo “onore di carabiniere” che “l’Arma non c’entra”. Della riunione del 30 non viene redatto uno straccio di verbale. Se ne tacerà l’esistenza alla magistratura che indaga. E c’è un motivo. La riunione deve infatti verificare che “le carte siano a posto” e i nervi dei protagonisti “saldi”. Diciamo pure che è una rappresentazione ad uso dei presenti per rassicurarli nella congiura del silenzio. Perché, come tutti i presenti sanno, i falsi sono già stati tutti cucinati. A quello più grossolano effettuato, tra il 16 e il 17 ottobre, dai militari direttamente coinvolti nella caserma Appia e in quella Casilina dall’arresto di Stefano, con lo sbianchettamento del registro di fotosegnalamento, se ne sono infatti aggiunti, tra il 23 e il 27, di più raffinati. Che hanno richiesto “testa” e coordinamento della catena gerarchica. Perché prevedono il coinvolgimento di almeno due Comandi di Compagnia e del Comando di Gruppo. Sono stati infatti manipolati i registri di protocollo con cui si deve correggere e dissimulare come un errore burocratico la sparizione dell’annotazione del 22 ottobre del carabiniere Tedesco in cui riferisce del pestaggio (viene creato un numero di protocollo bis che non insospettisca chi un giorno dovesse andare a cercare quella carta, che è stata intanto sottratta al fascicolo). Si devono correggere le annotazioni di servizio della stazione di Tor Sapienza (abbiamo visto come). Si deve fare in modo che tutti i carabinieri a diverso titolo coinvolti nell’arresto di Stefano la notte del 15 redigano annotazioni di servizio fotocopia che accreditino la menzogna che verrà ripetuta per nove anni. Il sigillo dell’operazione è in un appunto firmato dal colonnello Casarsa, comandante del Gruppo Roma che l’Arma trasmetterà alla Procura. Si dà atto di un’inchiesta interna che non c’è mai stata e che, naturalmente, assolve i militari. Si dà atto di accertamenti che non sono mai stati condotti per il semplice motivo che, nelle caserme coinvolte dalla morte di Stefano, si è lavorato a falsificare le carte. Caso Yara, la moglie di Massimo Bossetti: “è innocente, lo dico anche ai miei figli” Corriere della Sera, 22 ottobre 2018 “Se non ne fossi convinta, non sarei certo rimasta con lui”. Massimo Bossetti è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio della 13enne Yara Gambirasio a Brembate di Sotto. La moglie di Massimo Bossetti continua a difendere il marito e a dirsi convinta della sua innocenza, anche dopo la sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna del 47enne all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, 13 anni, scomparsa il 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra (Bergamo) e trovata senza vita 3 mesi dopo. “Massimo è innocente, ed è quello che ripeto ai nostri figli. Lo conosco da quando eravamo ragazzi e so che non mente”, ha detto Marita Comi, 40 anni, attraverso il suo avvocato Claudio Salvagni al quotidiano Libero. La famiglia - “Ho dei figli che stanno crescendo, se non fossi convinta della sua estraneità all’assassinio della piccola Yara, non sarei certo rimasta con lui” ha aggiunto la donna, spiegando che “è un momento drammatico per Massimo, per tutti” e che la famiglia è rimasta delusa perché sperava “che gli fosse data la possibilità di ripetere la prova del Dna, invece nulla”. La detenzione - L’uomo si trova nel carcere di Bergamo, dove Comi va a trovarlo spesso insieme ai tre figli della coppia, ma sta per essere trasferito nel penitenziario dove sconterà la pena, a Bollate od Opera, nel Milanese. “Osserva gli altri detenuti, e mi dice che molti di quelli colpevoli alla fine si rassegnano e iniziano un percorso di ricostruzione - racconta. Invece Massimo non ci riesce, perché è innocente e quindi non accetta la privazione della sua libertà”. Bossetti, muratore originario di Mapello, è stato condannato per aver accoltellato Yara in un campo a Chignolo d’Isola, a una decina di chilometri da Brembate, e averla lasciata ferita a morire di freddo: a portare alla sua condanna è stata una traccia di Dna maschile ritrovata sui leggins e gli slip di Yara e una lunga indagine genetica sugli uomini della zona. La truffa concorre con la bancarotta di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 22 ottobre 2018 Il reato di truffa può concorrere con quello di bancarotta. Questa è la soluzione individuata da parte dei giudici della Cassazione, con sentenza n. 44923/2018,nel caso in cui ad essere oggetto della condotta di distrazione, siano beni derivanti da una attività truffaldina dell’imputato. Il caso di specie, traeva origine dal ricorso avverso la decisione di secondo grado che lo aveva condannato alle pene di legge per entrambi i reati; eccepiva a tal proposito il ricorrente come tale decisione era contrastante con la normativa vigente, posto che l’attività truffaldina sarebbe avvenuta dopo quella distrattiva e posta in essere per celarne gli effetti. Eccepiva ancora il ricorrente come la condotta contestatagli quale reato di truffa, poteva tutt’al più essere considerata, come reato di appropriazione indebita e come tale sanzionata. Di ben altro avviso, erano i giudici della Corte, i quali aderendo all’orientamento prevalente, che vuole che venga ricompreso nel bene oggetto della condotta delittuosa, propria del reato di bancarotta, qualunque bene del fallito indipendentemente dalla sua provenienza, trattandosi sempre e comunque di una cosa facente parte del patrimonio dell’imprenditore. Osservano ancora gli ermellini, come in realtà i reati di bancarotta e truffa, erano illeciti ben distinti posto che ledevano beni comunque molto diversi e che le condotte mediante le quali venivano realizzati, erano a ogni modo molto differenti e diversificate anche nella loro configurazione materiale. Proseguendo, nella lettura della sentenza oggetto del ricorso, si legge come venga rilevato che le condotte contestate all’imprenditore, erano separate nel tempo e diversificabili; trattandosi la prima di un attività diretta nei confronti degli investitori, la seconda invece di un attività distrattiva avente ad oggetto il patrimonio dell’imprenditore. Pertanto nel caso di specie è ipotizzabile un concorso tra il reato di truffa e quello di bancarotta. La prova scientifica del nesso causale tra la condotta e l’evento. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2018 Processo penale - Prove - Individuazione del rapporto di causalità - Ricorso al sapere scientifico - Valutazione giudiziale - Contenuti. Nei giudizi nei quali è rimessa al sapere degli esperti la ricerca della causalità generale e individuale, il giudice non è creatore della legge scientifica né può scegliere quale tra le varie teorie ritiene di condividere in base a una opinione o un giudizio personale, ma è chiamato a valutare la qualificazione professionale dell’esperto e a comprendere se gli enunciati che vengono proposti trovino comune accettazione, cioè un ampio consenso, nella comunità scientifica, in base agli studi che li sorreggono. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 12 ottobre 2018 n. 46392. Processo penale - Prova - Prova scientifica - Nesso causale - Individuazione - Assoluzione o condanna - Diversa valutazione. In tema di prova scientifica del nesso causale, mentre ai fini dell’assoluzione dell’imputato è sufficiente il solo dubbio, in seno alla comunità scientifica, sul rapporto di causalità tra la condotta e l’evento, la condanna deve invece fondarsi su un sapere scientifico largamente accreditato tra gli studiosi, richiedendosi che la colpevolezza dell’imputato sia provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 12 ottobre 2018 n. 46392. Prove penali - Perizia - Apprezzamento del giudice sul sapere tecnico - Scientifico - Sindacato di legittimità. Quando il sapere scientifico non è consolidato o non è comunemente accettato perché vi sono tesi in irrisolto conflitto, spetta comunque al giudice prescegliere quella da preferire. La Corte di cassazione, rispetto a tale apprezzamento, non deve stabilire se la tesi accolta sia esatta, ma solo se la spiegazione fornita sia spiegata in modo razionale e logico. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 13 dicembre 2010 n. 43786. Reati contro la persona - Delitti contro la vita e l’incolumità individuale - Omicidio colposo - In genere - Morte conseguente a patologie collegate all’esposizione a polveri di amianto (nella specie, a mesotelioma pleurico) - Mancata predisposizione di adeguate misure di protezione - Rapporto di causalità - Oneri del giudice. L’affermazione del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche ascrivibili ai datori di lavoro e l’evento-morte (dovuta a mesotelioma pleurico) di un lavoratore reiteratamente esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa (esplicata in ambito ferroviario), all’amianto, sostanza oggettivamente nociva, è condizionata all’accertamento: (a) se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all’effetto acceleratore della protrazione dell’esposizione dopo l’iniziazione del processo carcinogenetico; (b) in caso affermativo, se si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico; (c) nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, se l’effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali; (d) infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all’iniziazione e che hanno avuto durata inferiore all’arco di tempo compreso tra inizio dell’attività dannosa e l’iniziazione della stessa, se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all’innesco del processo carcinogenetico. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 13 dicembre 2010 n. 43786. Campania: Rapporto Caritas, una riflessione del Garante regionale dei detenuti di Samuele Ciambriello ilmonito.it, 22 ottobre 2018 In Italia c’è un “esercito di poveri” in attesa che “non sembra trovare risposte e le cui storie si connotano per un’allarmante cronicizzazione e multidimensionalità dei bisogni”. Lo sottolinea Caritas nel Rapporto 2018 su povertà e politiche di contrasto. Il numero dei poveri assoluti - ricorda l’organizzazione rilanciando i dati Istat - “continua ad aumentare” e supera i 5 milioni. Nonostante i timidi segnali di ripresa sul fronte economico e occupazionale, in Italia il numero dei poveri assoluti continua ad aumentare: da 4 milioni 700mila del 2016 a 5 milioni 58mila del 2017. Da prima della crisi a oggi il numero di persone che non riescono a raggiungere uno standard di vita dignitoso è aumentato del 182%, un dato che dà il senso dello stravolgimento avvenuto per effetto della recessione economica del 2008. Lo segnala il report della Caritas “Povertà in attesa” presentato nei giorni scorsi. Il report è stato costruito sulla base dei dati e delle informazioni provenienti da 1.982 Centri di ascolto (il 58,9% del totale) collocati in 185 diocesi (che corrispondono all’ 84,8% delle Caritas diocesane italiane). Nel corso del 2017 le persone incontrate dalla rete Caritas sono state 197.332, il 42 per cento italiani. La povertà, purtroppo, non si abolisce per decreto legge e nemmeno con gli slogan d’adunanza o con gli appelli al popolo. Nella Giornata mondiale per la lotta contro la Povertà, proclamata dalle Nazioni Unite, i dati italiani sono da terzo mondo, non da paese industrializzato dell’Occidente. Due report, uno della Caritas, l’altro dell’Unione delle cooperative europee, ci sbattono davanti la realtà che non guarda in faccia nessuno, né partiti, né leader, né ideologie. Che le più penalizzate siano le persone più anziane, lo evidenzia anche il rapporto della Caritas italiana 2018 su povertà e politiche di contrasto. In Italia, insomma, cresce un esercito di poveri, e la povertà tende ad aumentare al diminuire dell’età. Secondo la Caritas italiana, “l’annunciata introduzione del Reddito di Cittadinanza è destinata a portare con sé novità di rilievo che ci si augura tengano conto dell’esperienza maturata nell’attuazione del REI di cui si parla nel rapporto”. La misura introdotta dal governo Gentiloni, ammonisce la Caritas, rappresenta “sia nei suoi punti di forza così come nelle sue criticità, un prezioso patrimonio di sapere concreto, che merita di essere valorizzato. Un patrimonio, si spera, dal quale il legislatore non vorrà prescindere al momento di disegnare le prossime tappe della lotta alla Povertà nel nostro Paese”. Che siamo al cospetto di un capitalismo finanziarizzato che depreda l’economia reale e gioca sino all’assassinio speculativo con la vita delle persone non è uno “slogan ideologico”, è una realtà. Ideologico è non vedere la realtà. L’istruzione continua ad essere tra i fattori che più influiscono (oggi più di ieri) sulla condizione di povertà. - sottolinea Ciambriello. L’Italia ha fatto dei passi in avanti ma si colloca ancora al penultimo posto in Europa per presenza di laureati, solo prima della Romania; il 14% dei ragazzi in Italia abbandona precocemente gli studi e l’Italia nella classifica europea si colloca al quarto posto (dopo Malta, Spagna e Romania). Oltre i due terzi delle persone che si rivolgono alla Caritas ha un titolo di studio pari o inferiore alla licenza media (il 68,3%); tra gli italiani questa condizione riguarda il 77,4% degli utenti. La povertà educativa è un fenomeno principalmente ereditario nel nostro Paese, che a sua volta favorisce la trasmissione intergenerazionale della povertà economica. I dati nazionali dei centri di ascolto, oltre a confermare una forte correlazione tra livelli di istruzione e povertà economica, dimostrano anche una associazione tra livelli di istruzione e cronicità della povertà. Anche “la rottura dei legami familiari può costituire un fattore decisivo per l’entrata in una condizione di povertà”. Ed è in crescita per la stessa ragione anche il numero dei senza fissa dimora: “La situazione risulta particolarmente preoccupante perché le deprivazioni materiali attivano spesso dei circoli viziosi che tramandano di generazione in generazione le situazioni di svantaggio”. Napoli: morì suicida in carcere, sì a processo: “soccorsi non idonei e in ritardo” di Nicola Sorrentino Il Mattino, 22 ottobre 2018 Morì il 19 giugno 2013 nel carcere di Secondigliano, nella struttura dell’ospedale psichiatrico giudiziario dov’era ricoverato. Prima era stato in cura a Villa Chiarugi a Nocera Inferiore e presso l’opg di Aversa. Era riuscito a soffocarsi tramite impiccagione, nonostante un tentativo di salvataggio avvenuto poco dopo. Il giudice ha mandato a processo due persone, un medico ed una guardia penitenziaria in servizio presso la medesima struttura, dopo una richiesta di archiviazione della procura. La vittima è Aniello Esposito. In qualità di detenuto, l’uomo era segnalato come responsabile potenziale di “eventi critici”, quali aggressioni, danneggiamenti, resistenza e ferimenti ed episodi di etero-lesionismo. “Dalle indagini espletate è emerso che il decesso è stato causato da un atto volontario mediante impiccagione”. Rispetto a questa conclusione, dopo una richiesta di archiviazione e una opposizione presentata dal legale dei familiari dell’uomo, Vincenzo Calabrese, il giudice ha deciso per il processo. L’uomo era collocato nella quinta sezione detentiva. Quel giorno di 5 anni fa, fu notato mentre tentava di impiccarsi, durante il giro del vitto serale. L’assistente che si accorse dell’episodio avvertì la sorveglianza generale. Esposito stava tentando di uccidersi con i pantaloni del pigiama usati come cappio. Fu liberato con l’aiuto di un secondo infermiere, che notò il battito lieve, un respiro anfanoso, gli occhi semichiusi e uno stato privo di coscienza. Sul posto giunse anche il medico di guardia, che prese atto della situazione per poi tornare al piano terra, non avendo con se le attrezzature necessarie in quanto allertato con un “avviso generico” ricevuto telefonicamente La morte di Esposito sopraggiunse poco dopo. Il processo è istruito al tribunale di Napoli. La vittima fu visitata alle 18 e dopo 40 minuti, morì. Esposito soffriva di patologie psichiatriche che ne inficiavano la libera autodeterminazione, da epilessia e insufficienza mentale con disturbo psicotico. La parte civile, nella sua opposizione, aveva ravvisato ipotesi ben più gravi di cooperazione in omicidio colposo e abbandono di persona incapace, senza ottenere risultati. Erano le prime formali accuse. Ma da indagini difensive è emerso che “non fu prestato tempestivo e idoneo soccorso, con i soggetti tenuti e obbligati a impedire il verificarsi della morte dell’internato. A fronte di imminente pericolo di vita, il personale sanitario e di vigilanza penitenziaria in una struttura specializzata, con soggetti portatori di patologie psichiatriche, dopo aver inutilmente indugiato, omise di chiedere ausilio di altro personale per un idoneo trattamento salvavita”. Tradotto: il defibrillatore arrivò solo a decesso avvenuto. I due imputati sono accusati di negligenza, imperizia e violazione di regolamenti di soggetti titolari di specifiche posizioni di garanzia. Nonostante Esposito fosse un paziente in regime “di grande sorveglianza custodiale per scongiurare atti autolesionistici e tentativi auto-soppressivi” morì perché i soccorsi non sarebbero stati adeguati, né tempestivi. Il processo dirà la verità. Roma: ecco il primo pub & shop dì economia carceraria di Stefano Liburdi Il Tempo, 22 ottobre 2018 Cercare nel proprio passato e negli errori commessi, cercare di non ripetere gli sbagli. Cercare una via di uscita per un futuro migliore. Cercare, ma non è facile se sei lasciato solo. Il vocabolario definisce il verbo “cercare” come il “tentare insistentemente di trovare o ritrovare qualcuno o qualcosa”. “Cercare è l’anagramma di carcere”, così è scritto sulla parete del pub & shop “Vale la Pena”, primo locale di somministrazione e vendita di prodotti dell’economia carceraria che ha aperto a Roma in via Eurialo 22, zona San Giovanni. Ecco quindi proposti prodotti realizzati da persone in esecuzione penale come la birra artigianale Vale la Pena, promotrice dell’iniziativa, i formaggi di Cibo Agricolo Libero del caseificio di Rebibbia femminile, il caffè Galeotto della torrefazione di Rebibbia Nuovo Complesso lavorato dalla cooperativa Pantacoop, realizzazioni di Man at work e del forno di Rebibbia Terza casa Fine Pane Mai. Ma anche dal resto d’Italia, come i Taralli Campo dei Miracoli del carcere di Trani, i biscotti Cotti in Fragranza dell’istituto Malaspina di Palermo, la pasta GiglioLab dell’Ucciardone, i grissini Farina nel Sacco del carcere di Torino ed il nuovo progetto O.R.T.O. SemiLiberi del carcere di Viterbo. Ma non solo cibo e bevande, sugli scaffali del locale anche borse e abbigliamento, con le Malefatte del carcere di Venezia e le magliette Extraliberi, prodotte nel laboratorio di serigrafia della casa circondariale di Torino. Presenti anche accessori e tessuti realizzati con materiale di recupero da Made in Carcere nella sezione femminile di Lecce. Alle pareti è possibile ammirare quadri di Pietro Lo Faro, artista calabrese che grazie alla pittura ha trovato una nuova vita. Tra sbarre forzate e manette appese, il locale offre cibi e bevande di qualità che recuperano la tradizione artigiana sempre più difficile da trovare nell’era della grande distribuzione. Assaggiando un formaggio lavorato dalle donne recluse a Rebibbia o sorseggiando una birra artigianale, si nota un sapore diverso. Ogni boccone, ogni sorso ha una sua storia, sembra di sentire nel gusto il lavoro che c’è stato nel produrlo, della vita che accompagna quella pietanza. Chiudendo gli occhi è possibile capire la voglia di ricominciare da parte di chi ha sbagliato. I dati ci dicono che chi è accompagnato in un percorso rieducativo - spiega Paolo Strano, presidente della Onlus Semi di Libertà che gestisce il birrificio e il progetto solidale - solo 2 volte su cento torna a commettere reati. Viceversa il tasso di recidiva per chi non viene inserito in progetti o formazioni professionali è del 70%, con un danno per la società esterna sia in termini economici che di sicurezza”. Bizzarra la storia personale di Strano: lavoro fisso nella sanità, viene mandato in qualità di fisioterapista al Regina Coeli. Dopo pochi mesi passati in quel carcere a contatto con i detenuti e i loro mille problemi, scatta qualcosa in lui. Abbandona lo stipendio sicuro e dal mondo del carcere non esce più. La sua missione diventa quella di offrire a quei ragazzi un percorso di formazione e reinserimento professionale in grado anche di far recuperare loro la dignità sociale. “Vorrei che le istituzioni si accorgessero del lavoro che svolgiamo. - continua Strano - Inoltre lo Stato grazie alla nostra opera risparmia molto denaro pubblico, basta pensare a quello che costa ogni singolo recluso”. Semi di Libertà è anche tra i fondatori della piattaforma di promozione “Economia Carceraria”, nata in seguito al successo conseguito dall’omonimo festival realizzato nella Città dell’Altra Economia di Roma lo scorso giugno, che sarà replicato a livello nazionale e regionale, sviluppando parallelamente una distribuzione e vendita di tali prodotti, anche online. “Proprio da quel successo, per molti versi inaspettato, è nata la spinta per aprire questo punto vendita dei prodotti nati nei penitenziari. Nel locale lavorano due ragazzi: uno ha terminato di scontare la sua pena ad agosto, l’altro ogni sera deve tornare in cella. Questo luogo lo intendo come una specie di camera di compensazione tra la galera e la società civile”. Alessandria: dentro la Casa circondariale, una prigione nel cuore della città di Marco Madonia alessandrianews.it, 22 ottobre 2018 Un reportage per osservare cosa si trova oltre il muro che circonda la Casa Circondariale “Catiello e Gaeta”, ormai diventata sul piano amministrativo un’unica realtà con il carcere di San Michele. Il nostro capoluogo è uno degli ultimi in Italia ad avere una struttura detentiva in pieno centro. Ecco come funziona la vita all’interno. Il 15 novembre presso l’Associazione Cultura e Sviluppo, si terrà un incontro dal titolo “Detenuti e carcere, rapporti con la comunità locale e volontariato”, al quale prenderanno parte Elena Lombardi Vallauri, direttrice dell’Istituto penitenziario alessandrino (che comprende ormai sotto un’unica organizzazione la Casa Circondariale di piazza Don Soria e la Casa di Reclusione di San Michele), Bruno Mellano, garante dei detenuti per il Piemonte, i magistrati Livio Pepino e Riccardo De Vito oltre a esponenti del mondo associativo e del volontariato che opera all’interno del carcere. Raccontare la realtà dei luoghi di reclusione è sempre complesso, perfino quando si trovano, come nel caso della Casa Circondariale di Alessandria, nel cuore della città, un’eccezione ormai, considerando che quasi tutte le strutture penitenziarie in Italia sono state ormai collocate (o ricollocate) in zone periferiche. Dopo aver raccontato cosa si trova oltre il muro di cinta della Casa di Reclusione di San Michele, questa volta vi proponiamo un “viaggio” in due puntate (domani la seconda) per visitare la struttura che si trova in centro città, destinata a chi è in attesa di giudizio o deve scontare pene entro i 5 anni. Un’occasione eccezionale per provare a comprendere qualcosa di più rispetto al funzionamento di una struttura detentiva, provando a compiere virtualmente il percorso che compie una persona una volta che viene arrestata. Di recente lungo il muro che si affaccia su piazza Don Soria sono comparse alcune aperture, simbolo della volontà del carcere di non rimanere un buco nero nel cuore di Alessandria ma di voler interagire con essa, offrendo un servizio e avviando un progetto ambizioso, capace di impiegare chi al momento si trova recluso insegnandogli un lavoro e consentendogli di impiegare il tempo per produrre qualcosa di utile. Si tratta delle vetrine del progetto Social Wood, che potrebbe essere inaugurato già a metà novembre). La Casa Circondariale si trova letteralmente a pochi passi dell’Ospedale. Era un ex convento, poi convertito in carcere, con tutti i limiti del caso perché gli spazi all’interno sono stati adattati al nuovo impiego, non senza compromessi (per esempio legati alle “zone d’aria” per i detenuti, piuttosto anguste e ricavate da “camminamenti” che collegano le diverse aree all’interno. Una targa posta all’ingresso ricorda la drammatica rivolta avvenuta il 9 maggio 1974, durante la quale persero la vita 7 persone, fra cui due agenti di polizia penitenziaria, tre civili e due detenuti. Il complesso penitenziario di Alessandria oggi si chiama “Catiello-Gaeta” proprio per ricordare la morte dei due agenti. Varcato l’ingresso, in un’area destinata al personale, agli educatori e agli agenti, si trova un lavoro svolto tempo fa da alcuni detenuti, dal titolo emblematico “Resilienza”. È costruito con materiali di recupero, oltre a riso, lenticchie, fagioli e caffè. Nell’ufficio in cui veniamo accolti si trovano appesi i riferimenti dei garanti dei detenuti, figure istituzionali con il compito di garantire un adeguato trattamento a chi viene privato della libertà personale. Ad oggi però il posto di garante cittadino è vacante, perché l’ex figura comunale, Davide Petrini, si è dimesso per ragioni di salute, ma ancora non è stato sostituito. Ecco la vera entrata nell’istituto, che si trova immediatamente oltre il portone blindato d’ingresso. Chi viene arrestato sarà la prima delle infinite porte che troverà. Il primo step per chi giunge in carcere è il passaggio per l’ufficio matricola, in cui viene schedato e inizia la compilazione di un documento, articolato su più punti, che accompagnerà il detenuto nel suo periodo di permanenza nella struttura. Verranno annotati tanti aspetti che lo riguardano, dai dati anagrafici alle condizioni di salute, eventuali trattamenti sanitari in corso, beni posseduti all’arrivo in carcere, che gli verranno temporaneamente tolti e archiviati. “Lo facciamo anche per tutelare le persone: una fede d’oro o una catenina possono diventare oggetto di ricatto da parte di altri detenuti, che potrebbero volersene impossessare. Esistono però alcune eccezioni: in casi particolari alcuni oggetti di particolare affezione possono essere lasciati, ovviamente compatibilmente con la sicurezza che la struttura deve garantire”, ci racconta il comandante della Polizia Penitenziaria della struttura, Giulio Romeo. La Casa Circondariale di Alessandria ospita attualmente 261 detenuti, il 70% dei quali sono stranieri, con pene legate molto spesso allo spaccio di droga. In passato la struttura è arrivata a contenere anche 400 detenuti, numeri che l’hanno messa in crisi. Fra le persone attualmente ospitate 56 sono in attesa di giudizio, le altre devono scontare pene entro i 5 anni. Non esiste una differenza di trattamento fra gli uni e gli altri. Nessuno viene escluso dalle attività trattamentali. La Casa Circondariale è classificata come struttura di media sicurezza. Fra le prime attività svolte quando si entra in carcere c’è il processo di identificazione e schedatura. Vengono prese le impronte digitali che vengono immediatamente comparate con quelle presenti negli archivi in rete, così da ottenere un match sull’identità che vada oltre la semplice dichiarazione delle generalità fornite da chi viene arrestato. Gli viene fatta la classica foto segnaletica e gli viene anche preso un campione di Dna, mediante un tampone salivare. Le “4 colonne” sono una sorta di cortile interno sul quale si affaccia la zona destinata ai colloqui e l’area di detenzione vera e propria, per entrare nella quale si supera un’ulteriore porta. “Si ha diritto in genere a 6 ore mensili per incontrare i familiari o gli amici - ci racconta Simona Di Mauro, capoarea trattamentale della sezione circondariale - che arrivano ad 8 se ci sono dei figli. In più i detenuti possono fare un totale di 4 telefonate al mese, di 10 minuti ciascuna. Tanti però - aggiunge - hanno parenti lontani, in Paesi stranieri o non hanno proprio nessuno che li venga a trovare o con cui scambiare una telefonata”. Prima però la visita del detenuto prosegue: viene fatto spogliare e si procedere a un’ispezione molto approndita. Lo specchio sul pavimento serve per controllare che la persona non nasconda oggetti o sostanze nelle parti intime. Personale dell’Asl distaccato all’interno della Casa di Reclusione si occupa delle visite e dell’erogazione dei trattamenti. Sono tantissimi i detenuti che ricorrono al supporto di sostanze una volta entrati in carcere, sia per percorsi di disintossicazione dalle droghe, con l’erogazione di metadone, sia per ricevere ansiolitici, antidepressivi o sonniferi, “per i quali c’è grande richiesta”, come ci racconta il personale medico. Si cerca di evitare il più possibile la necessità di ricorrere a trasferimenti all’esterno per ricevere visite sanitarie o trattamenti. La Casa Circondariale è dotata anche di uno studio dentistico, così da garantire le cure minime ai detenuti in autonomia. Lungo il nostro percorso sempre più all’interno della struttura incontriamo la chiesa. Il Cappellano non c’è più e ora un prete volontario viene a dire messa e a svolgere i sacramenti. “La chiesa è abbastanza frequentata” - ci raccontano. Vista l’alta percentuale di stranieri anche di fedi differenti è stato attrezzato uno spazio per ospitare anche altri culti, in particolare per consentire la preghiera alle persone musulmane (ma che viene utilizzato a rotazione anche per ospitare esponenti di altre confessioni). Ecco uno degli angusti spazi destinato ai momenti all’aria aperta a disposizione dei detenuti. Come vedremo domani a loro sono riservate anche alcune attività per impiegare produttivamente il tempo di restrizione: scuole e laboratori dove acquisire una licenza elementare o media o dove poter imparare un mestiere. Il livello di recidiva per una Casa Circondariale resta purtroppo alto e l’impegno va nella direzione di offrire qualche risorsa in più a disposizione di chi esce e vuole provare a cambiare vita. Milano: l’abbraccio al detenuti che lascia il segno di Fabrizio Ravellì La Repubblica, 22 ottobre 2018 Molti pensano che le carceri, luoghi chiusi per definizione, siano anche impermeabili al tempo, ai cambiamenti, allo scorrere del mondo esterno. Non è così, per niente. Anzi, per un paradosso solo apparentemente curioso, si può dire che le relazioni fra l’esterno e l’interno del carcere possono avere un sovrappiù di intensità, di consapevolezza, di curiosità reciproca. A San Vittore la visita nella settimana scorsa della Corte costituzionale è stata un bell’esempio di questo tipo di relazioni. Sono occasioni istituzionali ma, quando a gestirle sono persone sensibili e attente, lasciano il segno. Per dire, della visita a San Vittore di papa Francesco i detenuti parlano ancora adesso. E, senza voler azzardare paragoni, lo stesso accade per l’incontro con Marta Cartabia, vicepresidente della Corte. In questi casi c’è una parte dei preparativi che riguarda la categoria del “fare bella figura”: si dà una mano di pittura ai muri, si fanno pulizie accurate. Nel caso della professoressa Cartabia c’è stato, in più, un lungo lavoro di discussione e preparazione degli argomenti da affrontare. E per un paio d’ore lei ha risposto alle domande dei detenuti, che riguardavano soprattutto il tema dei diritti. Domande per nulla scontate e ingessate, anzi molto concrete e dirette. Risposte precise e competenti, senza aggirare i tempi più scottanti. Ma a lasciare il segno è stata l’empatia e la sorridente umanità della vicepresidente, che è anche tornata il giorno seguente per completare un paio di risposte in sospeso. E quando i detenuti le hanno regalato una felpa, li ha abbracciati. Il che non si dimentica. Milano: il dog trainer di Bollate, che riabilita le persone e gli animali di Simonetta Morelli Corriere della Sera, 22 ottobre 2018 A Novate Milanese c’è un piccolo paradiso per cani e persone. Si chiama M&M Dog’s Trainers A.S.D. Moreno Sartori, presidente dell’associazione, è istruttore cinofilo e opera sulla relazione tra i cani e i loro conduttori. I corsi, riconosciuti dal Centro Sportivo Educativo Nazionale del Coni, sono rivolti anche alla formazione di educatori e istruttori cinofili, operatori di canile e dog-sitter. Com’è avvenuto nel carcere di Bollate che, grazie a Sartori, ha formato al dog-sitting undici detenuti. Sartori è una persona con una disabilità importante e una grande armonia interiore. “Sulla propria disabilità si può piangere ma cosa cambia? Però possiamo cambiare noi stessi riconoscendo e accettando i nostri limiti e perseguendo comunque le nostre aspirazioni”. Un’affermazione semplice ma nient’affatto scontata che vale per tutti, con e senza disabilità. E che presuppone la cura profonda di sé. Vivendo la disabilità come un’opportunità di conoscenza dei limiti propri e altrui, Sartori che pratica la meditazione buddhista tibetana ha affinato gli strumenti interiori che oggi gli permettono di educare e ri-educare i cani alla relazione cogliendo nei loro “disturbi” anche i disallineamenti interiori dei conduttori. “È accaduto che il percorso rieducativo di un cane sia arrivato a un punto di stallo senza andare più avanti né indietro. Ho capito che il blocco era nel padrone. Sbloccato lui, attraverso un percorso personalizzato, il cane si è “risolto” automaticamente”. Una particolare cura è offerta alle persone disabili e alla delicatezza del loro rapporto con l’animale. Appurato il grado di educazione il Centro offre “un percorso gratuito finalizzato alla costruzione che il cane può fare fisicamente e non per il disabile” si legge sul sito. Ma tra “i disabili” ci sono anche gli animali. Cani ciechi e cani sordi adeguatamente istruiti insieme ai loro padroni, possono essere buoni compagni. Distillati di umanità profonda che permettono agli uomini di sbocciare al meglio e ai cani di essere dignitosamente se stessi. Moreno Sartori ha formato al dog sitting 11 detenuti del carcere di Bollate a Milano. Ha una disabilità importante che vive “come un’opportunità di conoscenza dei limiti”. A Novate Milanese c’è un piccolo paradiso per cani e persone. Si chiama M&M Dog’s Trainers A.S.D. Moreno Sartori, presidente dell’associazione, è istruttore cinofilo e opera sulla relazione tra i cani e i loro conduttori. I corsi, riconosciuti dal Centro Sportivo Educativo Nazionale del Coni, sono rivolti anche alla formazione di educatori e istruttori cinofili, operatori di canile e dog-sitter. Com’è avvenuto nel carcere di Bollate che, grazie a Sartori, ha formato al dog-sitting undici detenuti. Sartori è una persona con una disabilità importante e una grande armonia interiore. “Sulla propria disabilità si può piangere ma cosa cambia? Però possiamo cambiare noi stessi riconoscendo e accettando i nostri limiti e perseguendo comunque le nostre aspirazioni”. Un’affermazione semplice ma nient’affatto scontata che vale per tutti, con e senza disabilità. E che presuppone la cura profonda di sé. Vivendo la disabilità come un’opportunità di conoscenza dei limiti propri e altrui, Sartori che pratica la meditazione buddhista tibetana ha affinato gli strumenti interiori che oggi gli permettono di educare e ri-educare i cani alla relazione cogliendo nei loro “disturbi” anche i disallineamenti interiori dei conduttori. “È accaduto che il percorso rieducativo di un cane sia arrivato a un punto di stallo senza andare più avanti né indietro. Ho capito che il blocco era nel padrone. Sbloccato lui, attraverso un percorso personalizzato, il cane si è “risolto” automaticamente”. Una particolare cura è offerta alle persone disabili e alla delicatezza del loro rapporto con l’animale. Appurato il grado di educazione il Centro offre “un percorso gratuito finalizzato alla costruzione che il cane può fare fisicamente e non per il disabile” si legge sul sito. Ma tra “i disabili” ci sono anche gli animali. Cani ciechi e cani sordi adeguatamente istruiti insieme ai loro padroni, possono essere buoni compagni. Distillati di umanità profonda che permettono agli uomini di sbocciare al meglio e ai cani di essere dignitosamente se stessi. Risvegli: da Riace a Lodi nasce una nuova opposizione di Marco Damilano L’Espresso, 22 ottobre 2018 Dalle piazze alle associazioni, arriva una rivolta spontanea. Idealista e pragmatica. Che i partiti non sanno interpretare. Aspettavamo da mesi che la catena umana cominciasse a prendere forma, abbiamo intuito che stava già avvenendo qualcosa nelle città, nei comuni, nelle associazioni, tra gli intellettuali che lavorano con le parole e con le immagini. È sempre stato così, nei momenti decisivi della storia italiana. Nel 1960, nell’estate che rovesciò il governo Tambroni e chiuse per qualche decennio con la tentazione della svolta autoritaria, e tra il 2001 e il 2003, quando i movimenti sulla legalità costituzionale (i girotondi), sulla pace (il popolo dell’arcobaleno), sul lavoro (la manifestazione della Cgil di Sergio Cofferati) furono la premessa per un risveglio del centrosinistra dopo il trionfo elettorale berlusconiano. Sempre, in questi momenti, è arrivata una risposta repressiva, oscura, rabbiosa. Alla fine degli anni Sessanta, la strategia della tensione e delle stragi. Nel 2001, il movimento dei giovani ribattezzati no global, ferito a morte dagli orrori della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto a Genova, vittima di apparati con le loro complicità politicamente trasversali e una scala di omertà nella Polizia di Stato che saliva fino ai massimi vertici dell’epoca, simile a quella che viene svelata oggi nell’arma dei Carabinieri a proposito del pestaggio di Stefano Cucchi. Una intera generazione politica a Genova è stata spenta, con una brutalità inaudita. Oggi il potere di repressione e la leadership politica sono nelle stesse mani, quelle di Matteo Salvini, ministro dell’Interno e capo del partito virtualmente più votato d’Italia. Non è mai successo nella storia repubblicana, è una condizione che dovrebbe consigliare equilibrio e moderazione. Invece è diventata una posizione di dominio, da cui puntare sugli avversari politici con i mezzi del ministero, a partire dai social, si chiamino Roberto Saviano, i giornali indipendenti o il sindaco di Riace Mimmo Lucano, il cui modello di accoglienza - al di là dell’indagine giudiziaria che è ovviamente autonoma dal Viminale - è stato spazzato via, in pochi giorni, a colpi di circolari ministeriali. Mentre il vicepremier Luigi Di Maio se la prende con le manine che sabotano i suoi provvedimenti, fuori dal Palazzo inizia a muoversi qualcosa, un movimento spontaneo che raccoglie persone, associazioni e famiglie: chi si tassa per dare da mangiare ai bambini discriminati nelle mense, chi va a Riace a sostenere Mimmo Lucano e tante altre iniziative. Tutti, dagli studenti alle donne, definiti con disprezzo “buonisti” da chi vuole tenerli isolati. Per questo abbiamo titolato il nostro nuovo numero “Buonisti un cazzo”, e vi raccontiamo chi oggi sta iniziando a ribellarsi.Ma non finisce qui: sull’Espresso trovate anche la nuova inchiesta sul caso Cucchi, con la magistratura che ora cerca chi ai piani alti dell’Arma ha taciuto e cercato di nascondere quanto successo a Stefano. Il governo gialloverde è alla prova della sua prima legge di Bilancio, ancora una volta è la fazione leghista a farla da padrone, sul condono per gli evasori truccato da pace fiscale e sulla riforma della legge Fornero che nei piani dovrebbe consegnare al partito di Salvini il consenso della generazione quota 100 aiutata dalla modifica dei requisiti per accedere alla pensione. Per il Movimento 5 Stelle c’è il reddito di cittadinanza ma più modesto rispetto alle attese scatenate, il taglio delle pensioni d’oro è rinviato. Luigi Di Maio segue, da comprimario, anche se il raduno del Circo Massimo di questi giorni è la fotografia dell’orgoglio pentastellato. È una legge di bilancio elettoralistica, si dà tutto a tutti e si cerca un consenso da riscuotere in modo rapido. Una manovra, è bene saperlo, destinata ad avere successo, salvo catastrofici giudizi delle agenzie di rating, perché il gradimento dei due partiti di governo è destinato a restare immutato o a salire, almeno fino alle elezioni europee del 2019. Dopo quel voto, le forze che oggi governano l’Italia potrebbero ritrovarsi a spartirsi le cariche in Europa, qualcosa di più serio dell’abbuffata delle nomine nei tg e nelle reti Rai. Almeno fino a quel momento, il patto di governo reggerà. I cittadini, associazioni, sindaci e piccoli comuni che si stanno mobilitando in queste settimane, le tante Riace presenti sul territorio, l’operazione Mediterranea con la nave Mare Jonio che unisce movimenti, centri sociali, scrittori e intellettuali, le famiglie che a Lodi si rivoltano contro la discriminazione dei bambini stranieri, sono il reticolo di un possibile risveglio della società, gli anelli della Catena. Qualcosa di molto italiano, un Paese dove troppe volte le persone comuni sono state costrette a scendere in piazza per far valere i loro diritti più elementari. C’è un momento in cui in Italia tocca a loro assumersi responsabilità impensabili, nel vuoto della politica e delle istituzioni. Penso alle associazioni dei parenti delle vittime delle stragi, di piazza della Loggia a Brescia o della stazione di Bologna. Era una persona normale Ilaria Cucchi, prima che la tragedia del fratello Stefano le cambiasse la vita e la costringesse a battersi nelle aule di giustizia e nelle piazze per avere verità e giustizia. Sono persone normali i cittadini di Genova sfollati dalla loro casa dopo il crollo del ponte Morandi, come dopo una guerra, e che dopo due mesi di promesse e di confusione si improvvisano attivisti politici, con i comitati in corteo, per rivendicare la loro esistenza, così come fecero i cittadini dell’Aquila dopo il terremoto del 2009. Sono famiglie normali quelle che a Lodi hanno raccolto i fondi contro il razzismo e la discriminazione, tra loro ci saranno anche molti elettori della Lega o di M5S. Una catena umana di donne e di studenti si muove dal Nord al Sud del Paese, chiama in causa la politica, immobile e paralizzata, in Parlamento e fuori. In quel che resta del principale partito del centrosinistra avanza la candidatura di Nicola Zingaretti, con il profilo di un Pd che va oltre il Pd, aperto ai movimenti e alla sinistra, come racconta il direttore del Mulino Mario Ricciardi a pag. 46, secondo la lezione dei Verdi tedeschi o dei Democratici americani attesi alla sfida del voto mid-term contro Donald Trump. Il presidente del Lazio ha scelto per la sua prima uscita da candidato alla segreteria l’immagine della Piazza Grande, ma la piazza elettorale del Pd e degli altri partiti del centrosinistra si è ristretta e in questo momento l’opposizione politica appare assente ovunque, sia nelle piazze sia in Parlamento, dove non riesce a inserirsi nel gioco. Silvio Berlusconi prova a staccare la Lega dai 5 Stelle, il Pd si è precluso l’operazione inversa. Da Matteo Renzi e dai suoi amici arriva la voglia della revanche o la tentazione di azzerare tutto per ripartire da capo, magari da tutt’altra parte, sotto un altro segno, tra le macerie del berlusconismo e dell’antico centro-destra: nel campo moderato infuria la lotta per l’egemonia o per la resistenza al salvinismo imperante, e sarà tutto ancora più evidente nei prossimi mesi, quando la campagna per le elezioni europee spaccherà il corpaccione del Partito popolare, il Ppe, gli antichi democristiani. Fuori di qui, dalle Leopolde e dalle beghe di Leu, Potere al Popolo e degli altri partitini di sinistra, c’è un’Italia che si muove, che non costruisce piattaforme di programma o candidature alle elezioni, eppure oggi rappresenta quanto di più idealistico e al tempo stesso di più pragmatico ci sia. In una parola, quanto di più politico. Lo “scarica-migranti” assurdo tra Italia e Francia di Massimo Nava Corriere della Sera, 22 ottobre 2018 In vista delle elezioni europee, Salvini e Macron si sono “scelti” come nemici, mentre invece Italia e Francia dovrebbero intendersi per costruire soluzioni davvero a dimensione europea. Quanto accade alle frontiere fra Francia e Italia è grottesco e tragico. Ha ragione Matteo Salvini quando accusa i francesi di “invasione” territoriale per respingere in Italia migranti, ma ha torto quando finge di non sapere che esistono accordi e trattati fra i due Stati e fra Paesi europei per il rimpatrio dei non aventi diritto nel Paese di prima accoglienza. Altrimenti si aprirebbero corridoi incontrollati dai Paesi di provenienza verso l’Europa. Ma la Francia ci mette poco a passare dalla parte del torto, quando usa la prassi (e le misure antiterrorismo) come alibi per respingimenti con metodi non certo umanitari, salvo appunto dare verbali lezioni di umanesimo al mondo, anziché impegnarsi a fondo per la revisione del trattato di Dublino e offrire all’Italia una sponda di solidarietà, anche in considerazione del prezzo altissimo che l’Italia sta pagando come Paese di prima accoglienza. Così la questione si traduce in un disonorevole scaricabarile elettorale sulla pelle dei migranti in balia di prassi poliziesche, prima nei porti e poi alle frontiere di terra. Salvini ha bisogno di fare la faccia feroce per rassicurare il proprio elettorato. Macron ha bisogno di mostrare i muscoli per arginare la crescita della “Salvini francese”, Marine Le Pen. In vista delle elezioni europee, Salvini e Macron si sono “scelti” come nemici, mentre invece Italia e Francia dovrebbero intendersi per costruire soluzioni davvero a dimensione europea. Salvini sbaglia nell’affidarsi ai falsi amici dell’Est che non ne vogliono sapere di accogliere migranti. Macron corre il rischio di consegnare l’Europa ai movimenti populisti esterni per arginare i populisti in casa propria. La guerra di frontiera alimenta il dramma di quanti cercano di passarla e discosta Italia e Francia da valori di civiltà europea che andrebbero condivisi, anziché appesi alla “prassi”. La mafia nigeriana in Italia: eroina gialla, prostituzione ed elemosina di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 22 ottobre 2018 Li chiamano “cult”, dominano il racket da Torino a Palermo. I legami con i clan di Ballarò. La sottovalutazione di un fenomeno preoccupante e diffuso sul territorio. Non sarà ancora controllo del territorio. Ma l’agguato dello scorso settembre ai giardini Alimonda di Torino contro due poliziotti antidroga circondati e pestati da una trentina di spacciatori africani ci va molto vicino. Siamo tra Aurora e Barriera di Milano, accanto a quel corso Giulio Cesare così multietnico che gli ultimi bottegai locali espongono in vetrina il cartello “negozio italiano”. La mafia nigeriana comanda qui: e non solo qui. Cult - “Ho fatto tre informative a tre procure diverse, Roma, Bologna e Palermo, interessate al fenomeno che si sta espandendo a macchia d’olio in tutta Italia e tutta Europa”, ha detto alla Commissione parlamentare sulle periferie il commissario della municipale Fabrizio Lotito, che ha lavorato con la procura torinese. Gerarchia, riti d’iniziazione, cosche chiamate “cult”: “Torino è la città con il maggior numero di immigrati nigeriani, a ruota segue l’Emilia Romagna. Le nostre indagini su questo fenomeno mafioso vedono come attori principali i “cult” nigeriani, nati nelle università nigeriane degli anni Sessanta, poi evolutisi fuori e giunti anche in Italia: hanno struttura verticistica e dalle indagini abbiamo potuto ascrivere il 416 bis, l’associazione mafiosa”. Le vittime - Black Axe, Maphite, Supreme Eiye Confraternity, Ayee sono nomi di “cult” che riempiono ormai da anni le nostre cronache; collegandoli come puntini su un foglio mostrerebbero forse un disegno più ampio, imbarazzante per un malinteso senso di correttezza politica: dibattere pubblicamente sui mafiosi nigeriani offre argomenti ai razzisti nostrani? È vero il contrario, perché le prime vittime dei “don” (i capi cultisti) sono ragazze nigeriane vendute come schiave sulla Domiziana e giovani nigeriani (i “baseball cap”) ridotti a elemosinare davanti ai bar di Roma o di Milano per ripagare debiti di famiglia contratti in Nigeria. Traffici milionari - Da Nord a Sud d’Italia s’avanza così la quinta mafia (dopo Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona pugliese) con i suoi traffici milionari di cocaina dalla Colombia al Canada, la nuova eroina “gialla” spacciata nel nostro Nord-Est e i capi dei capi da sempre insediati a Benin City, che resta la casa madre e sta ai “cult” come San Luca sta alle ‘ndrine. Tecnici e puristi diranno che le mafie da noi sono troppe per farne una classifica, dalla russa all’albanese, dalla cinese alla multiforme mafia romana. Proprio il commissario Lotito lamenta inoltre che la mafia nigeriana sia vista “più come un problema di ordine pubblico”. Un errore di valutazione, perché nessuna nuova mafia ha la sua pervasività: mille affiliati stimati in Italia (su circa 93 mila nigeriani immigrati), almeno venti città (Torino e Bologna in testa) e dieci regioni coinvolte nella sua rete che conta in giro per il mondo trentamila affiliati in quaranta Stati. Da Benin City a Palermo - In Italia i mafiosi nigeriani hanno imparato a muoversi strategicamente. Famosa è un’intercettazione in carcere tra due mafiosi del clan Di Giacomo sui boss di Ballarò, centro di Palermo. “Lì ci sono i turchi” (intendendo persone di colore). “Quali?”. “I nigeriani... ma sono rispettosi e poi...immagazzinano” (frase che per gli investigatori avrebbe un senso preciso: i “rispettosi” nigeriani di Black Axe detengono grandi partite di droga in accordo con Cosa Nostra). Al Sud dove le mafie autoctone mantengono il controllo militare, la mafia venuta da Benin City cerca patti, come a Ballarò. Al Nord picchia duro: nel 2017, su 12.387 reati firmati dalla criminalità nigeriana (un quinto di quelli commessi da tutti gli stranieri da noi), 8.594 avvengono al Nord, 1.675 al Centro, 1.434 al Sud, 684 nelle Isole. “Non hanno rispetto per la vita” - Torino è teatro dell’operazione Athenaeum dei carabinieri che fotografa il legame tra Maphite e Eiye. Giovanni Falconieri sul Corriere di Torino ha raccontato di un pentito che descrive i Maphite in termini sconvolgenti: “Sono sbarcati a Lampedusa e la gente ha paura di loro... Non hanno rispetto per la vita, hanno già sofferto troppo per arrivare in Italia”. Il tema degli sbarchi inquinati dalla mafia di Benin City ormai emerge. Il giudice torinese Stefano Sala, in quasi 700 pagine di ordinanza, motiva le sentenze su 21 membri di Eiye e Maphite, e accende un faro: “I moduli operativi delle associazioni criminali nigeriane sono stati trasferiti in Italia in coincidenza con i flussi migratori massivi cui assistiamo in questi anni” (...), “tra gli immigrati appena sbarcati vengono reclutati i corrieri che ingoiano cocaina”. Lo stipendio dei capi - Un “don”, il capo della struttura locale, può ricevere uno stipendio di 35 mila euro ogni tre mesi. L’entità territoriale minore è la “zona”, crescendo si sale al “temple” fino al “murder temple” di Benin City dove si elabora la strategia politica. Sembrano i primi verbali di Buscetta risciacquati nella globalizzazione. Se Torino è la nostra città più permeata dalla migrazione nigeriana, Bologna è considerata “la capitale” del cultismo, lo spaccio nella centrale Bolognina e nelle periferie è da anni in mano ai Black Axe. Ma le ordinanze che si moltiplicano, con le operazioni di carabinieri e polizia, descrivono un’onda assai più lunga: Black Axe, a Palermo, 2016, sul gruppo di Ballarò; Aquile Nere, Caserta, stesso anno. Cults, a Roma, 2014. Niger, Torino 2005. Ancora Black Axe, Castello di Cisterna, Napoli, 2011. Le schiave - “Noi siamo nate morte”, raccontano le schiave nigeriane della Domiziana al sociologo Leonardo Palmisano in un libro prossimo all’uscita, “Ascia Nera”. Sono “asce nere”, “black axe”, i mafiosi che promettono la morte a Palmisano, troppo ostinato nell’indagarne i traffici. I ragazzi venuti da Benin City si sentono ormai abbastanza forti per quest’ultimo, minaccioso passo. Molta acqua è passata da questo allarme del 2011: “Vorrei attirare la vostra attenzione sulla nuova attività criminale di un gruppo di nigeriani appartenenti a sette segrete... riusciti a entrare in Italia principalmente con scopi criminali”. Non il delirio di un balordo xenofobo ma l’informativa dell’ambasciatore nigeriano a Roma. Brasile. Bolsonaro anti-ambientalista, giura guerra a indios e foresta di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 22 ottobre 2018 Il leader di ultradestra favorevole allo sfruttamento dell’Amazzonia. Basta con la protezione eccessiva degli indios, meno ostacoli all’agricoltura in Amazzonia, fuori il Brasile dagli accordi internazionali sul clima. Se Jair Bolsonaro realizzasse solo una parte delle promesse elettorali, accusano i suoi avversari, il Brasile farebbe davvero un passo indietro di mezzo secolo, tornando a quegli anni “dorati” della dittatura militare che l’ex capitano dell’esercito non nega di rimpiangere. È un nemico dichiarato dell’ambiente e non solo, sostiene il vasto schieramento con il quale Bolsonaro promette senza mezzi termini di “farla finita”. Come quando, ancora pochi giorni fa in una conferenza stampa, ha detto che vuole porre termine a tutte le forme di “attivismo” in Brasile, volendo dire cioè ambiente, minoranze, orientamenti sessuali, lotte per la terra. Se a una parte delle posizioni di Bolsonaro si può fare la tara della retorica da campagna elettorale, o da deputato estremista di nicchia quale è stato per 30 anni, per altre c’è il nero su bianco del programma elettorale. Il “progetto Fenix” per la rinascita del Paese, “il Brasile prima di tutto, Dio sopra a tutti”, propone per esempio di abolire il ministero dell’Ambiente e incorporarlo a quello dell’Agricoltura. Poiché quest’ultimo finirà certamente nelle mani di qualcuno che rappresenta gli interessi dei produttori (nel Congresso di Brasilia ci sono almeno 200 parlamentari, di tutti i partiti, che fanno parte della lobby), è facile pensare che i fazendeiros grandi e piccoli possono già mettere le bottiglie di champagne in frigo. Bolsonaro non parla ovviamente di tornare a disboscare liberamente le foreste come si è fatto fino a qualche decennio fa, ma promette di allentare i controlli e le multe. Il che è sostanzialmente la stessa cosa, perché già adesso in Amazzonia la capacità di controllo su territori grandi come interi Stati europei è piuttosto limitata. Bolsonaro ripete spesso che in agricoltura il Brasile dovrebbe prendere esempio da Israele, dove “si coltiva con successo il deserto” e creare una forma di cooperazione speciale con quel Paese. Ma gli addetti ai lavori gli rispondono che come terzo produttore del mondo e quello che più ha investito per ampliare le colture nei climi tropicali, è il Brasile a poter dare lezioni agli altri. Sempre in campo ambientale, c’è la proposta di ridurre a tre mesi i termini per le autorizzazioni di impatto. La destra vuole che si riaprano i cantieri per le centrali idroelettriche, le quali sfruttando i fiumi amazzonici e le terre circostanti, sono sempre a forte rischio per l’ecosistema. Gli iter di autorizzazione sono dunque lunghi, e alcune sono state scartate. Bolsonaro vuole però anche rilanciare l’energia solare e eolica. Sul destino che attendono gli storici movimenti brasiliani per aprire i grandi latifondi incolti ai contadini “sem terra” e la protezione oggi garantita alle comunità indigene, le parole bellicose di Bolsonaro (“Finirla con tutta quella roba lì”, è lo slogan preferito) non trovano riscontri chiari nel programma di governo, ma sono forti i timori di regolamenti privati di conti nei campi e nelle foreste, dove gli squadroni della morte già esistono e l’impunità per chi fa fuori attivisti è già altissima. “Nemmeno un centimetro quadrato in più agli indios”, è una delle promesse di Bolsonaro, il quale sostiene che le riserve sono già troppo ampie in Brasile (non è il solo a pensarla così, a dire il vero). Nessun margine invece per i movimenti dei senza terra, considerati da Bolsonaro eserciti clandestini comunisti, al servizio del Pt di Lula. L’audace teoria enunciata nel programma di Bolsonaro è che “la violenza in Brasile è esplosa, facendo oltre un milione di morti ammazzati, a partire dalla prima riunione del Foro di San Paolo”, avvenuta nel 1990. Si tratta dell’associazione di partiti e movimenti della sinistra latinoamericana voluta dal giovane Lula e Fidel Castro, che si limita ad una o due inutili riunioni all’anno, ma è un’ossessione per Bolsonaro e la prova della minaccia rossa sul Continente.