Agnese e Adriana, la forza di uscire dalla prigione del rancore di Maurizio Patriciello Avvenire, 21 ottobre 2018 La storia fa da sfondo. Anche il nome di Aldo Moro non viene quasi mai pronunciato. Adriana lo chiama il “papà di Agnese”. A sua volta Agnese ricorda solo i nomi degli uomini della scorta trucidati in via Fani il 16 marzo del 1978. Hanno accettato di venire, queste due signore, a Sant’Agata dei Goti, nel Beneventano, per renderci partecipi del travaglio dei loro animi. Siedono come due vecchie amiche, una accanto all’altra, sull’altare della cattedrale gremita e silenziosa. Gli occhi di tutti sono fissi su di loro. Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Br, e Adriana Faranda, una dei brigatisti responsabili della sua morte, hanno trovato il coraggio di scavare dentro se stesse per estirpare l’antico rancore che le accomunava e le divideva. Hanno spalancato le porte della prigione del passato; hanno saputo trasformare il dolore che rischiava di agghiacciarle in un trampolino di lancio verso il futuro. “Sento la necessità di portarvi nel mio mondo interiore” esordisce Agnese. È questa la chiave di lettura dell’incontro, di questo vuol parlarci, questo siamo venuti a sentire. Non è stato un convegno sul “caso Moro” quello che si è tenuto nei giorni scorsi a Sant’Agata, ma un momento delicatissimo in cui sua figlia racconta come sia stato possibile incontrare, dialogare, sforzarsi di capire gli assassini di suo padre. All’inizio c’è stato il rischio che “l’odio, la rabbia, la delusione, i sensi di colpa” prendessero il sopravvento. Un “incoercibile desiderio di giustizia” le ribolliva dentro, ma sapeva che il dolore dell’altro non avrebbe mai potuto lenire il suo. La “dittatura del passato” doveva cessare. A tutti i costi. Intuisce che c’è da fare un percorso interiore per ritrovare la pace, la serenità, la libertà. Per ritornare a vivere. Per farlo, però, deve saper dire “basta”. Con fermezza, convinzione. Il Signore mette sul suo cammino padre Guido, gesuita, e un gruppo di sorelle e fratelli che l’aiutano a elaborare il lutto e a fare piccoli passi per una possibile riconciliazione con chi le ha fatto male. Lentamente, si concretizza la possibilità di incontrare alcuni responsabili della morte di Moro. Non è facile. Non tutti capirebbero. Agnese accetta. E si accorge che quelle persone da sempre ritenute “mostruose” hanno conservato la loro umanità. Una scoperta che vale quanto una rivelazione. Durante un ritiro, in Piemonte, dalla loro bocca sente che hanno sofferto e soffrono per averle ucciso il padre. Rimane sbigottita. Com’è possibile?, si chiede. Quel dolore è suo, appartiene a lei, alla sua famiglia. Che c’entrano loro? Vittime e carnefici accomunati nella stessa sofferenza? Non stiamo esagerando? Questo fatto “disarmante” la sconvolge. E capisce, Agnese, che per andare incontro all’altro deve spogliarsi di ogni pregiudizio. Senza opporre resistenza. Deve smettere di vedere in lui il nemico, l’assassino, e riprendere a considerarlo un uomo. Un uomo che ha sbagliato, ha ucciso, ha fatto soffrire, ha sofferto, ma che non ha mai smesso di avere un nome, un volto, una storia. Un uomo che puoi finalmente guardare negli occhi, chiedendogli: “Come hai potuto?” Allora i ghiacciai si sciolgono, i cuori intrappolati nel dolore si allargano. Si riprende a respirare aria di montagna. E tu capisci che il male non ha avuto l’ultima parola. Non ha vinto. Finalmente giustizia è fatta. In cattedrale non vola una mosca. Gli sguardi sono bassi. Questo parlare è vangelo “sine glossa”. Agnese è pacata, serena, non alza mai la voce, ma le sue parole, come lame affilate, penetrano negli animi commossi. È la volta di Adriana. Esile, il volto lungo, solcato dalle rughe, anche lei, senza saperlo, andava sperimentando un travaglio interiore simile a quello di Agnese. È vero, si era dissociata dalle Br, aveva pagato il suo debito con la giustizia, aveva sofferto, ma sentiva che non poteva bastare. Per fare pace con se stessa, col mondo, con gli uomini, con il futuro, occorreva ricostruire le “relazioni spezzate”. Anche lei sente forte il bisogno di uscire dalla corazza del passato che rischia di soffocarla. Per farlo, sente forte il bisogno di poter incontrare le persone offese. “Io oggi mi sento responsabile di Agnese”, dice, sfiorandole delicatamente la mano. Un gesto che non passa inosservato. Una carezza che vale più di mille discorsi. Il suo intento non è quello di chiedere perdono, atteggiarsi a vittima, o pretendere di essere compresa. È molto di più. È il desiderio di caricarsi sulle spalle il fratello incappato nei briganti, portarlo in salvo, rimanergli accanto, soffrire insieme, e insieme tentare di guarire. Riconoscendo che quel brigante sei stato tu. “Certo, ci sono cose che non possono essere riparate”, ammette. Indietro non si torna, è vero, ma davanti si deve guardare. Il male fatto come un macigno rimane, ma possiamo disinnescarne la carica esplosiva perché smetta di generare divisione, sofferenza, morte. “La violenza, sia quando la si riceve sia quando la si esercita, provoca traumi profondi. L’uccisione del papà di Agnese per me è stata atroce”, sussurra, socchiudendo gli occhi. Dal quel giorno sono passati quarant’anni. Adriana Faranda chiude il suo intervento con parole che tutti vorremmo sentirci dire dal Giudice supremo nel giorno del giudizio: “Ho sempre visto le mani di Agnese tese, dopo che mi avevano spaccato in due col suo dolore”. Confessione. Redenzione. Risurrezione. “A volte - aggiunge Agnese - il male è tremendo per la sua stupidità, per la sua piccolezza. Io sono sicura che Gesù quello che mi dice me lo dice per rendermi felice. E se mi dice: “ama il tuo nemico”... Ci ho pensato trent’anni”. E tace. Le parole possono prendere congedo. Silenzio. Riconoscenza. Preghiera. Lo Spirito aleggia. Abbiamo capito. Abbiamo imparato la lezione. Un applauso liberante, lunghissimo, esplode in chiesa. Agnese Moro e Adriana Faranda, due donne che hanno saputo mettere a tacere l’odio e imboccare la strada faticosa e bella della riconciliazione. La sola ricca di senso e di futuro. Giustizia, Bonafede promette progetto di riforma processo civile di Emanuele Canepa Il Giornale, 21 ottobre 2018 Il ministro Bonafede annuncia un progetto di riforma del processo civile entro 15 giorni, con importanti revisioni sulla mediazione e la negoziazione assistita. Il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede durante l’intervento tenuto al VII Congresso dell’Unione Nazionale delle Camere Civili a Roma, annuncia che entro due settimane verrà presentato il progetto di riforma del processo civile. “Questo ci permette di aprire una serie di confronti con gli addetti ai lavori - precisa il Guardasigilli - l’obiettivo è quello di rendere il progetto di riforma accessibile al maggior numero di persone al fine di migliorarlo, in una fase antecedente a quando il testo entrerà nelle sedi istituzionali”. Questa riforma toccherà anche la mediazione e la negoziazione assistita: “La mediazione in alcune materie ha ottimi risultati, in altre meno - sottolinea Bonafede. Puntiamo a renderla facoltativa, se non addirittura a toglierla, in tutti i casi in cui ha dimostrato di essere totalmente inutile. Allo stesso tempo, cercheremo di incidere sulla negoziazione assistita”. Infine conclude trattando anche il problema delle cause pendenti nei tribunali: “Mi interessa comprendere quante sono ma soprattutto cosa c’è dietro a un determinata cifra. Se una persona rinuncia a far valere un suo diritto per via dei costi o della durata di una causa, allora c’è qualcosa che non va nella direzione giusta. Non è più uno Stato di diritto quello che non riesce a fornire risposte di Giustizia. Bisogna che il sistema funzioni prima di tutto per i cittadini. Senza dimenticare il ruolo fondamentale degli avvocati: l’intero ordinamento giudiziario rischia di diventa inaccessibile anche agli addetti ai lavori. È necessario intervenire per far sì che la Giustizia torni a funzionare”. La lettera del ministro Bonafede e la dura risposta dei penalisti di Enrico Lupino Il Tempo, 21 ottobre 2018 Al congresso dell’Ucpi la delusione e le richieste del presidente Migliucci. Il ministro non “torna a Surriento” e i penalisti non la mandano giù. Poteva essere un incontro scaccia-tensioni quello fra il guardasigilli Alfonso Bonafede e le Camere Penali. Dopo i casi di Bari, dove il tribunale ha sospeso in primavera le udienze per colpa di un edificio che rischia di crollare sulla testa degli addetti ai lavori, l’omicidio dei due bambini nella sezione nido del carcere femminile di Rebibbia a opera della madre detenuta e il dibattito sulla separazione delle carriere in magistratura, che vede gli interlocutori lontani al momento, Sorrento poteva rappresentare un segnale distensivo. L’imperfetto è d’obbligo però, perché l’incontro non c’è stato “a causa di pregressi impegni”. Così ha scritto, su carta intestata del Ministero della Giustizia, il grillino Bonafede. E gli avvocati, che avevano invitato l’inquilino di via Arenula al diciassettesimo congresso dell’Ucpi, non l’hanno mandata a dire. “Il ministro Bonafede è migliorato. È passato dai messaggi via Facebook alle lettere ma ha rifiutato di fatto il confronto con le Camere Penali e cioè con una Avvocatura che contrasta in modo vigoroso il contratto di governo sui temi della giustizia”. Così commenta la lettera di Bonafede il numero uno uscente dell’Ucpi, Beniamino Migliucci (oggi si avrà il nuovo presidente) che ben sintetizza quale sia il sentimento attuale dell’avvocatura penalista dopo il “vorrei, ma non posso” del ministro. Oggetto della replica del presidente delle Camere è il dibattito sui temi della giustizia che nella sua lettera Bonafede rappresenta come irrinunciabili. Uno di questi “rispetto al quale - scrive il ministro ai penalisti - sono consapevole delle divergenze sostanziali tra le nostre posizioni è quello della prescrizione”. Secondo il guardasigilli infatti i processi non devono finire negli archivi, con lungaggini che i cittadini faticano a capire. Ma sul punto Migliucci risponde in toto, ribadendo la vacuità di quanto scritto da Bonafede. “In realtà la lettera del ministro - afferma il presidente dell’Unione camere penali - è vuota di contenuti, non si sofferma minimamente sulle nostre critiche riguardo alle proposte di legittima difesa, sul decreto immigrazione e sicurezza e sulla difesa di principi costituzionali irrinunciabili sui quali, invece, un ministero della giustizia dovrebbe concentrare la sua attenzione e soprattutto la sua azione”. La nota di Migliucci si chiude con un auspicio. “Speriamo che il ministro, sempre sorridente, si incupisca un po’ e rifletta su quanto sia necessario, invece, affrontare i temi che l’Ucpi dal congresso di Sorrento ha voluto segnalare”. Il congresso indetto nella città campana, una tre giorni che si concluderà oggi, aveva già dato il segnale di quanto le Camere fossero stizzite dall’assenza del ministro. I penalisti non avevano digerito la faccenda tanto che l’avvocato Gaetano Pecorella si era rifiutato di leggere la missiva. “Un ministro deve venire per ascoltare - aveva osservato Pecorella - ed è per questo che credo non meriti una lettura ma una distribuzione”. A rendere più grave lo strappo è l’ampia diversità di vedute in materia di giustizia tra il Ministro e gli avvocati: dalle intercettazioni fino alla legittima difesa. Non può essere dimenticato inoltre il tema della separazione delle carriere. L’Unione delle Camere Penali, raccogliendo 71.000 firme, ha voluto riportare al centro del dibattito politico una “discussione ormai accantonata perché, con una politica sempre più orientata alla ricerca di un consenso immediato, è ritenuta scomoda e pericolosa”, ha spiegato Migliucci. Il congresso non aveva lesinato attacchi alla politica attuale “che va verso una deriva securitaria” ha detto Migliucci. Con un messaggio finale, prima che oggi sia designato il suo successore, Migliucci ha chiuso l’intervento al congresso inviando un messaggio chiaro. “A colui che si definisce “avvocato del popolo”, a Salvini, a Bonafede ribadiamo che sulla difesa degli ultimi le Camere Penali non arretreranno mai. Non ci arrenderemo mai. A qualsiasi costo”. Il declassamento del ministro Bonafede di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 ottobre 2018 Nel congresso dell’Unione delle Camere Penali Italiane i penalisti si oppongono alle ricette populiste del nuovo esecutivo Lega-M5S in materia di giustizia. È frattura completa, ormai, tra il governo giallo-verde e gli avvocati penalisti, da ieri riuniti a Sorrento al congresso dell’Unione delle Camere Penali Italiane, che domenica eleggerà i suoi nuovi vertici, incluso il successore di Beniamino Migliucci alla presidenza. Un congresso dal titolo emblematico (“Il buio oltre la siepe: la difesa delle garanzie nell’epoca dei populismi”), che esplicita nella maniera più chiara la volontà dei penalisti di opporsi alle ricette populiste del nuovo esecutivo Lega-M5s in materia di giustizia. Una contrapposizione che da ieri, con l’apertura dei lavori del congresso dell’Ucpi, si arricchisce ulteriormente di tensione. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, invitato al congresso, infatti, non si è presentato, facendo riferimento a impegni precedentemente assunti, e ha inviato un messaggio agli oltre mille penalisti riuniti. Messaggio, però, che Gaetano Pecorella, componente del comitato di presidenza del congresso, si è rifiutato di leggere, scandendo queste parole tra gli applausi degli avvocati: “Un ministro della Giustizia deve venire al congresso dei penalisti per ascoltare ed è per questo che la sua lettera che ci ha inviato non merita una lettura, ma solo una distribuzione ai presenti”. Il rifiuto di leggere il testo inviato dal Guardasigilli (che poi, nel merito, si sostanziava nella semplice elencazione di buoni auspici per la riforma della giustizia) assume ancor più rilievo se si considera che, pochi secondi prima, dal palco del congresso dei penalisti era stata data lettura di un messaggio del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in cui si esprimeva “apprezzamento per il tema scelto”. Riconoscimento non da poco, se si considerano, come abbiamo detto, i profondi significati politici del titolo scelto dai penalisti (la difesa delle garanzie nell’epoca dei populismi). Nel corso della sua relazione, il presidente uscente dell’UCPI, Beniamino Migliucci, ha rincarato la dose: “La distanza tra le nostre idee e quelle del ministro è siderale. La situazione è complicata perché è sotto gli occhi di tutti come abbia preso il sopravvento il populismo anche in materia giudiziaria, populismo che non accetta mediazioni di sorta e che è ispirato a ottenere consenso con scelte a costo zero”. Migliucci ha ricordato come, non appena è stato reso noto il programma del nuovo governo in materia di giustizia, l’Unione abbia espresso “netta contrarietà” alle proposte di legge sulla “legittima difesa, sulla riforma dei reati contro la pubblica amministrazione e le norme del decreto in materia di protezione internazionale, immigrazione e sicurezza pubblica”. Temi che chiamano in causa la difesa dei diritti fondamentali e sui quali Migliucci ha lanciato un monito chiarissimo: “Sappiano il vicepremier Salvini e il ministro Bonafede che sulla difesa degli ultimi l’Unione delle Camere Penali non farà mai un passo indietro e che avranno vita durissima”. Poco prima, il presidente uscente aveva evidenziato il successo ottenuto dall’UCPI con la raccolta di oltre 72mila firme per la presentazione al Parlamento della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la separazione delle carriere tra giudici e requirenti, definita “indispensabile per modificare la mentalità autoritaria e inquisitoria che ancora permea il processo penale nel nostro Paese”. Di conseguenza, Migliucci ha invitato il presidente della Camera, Roberto Fico, a far esaminare la proposta dal Parlamento e ha ricordato che persino Matteo Salvini aveva aderito alla campagna. Chi comunque, a differenza di Bonafede, è riuscito a districarsi tra i vari impegni e a presentarsi al congresso dei penalisti è il vicepresidente del Csm, David Ermini. Dopo aver partecipato, ieri mattina a Roma, a un seminario di Magistratura Indipendente, Ermini si è recato a Sorrento e nel suo indirizzo di saluto, dopo aver anch’egli espresso apprezzamento per la scelta del titolo del congresso, ha sottolineato i rischi del processo mediatico, “corollario inevitabile di un regime a vocazione populista”: “Il processo mediatico investe e compromette valori- presunzione di non colpevolezza, riservatezza, efficacia investigativa, serenità di giudizio, informazione- che sono in qualche modo paritari e costitutivi di uno stato democratico e di diritto. È evidente che in questa specie di ‘giustizia fai da tè si annida il rischio di interferire negativamente mettendo in gioco la stessa equità del processo e della pena. Non solo infatti viene travolto il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza- compromettendo onore, reputazione, dignità della persona- ma potenzialmente può suggestionare e condizionare i protagonisti del processo giudiziario, i testimoni e gli stessi magistrati”. La lentezza imbarazzante della nostra giustizia va abbattuta di Piero Tony Il Foglio, 21 ottobre 2018 Nel resto del mondo civile la giustizia si è aggiornata da anni rispetto alle nuove esigenze. In Italia siamo rimasti molto indietro. La situazione della giustizia pare tragica da anni, ciononostante si continua a fingere di non capire e con spudorata ipocrisia si continua a saltabeccare da un paradosso all’altro dribblando l’evidenza. E cioè la necessità di bandire le chiacchiere e dare una svolta radicale a un sistema che, parte centrale della struttura portante dello stato, da decenni tollera- con continuo rischio di rigetto- di essere considerato dalla comunità internazionale quasi come un interessante oggetto di antiquariato. Cosa fare nel dettaglio come primo passo? Magari succedesse: ispirazione culturale alla Calamandrei (“cercare di introdurre nella norma l’umanità e il rispetto”) con recupero dell’originario significato mediatorio dei conflitti; abbasso il magistrato tuttologo tuttofare e domestico; organizzazione di competenze, uffici e carriere secondo princìpi di accorpamento anche sovranazionale e di alta specializzazione; incremento degli organici innanzitutto amministrativi. Non si può continuare a fare finta di niente. Come se la lentezza per una risposta di giustizia (8 anni nel settore civile sembrano fatti apposta- lo si è detto anche all’ultimo incontro di Cernobbio- per respingere qualsiasi investimento, oltre 10 anni, se si calcolano anche i reati prescritti, nel settore penale) non fosse tale da equivalere sovente a una vera e propria inesistenza di giustizia. Come se l’enfatizzazione di misure cautelari e di prevenzione, l’”incontrollata discrezionalità processuale” rilevata dalla Corte europea (23.2.2017, De Tommaso), le carriere tuttora non separate etc. etc. - “peculiarità italiane” vengono ormai paternamente definite e denunciate dalla Cedu e dal resto del mondo, data l’abitudine- fossero tutte birichinate e non invece feroce diniego di giustizia e confisca di diritti compreso il diritto a un giusto processo. Faccio l’esempio dei meditati provvedimenti contro la corruzione. Ma non vi pare che sia davvero ipocrita fingere di non capire come nei reati contro la pubblica amministrazione a struttura bilaterale- due soli soggetti ovviamente in riservato tete à tete, chi paga e chi incassa- tipo corruzione, concussione, induzione indebita e simili, sia inimmaginabile un agente sotto copertura che non diventi necessariamente anche agente provocatore a meno che non si travesta da posacenere o lampadario? E non è ugualmente paradossale, in una situazione di giustizia paralizzata dall’ormai ingovernabile carico di pendenze, girare la testa dall’altra parte e mantenere quel divieto di reformatio in peius che in sostanza costringe moralmente imputato e difensore- se non lo facessero passerebbero per fessi e incoscienti- ad appellare in ogni caso e contro ogni evidenza, così incrementando il corteo senza speranza di procedimenti moribondi? E non è paradossale perseverare con la solfa dell’obbligatorietà dell’azione penale, scritta sulla Carta ma troppo spesso disattesa nella prassi quotidiana e utilizzata come alibi, per giustificare sia l’intasamento delle procure sia, ove necessario, interventi impropri o intempestivi? E non è ipocrita strizzare l’occhio a un codice tendenzialmente accusatorio, restando muti e distratti di fronte alla gravità sia di una sempre più manifesta centralità delle indagini di polizia sia di un dibattimento non raramente ridotto a rappresentazione teatrale su testo scritto dagli investigatori nella fase delle indagini? E cosa è se non paradossale il giocare alle tre scimmiette di fronte a uno scenario della giustizia che- con il passaggio dalla prova indiziaria a una prova scientifica sempre più sofisticata e complessa- sta cambiando nel mondo e non prepararsi per tempo ideando e istituendo almeno quelle sezioni giudiziarie specializzate e interdisciplinari che già prevede l’art. 102 della nostra Costituzione? Nel resto del mondo civile la giustizia si è aggiornata da anni rispetto alle nuove esigenze. Senza pretendere di eguagliare in lungimiranza la Germania- dove le scuole dell’obbligo addirittura usano preparare gli alunni in vista di occupazioni lavorative che per ora non esistono ma prevedibilmente esisteranno- occorrerebbe davvero darsi una mossa. Sarà sicuramente una casuale congiuntura ma negli Stati Uniti si posero il problema delle modalità di approccio del giudice alla prova scientifica fin dagli albori del secolo scorso (sentenze Frey del 1923 e Daubert del 1993) approdando ad alcuni principi cardine, consenso generale della comunità scientifica e criteri di rifermento a lettura interdisciplinare. E noi? Balza agli occhi che oggi la tradizionale logica induttivo-inferenziale animata da approssimative massime di esperienza indizianti (art. 192 cpp) è scolorito reperto da riporre in soffitta rispetto all’evidenza tecnica; che pertanto prima o dopo si potrà giudicare solo o soprattutto sulla base delle prove scientifiche disponibili (videografiche, medico-legali, genetiche, proiettive, digitali, neuro-scientifiche, balistiche, tabulato-centriche, informatiche, telematiche, tossicologiche, antropometrico facciali, telefoniche, e proiezioni algoritmiche); ma che- qui casca l’asino- notoriamente scienza e tecnica neanche lontanamente appartengono (né potrebbero appartenere) al sapere professionale del magistrato, che è solo e soltanto- almeno per ora- studioso specialista di diritto. D’altra parte la Corte di cassazione ha più volte stabilito (ex multis V, sent. 27.3.2015, n. 36.080) che la prova scientifica non può ambire a un credito incondizionato di autoreferenziale attendibilità, che il giudice deve porsi criticamente davanti alle prove scientifiche che gli vengono rappresentate… senza nessuna fideistica accettazione del contributo peritale perché il processo penale ripudia ogni idea di prova legale (pre-valutata dal legislatore). Il principio in astratto pare giusto e allo stato condivisibile; resta da chiedersi come il giudice possa fare tutto ciò e porsi criticamente davanti a linguaggi e discipline a lui estranei e comunicare in arabo senza conoscerlo e distinguere motivatamente tra coincidenza fortuita ed errore senza approfondimenti su dati statistici e loro elaborazione; dubbio che attanaglia sia rispetto all’osservazione diretta che a quella mediata da consulenti e periti che sempre in arabo saranno costretti a parlare. E allora cosa può pretendere la difesa delle parti oggi affinché- in attesa che ci si decida ad affrontare il problema o processualizzando gli accertamenti tecnici o specializzando il giudice come previsto dall’art. 102 della Costituzione - il libero convincimento non rischi di tramutarsi in libero arbitrio? Poco ma meglio di nulla: la massima dialettizzazione dei metodi scientifici e il rispetto formale: questo sì che può essere controllato anche da chi non conosce l’arabo dei protocolli scientifici “allo stato dell’arte”. Ma pare che il silenzio sia d’oro. Ma il massimo dell’ipocrisia è non denunciare che l’esiziale lentezza della giustizia è di fatto incompatibile con l’art. 27 della Costituzione laddove al terzo comma prevede che le pene debbano “tendere alla rieducazione del condannato”. Quindi pene previste non come punizione, non come contenimento di pericolosità, non come riequilibrio emotivo del contesto sociale, non come strumento di prevenzione primaria e secondaria, non come rivalsa per la vittima ma, solo o soprattutto, come emenda. Ossia correzione e miglioramento morale. Pena rieducativa che, potendo arrivare a esecuzione solo dopo sentenza definitiva (art. 27 della Costituzione), il più delle volte di fatto viene applicata- qualora il procedimento riesca a sopravvivere fortunosamente a prescrizione e accidenti vari- dopo un mucchio di anni dalla condotta deviante, quando l’autore del reato è persona diversa che può essersi ravveduto e reinserito per conto suo (soprattutto se delinquente occasionale) o può invece aver pericolosamente recidivato chissà quante volte. Brutto bandito, ieri hai rapinato la banca. Tra 20 anni ti spiegherò perché non dovevi farlo. Passano anni per arrivare all’udienza preliminare e sottolineo “preliminare”. Altri anni per concludere il dibattimento. E poi anni per appello e Cassazione. E altri mesi se non anni per il procedimento di esecuzione (artt. 655-676 cpp). Enzo Tortora scrisse in una bella lettera dal carcere a Francesca: “Con questo sistema giudiziario tutto può accadere a tutti”. E Giovanni Agnelli con il suo tono blasè amava ripetere: “Siamo davvero eccentrici, da noi si sconta la pena prima del processo e dopo si viene scarcerati, l’esatto contrario del resto del mondo”. Niente da fare, qualsiasi effetto della pena rieducativa non può decollare se non dopo la definitività della sentenza, cioè il suo passaggio in giudicato a conclusione di codesti numerosi anni. Come non bastasse, possono intervenire complicazioni eccezionali, le disfunzioni sono tali che non raramente pacchi di sentenze ormai definitive sono risultati giacere da anni negli armadi delle cancellerie per l’inadeguatezza degli addetti- non è dato capire se sottodimensionati o demotivati o incapaci ma sicuramente addetti fuori di qualsiasi controllo. Per altro verso- lo si segnala solo incidentalmente- in altri armadi sono rimasti a candire altri pacchi di provvedimenti con cui tribunali di sorveglianza avevano concesso la liberazione anticipata (art. 54 dell’Ordinamento penitenziario) e che, se eseguiti, avrebbero determinato la scarcerazione degli interessati. Che dire? Premessa lunga ma proporzionata alla monumentale ipocrisia della questione. “Individuato e fermato lo stupratore. È violentatore seriale già condannato in primo grado per reati della stessa indole ma dopo aver proposto appello era stato scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare”. Siccome fatti del genere avvengono sempre più frequentemente- la preoccupazione dello scrivente riguarda naturalmente non i reati bagatellari ma quelli di offensività grave e diretta contro la persona, quali sono ad esempio maltrattamenti intrafamiliari, atti persecutori, abusi sessuali, lesioni aggravate et similia - non pare del tutto superfluo un momento di riflessione. Perché uno degli effetti della maledetta lentezza è, non di rado, la corsa persa contro i tempi massimi della durata di custodia cautelare (artt. 303 ss cpp) e la conseguente necessità di scarcerare una persona potenzialmente pericolosa. Tutto perché la pena rieducativa è prevista dallo stranoto art. 27 della Costituzione solo per il “condannato” e non per l’”imputato”, e si può restare imputati per anni. Perché qualsiasi operatore di giustizia sa che anche secondo l’Ordinamento penitenziario il trattamento rieducativo è previsto solo per i condannati in via definitiva (artt. 1 ss L. 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni). E per esperienza professionale, finanche minima, sa che d’altronde non sarebbe neanche immaginabile programmare il trattamento previsto dall’ordinamento penitenziario mediante l’imprescindibile “alleanza rieducativa” (la “alleanza terapeutica”, in uso da molti anni nei paesi nordeuropei e anglosassoni per reati di ambito relazionale, da noi è ancora ipotesi di studio), nei confronti di un soggetto che, a tutti gli effetti presunto non colpevole, da un momento all’altro può tornare in libertà per cessazione delle esigenze cautelari e che in cuor suo vive solo e soltanto nella speranza di essere scarcerato il giorno dopo o comunque al più presto. È una delle ragioni per le quali da anni gli esperti ritengono che la custodia cautelare serva solo a “corrompere ulteriormente” e andrebbe limitata al massimo. Le ragioni di urgenza- per altri versi- non di rado vengono normativamente affrontate con risultati utili. Se c’è il sospetto che un bimbo o comunque un minorenne venga maltrattato in casa, il tribunale per i minorenni non aspetta di intervenire dopo tre gradi di giudizio ma, come è previsto da specifica normativa, lo toglie ai genitori e lo colloca in ambiente protetto, con provvedimento “di efficacia immediata” stante l’urgenza (art. 741 cpc). Naturalmente le parti potranno impugnare e coltivare i successivi stati e gradi di giudizio e ottenere riparazione se quel sospetto dovesse risultare infondato. Grave la limitazione della loro potestà ma ancora più grave il rischio per il prioritario interesse del minore. Ancora. È previsto in via generale che, qualora sia intervenuta sentenza di condanna penale di primo grado, si possa condannare l’imputato al pagamento di una provvisionale o alle restituzioni e al risarcimento del danno in via provvisoriamente e immediatamente esecutiva “quando ricorrono giustificati motivi” (artt. 539-540 cpp), naturalmente impregiudicato il diritto di impugnazione. Anche in tal caso è ravvisabile una pesante compressione di diritti personali in assenza di sentenza definitiva, ma ricorrono giustificati motivi. E il povero imputato che, data l’esasperante lentezza della giustizia, deve aspettare anni per essere rieducato? Con l’aggravante che nell’attesa permane il rischio per la povera vittima di trovarselo davanti, in caso di scadenza del tempo di custodia cautelare, senza che nessuno abbia nemmeno tentato di rieducarlo e di riportarlo a ragione e dunque pericoloso come prima se non più. “Orrore” diranno tutti, credendo di intuire dove voglia andare a parare. Non è così. L’unica certezza dello scrivente è che occorrerebbe discuterne per trovare il modo di uscire dall’assurdo. Al limite solo continuando ad annaspare in un mare di ipocrisie e paradossi alla ricerca di una boccata di ragionevolezza. Signor giudice: ma quale abuso, io l’ho messa al mondo e io per primo ho il diritto di adoperarla (sic) mazza e panelle fanno i figli belli panelle senza mazze fanno i figli pazzi, dovevo restare disonorato? Volevo educarla, io voglio bene a mia moglie, due schiaffi non hanno mai fatto male a nessuno, la trattavo da regina e mi voleva lasciare, la donna urla ma le piace, ma quali atti persecutori: voleva fare la puttana, l’ho chiusa a chiave in casa per proteggerla, carota e bastone diceva mia madre, mi ha infangato davanti a tutti, e così via. Credo fermamente che l’ignoranza sia madre di buona parte dei delitti e che chi li compie creda sempre di farla franca. Credo che- come non si stancava di ripetere anche Giovanni Falcone- un minimo di giustizia sociale e cultura e vicinanza siano il primo e irrinunciabile passo per combattere la criminalità e ricondurre a ragione il deviante, a meno che non si tratti di delinquente ormai incallito nel crimine da decenni. Sono convinto che spesso basti un vibrato ammonimento ingiuntivo, un segno di vita e di interesse da parte delle istituzioni per fermare comportamento tanto violenti da apparire a prima vista irrefrenabili. Ma non dopo 20 anni. Magari avessi il coraggio di augurarmi o proporre a chicchessia che, qualora 1) si tratti di gravi e diretti reati contro la persona quali maltrattamenti abusi sessuali atti persecutori lesioni aggravate, e in più2 ) l’imputato sia stato arrestato in flagranza o comunque fermato con misura precautelare e poi colpito da una confermativa misura di custodia cautelare in carcere, e in più poi 3) sia stato condannato in primo grado, non sarebbe irragionevole pensare di poter iniziare la sua rieducazione dichiarando provvisoriamente ed immediatamente esecutiva la sentenza di condanna detentiva di primo grado. Né sarebbe impossibile trovare il sistema di armonizzare la modifica con il contesto costituzionale, soprattutto quanto ai princìpi di offensività e ragionevolezza; e, perché no?, di difesa, in quanto muterebbe solo il titolo di restrizione ed in quanto la lentezza di giustizia è tale che troppo spesso vengono sforati i termini di custodia cautelare e si è costretti a scarcerare persone rimaste a candire pregiudizievolmente per anni (pardon!) in stato di abbandono. Naturalmente resterebbe fermala presunzione di sua non colpevolezza, il suo diritto di impugnare e, in caso di successiva ma improbabilissima assoluzione, di ottenere adeguato risarcimento. Volesse il cielo che se ne potesse discutere. Anche solo per sentirsi dire che tutto va bene, che basta e avanza la pena tardiva, che anticipare gli effetti della pena- seppure a fin di bene per tutti- vanificherebbe la presunzione di non colpevolezza nonché il diritto di impugnazione. Oppure per concludere che l’art. 27 andrebbe modificato con legge costituzionale nel senso che là dove è scritto “rieducazione” si deve leggere e intendere “occhio per occhio dente per dente”. Oppure che la lentezza va abbattuta in poco tempo e senza pietà mediante la mobilitazione degli Stati generali della giustizia, onerandoli anche della partecipazione ai programmi di lavoro. Tutto tranne che far finta di niente. I tanti casi Cucchi di cui non sappiamo nulla di Francesca Mandelli glistatigenerali.com, 21 ottobre 2018 “In sezione un detenuto non si massacra, si massacra sotto… Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto”. È il 2 novembre 2009 quando una conversazione tra due guardie penitenziarie del carcere di Castrogno (Teramo), registrata illegalmente, diventa un caso nazionale. Il caso, però, finirà con un’archiviazione per l’impossibilità di dimostrare il fatto, e anche per l’omertà registrata proprio nell’ambiente carcerario. Pochi giorni prima, il 22 ottobre, in un letto dell’Ospedale Pertini di Roma, muore Stefano Cucchi, mentre si trova sotto custodia cautelare. Grazie alla ferma determinazione della famiglia a far luce sull’accaduto, il suo caso è noto a tutti e ha portato al rinvio a giudizio di cinque carabinieri per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità. Uno degli imputati, nove anni dopo, durante il processo Cucchi bis, ha confessato il pestaggio accusando due colleghi. Il 24 ottobre ci sarà la prossima udienza per l’audizione di ulteriori testimoni. Ma quanti Stefano Cucchi ci sono in Italia? In quali condizioni vivono i detenuti, di cui un terzo sono in custodia cautelare, dunque in attesa di una sentenza definitiva? Giuseppe Uva, 43 anni, in custodia cautelare non c’è mai nemmeno arrivato. Il 14 giugno 2008 l’uomo viene fermato a Varese mentre con un amico sposta delle transenne nel quartiere di Biumo, dopo aver guardato una partita e bevuto del vino. Uva viene prima portato alla caserma dei carabinieri di via Saffi, poi finisce all’Ospedale di Circolo per un Trattamento sanitario obbligatorio. Nel frattempo, mentre si trovava anche lui in caserma, l’amico chiamava il 118, sussurrando: “Venite, stanno massacrando di botte un ragazzo”. Uva muore la mattina successiva in ospedale, dopo tre iniezioni, per un arresto cardiaco dovuto a una patologia di cui soffriva. Il caso giudiziario è controverso. Finisce il 31 maggio 2018 con i 2 carabinieri e i 6 poliziotti imputati assolti dall’accusa di omicidio e sequestro di persona con formula piena dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano. Ora resta la Cassazione. “Il punto di questa vicenda è anche che non c’è stato nessun titolo di trattenimento, non c’è stato un arresto, a Uva non è stato fatto alcun tipo di verbale”, spiega Valentina Calderone, direttrice dell’associazione A buon diritto. “Dalla Caserma nessuno ha contattato un pm e nessuno ha giustificato il trattenimento. Ci sono state più di due ore di totale vuoto di legalità che secondo la parte civile configurano un sequestro di persona”. I casi seguiti dall’associazione, che fa un lavoro di “accompagnamento istituzionale alle famiglie e advocacy”, in questi anni, dall’omicidio Aldrovandi in poi, non sono meno di cinquanta. Non esiste peraltro una statistica di casi come questi, gli elementi in gioco sono troppi: dove avviene il fatto, l’omertà dei coinvolti, la situazione personale della vittima, quali strumenti economici e culturali ha per poter affrontare un percorso che dopo la denuncia è faticosissimo. Un altro dei casi seguiti da A buon diritto è quello di Stefano Gugliotta, picchiato durante un fermo da parte di un agente in tenuta antisommossa avvenuto la sera del 5 maggio 2010, in occasione di una finale di Coppa Italia, a Roma. Il ragazzo, senza casco alla guida del motorino, stava andando con un amico ad una festa. Dopo il pestaggio viene prima trasferito in Questura, poi a Regina Coeli dove resta una settimana con le accuse di lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Stefano viene prosciolto grazie a un video girato col cellulare da un abitante del palazzo di fronte al luogo dell’accaduto. I medici refertano le ferite riportate dal giovane: lividi, lesioni alla testa, un dente rotto. Il risarcimento ammonta a 40mila euro. E i 9 agenti coinvolti sono stati condannati anche in Appello per lesioni gravi e falso, a seconda delle singole posizioni. La Casa Circondariale di Regina Coeli (Roma), quella in cui Gugliotta ha trascorso una settimana, è uno degli Istituti visitati da Antigone nel 2017. L’associazione ha visitato 86 delle 190 carceri presenti in giro per l’Italia e sono ormai vent’anni che si occupa di monitorare e verificare se i diritti dei detenuti vengono assicurati e ne rende conto in un Rapporto dettagliato, arrivato alla sua 14esima edizione. Gli Istituti oggi collaborano con più trasparenza. Regina Coeli ha un tasso di sovraffollamento del 156,1 per cento. E spesso proprio il problema del sovraffollamento nelle carceri dà il via a tutta una serie di problematiche (sanitarie, igieniche, trattamentali, educative) che abbassano la soglia di garanzia dei diritti dei detenuti. A Como, nel profondo nord, il tasso è del 200 per cento, a Taranto del 190 per cento. La crescita di quasi 2.000 detenuti nel corso dell’ultimo anno, che sono passati dai 56.289 del marzo 2017 ai 58.223 del marzo 2018 in alcune carceri ha reso la situazione sempre più invivibile e tesa. Il tasso di suicidi dietro le sbarre (numero dei morti ogni 10 mila persone) è salito dall’8,3 del 2008 al 9,1 del 2017: in numeri assoluti significa passare da 46 morti del 2008 a 52 morti del 2017. Le botte e la malasanità spesso possono incontrarsi. Il diritto alla salute, peraltro è centrale in regime penitenziario. La storia del Signor Felice (nome di fantasia) è forse la storia di molti. L’uomo affetto da gravi problemi cardiaci e di deambulazione non ha visite mediche garantite e neanche la possibilità di svolgere la fisioterapia di cui avrebbe bisogno e racconta episodi di violenza a cui avrebbe assistito nel precedente penitenziario e che hanno fortemente inciso sulla sua condizione psicologica e fisica. L’art. 1 della Legge sull’Ordinamento Penitenziario impone che il trattamento penitenziario debba essere conforme ad umanità e assicurare il rispetto della dignità della persona. Una disposizione che risulta essere violata ogni volta che le necessarie cure vengano negate o ritardate, e questo purtroppo succede, come testimoniano le diverse segnalazioni ricevute da Antigone, dai detenuti e dalle loro famiglie. La prima volta che Antigone si costituisce parte civile in un processo penale che vede imputati cinque agenti di polizia penitenziaria per violenze commesse a danno di due detenuti, Renne e Cirino, è il 27 ottobre del 2011. La Corte europea dei diritti dell’uomo, il 26 ottobre 2017, ha riconosciuto che Renne e Cirino furono vittime di torture e di trattamenti inumani e degradanti condannando lo Stato italiano a risarcire i due ex reclusi con 80 mila euro ciascuno. Da questa esperienza, Antigone, oltre ad offrire supporto, ha iniziato ad essere presente nei processi penali accanto alle persone detenute. “Dimostrare in udienza fatti come questi è sempre molto complicato” - spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio Antigone. “Lo era ancora di più quando non c’era il reato di tortura e i tempi di prescrizione erano piuttosto rapidi. Il reato introdotto non è quello che avevamo disegnato noi ma pensiamo sia comunque una risorsa importante”. Peraltro, il detenuto che denuncia una violenza o una negligenza è spesso esposto a rischio di ritorsioni. C’è poi un ulteriore elemento da tenere in considerazione. Le denunce che arrivano ad Antigone sono situazioni che si protraggono per tempo. “Anche se è sbagliato - spiega Scandurra - purtroppo dai detenuti un certo livello di violenza è tollerato. Ci dicono “Sono stato picchiato ingiustamente, in maniera sproporzionata”. Mai affermano “sono stato picchiato”“. Di azione punitiva di inaudita violenza parla Giuseppe Rotundo che il 13 gennaio 2011 riesce a far uscire una lettera dal carcere indirizzata al suo avvocato in cui denuncia di essere stato vittima di un pestaggio da parte di tre agenti di polizia penitenziaria. “Carissimo avvocato - scrive Rotundo - ciò che legge è sicuramente una sporca faccenda. La prego vivamente di provvedere ad inviare qui il più presto possibile un suo collaboratore (meglio se con la macchina fotografica) affinché possa documentare le mie condizioni di salute, sono stato ridotto in uno stato pietoso, il mio volto al momento in cui le scrivo è irriconoscibile, gambe e braccia sono contuse e gonfie, ho tutto il corpo dolorante e pieno di ematomi. Sono stato ridotto in questo stato da un gruppetto di agenti di custodia (…) Il medico interno si è limitato al minimo indispensabile, è comprensibile poiché sono coscienti che hanno commesso una vera e propria spedizione punitiva di inaudita violenza (…) n.b. Metto il mittente di altro detenuto poiché ho seri motivi per ritenere che col mio nome e cognome questa lettera non giungesse a destinazione cioè a lei”. Il processo si trova attualmente in fase dibattimentale davanti al Tribunale di Foggia e nasce da una riunione di due procedimenti in quanto anche i tre agenti di polizia hanno a loro volta denunciato di essere stati assaliti dal detenuto. La prossima udienza è fissata per il 25 ottobre 2018 e la prescrizione è oramai sempre più vicina. “Gli agenti dicono di averlo portato in una cella di isolamento in seguito ad un litigio verbale e che stava benissimo, tesi che però cozza con quanto detto da testimoni importanti, che confermano di averlo visto in quelle condizioni, quasi non riconoscendolo”, commenta Simona Filippi, legale di Antigone. “Inoltre, in carcere quello che denuncia in generale è l’infame. La cosa molta è molto seria, basti pensare al fatto che ci sono dei reparti specifici in cui stanno i detenuti che denunciano. Esistono ancora delle regole non scritte che tutti rispettano e che lo stesso Rotundo ha rispettato, denunciando superando quella soglia di tolleranza”. Il Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa alla fine dell’anno scorso ha reso pubblico il rapporto della sua visita compiuta in Italia ad aprile 2016. Il Cpt ha raccolto denunce di maltrattamenti, tra cui l’uso non necessario ed eccessivo della forza da parte di carabinieri, agenti di polizia, e di custodia, in praticamente tutte le strutture detentive visitate. Inoltre, secondo il Cpt, le persone in custodia cautelare non sempre beneficiano delle garanzie offerte dalla legge. “Oggi i detenuti sono più propensi a raccontare. Noi abbiamo avuto un aumento notevole delle segnalazioni in questi anni”- spiega Scandurra. Ma questo non vuol dire per forza che ci sia stato un aumento dei casi ma “che sembra più normale denunciare e lamentarsi”. Inoltre, l’istituzione del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute ha aiutato. E proprio il Garante dei detenuti di Lazio e Umbria, Stefano Anastasia, nel mese di agosto ha presentato un esposto alla Procura di Viterbo per la morte di un 21enne, Hassan Sharaf. Il detenuto avrebbe finito di scontare la pena il 9 settembre, all’interno del carcere punitivo di Viterbo, ma il 23 luglio scorso è stato trovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito da appena due ore. Entrato in coma, è morto il 30 luglio nell’ospedale locale di Belcolle. Suicida, secondo le autorità penitenziarie. Il terzo dall’inizio dell’anno. Il Garante, in occasione di una visita, avrebbe ascoltato quel ragazzo che aveva denunciato violenze e lesioni da parte degli agenti di Penitenziaria mostrandone i segni, tanto da chiederne un trasferimento mai arrivato. Secondo Anastasia sono almeno dieci i detenuti che hanno denunciato violenze subite in quell’Istituto. “Questo problema in Italia esiste”, conclude Scandurra. “Prova ne siano quei pochi casi che conosciamo e che generalmente riguardano abusi e violenze nei confronti di italiani, con una famiglia alle spalle. Di Stefano Cucchi ce ne sono tanti, di famiglie Cucchi purtroppo ce ne sono poche. Per ogni Stefano Cucchi ce ne sono molti che non riescono a ottenere quel livello di attenzione. Tra gli stranieri si può immaginare ce ne siano anche di più”. Quando la divisa perde la testa di Giovanni Tizian L’Espresso, 21 ottobre 2018 Botte. Stupri. Proiettili che partono con troppa facilità. E quasi sempre finisce che nessuno paga. Il 2001 è l’anno della macelleria messicana del G8 di Genova. La sospensione del diritto, come in una dittatura militare. Una vicenda che ha lasciato il segno nell’immaginario collettivo. E in quell’anno si consuma anche il delitto di Arce: una ragazza, Serena Mollicone, viene ritrovata cadavere dopo due giorni di ricerche. Un “cold case”, per molto tempo. Ora, grazie a una perizia del Reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri (Ris), è stato individuato il probabile luogo dell’omicidio della ragazza: la caserma del paese. Il massacro della scuola Diaz, le violenze e gli abusi subiti dai manifestanti, l’uccisione di Carlo Giuliani. E il presunto coinvolgimento di un militare nell’omicidio Mollicone. Ferite difficili da rimarginare sul corpo debole della nostra democrazia. Simbolo del cortocircuito che trasforma i paladini della sicurezza in carnefici è certamente Federico Aldrovandi. All’alba del 25 settembre 2005 Aldrovandi è disteso sull’asfalto della sua città, Ferrara, senza vita. Circondato dagli agenti di polizia, che lo avevano fermato poche ore prima. La perizia medica certifica la presenza sul corpo di Federico di 54 tra ecchimosi ed escoriazioni. Tornava da Bologna, una serata con gli amici. A 18 anni credeva di avere tutta la vita davanti. Senza sapere che l’incontro con un manipolo di uomini in divisa avrebbe segnato la sua fine. Aldrovandi, per la tenacia della madre Patrizia, ha ottenuto giustizia. Condannati in via definitiva quattro poliziotti, che in questi anni hanno sempre ricevuto attestati di solidarietà (anche da chi oggi è forza di governo) nonostante i processi e le accuse. Condannati a 3 anni, alla fine grazie all’indulto la pena si è ridotta a qualche mese. A guidare la mamma di Federico nella battaglia per la verità è stato l’avvocato Fabio Anselmo, ferrarese anche lui e da allora riferimento delle vittime delle violenze di Stato. Trascorrono solo quattro anni dalla morte di Aldrovandi e deflagra il caso Cucchi. E solo ora, dopo nove anni, si intravede all’orizzonte uno spiraglio di luce. Poi ci sono le vittime meno note, come Dino Budroni: un quarantenne romano ucciso da un colpo di pistola alla fine di un folle inseguimento nella notte tra il 29 e il 30 luglio 2011. Una volta fermata l’auto e bloccata dalle due volanti, il poliziotto Michele Paone ha sparato per colpire le gomme (si è difeso), ma i proiettili hanno ucciso Budroni. La corte d’Appello ha condannato l’agente a 8 mesi (ribaltando la sentenza di primo grado) per omicidio colposo: l’uso delle armi non era giustificato. E un agente dal grilletto facile ha ucciso Gabriele Sandri, il tifoso della Lazio colpito in un’area di sosta dell’autostrada dal poliziotto Luigi Spaccarotella. Inspiegabile l’uso delle armi, Spaccarotella è stato condannato a 9 anni dalla Cassazione per omicidio volontario. Nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014, invece, a Firenze muore Riccardo Magherini. Si spegne dopo un fermo dei carabinieri. In appello tre militari sono stati condannati con pene di 7 e 8 mesi. Si attende la Cassazione a novembre, con l’avvocato della famiglia Magherini che ha chiesto un inasprimento delle pene. Il 5 settembre dello stesso anno, a Napoli, quartiere Traiano, un carabiniere, Gianni Macchiarolo, uccide Davide Bifolco, 17 anni. I giudici hanno condannato Macchiarolo in primo grado a 4 anni, è stato un errore, non voleva uccidere. Pochi giorni fa la sentenza d’appello: la pena è stata ridotta a due anni, scatenando l’ira di amici e familiari presenti fuori dall’aula. Pestaggi, omicidi ma anche violenze sessuali. Ritorniamo a Firenze. Poche settimane fa, è stato condannato il carabiniere - già destituito in seguito all’indagine interna dell’Arma - Marco Camuffo. Per i giudici di primo grado è colpevole dello stupro delle due studentesse americane avvenuto tra la notte del 6 e 7 settembre 2017. Condannato, quindi, a 4 anni e 8 mesi. Una pena ridotta grazie alla scelta del rito abbreviato che prevede uno sconto di un terzo. Il collega coinvolto con Camuffo, Pietro Costa, ha invece scelto il rito ordinario, che ancora deve iniziare. Una storia pressoché sconosciuta è quella dei fratelli Tommaso e Nicolò De Michiel. Due ragazzi di Venezia con il papà poliziotto. Sempre di notte, questa volta tra l’1 e il 2 aprile, vengono fermati da una pattuglia di poliziotti, colleghi del papà, quindi. Un controllo di routine da cui nasce un battibecco. I due giovanissimi vengono picchiati. Per gli agenti le lesioni sono frutto di una caduta. Per i giudici non è così: “Non può ritenersi plausibile che una caduta produca lesioni in parti così disparate del corpo, mancando però lesioni alle ginocchia e ai palmi delle mani”. La corte ha condannato in primo grado gli agenti a pene di 3 anni, colpevoli di aver superato ogni limite consentito dalla legge. Condannato anche l’agente che, secondo i magistrati, ha sferrato un calcio nei testicoli a Tommaso durante le procedure di identificazione in Questura, luogo di Stato, simbolo della sicurezza. Chi si è salvato per miracolo, per esempio, è anche Paolo Scaroni, ultras del Brescia, manganellato violentemente durante una trasferta. Il tifoso si è svegliato dopo due mesi di coma. Ma ancora oggi paga le conseguenze. Una storia che Paolo Biondani raccontò sull’Espresso sette anni fa. Perché per molto tempo il pestaggio di Scaroni fu coperto da una serie di omissioni vergognose, un depistaggio per certi versi simile a quello messo in atto per il caso Cucchi. Grazie a una poliziotta coraggiosa l’indagine alla fine fu riaperta e si celebrò il processo. Tuttavia nessun agente fu condannato, i celerini avevano caschi e divise, non erano riconoscibili. Impossibile, dunque, identificare gli autori dei colpi fatali. Tuttavia la corte stabilì che il pestaggio fu gratuito e immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza. E il ministero ha dovuto risarcire Scaroni con 1,4 milioni di euro. Fortunato può dirsi anche Luca Fanesi, tifosissimo della Sambenedettese che il 5 febbraio scorso, al termine della partita con il Vicenza, è finito in corna un mese per le botte ricevute. Era inoffensivo, raccontano i testimoni. Ma í colpi di manganello non lo hanno risparmiato. Un caso che ora è in mano all’avvocato Anselmo. L’elenco delle vittime potrebbe proseguire con altri nomi e altri volti. Storie nelle quali, spesso, non c’è un colpevole. Caso Cucchi. La gerarchia della menzogna di Giovanni Tizian L’Espresso, 21 ottobre 2018 Chi ha coperto ì responsabili? Una nuova indagine punta a svelare la catena dì omertà tra gli alti gradi dei carabinieri. Manipolare per proteggere i colpevoli. Occultare e falsificare per garantire l’impunità a chi si è macchiato del pestaggio che ha portato alla morte di Stefano Cucchi. Documenti modificati. Registrazioni sparite e poi ricomparse. Depistaggi per insabbiare le indagini. Testimoni ridotti al silenzio. E militari promossi dopo i fatti. Chi ha protetto i carabinieri colpevoli delle violenze su Stefano Cucchi? Da chi è partito l’ordine di cambiare in corso d’opera le annotazioni sull’arresto del geometra romano? Interrogativi che agitano i vertici dell’Arma di allora e di oggi, nonostante il comandante generale Giovanni Nistri sostenga la linea dura nei confronti degli imputati e bolli come illazioni i sospetti sulle indebite pressioni ricevute dai testimoni chiave. Di certo chi sta provando a ricostruire la filiera di responsabilità è la procura di Roma. Tenterà di illuminare le zone d’ombra del caso Cucchi con l’inchiesta in corso sui responsabili delle manomissioni. L’indagine procede parallela al processo bis di primo grado sulla morte di Cucchi, che vede alla sbarra i cinque carabinieri coinvolti a vario titolo nel fermo avvenuto la notte del 15 ottobre 2009. Per tre di loro l’accusa è omicidio preterintenzionale. Nelle scorse settimane il processo è arrivato a una svolta decisiva, con la desecretazione dei verbali delle ammissioni di uno degli imputati. Si tratta di Francesco Tedesco. È lui che ha ricostruito gli eventi di quella notte accusando due suoi colleghi di avere picchiato Stefano Cucchi in caserma dopo l’arresto e la perquisizione a casa dei genitori. Un colpo di scena, certo. Che conferma, tuttavia, quanto denunciato da un altro militare non graduato, Riccardo Casamassima: “Mi disse di aver visto Cucchi la sera dell’arresto, e di aver constatato che era ridotto male a causa delle botte ricevute dai colleghi del comando Appia. Disse: non puoi capire come me l’hanno portato, era messo proprio male”. Queste parole sono scolpite in un verbale del 30 giugno 2015. La firma, appunto, è di Casamassima, che sulle pagine dell’Espresso parlò per la prima volta, denunciando l’isolamento e le pressioni subite dopo la denuncia. Casamassima, tra le altre cose, riferisce al pm Giovanni Musarò - titolare del fascicolo sulla morte di Cucchi - le confidenze del figlio, anch’egli carabiniere, dell’allora comandante della stazione Tor Vergata. Le rivelazioni di Casamassima aprirono un primo squarcio, che la testimonianza di Tedesco ha trasformato in una voragine sui segreti che imbarazzano l’Arma. Troppi ancora i nodi, infatti, da sbrogliare. Per esempio la scomparsa dei cd con le registrazioni delle comunicazioni con la sala operativa effettuate la notte dell’arresto. Erano depositati sia in corte d’Appello sía in corte d’Assise. Più che un danno, alla fine, si è rivelato una beffa, perché la procura ha richiesto, ottenendole, delle nuove copie. Un’altra questione da chiarire riguarda la telefonata al 118 quando Cucchi si trovava nella cella di sicurezza a Tor Sapienza. L’appuntato sentito al processo sostiene di essere stato solo in quegli istanti. Ma dalle registrazioni delle chiamate in sottofondo si sentono altre due voci. Possibile? E perché tanto mistero rispetto all’ipotetica presenza di altri due colleghi? Insomma, in questi nove anni di inchieste e processi c’è stata la presenza costante di una mano invisibile che ha fatto di tutto per rallentare o peggio annacquare le prove. Il caso Cucchi, intorbidito dalle menzogne da chi, invece, dovrebbe battersi per garantire la sicurezza e il rispetto delle leggi. Ma facciamo un passo indietro. Ripartiamo dal racconto di Tedesco. Uno schiaffo violento, in pieno volto. Poi un calcio, forte. La punta del piede che colpisce Stefano Cucchi all’altezza dell’ano. E una spinta che lo manda a tappeto sbattendo sul pavimento con il bacino e con la testa. Sul corpo esile e stremato si accaniscono con un altro calcio, questa volta in faccia. Dettagli di una notte di violenza apparentemente inspiegabile. Frammenti forniti da chi in quegli istanti ha assistito alla scena. Il carabiniere Tedesco è così diventato teste chiave dell’accusa nel processo in corso davanti alla corte d’Assise, che vede anche lui accusato di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità. Con le sue rivelazioni ha squarciato il muro di omertà che ha protetto per nove lunghi anni i militari coinvolti nel pestaggio del ragazzo fermato la notte del 15 ottobre 2009 in via Lemonia durante un controllo antidroga dalla pattuglia della caserma Appia. Nove anni di silenzi, insulti alla famiglia, false testimonianze e depistaggi. Già, perché l’aggressione, i calci, gli schiaffi, sono solo una parte della storia. È dopo la morte del ragazzo che inizia la sequela di azioni mirate a nascondere la verità. Una macchina che si è messa in moto per cambiare le tessere del puzzle e accompagnare le indagini verso una certa direzione, lontano dalle caserme dell’Arma dove, invece, si era consumato il delitto. Queste manovre di occultamento della verità sono confermate da Tedesco. Lo dice chiaramente al pm: “Quando dovevo essere sentito dal magistrato, il maresciallo Mandolini (imputato anche lui, ma di calunnia e falso ndr) non mi minacciò esplicitamente ma aveva un modo di fare che non mi faceva stare sereno. Mentre ci recavamo a piazzale Clodío (in procura ndr), io avevo capito che non potevo dire la verità e gli chiesi cosa avrei dovuto dire al pm anche perché era la prima volta che venivo sentito personalmente da un pm e lui rispose: “Tu gli devi dire che stava bene, quello che è successo, che stava bene, che non è successo niente... capisci a me, poi ci penso io, non ti preoccupare”: All’inizio avevo molta paura per la mia carriera temevo ritorsioni e sono rimasto zitto per anni, però successivamente sono stato sospeso e mi sono reso conto che il muro si sta sgretolando e diversi colleghi hanno iniziato a dire la verità”. In realtà Tedesco aveva capito molto tempo prima che gli sarebbe convenuto farsi i fatti suoi. “Fatti i caz... tuoi”, gli ripetevano i militati coinvolti. Ma lo aveva capito in particolare quel giorno in cui scoprì che la sua denuncia dettagliata sul pestaggio subito da Stefano Cucchi in caserma non era mai arrivata in procura. Scomparsa. Da quel giorno, quindi, capisce di essere esposto a rappresaglie. Sa di essere diventato un bersaglio. Così si chiude nel silenzio, per paura di perdere il posto di lavoro, per il quale ha fatto enormi sacrifici. Preferisce salvare la carriera alla giustizia di una famiglia distrutta dal dolore. Un silenzio che lo porterà a diventare prima indagato e poi imputato nel processo in corso. “Ero turbato per quello che avevo visto, ma sono stato anche peggio quando ho denunciato e non è successo nulla”. Non solo non è accaduto nulla, ma Tedesco ha avvertito anche ostilità nei suoi confronti. Si aspettava di essere convocato dal comandante, Roberto Mandolini, per fornire spiegazioni di quanto denunciato. Ma nessuno lo convocò. E non fu chiamato neppure dai vertici del comando provinciale, che dopo la morte di Cucchi invitarono tutti i militari che quella notte avevano avuto a che fare con l’arresto. Tedesco era in ferie, è vero, ma al suo rientro nessuno si fece sentire. Poteva chiarire molti punti oscuri della vicenda. Soprattutto poteva dare una mano ai vertici dell’Arma che avevano avviato un’indagine interna. Perché Tedesco venne escluso, dunque? Il testimone chiave del processo rivela un altro dettaglio: “In quei giorni assistetti personalmente alla telefonata fatta dal maresciallo Mandolini al comando stazione di Tor Sapienza, quando chiese al suo interlocutore di modificare le annotazioni redatte dai militari in servizio quella notte... Le annotazioni in effetti furono modificate, così come aveva richiesto. Si trattava di annotazioni che la catena gerarchica aveva richiesto nell’ambito di un’indagine interna avviata successivamente al decesso di Cucchi. Quella telefonata fatta da Mandolini in mia presenza io l’ho vissuta come una violenza, era come se volesse farmi capire che lui poteva fare quello che voleva e che il mio racconto non contava nulla. Del resto Mandolini si vantava di avere molte conoscenze sia all’interno dell’Arma sia nel Vaticano”. In un altro interrogatorio, Tedesco, ricorda un nuovo dettaglio. “Mandolini mi fece capire che se non mi fossi adattato a quella che lui definiva la linea dell’Arma sarei stato destituito”. Insomma, le ammissioni di Tedesco rimandano sempre a responsabilità ulteriori da cercare fuori dal gruppo di carabinieri che ha agito la notte dell’arresto. Responsabilità nella copertura di quel pestaggio. Solo ipotesi al momento, solo una serie di indizi raccolti dal pm Musarò nell’inchiesta in corso sui depistaggi. Tuttavia la testimonianza di due carabinieri durante il processo contribuisce ad alimentare i sospetti su complicità più alte in grado. Il 17 aprile scorso nell’aula della corte d’Assise sono saliti sul banco dei testimoni Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano. All’epoca entrambi in servizio nella caserma Tor Sapienza, dove Cucchi ha trascorso la notte nella cella di sicurezza dopo il fermo. I due appuntati, incalzati dalle domande del pm, ammettono di aver modificato su richiesta dei superiori due annotazioni relative all’arresto. In una, firmata da Di Sano, “le difficoltà a camminare” di Cucchi evidenziate nella prima nota diventano “malesseri dovuti alla rigidità della tavola del letto priva di materasso e cuscino”. E scompare la frase “veniva aiutato a salire le scale dal personale”. In un’altra firmata da Colicchio scompaiono dettagli rilevanti sulla condizione dell’arrestato. Naturalmente ai due appuntanti è stato chiesto di farlo, non avrebbero potuto farlo in autonomia. E anche questo lo ammettono. L’ordine è partito dai superiori. Fino a che punto della scala gerarchica? Questo aspetto si conosce solo in parte, e non è escluso che nelle prossime udienze emergano nuovi clamorosi elementi. Intanto nell’indagine sulle coperture di cui hanno goduto gli imputati ci sono quattro indagati, tra questi proprio Di Sano. Mentre sarà necessario attendere gennaio per ascoltare la testimonianza del generale Tomasone, che oggi guida il comando interregionale della Campania ma che all’epoca dei fatti era il comandante provinciale di Roma. Tomasone è nella lista testi dell’avvocato Fabio Anselmo, il legale di parte civile della famiglia Cucchi. Il nome di Tomasone ritorna nella deposizione dei due appuntanti. Hanno raccontato della convocazione, circa dieci giorni dopo la morte del geometra romano, al comando provinciale di tutti i militari coinvolti nella vicenda. A detta di Colicchio e di Di Sano erano presenti i comandanti delle stazioni dalle quali era passato Cucchi, il generale Tomasone e il colonnello Alessandro Casarsa, oggi comandante dei Corazzieri al Quirinale, che allora guidava la compagnia Casilina, tra le più importanti della Capitale con una competenza in un territorio dove vivono 800 mila persone. Più che una riunione, un incontro per sentire la versione dei fatti dei militari protagonisti dell’arresto di Cucchi. Di quell’incontro non c’è alcun verbale, niente di scritto. “Siccome non c’è niente di scritto vorremmo capire com’è andata... Avete subìto una specie di interrogatorio?”, ha chiesto il pm Musarò a Colicchio il 17 aprile scorso. “No, no, no... ci veniva chiesto cosa fosse successo”. Quelle audizioni venivano svolte nell’ambito della rapidissima indagine interna avviata dall’Arma, che non produsse alcun risultato. Ma la sensazione, rileggendo i verbali di interrogatorio, è che ora il summit con i generali e i colonnelli sia al centro di approfondimenti investigativi. Anche perché quattro mesi dopo accade qualcosa di davvero anomalo, scoperto solo nell’ultima inchiesta della procura di Roma. Si tratta di un documento “riparatore”: La firma è del duo Colicchio-Di Sano. È datato febbraio 2010, cioè 120 giorni dopo la morte di Cucchi. Gli appuntati scrivono che il ragazzo si è rifiutato di firmare il registro “riservato agli arrestati”. Un fatto che è smentito dallo stesso teste, che in aula ha spiegato: “Non ricordo chi mi chiese di scrivere quella annotazione, ma con me che il Cucchi si sia rifiutato di fare qualcosa assolutamente no”. Dunque anche questo documento presenta inesattezze, che messe insieme compongono la tela del depistaggio che ha portato al primo processo i cui imputati erano gli agenti della polizia penitenziaria, poi assolti dalle accuse. Francesco Di Sano successivamente è stato promosso. Si è guadagnato la fiducia dei vertici militari. Ha lasciato la caserma di Tor Sapienza qualche mese dopo aver redatto l’ultima relazione sul caso. Per una curiosa coincidenza è finito a fare l’autista del comandante provinciale, il generale Tomasone, che da lì a breve avrebbe salutato Roma per dirigere il comando regionale dell’Emilia Romagna. Non sono stati promossi, invece, i due carabinieri che hanno testimoniato. A Francesco Tedesco anzi è stato notificato un procedimento di Stato lo stesso giorno in cui si è presentato in procura per collaborare con il pm. Rischia la destituzione a causa del processo in cui è imputato. L’altro, Riccardo Casamassima, il primo a rompere il muro di silenzio, attraverso il suo legale sostiene di essere stato demansionato. Prima è stato trasferito nella stessa caserma del maresciallo che aveva accusato. E poi è stato messo a fare il piantone nella scuola di formazione. Un’umiliazione per uno “sbirro” di strada con alle spalle importanti sequestri di droga. Reggio Calabria: “allo Stato ho dato un figlio vivo e me l’ha restituito morto” di Angela Panzera lacnews24.it, 21 ottobre 2018 La madre e la sorella di Antonio Saladino deceduto lo scorso 18 marzo nel carcere Arghillà di Reggio Calabria attendono ancora che si faccia luce sul caso: “Della morte noi avvisati solo il giorno dopo da un prete”. Mamma Caterina ed Ermina, la sorella di Antonino Saladino da 8 mesi aspettano di sapere perché il loro caro è morto. Il 31enne è deceduto la sera del 18 marzo scorso al carcere reggino di “Arghillà”. La procura ha disposto l’autopsia ma, ancora le due donne attendono le risultanze del medico legale. “Io non so cosa sia successo-dice la madre alla nostra testata - so solo che allo Stato ho dato un figlio vivo e me l’ha restituito morto”. Da giorni Antonino stava male e la sorella si chiede ancora oggi perché l’istituto penitenziario non abbia richiesto prima l’intervento dell’ambulanza. “Mio fratello da circa un mese non stava bene, aveva sempre la febbre. Quel giorno in particolare- afferma Erminia- vomitava anche. Ora io mi chiedo: “Ma se stava male fin dal mattino perché solo la sera tardi hanno richiesto l’intervento del 118? Non potevano richiederlo prima?”. Quando i sanitari del 118 infatti, giungeranno presso il carcere reggino non potranno fare altro che constatare il decesso. Antonino era la colonna portante di questa famiglia. Dalla morte del padre aveva iniziato a lavorare come imbianchino. È finito in carcere per droga ma, il processo ancora doveva iniziare. “Mio figlio- ci dice Caterina Amaddeo - non era un delinquente. Era in attesa del processo quindi ancora non era stata stabilita un’eventuale colpevolezza. Nino era un ragazzo gentile. Si era sobbarcato sulle proprie spalle il peso di una famiglia. Oltre che per me, provvedeva per mia figlia e mio nipote. A Santa Caterina (quartiere reggino ndr) lo conoscevano tutti ed era stimato”. Con la sua morte tutto è andato in pezzi ed Erminia e Caterina riusciranno ad andare avanti solo se lo stato gli fornirà le giuste risposte. “Provo tanta rabbia- dichiara Erminia - mio fratello, se si fossero attivati prima, poteva essere salvato. Non so di chi siano le responsabilità ma, se c’è un colpevole deve pagare. La magistratura ci dica come è morto. Vogliamo sapere solo questo. Secondo me - continua la giovane- non hanno capito la situazione. Si sono limitati a somministrare farmaci generici. Potevano e dovevano fare analisi. Indagare insomma, sulle sue condizioni”. “Avvisati solo il giorno dopo dal prete” - Ci sono tante circostanze ancora poco chiare. Una su cui, da ben otto mesi, si interrogano le due donne è il perché l’istituto penitenziario non abbia comunicato subito alla famiglia del peggioramento dello stato di salute del giovane e poi anche perché l’amministrazione penitenziaria non abbia provveduto a comunicare il decesso in tempi rapidi ma, solo il giorno dopo. “Quella sera - racconta Erminia Saladino - hanno fatto solo una telefonata a mia madre, intorno all’una di notte, che purtroppo non ha risposto vista l’ora e poi non hanno più richiamato. Solo il giorno dopo un prete è venuto ad avvisare e non l’ha detto neanche a noi direttamente ma, ad alcuni familiari perché quella mattina sia io che mia madre non eravamo in casa”. Vista la situazione particolarmente delicata l’istituto penitenziario avrebbe dovuto fare di tutto per comunicare tempestivamente il decesso di Antonino Saladino. “Non è modo questo di comunicare una morte. Dovevano rintracciarci - incalza la sorella - durante la notte e dovevano avvisarci prima e no quando non c’era più nulla da fare”. Erminia e Caterina infatti, non hanno potuto neanche salutare il loro congiunto. “Sono distrutta- afferma la signora Caterina Amaddeo. Non auguro a nessuna mamma di passare quello che ho subito io. I detenuti non sono persone di serie B. C’è chi ha sbagliato sicuramente ma lo Stato non può lasciarli morire così. Noi siamo stati completamente abbandonati”. Oltre a loro Antonino ha lasciato il nipote Natale, per lui in carcere aveva costruito una barca in legno che la famiglia custodisce gelosamente. Il piccolo però, non sa che lo zio non c’è più. “Per mio figlio, Antonino - afferma Erminia - era come un padre. Stravedevano l’uno per l’altro. Ancora oggi non ho il coraggio di dirgli che è morto”. Una vita andata via troppo presto quella del 31enne reggino. Un vuoto che difficilmente riuscirà a colmarsi. Solo la verità e il senso di giustizia potrà aiutare le due donne a continuare a sperare per il loro futuro. “Niente è più lo stesso senza mio fratello, l’unica cosa che mi rimane da fare è lottare per sapere cosa gli è successo”, conclude tra le lacrime la sorella Erminia. Busto Arsizio: il direttore del carcere “il Garante Tosi parli di più coi detenuti” di Orlando Mastrillo varesenews.it, 21 ottobre 2018 Orazio Sorrentini replica allo sfogo del garante comunale dei detenuti che ha denunciato lo scarso interesse alle sue proposte: “Segua i consigli del suo predecessore”. “Le proposte del garante comunale dei detenuti sono ben accette ma il suo ruolo primario è quello di parlare coi detenuti”. Orazio Sorrentini, direttore della casa circondariale di Busto Arsizio, prova a replicare al lungo e tutto sommato motivato elenco di cose che non vanno nel carcere presentato da Matteo Tosi nei giorni scorsi. “Capisco la reazione e molte delle cose che ha detto sono corrette - prosegue Sorrentini - ma questo non impedisce a Tosi di essere più presente tra le mura della struttura. Il suo ruolo è quello di verificare le condizioni dei detenuti e fare da tramite con l’esterno per le loro esigenze. Questa settimana è entrato tre volte, per un’ora una volta e per 30 minuti la seconda. Poi ieri (giovedì) è entrato per la terza volta ed è rimasto 3 ore, in un orario perfetto per i detenuti e cioè dopo le 17, quando terminano le attività e c’è più bisogno di una persona con cui parlare”. Sorrentini non vuole fare polemica: “Non voglio assolutamente entrare in polemica con Tosi - spiega - e sono in sintonia con lui sui problemi interni, a partire dalla situazione dell’area trattamentale che è esattamente come lui l’ha dipinta, e riguardo al sovraffollamento che, però, sappiamo essere un problema annoso e che non è possibile risolvere in tempi brevi, sempre nel rispetto dei 3 mq per detenuto previsto dalla sentenza Torregiani. Non posso parlare dei problemi che ha sollevato in merito al rapporto con l’amministrazione comunale”. Sorrentini sa benissimo che “la questione sollevata da Tosi è la stessa che aveva portato avanti il suo predecessore Luca Cirigliano, che so essergli vicino in questo momento con i giusti consigli proprio per l’importante esperienza che ha maturato e che lo ha fatto apprezzare sia qui che in Comune”. Per quanto riguarda le iniziative promosse da Tosi, Sorrentini parla di una sola bocciatura: “Avevamo respinto la richiesta di visione di un film, su proposta del Partito Radicale, che abbiamo giudicato troppo pro-detenuti ma i vari incontri culturali che ha proposto non trovano nessuna controindicazione”. Sala Consilina (Sa): il Dap contrario alla riapertura del carcere stiletv.it, 21 ottobre 2018 “Questo carcere non deve riaprire”: è in sintesi questa la posizione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sul Carcere di Sala Consilina. Un muro invalicabile quello del Dap, rimasto immutato dopo i tre incontri svoltosi a Roma presso il Ministero della Giustizia, e nonostante le istanze presentare a più riprese dal Comune di Sala Consilina, rappresentato da sindaco Francesco Cavallone, dall’Ordine degli Avvocati di Lagonegro, rappresentato dal presidente Gherardo Cappelli, dal Senatore Franco Castiello e dal Deputato Cosimo Adelizzi. Non è dunque bastato l’impegno da parte del Comune di Sala Consilina ad effettuare a proprie spese i lavori di ristrutturazione ed ampliamento del Carcere salese, portandolo a 51 posti, per convincere il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a rivedere la propria posizione. Non solo le ragioni di un territorio, ma anche importanti principi e diritti sanciti dalla Costituzione Italiana si sono ancora una volta infranti sul muro alzato dai tecnici e dai dirigenti del Dap, che hanno dato l’impressione di non prendere in alcuna considerazione la loro controparte nella Conferenza di Servizi sul Carcere imposta dal Consiglio di Stato. Nessun interesse nemmeno per la “ragionevole” proposta del deputato del M5S Cosimo Adelizzi: ampliare il Carcere di Sala Consilina con i fondi individuati dal Comune, e poi utilizzarlo quantomeno fino alla individuazione e alla messa a disposizione di un nuovo Istituto Penitenziario al servizio del Tribunale di Lagonegro. “Siamo stati presi soltanto in giro”: questo in sostanza il succo della conferenza stampa congiunta tenuta nell’aula consiliare del Comune di Sala Consilina dal Sindaco Francesco Cavallone e dal Senatore del M5S Franco Castiello, che hanno comunque annunciato che la battaglia continuerà nelle sedi opportune: in Parlamento e davanti ai Giudici. Perché nonostante l’ennesima entrata a gamba tesa dalla parte “burocratica” del Dap - è stato evidenziato nella conferenza stampa- adesso resta da vedere cosa faranno la parte politica ed il “Governo del Popolo”, ed in ultima istanza come valuteranno quanto accaduto i Giudici. “Ci aspettavamo - ha raccontato il sindaco Francesco Cavallone - l’inizio di un dialogo sull’ipotesi di ampliamento del Carcere, con un sopralluogo sul posto per ulteriori verifiche da parte del Dap. Invece non appena ci siamo seduti, il Direttore Generale dottor Pietro Buffa ci ha informati che non era possibile accogliere la nostra proposta. Mi sono sentito gabbato e preso in giro non solo nella mia funzione istituzionale ma anche come persona. Ci è stato detto che l’ampliamento a 51 posti era antieconomico per la gestione degli Agenti di Polizia Penitenziaria, adducendo ora addirittura un minimo di 400 posti. Su Tribunale e Carcere di Sala Consilina - ha attaccato il Primo Cittadino - il Ministero della Giustizia ha fatto un errore dopo l’altro, non so se per incompetenza o malafede. Mi vergogno come cittadino Italiano di essere sottoposto a questa dittatura della Burocrazia: in ogni caso noi andremo avanti con la nostra lotta in ambito politico e giudiziario, guardano negli occhi quelli che si sono rivelati essere non degli avversari ma dei veri e propri nemici. Continueremo la nostra battaglia, condotta insieme con il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro Gherardo Cappelli e con affianco il Senatore Franco Castiello, che si è speso in modo esemplare per il territorio”. “Il problema che stiamo affrontando - ha sottolineato il Senatore Franco Castiello - riguarda il rapporto tra Politica e Burocrazia, è molto grave e va al di là dello specifico caso del Carcere di Sala Consilina. Si tratta di capire se debbano prevalere i preconcetti della Burocrazia o debba prevalere la considerazione e la valutazione dell’interesse pubblico affidato alla mediazione politica. La Burocrazia non ha base elettiva ed investitura popolare, mentre i politici sono invece passati attraverso il vaglio del voto dei cittadini: ecco perché la Politica deve prevalere sulla Burocrazia. Io personalmente - ha assicurato il Senatore del M5S - presenterò una petizione presso il Ministro Buonafede pregandolo di intervenire su questa Burocrazia per ammansirla ed indurla a ragionevolezza, e se questo non sarà sufficiente farà una interpellanza al Senato. Se nemmeno questa strada dovesse sortire effetti, infine, proseguiremo con decisione davanti ai Giudici”. Verona: 50 anni de “La Fraternità”, cena speciale con i detenuti, il vescovo Zenti e l’imam di Angiola Petronio Corriere Veneto, 21 ottobre 2018 “Non è vero che oggi si commettono più reati. Oggi c’è solo più comunicazione, più sensazionalismo. Si dà notizia di un detenuto che evade dal permesso premio, o che fa una rapina durante la semilibertà, ma non si parla mai di quei tantissimi che rigano dritto, che tentano realmente di cambiare”. Fra Beppe disse queste parole dieci anni fa. Le ha ripetute l’altra sera. Perché il tempo che passa non sempre è sinonimo di cambiamento, nei pregiudizi. Era con altre cinquanta persone in carcere a Montorio. Perché non poteva che essere tra quei muri di contenimento ed espiazione intrisi di una umanità caleidoscopica, che “La Fraternità” festeggiasse i suoi cinquant’anni. Quell’associazione che ha come mantra “Liberi per liberare” e che Fra Beppe ha fatto nascere mezzo secolo fa su suggerimento di alcuni ergastolani di Porto Azzurro “per il sostegno morale ai detenuti e alle loro famiglie, per accompagnare i percorsi di recupero e riparazione, per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sul significato della pena e sui problemi del carcere”. E l’altra sera i volontari de La Fraternità in galera ci sono entrati per ricordare quei cinquant’anni. C’era il vescovo, che li ha benedetti. C’era un imam tunisino e il portavoce della comunità islamica di Verona Mohamed Guerfi. C’era il cappellano di Montorio, frate Angelo. C’era il direttore del centro pastorale migranti, don Giuseppe Mirandola. Perché “La Fraternità”, che nel nome ricalca l’insegnamento di San Francesco, è di ispirazione cattolica. Ma in cinquant’anni, a furia di entrare da quelle porte che ti si chiudono alle spalle, ha imparato ad aprire. Alle altre fedi, agli uomini e alle donne senza giudicarli, ma accompagnandoli nel percorso dettato per loro dalle legge. In undici di quei reclusi l’altra sera hanno preparato la cena per i volontari de La Fraternità. Sono i detenuti che frequentano la sezione di Montorio della scuola alberghiera Berti. Si è cenato nella sala “ricreativa”, quella che ha le pareti dipinte a metà e che funge da “palestra” con pochi tapis roulant e qualche panca. Hanno spignattato al piano superiore, quegli undici aspiranti cuochi. E a tavola i piatti li portavano i ragazzi che il Berti lo frequentano nella sede del Chievo. Sono un esempio di quelli di cui “non si parla mai”, quegli undici. “I volontari della Fraternità sono qualcosa di più di un appoggio - hanno raccontato dopo la cena. È una realtà sulla quale non solo noi ma anche le nostre famiglie possiamo contare. Magari non li frequenti per un po’, ma sai che ci sono sempre. È come fanno i migliori amici”. Fanno di tutto e di più, i volontari de La Fraternità in carcere a Montorio. Dal centro d’ascolto ai colloqui di primo ingresso, dall’aiuto nella ricerca di un lavoro agli incontri di sostegno per i familiari, tengono una corrispondenza epistolare con detenuti in tutta Italia, producono libri. La loro sede è a San Berardino, il convento di Fra Beppe. Tra di loro ci sono persone che fanno i volontari da più di quarant’anni, come il presidente Roberto Sandrini. E ci sono detenuti che una volta espiata la pena hanno deciso di aiutare chi non ha ancora finito il cammino. La storia della Fraternità, i suoi cinquant’anni, sono anche una mostra aperta oggi e poi da giovedì a domenica nel chiostro di San Berardino in cui si raccontano, con foto e pannelli i tantissimi atti “disarmanti e controcorrente” dei volontari. Quelli che hanno capito come “gli uomini malvagi esistono, ma i disperati esistono in numero maggiore. E sono loro ad affollare le nostre galere”. Ascoli Piceno: il vescovo D’Ercole chiede rispetto per i detenuti farodiroma.it, 21 ottobre 2018 “Il carcere va abolito, in quanto elemento di una società che va ripensata totalmente. Il carcere funziona solo se la società funziona aiutando i deboli: rischiamo altrimenti di caricare su di loro le colpe di tutti”. Sono parole molto forti quelle pronunciate dal vescovo Giovanni D’Ercole, già cappellano del carcere minorile di Roma, Casal del Marmo, alla casa circondariale di Ascoli Piceno in occasione della seconda tappa del “Meeting nazionale dei giornalisti cattolici e non” sul tema “Giornalismo di Pace - La verità oltre le sbarre”. Per monsignor D’Ercole il carcere va ripensato e questo cambiamento è il punto di arrivo di un percorso inserito nel “Dna della giustizia” e che passa per lo sviluppo delle misure alternative che al di là di eventi limitati hanno dimostrato di funzionare. Il vescovo di Ascoli ha detto inoltre “no agli avvisi di garanzia in pasto ad una stampa affamata di notizie che rovinano le persone, no allo sbattere il mostro in prima pagina, si è innocenti fino al terzo grado di giudizio”. “Ci sono uomini dietro quelle sbarre che prima di tutto sono persone”, ha ricordato anche il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, che dalle pagine del quotidiano della Cei che entra in 7500 copie nelle carceri italiane, prova a fare una informazione diversa, più sensibile senza mai dimenticare però le notizie. “La verità oltre le sbarre sta nel fatto che ci sono persone, uomini e donne, e scrivere di loro significa coinvolgere anche i loro familiari all’esterno. Nel nostro paese oltre alla certezza della pena, serve anche una certezza delle regole per tutta la società civile”. Secondo Tarquinio, “fare il giornalista dovrebbe significare guardare le persone faccia a faccia. Non bisogna mai dimenticare che a una verità giudiziaria si abbina la vita delle persone. noi siamo le nostre relazioni, anche se il nostro è un mestiere un po’ cinico non possiamo dimenticarlo. Parlare dentro un carcere non può farci dimenticare che i Italia ancora abbiamo l’ergastolo. In altri Paesi hanno il massimo di pena, ad esempio 22 anni, magari ripetibile. Ma c’è un obiettivo di fine che spinge il detenuto a cercare di cambiare”. All’incontro - organizzato da don Giampiero Cinelli, parroco giornalista - hanno preso parte anche Andrea Domaschio di InBlu Radio, Giovanni Trudente dell’Università S. Croce, il giornalista Francesco Zanotti del Corriere Cesenate e direttrice della casa circondariale, Lucia Di Feliciantonio. “Troppo spesso quando leggiamo i giornali troviamo allusione, noi vorremmo invece leggere la verità. Questo vi chiediamo per farci sentire parte a tutti gli effetti della vita fuori da queste mura da cui ognuno di noi vuole uscire seguendo i percorsi che abbiamo a disposizione”, hanno detto tre detenuti che hanno portato la loro testimonianza denunciando che “in troppi muoiono per colpa di una giustizia lenta, per i tempi così dilatati che se anche dovessero uscire dal carcere le persone sono già morte e soprattutto restano condannate”. “Il carcere è un elemento possibile solo in un mondo in cui giustizia e società sono realtà che funzionano. Non è il nostro caso, per cui - ha concluso monsignor D’Ercole - chiudiamolo e ripensiamo la giustizia”. Ascoli Piceno: “Una comunità in movimento”, calcio, palestra e yoga nel carcere cronachepicene.it, 21 ottobre 2018 Torna il progetto del Comitato provinciale dell’Unione Sportiva Acli, finalizzato alla promozione della pratica sportiva all’interno degli istituti penitenziari, in collaborazione con l’associazione di volontariato “Delta”. Anche nel 2018 nel carcere ascolano di Marino del Tronto si materializza il progetto “Una comunità in movimento”, realizzato dal comitato provinciale di Ascoli dell’Unione Sportiva Acli. L’iniziativa, già svolta nel 2017 e finalizzata alla promozione della pratica sportiva all’interno degli istituti penitenziari, è realizzata grazie alla collaborazione con l’associazione di volontariato “Delta”. Si tratta di una iniziativa per i detenuti attivata grazie al protocollo d’intesa nazionale tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’Unione Sportiva Acli nazionale. Di conseguenza è stato avviato un rapporto di collaborazione locale grazie al quale è stato concordato un programma di attività sportive come calcio, palestra e, dalle prossime settimane, anche yoga. “Il progetto - spiega Giulio Lucidi, vice presidente provinciale U.S. Acli - è promuovere la pratica sportiva all’interno del carcere nella consapevolezza del significativo ruolo svolto dallo sport per la promozione del benessere psico-fisico dei detenuti e per l’educazione a corretti stili di vita, favorendo forme di aggregazione sociale e di positivi modelli relazionali di sostegno al percorso di reinserimento”. Pescara: tavola rotonda “Giustizia Riparativa, per un’etica ricostruttiva dei legami sociali” abruzzoquotidiano.it, 21 ottobre 2018 A Pescara, martedì 23 ottobre, dalle ore 9 alle ore 12,30, presso la Sala Consiliare del Comune di Pescara, si terrà una Tavola Rotonda dal titolo “Giustizia, Riparazione, Perdono la Giustizia Riparativa per un’etica ricostruttiva dei legami sociali”. Parteciperanno alla discussione: la Dott.ssa Cecilia Angrisano, Presidente del Tribunale per i Minorenni dell’Abruzzo; la Dott.ssa Francesca Genzano, Responsabile del Centro di Mediazione Penale e Giustizia Riparativa di Studio Iris; la Dott.ssa Jacqueline Morineau, ideatrice della Mediazione Umanistica e formatrice; il Dott. Franco Pettinelli, Direttore della Casa Circondariale di Pescara; la Professoressa Ermenegilda Scardaccione, Professore Associato presso l’Università Gabriele D’Annunzio, criminologa ed autrice di volumi sul tema oggetto dei lavori. L’incontro si rivolge ai rappresentanti delle istituzioni e degli enti territoriali, alle associazioni, agli operatori sanitari e del sociale, agli avvocati, agli psicologi e alla cittadinanza tutta e si prefigge di sensibilizzare ai temi della Giustizia Riparativa come strumento di valorizzazione delle istanze della vittima di reato, di trasformazione della persona che ne è autore e dell’importanza della comunità in questo processo. La Giustizia Riparativa, infatti, presuppone assenza di pregiudizio e accoglienza, disponibilità all’ascolto dell’altro, volontà di ricostruire e risanare, rappresentando così un nuovo paradigma delle relazioni all’interno della società. Firenze: “Non me la racconti giusta” porta l’arte nel carcere di Sollicciano informazioneindipendente.com, 21 ottobre 2018 Dopo aver varcato la soglia della Casa circondariale di Ariano Irpino (Av), della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi (Av) e, infine, della Casa circondariale di Rimini, dal 22 al 27 ottobre il gruppo di “Non me la racconti giusta” riparte con una nuova avventura, questa volta nella Casa circondariale di Firenze Sollicciano. Non me la racconti giusta è un progetto che porta l’arte pubblica all’interno delle carceri italiane, è promosso da ziguline, magazine di arte e cultura contemporanea, curato dagli artisti Collettivo Fx e Nemo’s e documentato dal fotografo e videomaker Antonio Sena. Come per le precedenti esperienze, l’obiettivo del progetto resta quello di accendere una discussione sul ruolo del carcere oggi in Italia e sul tema della reclusione con tutte le problematiche che le girano intorno. Argomento importante, perché nonostante sia percepita come scomoda e lontana dalla propria quotidianità, quella del carcere è una realtà che ci riguarda tutti socialmente ed economicamente. Con questo laboratorio, cerchiamo di aprire una finestra che metta in comunicazione l’ambiente carcerario con l’esterno, alimentando la discussione su giustizia e carcere. Lo facciamo mostrando quello che succede all’interno delle mura attraverso un progetto culturale che contempla anche un intento educativo, in quanto i detenuti non sono solo meri fruitori, ma veri e propri project manager, responsabili dell’intero processo creativo. L’arte urbana è un mezzo perfetto che facilita l’abbattimento delle barriere e ci permette di lavorare gomito a gomito, osservando più da vicino le stratificazioni che compongono la vita di un detenuto e quelle che riguardano la realtà carceraria. Il modus operandi prevede la creazione di un tavolo di lavoro sul quale Nemo’s e Collettivo Fx pongono i temi da sviluppare insieme ai detenuti e, una volta individuati i principali argomenti da inserire nell’opera finale, si passa all’azione. I detenuti sono responsabili dall’inizio alla fine e questo rappresenta un superamento dell’approccio insegnante-alunno e una fonte di motivazione che gli consente di essere parte attiva di un progetto culturale che lascia un segno sulle pareti del carcere a conferma di un impegno condiviso e, si spera, duraturo e di grande valore per tutti. Attualmente il carcere è un argomento relegato ai margini del dibattito sociale e il fine ultimo di Non me la racconti giusta è coinvolgere attivamente l’opinione pubblica per superare i pregiudizi e capire insieme come questo luogo-non-luogo possa assolvere alla sua funzione riabilitativa e non meramente punitiva. Sostenitori - “Non me la racconti giusta” è stato permesso grazie alla disponibilità di Raffaella Ganci che ci ha supportato nell’organizzazione, della Casa circondariale di Firenze Sollicciano, in particolare del Direttore Fabio Prestopino e del responsabile educativo Gianfranco Politi, e del Ministero della Giustizia. Un ringraziamento speciale va a Mino Sebastiano per l’immagine grafica. Chi siamo Collettivo Fx- Collettivo Fx si dedica da numerosi anni a progetti di coinvolgimento sociale, alla valorizzazione della memoria collettiva e alla denuncia di problematiche che riguardano la nostra società. Ha esperienza con progetti all’interno del carcere con corsi di disegno con i detenuti della Casa Circondariale di Reggio Emilia e nel 2016 con la realizzazione di un murales all’interno della Casa circondariale di Ragusa. Nemo’s - Artista attivo da diversi anni nell’arte urbana e con laboratori artistici dedicati a bambini e ragazzi. La denuncia sociale e un ritratto delle ansie e le paure che caratterizzano la nostra società, sono al centro del suo lavoro. Nemo’s ha già avuto esperienze all’interno delle carceri con corsi di disegno in collaborazione con i detenuti. Ziguline - Magazine di arte e cultura contemporanea, attivo dal 2007, documenta l’arte, la musica, la fotografia e altri argomenti di carattere culturale. Sviluppa, inoltre, progetti di arte pubblica e fotografia in collaborazione con altre realtà. Antonio Sena - Fotografo per Esse Studio, fotoreporter per Ziguline, direttore artistico del festival di arte urbana Bag Out e membro del Collettivo Boca. Viaggia in tutta Europa per documentare eventi e iniziative legate all’arte urbana. Maria Caro - Direttore editoriale del magazine Ziguline ed esperta di comunicazione. Lavora da anni nel campo del giornalismo, della comunicazione e dei media, è coinvolta in vari progetti culturali sul territorio campano. Verbania: nel carcere “Il colore del riscatto” porta l’arte tra i detenuti di Beatrice Archesso La Stampa, 21 ottobre 2018 Conclusa la prima parte del progetto, nei prossimi mesi ci sarà una mostra. “Il colore del riscatto: non solo fotografia” è un’occasione per migliorare la propria vita dietro le sbarre. Il progetto ha stimolato la creatività dei detenuti del carcere di Verbania, vedendo in manualità ed estro lo strumento per esternare emozioni, sentimenti e anche la voglia di ripartire. Nell’istituto di pena di Pallanza è stata una mostra a chiudere il progetto promosso da Giulia Meloni, Tonino Zanfardino e Cristina Rossi dell’associazione Camminare insieme, che opera all’interno del penitenziario. All’iniziativa hanno preso parte una ventina di detenuti, a ciascuno dei quali è stato consegnato il diploma di partecipazione. Aderire per i detenuti è significato impegnare il tempo in modo costruttivo, comunicare agli altri le emozioni, mettere in campo le abilità: hanno infatti potuto scegliere in che campo esprimersi, se nella fotografia, nella scrittura o in altri lavori manuali, come il ricamo. Uno in particolare, difatti, ha questa passione e con i fili realizza opere. “Il progetto - spiega Giulia Meloni - è iniziato il 28 marzo nell’ambito dell’”Invito alla lettura” che già si teneva in carcere e terminato con la mostra, che abbiamo intenzione di valorizzare: l’ambizione è arricchirla di nuovi contributi, scritti o manufatti artistici, e portarla fuori dall’istituto, magari a Villa Giulia a dicembre. Sarebbe un bel riconoscimento per l’impegno dei detenuti in questi mesi. È il loro modo di rimanere in contatto con gli altri, e dimostra che in carcere si possono fare cose belle”. La sorveglianza e le occhiute macchine del controllo di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 21 ottobre 2018 La “sorveglianza relazionale”, a partire da due libri di David Lyon. Dal 2015, il sociologo lavora sul tema partendo da quanto accaduto all’attivista Edward Snowden. Prima si interveniva basandosi sui precedenti penali, adesso sulle potenzialità delle minacce. Le attività di sorveglianza costituiscono una delle colonne portanti del controllo sociale, ovvero di tutte quelle pratiche che ogni società mette in atto per incanalare i suoi membri verso aspettative, stili di vita e valori, condivisi, secondo una tendenza ordinata, regolare e prevedibile. Osservare il comportamento degli individui, ci insegna Foucault, favorisce l’accumulazione di saperi da utilizzare per produrre nuovi dispositivi di potere. In seguito alla diffusione di Internet, le pratiche e i saperi della sorveglianza hanno registrato un sensibile mutamento qualitativo. Alla sorveglianza verticale, vale a dire quella esercitata a livello informale dalle agenzie di controllo sociale come famiglia, scuola, gruppo dei pari, classe, confessione religiosa, e a livello formale dagli apparati statuali, si è aggiunta la sorveglianza orizzontale, vale a dire di tipo relazionale, che utilizza le interazioni di ognuno all’interno della rete. David Lyon la definisce come una sorveglianza leggera, in quanto non si avvale di mezzi di coercizione fisica, e invisibile, in quanto non è identificabile come quella della polizia. Inoltre, è una sorveglianza di tipo partecipato, perché, se nel caso della sorveglianza verticale gli individui sopportano il controllo loro malgrado, nell’approccio orizzontale siamo noi stessi partecipi e produttori delle strategie e delle pratiche di controllo. In che modo? Negli ultimi suoi due libri Surveillance after Snowden (2015, pp. 150) e The Culture of Surveillance (2018, pp. 210), entrambi da Polity, Lyon ha l’occasione per declinare in forma più articolata il suo concetto di sorveglianza relazionale. Le rivelazioni di Edward Snowden, che nel 2013 diffuse i segreti dell’apparato di sorveglianza della National Security Agency, hanno rappresentato uno spartiacque: se prima si dava rilevanza alla prevenzione e repressione esterne, che vedeva coinvolti i cittadini da un lato e gli apparati statali dall’altro, adesso il punto focale del controllo si è spostato nella rete, con miliardi di individui, attivisti, organizzazioni e attori governativi coinvolti in una pratica che diventa sempre più invasiva e minacciosa nei confronti delle libertà civili. Man mano che la matassa si dipana, si delinea l’esistenza di un sistema sempre più articolato e insidioso, che coinvolge una pluralità di attori, e si espande fin negli interstizi più reconditi dell’individualità. Innanzitutto, gli agenti della sorveglianza si connotano per non essere un soggetto singolo, bensì una rete ibrida, all’interno della quale i confini tra pubblico e privato si fanno sempre più sfumati. Se da un lato Nsa, Cia e Fbi rappresentano il punto nodale della sorveglianza relazionale, dall’altra parte non la portano a compimento in prima persona. All’apice del capitalismo post-fordista, a fornire i software necessari, a elaborare le strategie, sono le ditte subappaltanti. Lo stesso Snowden era un tecnico della Booz Allen Hamilton, una ditta contractor del governo americano. Il secondo punto nodale della rete del controllo è rappresentato dalle corporations, sia quelle coinvolte nel mercato informatico che le altre. Le imprese hanno in piedi col governo un rapporto di mutualità, in seguito al quale, la loro disponibilità a fornire dati relativi ai loro clienti, consentirà loro di acquisire importanti fette di mercato. Questo vale per le banche, ma soprattutto per i social networks come Facebook e Twitter, che, fin dalla loro nascita, sono sorvegliati con il loro consenso dal programma Prism. Questo aspetto, ci conduce dritto all’interno del secondo punto qualitativamente rilevante della sorveglianza relazionale. Riguarda la partecipazione attiva di tutti gli utenti del web alla sorveglianza. Aprirsi un account su Facebook, prenotare un volo, effettuare un pagamento online, twittare, rappresentano attività tutt’altro che neutrali, in quanto vengono immediatamente sottoposti a monitoraggio da parte degli apparati di sorveglianza. Attraverso i prodotti delle principali ditte di informatiche, come Upstream, che controlla i flussi cablati di informazioni, XKeyscore, che funge da database, e Dishfire, che intercetta gli sms di 200 milioni di cittadini, è possibile per le agenzie governative statunitensi appropriarsi dei metadati di milioni di cittadini, vale a dire informazioni sensibili che vanno dal conto in banca al luogo di residenza. I dati vengono poi condivisi con le agenzie governative dei paesi con cui gli USA hanno stipulato accordi di cooperazione in questo campo, come la britannica Ghqc, la canadese Cse, l’australiana Dsd. La condivisione dei dati trasforma i metadati in Big Data, vista la mole delle informazioni accumulata. Dall’accumulo, si passa alla scrematura dei dati ottenuti, con lo scopo principale, dall’11 settembre in poi, di prevenire azioni terroristiche. La sorveglianza preventiva, si articola in tre fasi distinte. La prima è quella dell’automazione, vale a dire lo stadio nel quale, attraverso l’uso di algoritmi e di altri apparati informatici, si creano i profili dei potenziali sovversivi, terroristi e oppositori, scandagliando meticolosamente la rete col fine di delineare l’identikit del terrorista medio: in questa fase, tutti gli oppositori delle politiche governative, dai no-global agli anti-abortisti, dai fondamentalisti musulmani ai gruppi femministi, vengono scandagliati. Questo passaggio prepara la seconda fase, vale a dire quella dell’anticipo. Ci troviamo nel passaggio qualitativamente più rilevante del nuovo tipo di sorveglianza, in quanto, se prima si interveniva basandosi sui precedenti penali, adesso si interviene sulle potenzialità delle minacce, praticando una sorveglianza ossessiva e invadente nei confronti dei soggetti interessati. Tuttavia, prima di intervenire, si adotta una strategia di adattamento, cioè si filtrano le informazioni per stabilire le aree di intervento e i soggetti da monitorare. Come la criminologia attuariale, che ha importato il modello delle assicurazioni nelle strategie preventive, lavorando sulle aree “a rischio”, così l’intelligence opera una sorveglianza occhiuta su tutta l’area del dissenso, finendo per violare le libertà fondamentali, per etichettare come potenziale minaccia tutti coloro che non si allineano al nuovo ordine mondiale, senza fare distinzione, per produrre e diffondere panico morale. Soprattutto, però, la sorveglianza relazionale, per quanto protetta dalla cornice legale del Foreign Intelligence Security Act, produce nuovi errori giudiziari, come testimoniano le centinaia di casi che, dal 2001, hanno riguardato cittadini americani e stranieri la cui unica colpa era quella di essere musulmani. A questo punto, però, Lyon spiazza i lettori, approfondendo l’aspetto partecipato della sorveglianza relazionale. Non ci troviamo, avverte, in un contesto orwelliano, se la sorveglianza relazionale è possibile, è perché fa leva su di una cultura della sorveglianza profondamente radicata. Non soltanto in riferimento al panico morale, ma, soprattutto, in relazione al modo in cui navighiamo sul web. Innanzitutto, la nostra disponibilità di fornire i metadati senza troppa opposizione, ci porta a favorire ogni sorta di controllo, anche perché pensiamo di essere protetti da truffe e invasioni del nostro cyberspazio. Inoltre, siamo noi stessi dei sorveglianti: quando creiamo un blog o una pagina web, quando facciamo da stakeholder ai nostri commenti su Facebook, quando andiamo a leggere i profili delle persone. E non si tratta sempre di esercitare contro-sorveglianza, che pure, in una certa misura, è utile, come nel caso di Wikileaks. La via d’uscita che suggerisce Lyon, è quella di prendere sul serio la sorveglianza relazionale, vale a dire la creazione di una sorta di auto-disciplina che ci spinga ad usare il web criticamente. Per non finire tra le fauci della piattaforma Rousseau. Fine vita. Cappato cambierà il codice fascista? di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2018 La storia che sto per raccontare (o meglio: ricordare per chi l’avesse accantonata nella tensione emotiva e nella memoria) è quella di due suicidi. Due cittadini italiani, un famoso dj noto col nome di Fabo, che stava agonizzando nel dolore, e un cittadino di Massa Carrara, Davide Trentini, malato di Sla, in una fase che non è più vita, sono stati accompagnati in Svizzera (in Italia una norma fascista mai rimossa dal nostro codice penale lo vieta) dove è permesso, e anzi considerato un diritto civile, liberarsi per propria volontà da una vita non più sopportabile. Nel primo suicidio, Marco Cappato è implicato (direbbe il codice fascista) come principale responsabile del delitto. Ha personalmente accompagnato in Svizzera la persona che per disperazione voleva morire. Nel secondo episodio di violazione del frammento di legge fascista incorporato nel Codice penale dell’Italia nata dalla Resistenza, Marco Cappato è il favoreggiatore che ha pagato le spese per la persona che voleva morire e per Nina Welby, che lo ha accompagnato (e che risulta, naturalmente, coimputata). Ci sarà certamente chi ricorda con rispetto e affetto il nome di Nina Welby, sia come moglie e straordinaria complice del marito nel progetto di morire (che gli è valso il gesto brutale del parroco del luogo di fargli trovare la chiesa chiusa) sia per il lavoro che ha continuato e continua a svolgere nel Partito Radicale e nell’Associazione Luca Coscioni. E tanti lettori riconosceranno a prima vista il nome di Marco Cappato (tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni) come uno dei personaggi più attivi e creativi lasciati da Marco Pannella lungo un percorso mai abbandonato di politica senza potere, in apparenza il più fragile, in realtà il solo che non sia stato spazzato dall’inondazione della politica sporca per corruzione, o per vanesia celebrazione di se stessi. Ecco, dunque, Cappato imputato due volte (art. 580 del Codice penale italiano) per avere deliberatamente e pubblicamente aiutato due persone che volevano morire, o sarebbero state costrette a vivere anni di sofferenza. Infatti il virile codice fascista, e la pietà a termine della religione che si fa legge, sono in accordo per proibire l’esercizio di un diritto essenziale nella Repubblica italiana. Bisogna parlarne (benché non tanti lo facciano) perché domani, lunedì 22 ottobre, si apre il secondo processo contro Marco Cappato (suicidio volontario di Davide Trentini). Forse è utile ricordare che la pena prevista dal nostro codice è da 6 a 12 anni di prigione, e si tratterebbe di sentenze diverse, in ciascuno dei due processi. Ma il caso giudiziario di Marco Cappato (che, si ricordi, si è autodenunciato all’autorità giudiziaria per dare all’evento il valore politico di denuncia che deve avere) diventa di straordinaria importanza per la vita pubblica italiana quando il giorno dopo, i123 ottobre, inizierà il dibattito sulla costituzionalità della norma vetero-fascista di fronte alla Corte costituzionale. È accaduto infatti che il primo processo (morte del dj Fabo) sia stato subito interrotto dai giudici, che hanno interpellato la Corte sulla costituzionalità dell’unica norma violata da Marco Cappato. E che la Corte costituzionale, che potrebbe, con una sola breve decisione, abolire l’articolo 580 dichiarandolo estraneo alla Costituzione, conosce molte vie che non suscitino turbolenze ideologiche o teologiche, e permettano di dire parole sagge senza intervenire. Una dignitosa via d’uscita è esortare il Parlamento a prendere, dopo, a suo tempo, le auspicabili iniziative di cambiamento e di adeguamento della norma estranea alla Costituzione, evitando però di intervenire nel processo in corso. L’incertezza di ciò che potrà accadere a Marco Cappato nei diversi eventi giudiziari del 22 e del 23 ottobre resta, come in un thriller giudiziario americano, sospesa fino all’ultimo. Finora i soli che continuano ad avere coraggio sono i Radicali, come è stato fin dall’inizio. Il marchio di fabbrica, unico, è di mettere in gioco se stessi, persone e vita, come prezzo per i diritti degli altri. Il caso dell’art. 580 è clamoroso eppure ignorato. Non si conosce partito per quanto nuovo e diverso e pronto a cambiare tutto, che lo abbia notato. Non si è mai incontrato chi, disponendo della forza dei grandi partiti del passato e della eredità di nobili origini resistenziali, ne abbia fatto la propria bandiera. Ogni forza politica ha creato, possibilmente al riparo dell’attenzione, grandi discariche di diritti negati, ignorati, abbandonati. Quando passano i Radicali a raccoglierli, c’è chi finge di dare una mano, ma l’argomento scompare presto. I Radicali tornano, persino quando sono divisi. Migranti. Costruiamo una catena umana di Aboubakar Soumahoro L’Espresso, 21 ottobre 2018 Il Presidente della Camera dei deputati nonché esponente di primo piano del Movimento 5 Stelle, Roberto Fico, ha detto di aver “sollecitato” l’avvio dei lavori della Commissione Antimafia. Intanto a quasi 700 chilometri dal Parlamento e dalla sede del governo, il sindaco di Riace Mimmo Lucano, oggi costretto all’esilio, continua a subire la decisione tutta politica del ministero degli Interni di smantellare il diverso modo di accogliere tramite il “modello Riace”. Una decisione che ha un solo reale obiettivo: il soffocamento di questo modello fondato sul rispetto della dignità umana e non sull’assistenzialismo. L’insofferenza dei vertici del ministero, iniziata quando ancora il Viminale era guidato dal Pd Marco Minniti, è cresciuta, diventando accanimento, in un clima da campagna elettorale costante da parte del ministro Salvini. Ha spiegato Lucano, in un’intervista rilasciata ad Alessia Candito di Repubblica: “Vogliono distruggerci, nei nostri confronti è in atto un tiro incrociato. Non si può cancellare una storia che ha suscitato l’interesse e l’apprezzamento di tutto il mondo”. Ecco: vogliono distruggere un modello che non ha parcheggiato le persone come macchine, anzi ha ridato loro vita insieme al rilancio della comunità di Riace, attraverso processi di inclusione sociale e lavorativa. Lucano, insieme alla comunità solidale di Riace, ha dimostrato che si può accogliere, senza alcuna forma di disumanizzazione, coniugando solidarietà e giustizia sociale, ridando anche vita a un territorio, la Calabria, martoriato tra l’altro da anni di cattiva politica. Una politica che ancora non è stata in grado di far insediare la Commissione parlamentare antimafia, ma che trova ogni giorno il tempo per accusare i migranti costruendo il nemico pubblico da confinare. La risposta popolare e piena di umanità e dignità della manifestazione del 6 ottobre scorso a Riace ha dimostrato che praticare la solidarietà, da Riace a Lodi, è un dovere quando in gioco vi è la tenuta della nostra civiltà umana. Va oggi costruita una “catena umana” perché in gioco vi è la distruzione della nostra comunità. Bisogna costruire una catena umana, perché la memoria collettiva non può essere cancellata a colpi di circolari o decreti che stanno istituzionalizzando la criminalizzazione della solidarietà e di chi la pratica. È in questa prospettiva che vari collettivi ed associazioni, forze sindacali e sociali insieme a realtà laiche e religiose, hanno promosso per il prossimo 27 ottobre a Reggio Calabria un’assemblea nazionale per la costruzione di un appuntamento nazionale di piazza da tenersi il prossimo dicembre a Roma. Perché la salvaguardia del “modello Riace”, la liberazione dei migranti con il rilascio di un permesso di soggiorno e per la libera circolazione delle persone sono oggi un atto di civiltà e giustizia. Noi oggi non difendiamo solo Mimmo Lucano. Noi oggi stiamo difendendo la speranza che Riace ci ha insegnato. Stiamo difendendo dalla distruzione le basi di una comunità dove è possibile immaginare una società aperta accogliente ed inclusiva che non trasformi gli immigrati in nemici, ma ne valorizzi le storie e ne rispetti la dignità. Migranti. Il Viminale sfida la Francia, a Claviere un presidio di polizia di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 21 ottobre 2018 Da ieri c’è almeno una postazione fissa della polizia italiana a presidiare il confine con la Francia a Claviere. E altre auto di pattuglia, sempre coordinate dal commissariato di Bardonecchia, effettuano controlli nei dintorni. La decisione è stata presa dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini, dopo l’ultimo sconfinamento della Gendarmeria francese di due giorni fa, che ha lasciato altri tre migranti africani, come la scorsa settimana, sul suolo italiano prima di dileguarsi. Sale la tensione tra i due Paesi e così, per “migliorare la cooperazione”, la prefetta della regione francese delle Hautes-Alpes, Cécile Bigot-Dekeyzer, ieri sera, prendendo atto della decisione di Salvini e “su domanda del ministro dell’Interno Christophe Castaner”, ha proposto “una riunione tra i prefetti da tenersi sul posto” il prima possibile “con la partecipazione dei responsabili nazionali della polizia dei due Stati”. La misura presa ieri - spiegano al Viminale - è la risposta, in termini di reciprocità, al ripristino dei controlli alla frontiera adottati a Ventimiglia dal governo francese già nel 2015. E questo nonostante ieri sempre la Prefettura delle Hautes-Alpes avesse provato in un comunicato a motivare l’intervento della Gendarmeria filmato due giorni fa da un cittadino di Claviere e rilanciato sui social da Salvini. Il video “mostra - secondo la Prefettura - una procedura di non ammissione alla frontiera del tutto conforme alla prassi concordata tra la polizia francese e la polizia italiana, nonché al diritto europeo”. I francesi ricostruiscono così l’accaduto: i tre migranti lasciati “sulla linea esatta di demarcazione della frontiera franco-italiana sulla strada statale Rn 94, erano stati controllati al punto di attraversamento autorizzato di Monginevro, 500 metri più lontano sulla Rn 94. Provenienti direttamente dall’Italia e sprovvisti di documenti di viaggio, si sono visti notificare il rifiuto d’ingresso sul territorio francese. Conformemente alla procedura, il commissariato di Bardonecchia è stato immediatamente informato”. Ma è proprio su questo punto che Salvini ha eccepito: “La Francia ha comunicato di voler consegnare un gruppo di immigrati alle 9.49, peccato li avesse già abbandonati in territorio italiano. Non solo. Non c’è alcun accordo bilaterale Italia- Francia che consenta questo tipo di operazioni. Se Parigi parla di prassi ne deve rispondere il governo precedente: ora l’aria è cambiata”. Salvini, sempre in tema di immigrazione, ha rilanciato ieri una parte delle motivazioni dei giudici di Palermo sulla vicenda Diciotti: “Quando la Diciotti è arrivata nei pressi di Lampedusa non sono stati commessi reati, ma sono stati meritoriamente difesi i confini”. “Non lo dico io, che per questa vicenda sono incredibilmente accusato di sequestro di persona, ma il Tribunale dei ministri di Palermo”, ha commentato con soddisfazione il vicepremier. Migranti. Italia-Francia, la frontiera senza diritti di Anais Ginori La Repubblica, 21 ottobre 2018 Il duello continuo tra Matteo Salvini ed Emmanuel Macron non prevede vincitori morali. Gli sconfitti invece si conoscono già. Sono quei due uomini che nell’ennesimo video diffuso dal ministro dell’Interno scendono da un furgoncino della polizia francese, vagamente spaesati, senza sapere dove andare. Sono solo due tra le decine, centinaia di esseri umani che vediamo passare come ombre. Scaricati come una merce, anzi neppure quello perché almeno le merci circolano ancora liberamente per l’Europa. Non c’è una sola verità, ogni episodio si presta alla propaganda di ognuna delle due parti. Per un Paese come la Francia dovrebbe essere almeno di imbarazzo la continua elusione del problema di respingimenti al confine, e la contemporanea indifferenza alle puntuali denunce delle Ong che documentano irregolarità e abusi. In una sola giornata, tra il 12 e il 13 ottobre, Amnesty International e Medici Senza Frontiere, presenti al confine di Briarwon, hanno contato 26 respingimenti illegali, eseguiti senza rispettare i più elementari diritti di chi è richiedente asilo, nonché minorenne. Simili denunce sono state raccolte dalle Ong pure in Italia, e sono in continuo aumento. Tanto che, come abbiamo raccontato su Repubblica, i Tar francesi da qualche mese bocciano i decreti delle Prefetture per rinviare profughi verso il nostro Paese, considerato non più sicuro e rispettoso dei diritti umani. Una discussione in centrata soltanto su eventuali zone cuscinetto al confine, su veri o presunti sconfinamenti, è già una sconfitta per chi vorrebbe difendere i diritti di quelle persone. Lo slogan “umanità e fermezza”, tanto caro a Macron, perde ogni significato ogni volta che si vedono profughi camminare nella neve, donne incinte fatte scendere a forza da un treno. Sono immagini che però non rendono giustizia a un Paese che continua ad accogliere. Nell’ultimo anno, il numero di richiedenti asilo è stato superiore a quello dell’Italia. Nello scorso settembre lo Stato francese contava 134mila domande, con una progressione di quasi il 19% rispetto al 2017. La Francia ha chiuso la frontiera con l’Italia in un momento drammatico della sua storia recente, il 13 novembre 2015. Era la notte degli attentati del Bataclan. Da allora la procedura di sospensione di Schengen è stata continuamente rinnovata, in linea con l’egoismo di un’Europa che non ha mai davvero aiutato l’Italia nella fase più intensa degli sbarchi sulle nostre coste. Una linea decisa dal precedente inquilino dell’Eliseo, il socialista Francois Hollande. Macron sostiene di aver tentato di aiutare l’Italia in sede europea, anche se la chiusura dei porti decisa dal nuovo governo ha complicato ogni possibile dialogo. I respingimenti alla frontiera si sono intensificati nell’ultimo anno perché sono in aumento i cosiddetti “movimenti secondari”, cioè di profughi in fuga dall’Italia verso la Francia e altri paesi d’Europa. Non è vero, come dice Salvini, che la Francia agisce fuori dagli accordi bilaterali. Le autorità transalpine si muovono sulla base degli accordi di Chambery firmati tra Italia e Francia nel 1997, tra l’allora premier Romano Prodi e il presidente Jacques Chirac. In vent’anni, nessuno ha rimesso in discussione l’intesa. L’annuncio dell’invio di più poliziotti al confine, come ha detto il vicepremier, non cambierà molto a meno di voler stralciare gli accordi bilaterali. Al governo di Parigi ha proposto una riunione di lavoro tra Prefetti per discutere della collaborazione al confine. L’unica conseguenza probabile nell’immediato sarà quella di una contrapposizione continua e potenzialmente pericolosa tra forze dell’ordine di Paesi in teoria alleati. Francois Mitterrand ammoniva: “Il nazionalismo è la guerra”. Florida, 71enne nel braccio della morte: vuole diventare italiano per evitare l’esecuzione di Tatiana Zuccaro blastingnews.com, 21 ottobre 2018 Henry Sireci ha 71 anni ed è stato condannato alla pena capitale per l’omicidio di un venditore di automobili usate. L’uomo si trova nel braccio della morte in Florida in attesa dell’esecuzione addirittura da 42 anni, per i giudici è colpevole dell’omicidio di Howard Poteet, ucciso nel 1976 con ben 55 pugnalate. Lui comunque si è sempre dichiarato innocente. Attualmente i legali del condannato come ultima speranza di salvezza hanno avviato la procedura per fargli avere la cittadinanza italiana, un elemento che potrebbe evitargli l’esecuzione. I nonni paterni dell’anziano detenuto sarebbero originari di Caccamo, in provincia di Palermo. Dopo la nascita del padre di Henry, il nonno divenne cittadino americano. Sulla vicenda in questione il comune interessato è disposto a riconoscere Sireci come concittadino ed è pronto a fare pressioni sulla Farnesina considerato che proprio in questi giorni l’Italia è in prima linea all’ONU per la moratoria sulle esecuzioni. Un caso che ha diviso la Corte Suprema - Ad essere sinceri il caso di Sireci è piuttosto controverso, così come sostiene da anni Reprieve, una organizzazione non governativa che si batte contro la pena di morte negli USA. Due anni fa il giudice della Corte Suprema, Stephen Breyer, aveva sostenuto il riesame del processo ed aveva chiesto un ripescamento generale alla luce delle condizioni psicologiche di un uomo ormai anziano che da oltre 40 anni vive sotto la costante minaccia del boia. Una condanna anomala - Oltretutto le circostanze che portarono alla sua condanna sono piuttosto anomale. In base alla legge dello Stato della Florida, per condannare un imputato alla pena di morte è necessario un giudizio unanime, cosa non accaduta per Sireci considerato che nel 1976 un componente della giuria si oppose. Le prove della sua colpevolezza in effetti sono abbastanza fragili, se consideriamo che una prima giuria lo condannò alla sedia elettrica per “un capello probabilmente suo trovato su un calzino della vittima”. L’impegno italiano contro la pena di morte - Gli avvocati di Henry Sireci, pertanto, giocano quest’ultima carta nella speranza che serva a qualcosa. Da parte italiana c’è storicamente un impegno contro la pena di morte, fermo restando che permanenze pluridecennali all’interno del braccio della morte si configurano come una palese violazioni del diritto, costituzionalmente garantito dalla legge americana, di non essere sottoposti a “punizioni inusuali e crudeli”. Emblematiche in tal senso alcune campagne di associazioni umanitarie con il supporto politico nei confronti di alcuni condannati come Joseph O’Dell nel 1997 e Derek Rocco Barnabei nel 2000, entrambi giustiziati tramite iniezione letale. Arriva il presidente colombiano, sei Ong scrivono a Mattarella di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 ottobre 2018 In occasione della visita di domani in Italia del neo-presidente colombiano Ivan Duque, Amnesty International Italia, Yaku, Operazione Colomba - Comunità Papa Giovanni XXIII, Rete italiana Colombia Vive, Terra Nuova e Libera hanno scritto una lettera aperta al presidente Sergio Mattarella invitandolo ad affrontare, nei colloqui, il tema delle violazioni dei diritti umani in Colombia. Le organizzazioni hanno voluto sottoporre all’attenzione del presidente Mattarella la preoccupazione, condivisa con le organizzazioni della società civile colombiana, per il crescente numero di omicidi e minacce verso difensori e difensore dei diritti umani. La firma dell’accordo di pace in Colombia aveva suscitato grandi speranze e aspettative tra coloro che si sono impegnati a lungo per il suo riconoscimento. La fine del conflitto armato ha generato benefici indiscutibili, come la riduzione sostanziale delle cifre degli omicidi, degli scontri, dei sequestri e la definizione del contesto normativo e della struttura istituzionale a sostegno dell’attuazione dei singoli punti previsti dall’accordo. Tuttavia, si registrano dal 2017 alla metà del 2018 oltre 100.000 nuovi sfollati interni e, nei soli primi otto mesi di quest’anno, 343 persone uccise per il loro impegno nella difesa dei diritti umani. A questo occorre aggiungere la violenza che continua ad occupare i territori e a scuotere la vita quotidiana delle persone che li abitano. Gli episodi di violenza si registrano principalmente nelle aree rurali, dove il referendum del 2 ottobre 2017 aveva ottenuto un maggior numero di voti favorevoli alla pace. La violenza scaturisce da conflitti di natura socio-economica che si caratterizza per la presenza di vecchi e nuovi attori, come gruppi di neo-paramilitari, narcotrafficanti, guerriglieri dell’Esercito nazionale di liberazione (con cui proseguono i negoziati per un accordo di pace) e dissidenti delle Forze armate rivoluzionarie di Colombia contrarie all’accordo già raggiunto. In questo scenario, la comunità di pace di San José de Apartadó sta attraversando un periodo terribile, legato alla crescente presenza di gruppi neo-paramilitari che ne minacciano l’esistenza. Sin dal 1997, anno della sua nascita, la comunità ha adottato un proprio codice etico fondato su principi di rispetto dei diritti umani, giustizia sociale e solidarietà. Purtroppo, nel corso degli anni la comunità ha subito continue violenze, minacce, morti e massacri a causa della neutralità mantenuta nei riguardi delle parti coinvolte nel conflitto colombiano. La comunità di San José de Apartadó, oltre a godere delle misure di protezione stabilite dalla Corte interamericana dei diritti umani, è sostenuta da vari gruppi di accompagnamento civile internazionale, tra cui Operazione Colomba, corpo nonviolento della Comunità Papa Giovanni XXIII, i cui volontari sono a loro volta esposti ai rischi derivanti dalla situazione di instabilità locale. Le organizzazioni firmatarie della lettera aperta hanno evidenziato al presidente Mattarella quanto sia importante dare effettivo seguito al processo di attuazione dell’accordo di pace, in particolare per quanto concerne i difensori dei diritti umani e la protezione dei leader comunitari, la lotta all’impunità e lo smantellamento delle formazioni paramilitari, in modo da garantire una pace duratura costruita sulla giustizia sociale, valorizzando e sostenendo a tal riguardo la proposta praticata dalla comunità di San José de Apartadó, vera e propria sentinella di pace. Arabia Saudita. Il principe e la repressione: il regime teme le sue stesse riforme di Sergio Romano Corriere della Sera, 21 ottobre 2018 Mohamed bin Salman immagina forse che la modernizzazione porti alla fine del Regno. Un mese fa Mohammed bin Salman, principe ereditario e sovrano reggente dell’Arabia Saudita (il padre è molto malato) era un principe illuminato, l’uomo che non avrebbe più usato i redditi del petrolio per dare ai giovani una sinecura burocratica e che avrebbe investito somme favolose in un ambizioso programma di modernizzazione. Grazie a Mbs, come è familiarmente chiamato, le donne avrebbero goduto di maggiori diritti, e una nuova città, attrezzata con tutte le più recenti tecnologie, avrebbe richiamato nel suo Paese aziende e capitali stranieri. Sapevamo che si sarebbe scontrato con gli elementi più conservatori del clero musulmano e della sua sterminata famiglia (circa 5.000 cugini). Ma quando ne rinchiuse parecchie decine in uno dei più lussuosi alberghi della capitale del Regno, capimmo che avrebbe agito con una fermezza non priva di una certa capricciosa ironia. Oggi, dopo la scomparsa e l’assassinio di un giornalista saudita che lo aveva criticato su un giornale americano, il profilo di Mohammed bin Salman è alquanto diverso. Il principe illuminato è diventato un tiranno crudele, pronto a sbarazzarsi di chiunque osi attraversargli la strada. È una reazione comprensibile. Jamal Khashoggi era un giornalista noto e stimato. La brutalità con cui è stato eliminato ha suscitato, e non poteva essere diversamente, rabbia e disgusto. Ma se vogliamo cercare di comprendere che cosa è accaduto e sta accadendo in questa parte del mondo, dobbiamo tornare alle rivolte arabe degli scorsi anni. A un primo sguardo ci erano parse le comprensibili proteste di una nuova generazione. I giovani che riempivano le piazze di Tunisi, del Cairo, di Tripoli, di Bengasi e di Damasco sembravano fare richieste perfettamente compatibili con i valori e le aspirazioni delle società occidentali. Chiedevano più libertà e meno corruzione, volevano essere cittadini, non sudditi. Ma i risultati sono stati alquanto diversi. Con qualche eccezione (la Tunisia), le rivolte hanno sconvolto gli equilibri istituzionali di una buona parte della regione. In Egitto l’esercito, dopo la vittoria elettorale della Fratellanza musulmana, ha ripreso il controllo della situazione e ha instaurato un regime autoritario. In Libia la rivolta ha eliminato fisicamente il leader, risvegliato gli egoismi tribali e le antiche rivalità fra Tripolitania e Cirenaica, creato una situazione caotica. In Siria ha provocato una sanguinosa guerra civile. Non è sorprendente che uno spregiudicato riformatore arabo, oggi, sia preoccupato dalla possibilità che la modernizzazione possa avere per effetto la crisi del suo regime. Non è la prima volta. Come ha osservato un giornalista inglese, Lindsey Hilsum (The New York Review of Books, 11 ottobre 2018) Mbs sta probabilmente pensando alla sorte della Scià di Persia nel 1979 quando cercò di modernizzare l’Iran e finì per consegnarlo nella mani degli ayatollah. Afghanistan. Sangue sul voto in Afghanistan, 50 morti e oltre cento feriti Corriere della Sera, 21 ottobre 2018 Nella capitale Kabul un attacco kamikaze al seggio ha fatto 15 morti. Alle urne 8,8 milioni di afghani per eleggere il nuovo Parlamento. Sono complessivamente quasi 50 i morti e oltre cento i feriti nel bilancio parziale di diversi attentati che hanno insanguinato le elezioni in Afghanistan. È salito a 15 il numero dei morti in un attacco suicida a un seggio elettorale di Kabul. Sessanta i feriti, secondo il portavoce del ministero dell’Interno. Emergency riferisce invece di esplosioni e attentati ai seggi che hanno causato decine di feriti in tutta la città. Quarantotto sono arrivati in mattinata all’ospedale di Emergency a Kabul: 14 sono stati trattati in pronto soccorso, 33 sono stati ricoverati, uno è arrivato morto, un bambino di 10 anni. “Kabul vive l’ennesima giornata di violenza, ma questa non è più una notizia. Nel corso dei primi 7 mesi del 2018 abbiamo registrato il 17% di feriti in più rispetto allo stesso periodo del 2017. Ma i feriti stanno arrivando anche dalle province vicine. Adesso ne stiamo aspettando 8 dal nostro Posto di pronto soccorso di Tagab”, dice Dejan Panic, coordinatore del Programma di Emergency in Afghanistan. “L’ospedale è pieno, abbiamo dovuto riferire ad altri ospedali i pazienti arrivati oggi con fratture chiuse e aggiungere dei letti perché anche ieri erano arrivati 22 feriti”. I talebani hanno preso di mira i seggi elettorali con colpi di mortaio a Nangarhar, Kudduz, Ghor, Kunar e altre provincie. Funzionari della provincia orientale di Nangarhar hanno affermato che nelle violenze sono state uccise almeno 20 persone. Decine i feriti. Nella provincia settentrionale di Kunduz, in seguito all’attacco dei talebani, sono stati uccise almeno cinque persone. Sono state segnalate violenze infine a Badakhshan, Balkh e in qualche altra provincia, ma non sono stati riportati dettagli confermati su eventuali vittime. La Commissione elettorale indipendente afferma che 8,8 milioni di afghani sono registrati al voto. Wasima Badghisy, membro della commissione, ha definito gli elettori “molto, molto coraggiosi” e afferma che già un’affluenza di 5 milioni sarebbe un successo. Alla vigilia delle elezioni due candidati sono stati uccisi mentre il voto a Kandahar è stato rimandato di una settimana dopo che una guardia ha ucciso il potente capo della polizia provinciale. Il portavoce della commissione, Aziz Ismaili, dice che non saranno pubblicati risultati prima di metà novembre e che i risultati finali non saranno disponibili prima di dicembre. Le elezioni sono viste come un indicatore importante in vista delle presidenziali del prossimo aprile e sono un passaggio cruciale a poche settimane dal summit Onu che si terrà a Ginevra a novembre dove verrà chiesto a Kabul di mostrare i progressi fatti nel processo democratico. L’apertura dei seggi è stata posticipata per permettere a tutti di votare. I candidati sono oltre 2.565 di cui 2.148 uomini e 417 donne. Si vota per 102 seggi nella Camera alta, la Mesherano Jirga e per 250 nella Camera bassa, la Wolesi Jirga.