Carcere, l’allarme dei Garanti: suicidi e sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 ottobre 2018 A Roma la conferenza nazionale. Sovraffollamento, suicidi in aumento, assistenza sanitaria insoddisfacente, disagi psichici, ancora presenza dei bambini dietro le sbarre, ritardi da parte della magistratura di sorveglianza. Questo è quello che emerge nell’anno 2018 ancora non concluso a proposito del panorama penitenziario. Proprio ieri, durante la riunione della conferenza nazionale dei garanti regionali e comunali dei detenuti svolta a Roma, è emersa anche la preoccupazione di come la Riforma dell’ordinamento penitenziario non risolva tutte queste problematiche. “I tre decreti di modifica dell’ordinamento penitenziario in materia di sanità, lavoro e minori - ha denunciato il garante regionale della Toscana Franco Corleone a ridosso della conferenza - tolgono ogni speranza di miglioramento delle condizioni carcerarie”. Ricordiamo il suo impegno, con i tre giorni di digiuno, per sensibilizzare il governo e l’opinione pubblica l’insostenibile disagio psichico nelle carceri. Alla conferenza è intervenuto il capo del Dap Francesco Basentini che ha annunciato: “In merito alle esigenze di affettività dei detenuti è partito un progetto pilota in tre istituti penitenziari dove verrà usato Skype e più in generale l’informatica. Ed entro sei mesi saranno installati oltre 450 pc in tutte le sezioni detentive. L’obiettivo è di metterne anche di più, ovviamente non nel 41 bis. Oltre a Skype verranno installati programmi come corsi di lingua, apprendimento, passatempi”. Nel frattempo aumentano i suicidi. Nel 2017 il totale è stato di 52 detenuti che si sono uccisi, mentre il trend di quest’anno ancora non concluso è decisamente in aumento. Sì, perché al 3 ottobre dell’anno scorso, i suicidi risultavano 45. Quest’anno, invece, siamo già a 49. L’ultimo è avvenuto nel carcere siciliano del Pagliarelli, un 37enne si è impiccato dentro la propria cella. Ma potrebbero essere molti di più se non intervenissero gli agenti penitenziari. Secondo il Sappe, il sindacato autonomo polizia penitenziaria, solo nel primo semestre del 2018 ci sono stati nelle carceri italiane 5.157 atti di autolesionismo. E da anni le associazioni che monitorano le condizioni di vita negli istituti sottolineano come non si debba sottovalutare simili atti dato che possono sfociare in tentativi di suicidio. A questo si aggiunge il sovraffollamento. Secondo i dati elaborati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 30 settembre di quest’anno risultano 59.275 detenuti su 50.622 posti disponibili. Basti pensare che il mese precedente, al 31 agosto, risultavano 8.513 detenuti in più. Ancor prima, a luglio, erano invece 7.882 i ristretti oltre i posti disponibili. I numeri del sovraffollamento risulterebbero addirittura maggiori se si sottraessero dai posti disponibili circa 5.000 celle inagibili che, invece, vengono conteggiate nei 50.622 posti disponibili. Il sovraffollamento quindi è destinato ad aumentare nonostante che nel passato, grazie a diverse misure adottate dopo la sentenza Torreggiani, si sia ridimensionato. Poi c’è l’assistenza sanitaria. Diversi report nelle carceri, dimostrano come diversi detenuti hanno delle gravi patologie e c’è scarsa presenza del personale sanitario. Ma non solo. Non rari i casi di detenuti che hanno una incompatibilità con il carcere a causa del loro stato di salute, ma difficilmente riescono ad ottenere i domiciliari per essere assistiti in un ambiente consono. Tutte problematiche che hanno portato Rita Bernardini, del coordinamento di presidenza del Partito Radicale, ad intraprendere uno sciopero della fame già iniziato dalla mezzanotte di martedì scorso. I disagi psichici sono le più diffuse tra le patologie presenti nelle carceri italiane, ma l’assenza del tema nella riforma approvata, peggiora anche le cose. L’ultimo rapporto di Antigone dice che ad oggi, infatti, ci sono 47 sezioni specializzate (“articolazioni per la salute mentale”) che ospitano 251 persone (21 donne e 230 uomini. Due, invece, i “reparti psichiatrici” (entrambi maschili), negli istituti penitenziari di Torino e Milano San Vittore, che ospitano 31 persone. Sebbene il disagio psichico sia la sfera patologica più diffusa nelle carceri italiane, dalle attività di monitoraggio dell’associazione Antigone emerge che negli istituti di pena visitati dai volontari, il numero medio di ore di presenza di medici ogni 100 detenuti è pari a 84,2, mentre quello degli psichiatri scende a 8,9 ore per 100 detenuti. Un quadro che richiede un intervento delle istituzioni. Skype per i colloqui detenuti-familiari. Basentini (Dap): entro sei mesi in tutte le carceri Libero, 20 ottobre 2018 Skype entra nelle carceri italiane e sarà lo strumento attraverso il quale i detenuti potranno avere più colloqui con i propri cari sviluppando l’affettività che è il più grande motore di cambiamento per le persone recluse. Le telefonate continueranno ad esistere ma sarà possibile anche un dialogo più intimo grazie alla telecamera. Parola del capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), Francesco Basentini che ieri ha partecipato all’Assemblea della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. Per il momento il progetto pilota è partito in tre penitenziari “ed entro sei mesi”, spiega, “saranno installati oltre 450 pc in tutte le sezioni detentive. L’obiettivo è di metterne anche di non nel 41 bis. È stato dato l’indirizzo ai direttori di autorizzare i colloqui con i familiari anche più volte a settimana”, ha aggiunto, “ovviamente rispettando i protocolli di sicurezza”. Ci sono anche altre novità: “Oltre a Skype verranno installati programmi come corsi di lingua, apprendimento, passatempi”, aggiunge. Basentini, da poco nominato, delinea la sua idea di carcere e lo fa anche facendo un annuncio che i Garanti aspettavano da tempo: “Il direttore generale del personale mi ha garantito che per mercoledì prossimo verrà pubblicato il provvedimento di nomina di oltre 250 direttori”. Oltre a questo, il capo del Dap ha chiesto “1.300 assunzioni straordinarie tra agenti di Polizia penitenziaria e ruoli tecnici al ministro all’interno di un pacchetto del decreto sicurezza che dovrà essere approvato dalle Camere”. Tra i temi delicati affrontati, anche quello delle mamme in carcere con i propri figli, soprattutto dopo il caso della donna che ha ucciso i due bimbi a Rebibbia. Dai cappellani delle carceri appello al Sinodo e alla politica Avvenire, 20 ottobre 2018 Dai cappellani delle carceri un appello alla Chiesa e alle istituzioni. “Il Sinodo sui giovani si ricordi anche di quei giovani che sono detenuti nei penitenziari. E la politica favorisca percorsi di inclusione per il “dopo”: senza famiglia né casa, li ritroviamo sbandati sulle strade o che tornano a delinquere”. Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei 240 cappellani delle carceri, sottolinea l’importanza di una pastorale “che sia ponte con la comunità esterna”. Ed è su questo che lavoreranno cappellani e operatori pastorali al 111 Convegno nazionale a Montesilvano (Pe) dal 22 al 24 ottobre. Tra gli ospiti della tre giorni - sul tema “Chiesa riconciliata in carcere” - ci saranno il segretario della Cei e vescovo di Fabriano-Matelica, Stefano Russo, il presidente dell’associazione Meter perla lotta alla pedofilia don Fortunato Di Noto, l’arcivescovo di Pescara-Penne Tommaso Valentinetti, il vescovo di Ascoli Piceno Giovanni D’Ercole, l’assessore al Dicastero per la comunicazione monsignor Dario Viganò, il presidente della Caritas Cardinale Francesco Montenegro. Ha annunciato il suo intervento anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il mondo del carcere si confronta costantemente col pericolo del sovraffollamento: “Oggi i detenuti sono 59.732, di cui 20.193, un terzo, stranieri, soprattutto al Centro Nord”. E l’ispettore generale dei cappellani, 23 anni a Secondigliano, spiega che “la nostra pastorale non deve essere debole, chiusa tra le mura del carcere, ma collegarsi alla comunità esterna, come già fanno i cappellani che sono anche parroci”. Soprattutto oggi “in cui si invoca un approccio securitario di certezza della pena, da scontare in cella fino all’ultimo giorno. Abbiamo il ruolo di far entrare la società civile in carcere perché si adotti una visione diversa. Senza buonismi, il carcere deve aiutare i detenuti a prendere coscienza del male compiuto. Anche nell’interesse della società: altrimenti quando escono, tornano a delinquere”. Qualcuno mi dica perché le leggi sui bambini in carcere sono inapplicate di Lillo Di Mauro* Il Dubbio, 20 ottobre 2018 Perché una madre non ancora condannata (e dunque innocente) non le può utilizzare? perché non si capisce che un bambino piccolo in prigione è condannato a ferite morali non rimarginabili? A fianco di Leda Colombini e all’associazione “A Roma Insieme” sono stato tra i promotori delle leggi pensate perché “nessun bambino varcasse più la soglia di un carcere”. Oggi vorrei chiedere chiarimenti sulla applicazione della legge 62/ 2011 che di fatto non è applicata nel suo principio fondamentale, tanto che ad oggi nelle carceri italiane ancora sono detenuti circa 50/ 60 madri con altrettanti bambini. È una ingiustizia che deve necessariamente essere sanata. Gli operatori della giustizia, i magistrati, applicano - interpretandola - la legge: senza però tenere in considerazione, spesso, la storia della persona che stanno giudicando. La pericolosità di un individuo è misurata, oltre che sul tipo di reato, sulla “quantità”, ovvero su quanti reati ha compiuto. Nel caso delle madri detenute noi ci troviamo di fronte a donne di origine straniera (e per lo più rom). Bene, queste donne sono responsabili di reati che nascono in genere da un problema culturale, sociale ed economico: le donne nigeriane, di solito, sono condannate per reati legati alla prostituzione a cui sono costrette con violenza e coercizioni, dai maschi; le rom compiono reati come furti, rapine, a cui sono costrette dai loro mariti. Stiamo quindi parlando di donne schiavizzate, vittime due volte della violenza maschile: costrette a rubare e a scontare una pena. Quello che vorrei chiedere ai giuristi ed ai magistrati è perché nonostante due leggi approvate per tutelare la genitorialità e liberare i bambini dal carcere ancora oggi nelle carceri ci sono bambini. Perché nonostante la legge 40 del 2001, cosiddetta Finocchiaro, che all’art. 1 prevede il rinvio della pena, ovvero il differimento se questa deve aver luogo nei confronti di donna incinta - o nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno - perché ci sono tante donne in carcere con i loro bambini? Perché la donna tedesca che ha ucciso i suoi due figlioletti, di cui uno di età inferiore ad un anno, era in carcere? Mi si risponderà: perché non era condannata e quindi definitiva. E allora vi chiedo per quale ragione una donna madre condannata può usufruire del differimento e una donna che si trova nelle stesse condizioni, in attesa di giudizio - e cioè innocente - non può usufruirne? La signora Sebesta, oltretutto, era incensurata, non aveva compiuto reati così gravi (detenzione di marijuana), era reo confessa, non parlava una parola di italiano, ed era stata segnalata al suo ingresso in carcere per una visita specialistica psichiatrica mai avvenuta. Tutti sappiamo che il carcere è un luogo inadatto per il bambino, per tante ragioni: prima fra tutte la mancanza di libertà, di contatto con l’esterno, con la vita, con la normale quotidianità in cui dovrebbe crescere un bambino soprattutto in una fase di vita definita dell’imprinting. Così come la separazione forzata dalla madre è impossibile da elaborare e comprendere per bambini di appena tre anni: crea una ferita drammatica nel piccolo in crescita. I nuclei familiari madre-bambino, che noi ospitiamo nella “casa di Leda”, la prima casa protetta d’Italia, nata in applicazione della legge 62, evidenziano una complessità di problemi che richiedono un intervento molto più ampio e continuo che deve svilupparsi tra giustizia e servizi sociali. I bambini che ospitiamo sono più esposti al rischio di divenire marginali rispetto ai loro coetanei. Noi partiamo dall’assunto che è nella relazione con i genitori che il bambino costruisce la propria visione del mondo e di sé, attribuendo significati alla realtà e costruendo una propria identità personale. La sua tutela non può quindi prescindere dalla tutela del legame che questi ha con la sua famiglia d’origine, ancor più quando le figure di riferimento sono portatrici di disagi multiproblematici. Molte delle nostre ospiti non sono nelle condizioni, per ragioni di ordine sociale, familiare, di provvedere da sole in maniera adeguata alla crescita dei figli. Perché se essere genitore in condizioni di “normalità” viene riconosciuto come compito complesso, ciò lascia comprendere come essere genitore in condizioni di precarietà sociale, situazioni di disagio o eventi critici rendano ancora più difficile tale compito. Ecco allora dove si compie la giustizia non solo penale ma anche sociale, lì dove è in grado di dare risposte e offrire pari opportunità a donne che hanno bisogno e chiedono protezione sociale alle istituzioni preposte. Che risposte ha dato, lo Stato, alla signora Sebesta? *Responsabile Casa di Leda, presidente della Consulta penitenziaria di Roma Capitale Sul decreto sicurezza M5S verso la resa, passa la linea di Salvini di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 20 ottobre 2018 L’altro scontro. Salvini attacca: “Hanno presentato 81 emendamenti, come fossero all’opposizione”. Di Maio replica: “Non è colpa mia, incontriamoci per trovare l’accordo politico”. E alla fine il ministro Fraccaro spiazza i “dissidenti”: “Si votano solo le proposte condivise con la Lega”. A parole sembra un altro scontro durissimo. “I 5 Stelle sul decreto sicurezza hanno presentato 81 emendamenti, come se fossero all’opposizione. È mai possibile? Non è così che si lavora e si governa fra alleati”, dice Salvini in diretta Facebook. Risponde dopo un po’ Di Maio con lo stesso mezzo: “Se i miei parlamentari presentano degli emendamenti e non c’è ancora un accordo politico non è colpa dei 5 Stelle, non è colpa mia se io e Salvini non ci siamo potuti confrontare sui nodi da sciogliere. Lui sta in campagna elettorale in Trentino, è legittimo, ma io sto qui”. Come al solito sono dichiarazioni senza mediazione giornalistica, e così nessuno può ricordare a Salvini che 81 emendamenti a un provvedimento di 40 articoli che vanno dal diritto di asilo ai vigili del fuoco alle spese delle pubblica amministrazione non sono un’enormità. O che il suo stesso ministero sta continuando a emendare il testo. Così come non si può far notare a Di Maio che mettere nella stessa frase una difesa dell’autonomia dei parlamentari e poi un invito a Salvini a risolvere la questione a quattr’occhi suona male. Nel pomeriggio di ieri, in ogni caso, il decreto sicurezza contribuiva ad appesantire il clima tra alleati. E i grillini non volevano alleggerirlo, tanto che il ministro per i rapporti con il parlamento Fraccaro rispondeva a Salvini che “se ci sono 81 emendamenti vuol dire che ci sono 81 buone idee per modificare il decreto”. E il sottosegretario all’interno Sibilia aggiungeva che “molti emendamenti sono di buon senso e mi auguro che molti vengano approvati. La Lega, contando anche quelli che vengono dal ministero, ne ha presentati più di noi”. Del resto il decreto sicurezza arriva è arrivato in senato con la raccomandazione di Mattarella di rispettare “gli obblighi costituzionali e internazionali”. E durante le audizioni sono venute fuori tutte le illogicità e illegittimità del testo, criticato tanto dal Garante nazionale dei detenuti quanto dall’Associazione nazionale dei sindaci, tanto dal presidente del Consiglio italiano per i rifugiati quanto da Emergency, tanto dal Tavolo asilo nazionale quanto dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Su un aspetto, quella della possibile revoca della cittadinanza, anche il servizio studi del senato ha evidenziato i rischi di incostituzionalità. Alcuni di questi rilievi sono finiti anche negli emendamenti dei 5 Stelle, al senato non sono pochi i grillini ad aver criticato pubblicamente la linea anti immigrati di Salvini, da Paola Nugnes a Gregorio De falco, da Virginia La Mura e Elena Fattori. “Questo provvedimento non sarebbe mai dovuto arrivare così in parlamento - dichiara all’agenzia Adnkronos la senatrice Nugnes - così come Di Maio non vuole che arrivi a noi il decreto condono fiscale”. Tra le altre cose “il decreto sicurezza disincentiva l’accoglienza diffusa degli Sprar, un modello che stava cominciando a funzionare in Italia, e investe invece nei Cas, dormitori realizzati con soldi del ministero”, aggiunge Nugnes - parlamentare vicina al presidente della camera Fico che proprio ieri ha di nuovo polemizzato con Salvini. In serata però, quando mancano poche ore al vertice tra Salvini Di Maio e Conte che questa mattina, prima del Consiglio dei ministri, metterà una toppa sullo scontro degli ultimi due giorni, si notano i segni di un dietrofront da parte del vertice a 5 Stelle. Al Di Maio il decreto sicurezza interessa assai meno che il decreto fiscale. È tocca ancora al ministro Fraccaro fare un annuncio, stavolta che “con la Lega stiamo lavorando in sintonia e saranno approvati solo gli emendamenti condivisi”. Messaggio distensivo importante, perché sulla carta il gruppo dei 5 Stelle - ammesso che, nel suo complesso, lo volesse - avrebbe la possibilità di far passare emendamenti al testo, votando con il Pd anche avendo contro tutto il vecchio centrodestra. Naturalmente non andrà così. Anche se resta da vedere con quante defezioni tra i grillini. Nel passaggio iniziale sulle pregiudiziali di incostituzionalità, martedì scorso, Nugnes, Fattori, La Mura e De Falco hanno scelto di non partecipare al voto. Migliucci (Ucpi): i penalisti non daranno tregua a questo governo di Errico Novi Il Dubbio, 20 ottobre 2018 Congresso Ucpi, il Presidente uscente disegna la sfida per chi gli subentrerà. È difficile raccontare un congresso delle Camere penali. È difficile escludere la parola “sogno”. Ricorre anche nei programmi dei due candidati alla presidenza. Ma risuona innanzitutto nell’oratoria incredibile, d’altri tempi, impossibile a resistergli, di Nicolas Domenico Balzano, presidente dei penalisti di Torre Annunziata, con il suo appello rivolto alle assise “più partecipate nella storia dell’Ucpi”. Balzano declama la bellezza di Sorrento, sede del congresso. Poi evoca la “fiamma”, quella dell’amore per la giustizia: “Al di là delle ambizioni legittime dei due candidati, del dibattito che sarà acceso ma leale, al di sopra di voi, giovani e vecchi, ricordate che c’è l’avvocatura”. Applausi. “Tutti fusi in un’unica fiamma, perché la missione per la quale ci battiamo non ci appartiene”. Applausi e lacrime. Inevitabili. È giusto parlare di sogno. Perché oggi le battaglie in cui l’Unione Camere penali italiane è impegnata vedono forze nemiche soverchianti, quelle del giustizialismo. Più che una corrente della politica, un raptus collettivo. Ecco perché battersi e pensare di vincere è un sogno. Che però, come sempre, i penalisti sono ben felici di coltivare, così a loro agio nelle sfide impossibili. Si candidano a diventare presidenti della temeraria armata due ex vertici della Camera penale di Roma, Renato Borzone e Gian Domenico Caiazza. Le urne saranno aperte domani, al termine della tre giorni di dibattiti. Borzone ha guidato l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Ucpi, il secondo si batte in tutte le sedi, anche con una delle migliori trasmissioni, su Radio Radicale, che si possano ascoltare sulla giustizia. Ma l’uno o l’altro avrà un compito mostruoso. E i motivi sono due. Il primo è che mai ci si è scontrati con una piazza tanto refrattaria alle garanzie. Il secondo è che dovranno misurarsi con “un gigante”, come lo definisce Francesco Petrelli, ossia con il presidente uscente dell’Ucpi Beniamino Migliucci. Che è il protagonista della prima giornata del congresso di Sorrento. È proprio Petrelli, a sua volta segretario uscente, a precederlo. Parla due minuti: l’ovazione della sala gli toglie sostanzialmente la parola. Sono tutti con lui, gli avvocati penalisti, più di mille: gli fanno capire che respingono come un solo uomo le accuse del collega Giosuè Bruno Naso, difensore come lui al processo Cucchi e inviperito perché il carabiniere assistito da Petrelli, Francesco Tedesco, ha svelato la probabile verità su Stefano. Di fronte alla solidarietà dell’intera sala, Petrelli è travolto dalla commozione. Migliucci resisterà più di lui, fino a cedere solo per un istante, a fine intervento, quando dopo aver ringraziato “il mio segretario a vita, Francesco”, non trattiene un lievissimo singhiozzo nel ricordare “mia moglie e i miei figli che mi hanno sopportato in questi quattro anni”. E Migliucci li ripercorre tutti. Ricorda “la raccolta firme per la separazione delle carriere” e, soprattutto, “le astensioni: c’è chi dice non siano servite, ma nel batterci siamo riusciti a evitare per esempio che nella riforma del processo penale Casson ci infilasse la sospensione dopo il primo grado. Ma proprio sul “processo che rischia di finire quando sono vecchi i figli dell’imputato, non l’imputato”, si arriva al dunque. “Bonafede dice che la gente lo ferma per strada per chiedergli di interromperla: dubito sia così. Dovrebbe vantarsi della sua estrazione di avvocato, invece dice che è giusto tenere la gente in galera prima della condanna. E si vanta di aver avuto come maestri i magistrati antimafia, anziché di avere una formazione da avvocato”. Ecco, Bonafede è forse il bersaglio più immediato. Ma è contro l’intero governo, che Migliucci invita chi, tra Borzone e Caiazza, domani uscirà vincitore, ad essere “ancora orgoglioso di protestare, come abbiamo fatto in questi anni”. E quando cita i due soli gabinetti da cantiere a disposizione per i 190 naufraghi della Diciotti, avverte così Salvini: “Staremo in piazza per contrastare lo spregio dei diritti, ci staremo tutto il tempo che servirà, il ministro dell’Interno lo deve sapere e deve sapere che non ce ne frega nulla del consenso al 36 o al 37 per cento”. Il presidente che ha fatto dell’Ucpi un soggetto politico assicura che “daremo filo da torcere” all’esecutivo. È un mandato per il successore. Consegnato in una giornata inaugurale in cui il ministro della Giustizia invia un lungo messaggio così accolto da Gustavo Pansini sul banco della presidenza: “Il guardasigilli dovrebbe venire ad ascoltare, non scrivere senza presentarsi, quindi il suo testo non merita di essere letto”. Viene letto invece il messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: esprime “apprezzamento per il tema scelto, che conferma l’impegno delle Camere penali nel promuovere il dibattito sullo Stato di diritto”. Il tema è “Il buio oltre la siepe. La difesa delle garanzie nell’epoca dei populismo”. E che Mattarella apprezzi, vuol dire tanto. Ermini: “Il sorteggio snatura il ruolo e i compiti del Csm” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2018 La proposta del titolare della Giustizia non piace al vice presidente del Csm. No al sorteggio. In qualsiasi forma. E poi correnti sì, correntismo no. Il nuovo vicepresidente del Csm David Ermini esce allo scoperto per la prima volta dall’elezione con una serie di dichiarazioni pubbliche che cominciano a dare la cifra della “sua” consiliatura. Intervenendo a un convegno organizzato da Magistratura Indipendente, Ermini ha espresso “piena contrarietà” all’introduzione di meccanismi di sorteggio nella selezione dei componenti del Consiglio. Ipotesi avanzata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede rispondendo alle domande del Sole  Ore al congresso forense di Catania, ma che Ermini boccia un po’ perché frutto di suggestioni anti-correntizie radicali, molto perché si tratterebbe di una violazione, sostiene il vicepresidente del Csm, dell’articolo della Costituzione sulla libertà di accesso di tutti i cittadini agli incarichi pubblici in condizioni di uguaglianza. A volere tacere, puntualizza Ermini, dell’assoluta irrazionalità della procedura. Ma soprattutto, il sorteggio snaturerebbe nel profondo la natura del Csm. Per Ermini, infatti, se la Costituzione ha stabilito che il Csm deve essere elettivo, è per assegnargli un carattere rappresentativo “che certo non è e non può essere rappresentanza di interessi particolari e personali (individuali o di gruppo) o riferibili ad aree territoriali o a specifiche funzioni o categorie professionali”. Al Csm allora spetta l’attenzione a un interesse generale unico che richiede una forma di rappresentanza basata su una pluralità di punti di vista e “ogni sistema elettorale che si distaccasse da questa prospettiva porterebbe oggettivamente a ridurre il Csm a organo meramente burocratico”. Se le tentazioni di un sorteggio sono da respingere non si può chiudere gli occhi sulle degenerazioni del sistema delle correnti, che, precisa Ermini, non devono trasformarsi in centri di potere e collettori di voti alle scadenze elettorali del Csm. Le correnti piuttosto devono essere “fucina di idee valori”, “aree culturali e di riflessione”. Intanto Ermini prova a smarcarsi dalle accuse di essere il rappresentante solo di alcune componenti dopo un’elezione che ha visto dividersi dopo molto tempo i “togati”. E allora dichiara di volere valorizzare la collegialità dei processi decisionali, nel segno della corresponsabilità. E annuncia che istituzionalizzerà la conferenza dei capigruppo come appuntamento fisso settimanale con laici e togati e l’incontro con i presidenti di tutte le commissioni. Infine, dal Congresso nazionale delle Camere penali di Sorrento Ermini strizza l’occhio agli avvocati criticando il processo mediatico e aprendo al rafforzamento costituzionale della figura dell’avvocato, fortemente richiesto dal Congresso di Catania e dal Cnf. Caso Cucchi, l’Anm contro le “insinuazioni” degli imputati sul processo bis di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 ottobre 2018 La procura di Roma interroga un altro carabiniere della caserma di Tor Sapienza. La crepa, apertasi nel muro di omertà che in questi nove anni ha sequestrato la verità sulla morte di Stefano Cucchi, sta permettendo al pm Giovanni Musarò di progredire nell’inchiesta integrativa al processo bis che vede imputati cinque carabinieri. E proprio per questo non si fermano le violenze verbali, le minacce e le pressioni su Ilaria Cucchi (come gli insulti postati su Fb dal coordinatore cittadino della Lega di Pontecagnano Faiano, Salerno) e sui tre militari che con la loro testimonianza hanno permesso la riapertura delle indagini. Ieri è stato ascoltato in procura il carabiniere Gianluca Colicchio, che ebbe in custodia il giovane geometra nella caserma di Tor Sapienza insieme al collega Francesco Di Sano, il militare che il 17 aprile scorso davanti ai giudici ha ammesso di aver dovuto ritoccare il verbale per ordini “gerarchici”, nascondendo le reali condizioni di Cucchi. La denuncia in procura del vicebrigadiere Francesco Tedesco contro i suoi due colleghi co-imputati accusati del pestaggio, Di Bernardo e D’Alessandro, è successiva. Eppure contro di lui si sono scatenati in tanti. L’avvocato Bruno Naso, difensore del maresciallo Mandolini, allora comandante della caserma Appia alla quale appartenevano i carabinieri che arrestarono Cucchi e imputato per calunnia e falso nel processo bis, ha accusato il difensore di Tedesco di aver stretto “inconfessabili accordi” con il pm. Ieri è arrivata la reprimenda dell’Anm: “Gravi insinuazioni che mirano ad offuscare la indiscussa professionalità e la specchiata correttezza di esponenti dell’ufficio di Procura, impegnati unicamente a far accertare la verità dei fatti”. “Giù le mani dal mio processo”, è stata costretta a ribadire Ilaria Cucchi ieri su Radio Capital riferendosi ancora all’incontro avuto con il generale Nistri: “Ho visto militari in divisa venire a testimoniare e balbettare, tremare. Chiedo: i carabinieri chiamati a testimoniare con quale spirito vengono, si mettono seduti e raccontano quello che sanno, visto come sono stati trattati i colleghi che hanno parlato?”. Luigi Manconi: “una settimana dopo la morte di Stefano Cucchi, quella strana telefonata” di Giulia Merlo Il Dubbio, 20 ottobre 2018 “Sin dai giorni immediatamente successivi alla morte di Stefano Cucchi, alcuni dettagli e alcune circostanze concrete facevano pensare che il bandolo della matassa risiedesse nell’attività dei carabinieri”. Luigi Manconi, già senatore del Partito democratico e oggi direttore dell’Ufficio anti-discriminazioni razziali presso la Presidenza del Consiglio, ha seguito la vicenda del giovane geometra morto il 22 ottobre del 2009 dai suoi primi sviluppi, accanto alla sorella Ilaria e alla famiglia. Oggi, dopo le novità del processo bis, ricostruisce questi nove anni di silenzi. Perché dice che da subito lei e Ilaria avevate sospetti su quanto avvenuto nelle due caserme dei carabinieri? Il primo processo si è incentrato sulla polizia penitenziaria... Fu un particolare a colpirmi molto. A distanza di una settimana dai fatti, mi misi in contatto con Ilaria e resi pubblico un comunicato in cui sollevavo alcuni dubbi sulle ricostruzioni ufficiali e sottolineavo la circostanza della permanenza di Stefano nella custodia dei carabinieri. La sera stessa, dopo il comunicato, ricevetti una telefonata da un giornalista che seguiva la cronaca di Roma. Inizialmente provò a chiedermi informazioni, poi cambiò completamente registro e cominciò a contestare gli elementi che a me sembravano dubbi della versione ufficiale. Ecco, avvertii chiaramente che quel cronista parlava per conto dei carabinieri, dai quali aveva ricevuto elementi da opporre a quella che era una mia prudentissima ipotesi. Memorizzai questo episodio come il segnale preoccupante di una attenzione spasmodica verso tutto ciò che riguardava la morte di Cucchi e che poteva suggerire un’interpretazione diversa dei fatti. Poi le indagini presero una direzione diversa... Sì, concentrandosi sulla polizia penitenziaria. Eppure anche all’epoca io continuavo a ipotizzare che il ruolo dei carabinieri potesse essere stato diverso rispetto a quello della prima ricostruzione. Conferma di ciò mi venne da un’indagine interna alla polizia penitenziaria svolta da un magistrato, Sebastiano Ardita, allora dirigente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I risultati di quell’indagine, che certo aveva una funzione difensiva, mi apparvero tuttavia particolarmente persuasivi e si indirizzavano verso l’operato dei carabinieri. A differenza della lettura, come dire, astratta che venne data nel primo processo, sulla base di una sorta di teorema affidato a concatenazioni logiche più che fattuali, peraltro decisamente fragili. Il caso, ormai, era diventato di dominio pubblico, e si alternarono varie ricostruzioni dei fatti. Che impressione ricavò di quel dibattimento? Anche in quella circostanza si dovette assistere all’applicazione di un meccanismo, già sperimentato in precedenza, e che ho chiamato di “doppia morte”. Un dispositivo utilizzato nei processi Aldrovandi, Uva, Budroni, Ferrulli e in chissà quanti altri. Dopo il decesso della vittima, si procede alla sua stigmatizzazione. Si condanna lo stile di vita, i precedenti e le trasgressioni del morto per giungere alla conclusione che, in qualche modo, “se l’è cercata”. Questo meccanismo ha un effetto dirompente, perché rende ancora più debole la vittima, contribuisce a scoraggiare una ricerca accurata dei responsabili e rinnova il dolore dei familiari. Però, all’origine del caso Cucchi vi fu - ancor prima della morte - una desolante sciatteria del nostro sistema giudiziario. A cosa si riferisce? All’udienza di convalida del suo arresto, a Cucchi venne attribuita una nazionalità straniera e la condizione di “senza fissa dimora”, nonostante fosse regolarmente residente in città. E questo segnala come il momento preliminare del procedimento giudiziario sia avvenuto con modalità di tale trasandatezza da rendere immediatamente meno tutelata e meno difendibile la posizione dell’arrestato. A Stefano vennero tolti i più elementari strumenti di difesa: la sua figura sociale non era più quella di un giovane geometra romano trovato in possesso di sostanze stupefacenti, bensì quella di un emarginato cronico, senza fissa dimora e di nazionalità incerta. Basta questo a dare la misura della fragilità di persone che entrano in contatto col sistema penale e subito si trovano in posizione di acuta disparità. Poi il caso arrivò anche sui banchi del Parlamento... E anche in quella sede, oltre che su certa stampa, venne messo in atto il dispositivo della “doppia morte”. Un parlamentare definì Stefano con questi termini: epilettico, tossico, anoressico e sieropositivo. Ora, quando di una vittima si fa questa descrizione, è evidente che si intende solo sfregiare la sua persona e la sua immagine. Oggi, nove anni dopo la morte, la confessione di un carabiniere. Chi difende gli imputati mette in discussione la veridicità di una dichiarazione così lontana temporalmente dai fatti. Lei crede al racconto di Tedesco? Sarebbe certo interessante capire perché ci siano voluti nove anni per ottenere quella confessione, ma questo è secondario. Il punto è che, finalmente, qualcuno ha detto che il pestaggio è avvenuto e chi sono gli autori. E va ricordato che anche le sentenze di assoluzione dei poliziotti penitenziari già avevano accertato che le violenze c’erano state. Ignoti erano solo gli autori. E quei nove anni non contano? È ovvio che per un lungo periodo ha retto una rete di omertà, basata sulla complicità tra i responsabili diretti, colleghi e superiori che hanno coperto quelle violenze. E il fatto che le indagini fossero state indirizzate contro un altro corpo di polizia avrà rinsaldato presumibilmente quel sistema di protezione. Poi, per ragioni che attengono alla coscienza individuale, alla capacità di indagine della Procura e a non so che altro, alcune connivenze sono crollate e qualcuno ha parlato. Certo, chi vuole difendere a tutti i costi e contro ogni evidenza i responsabili di una simile efferata violenza lo può fare, poi se la vedrà con la propria coscienza, se ne ha una. Sotto processo, ora, ci sono i presunti responsabili. Vista la mediaticità del caso, sul banco degli imputati ci sono loro o le divise che portavano quella notte? In decenni che mi occupo di questi temi, non mi è capitato mai di assistere a processi indiscriminatamente indirizzati contro i carabinieri. Nel caso Cucchi non ho visto mai attacchi generici e indistinti nei confronti dell’Arma. Solo ed esclusivamente una circostanziata attribuzione di responsabilità a singoli militari. In molti, però, hanno sentito il dovere di ribadire che responsabili e corpo dei carabinieri sono due cose distinte... Ma chi ha mai detto il contrario? Nessuno ha mai affermato o scritto che l’intera Arma è una banda di assassini. Respingere preventivamente un’accusa mai formulata è un logoro espediente retorico per confondere le acque. In questi giorni mi è capitato di sentire più di un esponente politico liquidare in un secondo le responsabilità di chi ha usato violenza contro Cucchi e poi dedicarsi a ditirambi e panegirici a favore dell’Arma dei carabinieri. Legittimo, ma fuori tema. L’eroismo di tantissimi carabinieri è indubbio, così come è incontestabile che la grande maggioranza degli appartenenti all’Arma si Invece? comporti correttamente. Ma è altrettanto certo che gli episodi di illegalità non sono così rari. Dunque, imposterei così il discorso: la massima parte si comporta bene; i responsabili delle violenze vanno puniti; bisogna evitare che questi episodi, non così isolati, vengano tollerati, protetti corporativamente e, di conseguenza, se non incentivati comunque non impediti. Chi dice che “si tratta solo di poche mele marce” ignora una legge elementare della botanica: anche poche mele marce, se rimangono nel cestino, fanno marcire tutte le altre. Quanto ha pesato mediaticamente e processualmente il ruolo di Ilaria Cucchi? E quanto ha contato, nel caso Aldrovandi, la madre? In quello Ferrulli, la figlia? In quello Uva, la sorella? Queste figure femminili esprimono, per un verso, la profonda intimità di un vincolo di sangue indissolubile con la vittima; dall’altro, tutta la forza di chi a partire da quel legame chiede verità e giustizia. Non sono delle moderne Antigoni: lei opponeva la ragione del cuore alle ragioni dello Stato, loro hanno opposto alla cattiva e violenta ragion di Stato la fiducia nelle leggi e nei diritti delle vittime. Il suo dolore è stato il veicolo che ha permesso di non far dimenticare il caso? Le racconto un fatto. In questa vicenda, di fondamentale importanza per sollecitare l’attenzione sono state le foto scattate in obitorio. All’epoca Ilaria mi chiese consiglio se renderle pubbliche o meno, in una conferenza stampa che avevamo organizzato per il giorno successivo al Senato. Io le dissi che non mi esprimevo, perché si trattava di una scelta che riguardava esclusivamente la famiglia. Dopo molte ore, i familiari decisero di renderle pubbliche e io fui d’accordo, ritenendolo tanto doloroso quanto necessario. Non a caso, quelle foto ebbero un ruolo decisivo, perché così inequivocabili nella crudeltà che documentavano. La scelta, però, fu drammatica, perché con la diffusione i familiari rinunciavano a una parte della dimensione privata del loro dolore, sacrificandola perché diventasse di interesse collettivo. Ora che siamo a una svolta della vicenda processuale, il caso Cucchi nella sua dimensione pubblica potrebbe evitare che altre tragedie simili avvengano in futuro? Io ho un’idea meno ottimistica. Credo che questa vicenda sia ancora ignorata da una parte significativa della società italiana e che a favore di Stefano sia ancora solo una minoranza, pur robusta e che cresce. Non c’è dubbio che sia stato incentivato un meccanismo di dissuasione e deterrenza, ma ancora in modo non risolutivo. Una nota positiva in senso generale, però, si può ricavare. Quale? Abbiamo avuto conferma che il nostro sistema è in grado di giudicare se stesso e di introdurre elementi di controllo e di auto-correzione. Si è trattato di un test essenziale per il nostro sistema democratico e ha dimostrato che esistono strumenti che consentono di vigilare sul comportamento di quelle istituzioni che hanno il potere grande e terribile del monopolio legittimo della forza. Non mi faccio troppe illusioni per il futuro, però. Caso Uva: la procura generale fa ricorso contro l’assoluzione di poliziotti e carabinieri La Repubblica, 20 ottobre 2018 A maggio gli otto imputati nel processo per la morte dell’operaio di Varese erano stati assolti. Il pg chiede di riascoltare alcuni testimoni. La procura generale di Milano ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza di assoluzione sugli otto imputati nel processo per la morte di Giuseppe Uva. Gli otto - sei agenti e due carabinieri - nel maggio scorso sono stati tutti assolti in appello “perché il fatto non sussiste”. L’accusa, per loro, era di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato per la morte di Giuseppe Uva, un operaio di Varese di 43 anni che, il 14 giugno 2008, morì all’ospedale di Varese, dopo essere stato fermato e portato in caserma dai carabinieri per accertamenti. Nel processo d’appello il sostituto procuratore generale di Milano Massimo Gaballo aveva chiesto condanne fino a 13 anni di carcere, ma i giudici della Corte d’assise di appello avevano confermato la sentenza di assoluzione emessa in primo grado dai giudici del tribunale di Varese. Gaballo ha impugnato la sentenza chiedendo di riascoltare quattro testimoni: tra questi c’è Alberto Bigioggero, l’amico di Uva presente la sera del fermo da parte dei carabinieri. Oltre alla richiesta di rinnovare l’istruttoria, nei motivi di appello viene contestata l’assoluzione dal reato di sequestro di persona e di omicidio preterintenzionale. Il Pg chiede quindi che la Cassazione annulli la sentenza impugnata e rinvii a un’altra sezione della Corte d’assise d’appello per un nuovo giudizio. La famiglia della vittima - che in questi anni ha condotto una battaglia assieme a Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano Cucchi - è da sempre convinta che il decesso di Uva sia stato provocato dalle percosse e dalle manganellate inflitte all’uomo dalle forze dell’ordine che lo tenevano in custodia. Per i giudici, invece, è legittima la condotta di carabinieri e poliziotti intervenuti nel tentativo di contenere Uva che, insieme all’amico, stava dando in escandescenze. Uva, per i giudici, morì a causa di una patologia cardiaca e per lo stress per essere stato fermato in stato di forte ebbrezza. Di casi come Cucchi ce ne sono a decine in Italia. Non dobbiamo dimenticarli di Luigi Mastrodonato thevision.com, 20 ottobre 2018 Quando una persona muore nelle carceri italiane, o durante le fasi di fermo da parte delle forze dell’ordine, le certezze sono due: primo, rimarranno per lungo tempo diverse ombre sulle circostanze che hanno portato al decesso; secondo, quest’ultimo verrà risolto, nella maggior parte dei casi, con la formula standard della “morte per cause naturali”. Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva. Sono tra i casi di persone morte nelle mani dello Stato che probabilmente hanno avuto maggiore eco mediatica negli ultimi 15 anni. Questo è avvenuto non tanto per l’assurdità delle circostanze della loro morte, né solo per la volontà delle istituzioni di mantenere i riflettori accesi sulle rispettive vicende. Un ruolo determinante lo ha avuto la strenua ricerca di verità portata avanti dai familiari, tra raccolta firme, creazione di associazioni, rilascio di interviste e altre iniziative popolari. Ilaria Cucchi è diventata un simbolo nella lotta agli abusi di Stato, perché ha fatto emergere un tema che per lungo tempo era rimasto nascosto come polvere sotto al tappeto. Ha lottato contro le incongruenze nella ricostruzione dei fatti di quel maledetto ottobre del 2009, ma anche contro un vergognoso esercito di hater che l’ha accusata di speculare sulla morte del fratello. Ilaria Cucchi Ilaria ha dovuto poi affrontare le istituzioni. Carlo Giovanardi, che ha già emesso la sua sentenza - “Stefano Cucchi è morto per droga” - ma anche l’attuale ministro dell’Interno Matteo Salvini, che ha dichiarato di essere schifato dalla donna, invitandola a vergognarsi delle sue battaglie, e che ancora oggi, dopo la confessione dell’agente Tedesco, non è stato in grado di chiedere scusa. Ilaria ha poi dovuto sopportare le prese di posizione del sindacato della polizia, in quel festival dell’omertà e del non rispetto che ha dimostrato quanto in basso si può cadere. “Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie,” ha detto Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap e oggi parlamentare della Lega. Nonostante tutto questo, la sorella di Stefano non ha mai mollato, neanche quando, nel 2014, gli agenti coinvolti sono stati tutti assolti in Appello. Come Ilaria Cucchi, anche la famiglia Aldrovandi non si è mai arresa nella battaglia volta a ottenere piena chiarezza sulle circostanze della morte di Federico. Dopo la condanna degli agenti, la madre Patrizia Moretti ha continuato a farsi sentire, non solo per Federico, ma anche per tutte le altre persone morte in carcere, nelle mani dello Stato. Sono passati dieci anni, ma Rita Uva, sorella di Giuseppe, non ha intenzione di mollare e farà di tutto perché venga individuato il colpevole di quelle quelle ferite sul corpo del fratello. Sono storie di attivismo familiare, di ricerca disperata di giustizia, di sensibilizzazione su un tema tanto pericoloso quanto troppo spesso taciuto, quello delle morti di Stato. In mezzo a queste storie più note, però, ce ne sono molte altre di cui probabilmente non si è mai sentito parlare, o che comunque non hanno avuto l’attenzione che meritavano. Storie di omissioni, incongruenze e presunte violenze, che svelano un panorama italiano fatto di tanti Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva. Per lo Stato, storie di morti “per cause naturali”. Aldo Bianzino è morto in carcere per “cause naturali”. Un aneurisma, secondo quanto stabilito dalla giustizia italiana. Una mattina del 2007, alcuni poliziotti fanno irruzione nella loro casa per un’operazione antidroga. Viene trovata qualche pianta di cannabis e delle foglie lasciate a essiccare. Aldo viene portato in commissariato, insieme alla compagna. Morirà in una cella di isolamento del carcere di Perugia 48 ore dopo. Come sottolinea Annalisa Camilli su Internazionale, Rudra Bianzino “Pensa che il padre sia stato lasciato morire da solo come un cane, ma è ancora più convinto che a ucciderlo non sia stata un’emorragia subaracnoidea spontanea”. La prima perizia fatta sul corpo dell’uomo aveva infatti rilevato ematomi cerebrali e danni al fegato, definiti incompatibili con quel solito marchio di “morte per cause naturali” con cui è stata archiviata la questione. “L’ipotesi del medico, all’epoca, fu quella di un pestaggio fatto con tecniche militari usate per danneggiare gli organi vitali senza lasciare tracce”, scrive Camilli, “ma la procura non accolse questa ricostruzione e archiviò l’indagine per omicidio”. Oggi Rudra continua la sua battaglia per la verità, chiede a gran voce che venga creata un’apposita commissione d’indagine parlamentare sulle morti avvenute per abusi delle forze dell’ordine, e lavora a stretto contatto con l’Associazione contro gli abusi in divisa (Acad). Niki Aprile Gatti, 26 anni, viene arrestato il 19 giugno 2008 con l’accusa di frode informatica. Lo portano nel carcere di Firenze, dove rimarrà per quattro giorni in cella d’isolamento. Il 24 giugno viene trovato morto. Un suicidio, dicono. Ma con il passare del tempo emergono numerose contraddizioni nella ricostruzione delle circostanze del decesso. L’orario della morte, gli strumenti utilizzati per togliersi la vita, le testimonianze degli agenti penitenziari e dei vicini di cella. L’associazione A Buon Diritto ha raccolto molte incongruenze e, assieme alla madre del ragazzo, da anni chiede la riapertura delle indagini, affinché possano essere chiarite le ombre sulla morte del ragazzo. Stefano Brunetti, 43 anni, viene arrestato ad Anzio l’8 settembre del 2008, durante un tentativo di furto. Muore il giorno successivo in ospedale, per “cause naturali”. Eppure, secondo l’autopsia, il decesso avviene per emorragia. L’uomo ha la milza perforata, tumefazioni sulle braccia e sul torace, e due costole rotte. In quelle poche ore tra l’arresto e il decesso in ospedale, Stefano lamenta di essere stato picchiato durante l’interrogatorio. I poliziotti che lo avevano in custodia vengono assolti in tutti i gradi di giudizio, sebbene la corte d’Appello avesse chiesto per loro dieci anni di carcere. La sentenza è che Stefano si sarebbe fatto male da solo, in un atto di autolesionismo, fino a rompersi le costole e spappolarsi la milza. Restano tante ombre su quel caso e oggi la famiglia continua a cercare la verità, tramite un osservatorio apposito. Serena Mollicone, 18 anni, scompare il primo giugno 2001, ad Arce, e viene ritrovata in un bosco con un sacchetto di plastica sulla testa, mani e piedi legati con scotch e fil di ferro e una ferita vicino all’occhio. La bocca è coperta da un nastro che le avrebbe causato la morte per asfissia. Dell’omicidio viene accusato prima un carrozziere, poi delle donne polacche, poi un parente. Intanto gli anni passano, un carabiniere informato sui fatti si suicida in circostanze sospette e il corpo di Serena viene riesumato più volte per nuovi rilievi. Lo scorso settembre, 17 anni dopo il decesso, la perizia del Ris conferma che la ragazza è stata uccisa nella caserma dei Carabinieri. Quello di Serena diviene così un altro, ennesimo, omicidio di Stato, con tre agenti indagati per omicidio volontario e occultamento di cadavere. Serena Mollicone Riccardo Rasman, 30 anni, muore il 27 ottobre 2006 nel suo appartamento a Trieste: ammanettato a terra, le caviglie legate da un fil di ferro, gli agenti sopra di lui, il cranio sfondato, i muri pieni di sangue. Dicono sia morto per cause naturali, un arresto respiratorio. In realtà gli agenti verranno condannati a sei mesi per omicidio colposo, perché, secondo il pm, non potevano sapere che le loro azioni avrebbero avuto conseguenze mortali sul ragazzo. Marcello Lonzi, 29 anni, muore nel 2003 nel carcere di Livorno. Si parla di suicidio, poi di infarto, poi di collasso cardiaco, fino alla proverbiale caduta dalle scale. In obitorio il corpo è pieno di sangue, i denti sono rotti, il volto gonfio, la pelle tagliata, le costole spezzate. Le perizie sul corpo smentiscono quelle fatte in un primo momento, che davano un quadro meno grave delle condizioni dell’uomo al momento del ritrovamento. Testimoni in carcere raccontano versioni differenti rispetto a quelle della polizia penitenziaria. Eppure il caso viene archiviato nel 2015. La madre e diverse associazioni continuano a chiedere di fare luce sulle cause che hanno ridotto il corpo di Marcello in quel modo. Per lo Stato, anche in questo caso, si è trattato di “morte naturale”. La lista delle persone morte in circostanze sospette è ben più ampia: Michele Ferrulli, Riccardo Magherini, Carmelo Castro, Simone La Penna, Cristian de Cupis, Manuel Eliantonio e tante altre vittime per cui è necessario ottenere piena verità. “Nei casi di tortura e di violenze istituzionali, nel nostro Paese, perseguire i responsabili è operazione tragicamente impossibile. Mancano le norme come il reato di tortura e manca una cultura pubblica di rispetto profondo della dignità umana,” dichiarava nel 2014 Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Nell’estate del 2017 una legge sul reato di tortura è stata introdotta: prevede dai 4 ai 10 anni di carcere per i responsabili, che salgono fino a 12 se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. Il testo è stato però snaturato rispetto a quello originale, presentato dal senatore Pd Luigi Manconi nel 2013. Lo stesso Manconi si è astenuto nella votazione in Senato: “Le modifiche approvate lasciano ampi spazi discrezionali perché, ad esempio, il singolo atto di violenza brutale di un pubblico ufficiale su un arrestato potrebbe non essere punito,” ha spiegato. Il testo stabilisce poi che il fatto deve essere “commesso mediante più condotte,” limitando di fatto la tortura a una pluralità di azioni. A ulteriore tutela delle forze di polizia, viene confermata l’esclusione dalla normativa di una legge che preveda pene anche per tutte le sofferenze risultanti dalla privazione dei diritti da parte di pubblici ufficiali. La legge ha scontentato un po’ tutti. Antigone e Amnesty International, che trovano troppo limitante il modo in cui viene definito il reato e lamentano un eccesso di tutele per chi potrebbe macchiarsene. Anche i sindacati di polizia se la sono presa, ma per i motivi opposti. In particolare, contestano le “Pene elevatissime per i pubblici ufficiali che dovessero incorrere in una delle fattispecie di questo reato”. Anche una certa politica deve esserne uscita delusa, quella rappresentata da Matteo Salvini, che nel 2015 scriveva frasi come “No al reato di tortura, polizia deve fare il suo lavoro,” o da Giorgia Meloni, che a luglio scorso sottolineava che “Il reato di tortura impedisce alla Polizia di lavorare.” Qualcuno dovrebbe fargli notare che i pestaggi non rientrano nel mansionario di Polizia e Carabinieri. Con colpevole ritardo, comunque, l’Italia si è dotata di una legge sul tema. Una manciata di norme ancora insufficiente, ma che costituisce un primo passo importante per perseguire quello che fino a oggi è stato chiamato “morte naturale”, o al massimo “omicidio colposo”. C’è da andare avanti, lavorando in parallelo sulla costruzione di una cultura della giustizia istituzionale, che combatta l’omertà, la falsificazione delle prove, la fiducia incondizionata nello Stato anche davanti all’evidenza dei fatti. Ha detto bene Carlo Lucarelli, durante un’intervista a Propaganda Live qualche settimana fa: “Quando tu sei nelle mani dello Stato, esso ha la responsabilità di quello che ti succede. Tu devi essere custodito dallo Stato, che significa che non solo non devi scappare, ma anche che non ti deve succedere niente di male. Quando una persona muore nelle mani dello Stato, vuol dire che c’è un problema”. Le piazze e i cinema gremiti delle ultime settimane per la proiezione del film Sulla mia pelle, gli striscioni negli stadi, le canzoni, le dediche, le prese di posizione a ogni latitudine, l’attivismo della società civile sono un urlo sempre più forte affinché si faccia luce su questo problema. Una violenza istituzionale che esiste, ma che in troppi vogliono nascondere. Sicilia: Apprendi (Antigone) “campagna contro l’utilizzo delle celle di isolamento” di Katya Maugeri sicilianetwork.info, 20 ottobre 2018 Il sistema carcerario, nel corso dei secoli, è mutato: passando da un carcere punitivo, basato su torture e umiliazioni, ad uno rieducativo, che pone al centro del trattamento il detenuto, l’uomo, attraverso il suo graduale recupero e reinserimento nella società. La funzione principale della detenzione, quindi, dovrebbe essere quella di correggere il comportamento di chi ha commesso il reato, non attraverso la punizione, ma riabilitandolo e integrandolo socialmente. È importante, però, che durante questo percorso non vengano meno i propri diritti, il detenuto deve sì avere delle limitazioni necessarie per assicurare l’esecuzione della pena pur mantenendo la propria dignità. Si è, negli anni, sviluppata una coscienza dei diritti dei detenuti e della loro tutela, per cui il carcere non deve essere luogo di sopraffazione o di degradazione della personalità, ma luogo in cui persone scontano una pena legalmente inflitta. Ed è così che l’associazione Antigone che si occupa di tutelare i diritti delle persone che si trovano in carcere è sempre presente sul territorio per garantire un miglioramento della condizione umana del detenuto. “Per moti addetti ai lavori, il carcere deve essere considerato una discarica sociale - ci spiega Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, durante la nostra intervista - perché chi entra in carcere è condannato a prescindere, molti dimenticano che tantissime sono le persone in attese di giudizio successivamente prosciolte, che vivono la terrificante esperienza di un carcere ingiusto. Il trattamento in carcere è solitamente disumano. Ci sono molte manifestazioni di facciate pubblicizzate ad arte come attività ludiche - continua Apprendi - di formazione all’interno del carcere che fanno bene, ma si tratta solo di una minoranza rispetto a ciò che realmente accade all’interno del carcere. Si dà una idea errata all’esterno: come se la reclusione fosse un’isola felice. Minimale, rispetto al numero di persone che invece in carcere non hanno la possibilità di lavorare o di svolgere attività e che devono seguire un “regime” pesante sia nel rapporto gerarchico tra colleghi detenuti che all’interno impongono regole”. La “disumanità” della pena deve ritenersi in contrasto con il rispetto della dignità umana e non può essere in alcun caso né ammessa né tollerata. La capacità di rispettare e riconoscere la dignità umana dei detenuti è la misura della nostra civiltà: la dignità umana non si perde a seconda delle circostanze di vita o dei comportamenti tenuti, ed è compito delle Istituzioni proteggerla senza escludere nessuno. Un detenuto trattato male, umiliato, che subisce abusi durante la carcerazione si sentirà vittima dello Stato. In questo modo si otterrà un percorso pericoloso di vittimizzazione di colui che invece ha infranto la legge. Il detenuto vessato, trattato male, umiliato, non comprenderà gli errori commessi, non metterà in discussione la propria storia, né vedrà mai come sbagli le proprie azioni, ma sposterà l’obiettivo verso lo Stato ritenendolo così unico colpevole delle scelte e della strada - illegale - intrapresa. Sentendosi, così, autorizzati a violare la legge. Nuovamente. Un detenuto, invece, trattato con giustizia e umanità avrà e sarà un esempio di legalità. Una pena disumana aumenta inevitabilmente i tassi di recidiva. L’orrore della “cella liscia” - “Noi, come associazione Antigone abbiamo intrapreso una battaglia contro l’isolamento. Un orrore disumano - spiega Apprendi - abbiamo riscontrato dati allarmanti: dal 2015 si sono stati 150 casi di isolamento. L’ulteriore danno psicologico. In questa condizione, la funzione rieducativa manca assolutamente, quindi i detenuti sono “condannati a vita” a non ritrovare una normalità, con rischi di recidiva altissimi. Si chiama “liscia” o “cella zero” perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari (i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Viene utilizzata per sedare i detenuti che danno in escandescenza, oppure che compiono più volte atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. Un rimedio che molto spesso risulta anche deleterio visto che non sono mancati casi di suicidio proprio all’interno di queste celle. Lasciano scivolare del cibo freddo attraverso uno sportellino di metallo della porta della cella. È un trattamento che distrugge l’umanità dei carcerati, danneggia la loro salute mentale e rende più difficile la reintegrazione nella società dopo la loro uscita. “In quella stanza liscia con le pareti vuote, la persona impazzisce. Solo una lampadina al centro della stanza e nulla più. Denudati e gettati dentro la cella. L’isolamento è una tortura - e il reato di tortura va condannato - un trattamento inammissibile. La persona viene destabilizzata, lì si impazzisce, ho sentito le loro storie. Gente che si è sbattuta la testa contro il muro. Mi ricordo che durante un inverno chiesi come mai il ragazzo che si trovava nella cella di isolamento non avesse una coperta, mi fu risposto che avrebbe potuta chiederla al poliziotto di turno. Ragazzini completamente nudi, denudati di abiti e dignità”. Suicidi e libertà - La morte dei due bimbi a Rebibbia - lanciati dalle scale all’interno della sezione Nido del penitenziario - ripropone una questione mai risolta del tutto: è giusto, è opportuno, che le detenute con figli piccoli scontino la pena in carcere? Servirebbero delle soluzioni concrete che garantiscano l’espiazione della pena senza dover rinunciare al rapporto necessario, affettivo tra le mamme e i bambini. “Un gesto di dolore, paradossale. Li ha uccisi per liberarli. Sì, perché chi si uccide in carcere, crede di potersi liberare da un tormento quotidiano, dal pensiero che li vede detenuti senza scadenza, vogliono liberarsi da un incubo che non finirà mai. Gli ultimi tre episodi di suicidio al Pagliarelli sono avvenuti il giorno seguente del trasferimento dei detenuti in altri reparti: c’è sicuramente un problema di procedure. Un cambiamento drastico, da un giorno all’altro, sono persone che lasciamo il loro ambiente i loro compagni - che inevitabilmente ti eri fatto amico - per essere catapultato senza preavviso in un altro posto. Mi chiedo, questo passeggio avviene attraverso delle procedure chiare? Lo psicologo è intervenuto durante questo transito? Colloqui con l’assistente sociale durante il quale veniva spiegata la motivazione del trasferimento? È un caso che gli ultimi tre suicidi sono avvenuti dopo un trasferimento? Sono quesiti che andrebbero ben studiati. All’interno delle carceri servirebbe un ambiente più umano, con una maggiore apertura nell’uso delle telefonate, per esempio, per i detenuti non soggetti a censura che, per garantire un rapporto costante con i propri famigliari, potrebbero costituire un utilissimo strumento per prevenire gesti autolesivi. L’isolamento è sempre devastante per la psiche della persona. La situazione delle carceri in Sicilia - “Persistono dei disagi causati dalle pessime condizioni strutturali delle carceri: ad Agrigento celle super affollate con 5/6 detenuti in pochissimi metri quadrati, in letti a castello dove se sta in piedi uno gli altri devono stare seduti per ottimizzare lo spazio. Serve ristrutturare le strutture, che risalgono per la maggior parte al secolo scorso. Una situazione devastante. Credo fortemente che il detenuto in cella, deve potersi sentire libero, anche di leggere un libro. In alcune carceri questi lavori sono già in atto, come all’Ucciardone, al Pagliarelli. Un passo verso l’umanità, si spera”. Fuori le sbarre troviamo una società non preparata, inconsapevole della realtà carceraria convinta ancora che i detenuti siano all’interno di un centro benessere, in un hotel a cinque stelle. “Dobbiamo togliere la libertà e far scontare la pena, ma non la dignità. Quella deve sempre essere salvaguardata. Se uno viene condannato a vent’anni, perché un ulteriore accanimento? Non ha senso. Questo terremoto psicologico che avviene nelle teste delle persone è devastante. Il detenuto vive in una condizione di forte sofferenza se consideriamo il distacco dall’amore familiare, dai figli, il senso di colpa nei loro confronti. figli che, se piccoli, avvertono il distacco come un abbandono. “Sono dinamiche che andrebbero studiate, però nessuno vuole investire in questo perché il detenuto deve fare parte della discarica sociale, non sapendo il danno che c’è di ritorno: incattivirsi in carcere per poi tornare a delinquere. È un doppio danno per la società se non si riesce a rieducare il detenuto te lo ritrovi domani ancora più aggressivo. E a cosa servirebbe costruire più carceri? - come sostiene Matteo Salvini - a nulla. Bisognerebbe trovare delle soluzioni, nuovi processi rieducativi. Dare la possibilità di scontare la pena diversamente, bisogna svuotarli i carceri: chi sbaglia va condannato ma non si deve togliere la dignità, serve rieducare il detenuto. E non solo, occorre rieducare la società. Dopo le stragi è stato effettuato un egregio lavoro di legalità nelle scuole, ma sulle carceri il silenzio, disinformazione. È diventato un problema culturale. Noi non ci fermiamo, continuiamo. Siamo piccoli ma facciamo grandi battaglie. Ai ragazzini va insegnata il rispetto per la dignità dell’uomo, dalle scuole. Il problema chiaramente è anche legato alla politica, che dovrebbe dare linee guida e invece questo Governo sta dimostrando di essere ben lontano dal concetto stesso di accoglienza”. Servono piccoli passi intrapresi con più coscienza civile, meno pregiudizi e umanità. Vigevano (Pv): è morto il detenuto che si era dato fuoco in carcere inforete.it, 20 ottobre 2018 L’uomo, di origini etiopi, era rimasto gravemente ustionato. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “Un episodio doloroso e tragico, che restituisce uno spaccato drammatico della vita penitenziaria”. Nella notte tra mercoledì e giovedì della scorsa settimana si era dato fuoco, provocando un incendio all’interno della casa di reclusione di Vigevano. Il detenuto, un 25enne originario dell’Etiopia, è morto ieri (venerdì). Aveva riportato ustioni di terzo grado in gran parte del corpo ed era stato trasportato con l’elisoccorso in gravi condizioni al Niguarda di Milano. “È un episodio doloroso e tragico - commenta Francesco Basentini, capo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - che restituisce uno spaccato drammatico della vita penitenziaria. L’uomo aveva un fine pena molto ravvicinato, nel maggio 2019. Aveva più volte dato segni di squilibrio ed era stato al centro di episodi di violenza. Nel darsi fuoco ha creato il panico nella struttura e ha messo a rischio, oltre alla propria, anche la vita degli agenti penitenziari. È l’ennesimo tragico episodio all’interno delle carceri”. Milano: pane, rose e (semi)libertà: viaggio nel Consorzio dove i detenuti lavorano di Francesco Floris falacosagiusta.org, 20 ottobre 2018 Il boccone di carne gli rimane in gola. È ottobre 2013 e “Seba” - “chiamami così, come il tuo migliore amico”, mi dice col suo accento di San Luca, Calabria profonda, sta aspettando la chiamata dell’avvocato, seduto a un tavolino di un ristorante. Sta mangiando una fiorentina, con due sentimenti contrastanti: in un caso festeggerà la libertà con una costata “fatta come Dio comanda”, nella seconda ipotesi quella sarà l’ultima cena degna di questo nome per parecchio tempo a venire. Il legale telefona. La Cassazione ha confermato la condanna. Seba è di fronte a un altro bivio: scappare o presentarsi spontaneamente in carcere?. Ferma un taxi: “Mi porti a Rebibbia”. “Dove a Rebibbia?” “Al carcere di Rebibbia”. “Ma lavora lì?”. “No, devo entrare per restarci”. “È sicuro che non vuole essere portato all’aeroporto di Fiumicino?” chiede il tassista a metà fra il complice e il terrorizzato. “Così in carcere ci finisci pure tu”. Nella casa circondariale di Roma non lo prendono, per problemi burocratici, va in albergo e in seguito si costituisce al carcere di Bollate, Milano. Assieme ad un altro calabrese, più vecchio di lui, condannato nell’ambito dello stesso procedimento penale. “Il reato è del settembre 1993, ero un ragazzino - spiega Seba -: È normale che mi condannino 20 anni dopo?”. Non lo dice con tristezza. Almeno visibilmente non pare rammaricato. Tutt’altro. Sembra perplesso, quasi divertito dalle inefficienze della giustizia italiana. Ora sta nel carcere di Opera, sud di Milano, e gode dei benefici dell’articolo 21: regime di lavoro all’esterno dopo aver scontato almeno un terzo della pena. Si esce a lavorare senza scorta se non per gravi motivi di sicurezza. Il 18 ottobre è il suo compleanno, taglia la torta, e lo sta festeggiando sul posto di lavoro dentro al Consorzio di viale dei Mille a Milano. Nato tre anni fa su impulso dell’assessorato al lavoro di Cristina Tajani e del Comune, che ci ha messo edificio e risorse economiche assieme a Fondazione Cariplo, la struttura raggruppa le cooperative di detenuti che lavorano nelle tra carceri milanesi di Opera, Bollate e San Vittore: 185 persone occupate nelle imprese socie, di cui 115 con problemi di giustizia ancora in corso, 4 milioni e 385mila euro di fatturato nel 2017, sommando i bilanci delle sei cooperative fondatrici. Che si chiamano “Bee4 Altre menti” che si occupa di data entry, controllo qualità a Bollate ed è quella che fattura più di tutte con i suoi 2 milioni e 380mila euro; “Opera in fiore” nella casa di reclusione di Opera che lavora nel tessile, manutenzione aree verdi e consegna frutta e verdura; la storica coop sociale “Alice” di San Vittore, dal 1992 attiva su linee di abbigliamento, sartoria forense, prodotti in pelle; “Il Gabbiano” di Sondrio nel mondo agricolo con vigne, meleti, orti; “In Opera” che è la coop per cui lavora proprio Seba, nel panificio e forno interni al penitenziario, e con pizze, focacce, crostate e biscotti che vengono portati all’esterno per commercializzarli in questo store sulla circonvallazione. E infine “Zerografica”, di cui fa invece parte Luca che a Bollate gestisce “Zeromail”, un servizio per permettere alle persone ristrette di comunicare più velocemente con parenti, amici, avvocati, portando le loro lettere all’esterno e inviandole via web. Il negozio di viale dei Mille è stato ristrutturato in estate e presentato al pubblico nella nuova veste il 10 ottobre. “Prodotti stupefacenti” si legge sulle vetrine, “Entrare a curiosare non è reato” è un altro degli slogan. “Ora l’obiettivo è allargare il più possibile ad altre realtà carcerarie italiane” spiega Carlo al banco vendita. Lui è anche attore teatrale per il gruppo di reclusi ed ex reclusi chiamato “Opera Liquida”. Hanno fatto sold out al Piccolo Teatro con due date consecutive. Uno spettacolo di un’ora, 9 attori sul palco che “raccontano le loro esperienze personali nei quartieri: guerre fra bande, omicidi, rivolte contro la polizia” dice Carlo. “Nella parte dello spettacolo sull’omofobia il ragazzo che interpretava il gay ha preso per davvero le botte anche se è un’opera di finzione. Sono bravissimi a recitare, l’unico problema è che avendo come regista un altro detenuto ci si può spingere fino a un certo punto in termini di autorità sugli attori e questo limita un po’ le potenzialità artistiche”. Ma con la cultura ed il teatro non si mangia - recita l’adagio - e quindi nel Consorzio sono ben altri i prodotti esposti. Una vera e propria vetrina della geografia economica carceraria d’Italia: i biscotti di Aosta e quelli della “Banda biscotti” di Verbania, il vino rosso di Alba, la prima birra arrivava da Rebibbia, ora dal carcere di Salluzzo, sempre Piemonte, regione molto attiva sul tema del lavoro dentro e fuori dal carcere, in particolare grazie all’esperienza di “FreedHome”, il negozio di prodotti made in carcere del “Lorusso e Cutugno” di Torino. Ma anche i taralli di Trani, il caffè di Pozzuoli, le mandorle di Siracusa e Ragusa, i profumi della “Giudecca” a Venezia e un’infinità di prodotti da mezza penisola: l’Ucciardone a Palermo, Bergamo, Cremona, Busto Arsizio, dove di recente è scoppiata una pesante rivolta dei detenuti. A Milano c’è la cooperativa Alice e la sua “Sartoria Borseggi” che produce borse nei laboratori di San Vittore e Monza con il progetto-marchio “Minore Uguale”. Cos’era questo edificio prima di voi? “Un bordello tanti anni fa” risponde secco Carlo. La storia di Dateo 5 angolo viale dei Mille, complesso popolare di 156 alloggi di proprietà demaniale che i giornali di metà anni 2000 definivano “palazzo fantasma” e “casermone”, viene descritta dal venditore: “Questa è una delle poche proprietà comunali in zona Porta Venezia, erano case occupate che di fatto diventavano base di spaccio e prostituzione”. La vicenda è complessa: nel 1989 negozianti e artigiani che animavano la zona furono trasferiti nel parterre centrale di corso Indipendenza, in strutture prefabbricate. Per due o tre anni, fu detto loro. Non andò esattamente così. Un lunedì mattina di aprile 2010 la situazione era più o meno la stessa dell’89: intervengono polizia locale e Amsa per lo sgombero e l’abbattimento delle baracche di lamiera bianca, costruite 21 anni prima in via eccezionale e provvisoria per ospitare, nei giardini al centro del viale, i negozianti sfollati dal palazzo comunale di piazzale Dateo. Nel 2015 arriva il Consorzio e le attività di cooperative sociali, alcune delle quali esistono sotto la Madonnina da più di un ventennio. Gli appuntamenti dei prossimi mesi in viale dei Mille riguardano allestimenti natalizi e la presentazione a novembre del libro “Prometto di perderti”, firmato dalla campionessa di boxe Valeria Imbrogno, fidanzata di Dj Fabo. Assieme a lei ci sarà Marco Cappato, il radicale dell’associazione “Luca Coscioni” che ha sfidato la legge italiana con un atto di disobbedienza civile, accompagnando in Svizzera il 40enne Fabiano Antoniani dove è morto in seguito a suicidio assistito. Ce ne andiamo salutando il festeggiato Seba con un’ultima domanda sul suo compleanno: “Quanti anni sono?”. “Sono quattro” sussurra lui, ridendo di gusto e passandoci accanto. L’età è 47 anni. Quattro sono quelli che gli mancano. Milano: in carcere si progetta una seconda vita di Lauretta Coz Corriere della Sera, 20 ottobre 2018 Architetti e giovani designer ripensano lo spazio angusto di una cella di detenzione. Una stanza pilota allestita a San Vittore: “anche così si dà dignità alle persone”. Quando si entra in qualsiasi carcere, ogni parametro di orientamento sparisce. San Vittore è in centro a Milano, ma passati i controlli, superati cancelli e barriere, i corridoi sembrano tutti uguali. E le celle di detenzione anche. I muri sono scrostati e coperti di scritte lasciate per decenni da ospiti passati, le sbarre hanno ricami di ruggine, i gabinetti sono aperti a un metro dal fornello a gas uso cucina. Non si chiamano più celle ma camere di pernottamento, perché sono talmente sottodimensionate rispetto alle nuove normative, che quasi tutte, di giorno, dalle otto di mattina alle otto di sera, rimangono aperte, con la possibilità per i detenuti di spostarsi nei grandi corridoi. Questa libera circolazione si chiama “vigilanza dinamica”. Malgrado ciò, vivere i 9 mq della cella, con due o tre letti (si è arrivati anche a sei ospiti) è difficile. Un gruppo di volontari ha fondato il progetto di design sociale “Stanze Sospese”, nato da architetti e giovani designer, per ripensare lo spazio-tempo di una cella di detenzione. Primo incontro, due anni fa nel carcere di Opera, tutti intorno a un tavolo, progettisti, detenuti e il Direttore del Carcere, Giacinto Siciliano, per capire bisogni, richieste e fattibilità. Durante la scorsa design week i primi prototipi della stanza sono stati esposti nelle suggestive cantine del Siam, grazie a 5vie art+design. Intanto Siciliano ha lasciato la direzione di Opera per quella di San Vittore, e proprio qui è stata allestita la prima cella pilota. È stata montata dagli stessi detenuti, che hanno partecipato attivamente al progetto. E nel IV raggio, attualmente vuoto e dismesso, dove si può cogliere meglio la differenza di vivibilità tra il nuovo spazio, concepito in modo razionale per sfruttare tutta la superficie, e le vecchie celle. Piccoli accorgimenti, come un colore diverso, una barra multifunzionale, una sedia che, accostata a un’altra, diventa tavolo. Tutto attraverso il recupero di materiali di riciclo. recupero è proprio la filosofia di San Vittore - sottolinea Siciliano - recupero delle persone, che qui non solo fanno un percorso detentivo, ma anche riabilitativo, e questa opportunità di un’integrazione fra esterno e interno è molto importante, così come il rispetto delle cose. Questo prototipo serve come esempio di fattibilità, che poi la stessa Amministrazione carceraria può scegliere di usare negli istituti di tutta Italia, magari producendo tutto in carcere, nei vari laboratori-lavoro”. I colori della cella pilota, chiari e rilassanti, positivi per l’umore, si ispirano alle carceri del nord Europa. Un pavimento in resina beige caldo, le pareti bianche e aree in azzurro e verde che identificano gli spazi e il loro uso. Raccontano i progettisti di Stanze Sospese: “Lo spazio della cella è esiguo, le sbarre alle finestre nei mesi invernali diventano un frigorifero esterno dove appendere i sacchetti con il cibo. Spazi per noi scontati nella vita quotidiana qui non ci sono. Niente mensole, né luoghi dove riporre le cose. Alcuni detenuti si sono inventati mensole di cartone o un porta carta igienica fatto con pacchetti di sigarette. Con questa proposta si migliora lo spazio di vita. E basta poco, una sbarra modulare che diventa appendino, un tavolo apribile, una mensola multiuso. Con un’azienda all’avanguardia nel riciclo di plastiche prese in normali discariche, si è realizzato il letto a castello, per recuperare spazio, ma con i piani slittati per permettere un uso anche di giorno. C’è anche la sedia-sociale, sempre in materiale di recupero che, accostata a un’altra, diventa un piccolo ripiano per leggere, conversare, giocare a carte. La plastica riciclata non necessita di manutenzione, è duratura, riciclabile a sua volta, immune a funghi e insetti, resistente agli urti, non rilascia sostanze nell’ambiente ed è isolante termicamente e acusticamente”. Idea rivoluzionaria, se si pensa che solo nei tre penitenziari milanesi, San Vittore, Opera e Bollate, si buttano al giorno circa 6.000 bottiglie di plastica. Da un lato, migliorare le condizioni abitative con materiali che hanno qui una seconda vita, per dare dignità al soggiorno di detenzione, dall’altro favorire l’acquisizione di nuove competenze mediante lavoro, studio, gioco e bricolage e individuare un nuovo cammino, nella legalità. E importante questa idea dei progettisti di utilizzare materiale di recupero. “Perché - sottolinea Giacinto Siciliano - se alle cose viene concessa una seconda vita, ancora di più dev’essere data alle persone, a ogni ospite del carcere, io credo: Tu per me vali, e miglioro la tua qualità di vita”. Nisida (Na): la Costituzione e i giovani detenuti “che ingiustizia, non siamo tutti uguali” di Flavia Amabile La Stampa, 20 ottobre 2018 Nel carcere minorile di Napoli dialogo sulla Carta con i magistrati della Consulta. Amato: “In Italia pesano troppo le differenze sociali”. Tutti uguali? Un sogno. Hanno letto l’articolo 3 della Costituzione le ragazze e i ragazzi detenuti nel carcere minorile di Nisida e a turno prendono la parola per ripetere le stesse tre parole: non è vero. Siamo diversi per il cognome che portiamo e perché quando torniamo liberi è difficile trovare un posto nella società, spiegano a Giuliano Amato, giudice della Corte Costituzionale, impegnato insieme con gli altri magistrati in un viaggio nelle carceri italiane per parlare dell’attuazione dei valori della Carta. La giornata di ieri era dedicata al penitenziario minorile di Nisida, l’isola dei ragazzi ai piedi della collina di Posillipo a Napoli. Settanta detenuti - sessanta ragazzi e dieci ragazze - in gran parte napoletani. Sono i protagonisti delle “stese”, gli agguati sempre più frequenti anche in pieno centro, compiuti da una manovalanza sempre più giovane. Spesso inforcano il motorino e fanno perdere le loro tracce inabissandosi nei vicoli del centro. Ma può capitare anche che la fuga non riesca e allora ad aprirsi davanti a loro sono le porte del carcere di Nisida. A Giuliano Amato chiedono il rispetto della loro dignità, del loro essere persone: come tutti e come chiede la Costituzione. Donato si alza in piedi e pronunciale sue parole con voce ferma: “Non è vero che siamo tutti uguali. Molti di noi sono giudicati in base al cognome che portano. Che c’entro io con quello che ha fatto mio padre o mio nonno?”. Musli denuncia la sua condizione di immigrata senza permesso: sta scontando una pena ma alla fine sarà espulsa. “Non è giusto”, protesta. Asia racconta di sentirsi discriminata in quanto donna: “I maschi hanno più attività formative”. Giovanni chiede se l’Italia recepirà le linee guida del Consiglio d’Europa per agevolare i rapporti dei figli con i padri. Ogni domanda parte da un problema personale, non è un disagio collettivo quello che viene espresso e non tutti hanno il coraggio di parlare in pubblico. La gran parte dei ragazzi preferisce raccontarsi in modo informale durante la parte privata della visita. Giuliano Amato ammette le ingiustizie: l’Italia non è ancora in grado di garantire il rispetto dell’articolo 3 né per i detenuti né per chi è fuori dal carcere. “Quell’articolo indica che non siamo tutti uguali ma che dobbiamo arrivare a esserlo”. Eppure siamo ancora lontani, prosegue Amato. “Conta di chi sei figlio” “Ancora conta se sei figlio di qualcuno. Anzi, in questi ultimi tempi aumentano le disuguaglianze, ci sono sempre più famiglie che vivono come le antiche dinastie, dove nessuno prende i mezzi pubblici o dove i figli vanno in scuole diverse da quelle pubbliche”. Secondo Amato “c’è un pezzo di Costituzione italiana che si è perso”. Spiega che le disuguaglianze sono sempre più profonde anche nella società. “Essere ebreo resta difficile. Essere musulmano in un Paese cattolico resta difficile”. Oggi si vogliono far pesare di più le differenze, avverte e cita le aggressioni razziste di questi ultimi mesi. Tutto questo vuol dire che la Costituzione non è attuata. “Finché un figlio di disoccupati avrà difficoltà a andare all’università, la Costituzione non sarà stata attuata. Finché una persona di colore nero, verde o giallo farà fatica a trovare lavoro la Costituzione non sarà stata attuata. Lo stesso se una persona ha una pena superiore rispetto a un altro”. E, se come nel caso denunciato da Donato, “c’è stato un giudice che ha deciso una pena superiore nei confronti di qualcuno perché figlio di una persona con precedenti penali, prendo quel giudice e lo caccio”. “Studiare la carta” Amato invita, quindi, i ragazzi di Nisida a studiare la Costituzione: “È importante che la conosciate e che la consideriate quella che è: uno strumento per migliorare la nostra vita civile e noi stessi. Non ha settanta anni ma è di oggi”. Infine fa un giro per stringere la mano a tutti e si ferma anche i ragazzi che hanno preferito rimanere in disparte a rumoreggiare e sbadigliare. Li prende in giro per le t-shirt vistose. “Dite quanto costano”, interviene Gianluca Guida, il direttore del carcere. “Dite che spendete anche quattrocento euro per una maglietta o un paio di pantaloni. Dove li prendono? Questa è la domanda da fare”, risponde e si allontana. Informazione. Il falso va più veloce e lontano del vero di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 20 ottobre 2018 Verità nascoste. “La diffusione delle vere e delle false notizie online”, uno studio di tre ricercatori del Mit pubblicato di recente su “Science” mostra come la falsità si diffonda molto più ampiamente, rapidamente e profondamente della verità e la differenza è più pronunciata nelle notizie politiche che in quelle riguardanti il terrorismo, i disastri naturali, le scienze, le leggende metropolitane e l’informazione finanziaria. Tre ricercatori del Mit, Soroush Vosoughi, Deb Roy, Sinan Aral, hanno pubblicato il 9 Marzo 2018 su Science un lavoro: “La diffusione delle vere e delle false notizie online”. Uno studio di circa 126.000 voci prodotte via Twitter dal 2006 al 2017 e diffuse da 3 milioni di persone per 4,5 milioni di volte. I risultati della ricerca mostrano che la falsità si diffonde molto più ampiamente, rapidamente e profondamente della verità e la differenza è più pronunciata nelle notizie politiche che in quelle riguardanti il terrorismo, i disastri naturali, le scienze, le leggende metropolitane e l’informazione finanziaria. I robot accelerano la diffusione del falso e del vero in egual misura: la prova per i ricercatori che sono gli esseri umani a preferire il falso al vero. Questo dato, secondo loro in contrasto con il senso comune, è, invece, scontato. I robot sono indifferenti alla verità e alla falsità: possono servire entrambe in egual modo. A creare la preferenza per il falso è il processo di robotizzazione degli esseri umani (dominante nel campo della comunicazione web, ma riflettente i modelli di produzione di beni e servizi). L’agire operativo, meccanico che comprime il pensare e il sentire in schemi adattativi, crea un modo indifferente di vivere per cui tutte le cose tendono ad avere ugual valore, cioè nessuno. Finché si resta vivi, l’indifferenza spaventa, così è importante avere qualcosa a cui credere, investirlo. Trattare il falso come vero, creare falsi valori, è, nella sostanza, un compromesso tra il restare prigionieri di relazioni impersonali e l’esigenza di impegnarsi in qualcosa nella vita. Se poi la preferenza per il falso si manifesta più nel campo politico che ne negli altri campi, ciò accade perché esso è percepito, illusoriamente, come il luogo in cui si decide tutto, come il più adatto per costruire, altrettanto illusoriamente, una rappresentazione rassicurante della realtà. Inoltre, mentre nel campo delle catastrofi naturali e delle leggende metropolitane la falsità si smentisce più facilmente, nel campo scientifico la falsificazione ha più successo se si usa nell’interpretazione politica/ideologica, piuttosto che nella produzione, dei dati, e in quello della finanza essa è creata dalla loro costante manipolazione, il loro essere piegati a interessi di parte. Gli studiosi del Mit hanno rilevato una correlazione tra il successo delle false notizie e il carattere di novità del loro contenuto. La reazione ad esse esprime sorpresa, paura, disgusto, mentre la reazione alle notizie vere è di attesa, tristezza, gioia e fiducia. Ciò fa vedere che non è la novità di per sé a rendere attraente il falso, bensì il fatto che tale novità esso la presenta come sorpresa negativa, paurosa, incentivando un assetto difensivo verso la vita. Alla ricerca è sfuggito il fatto che la falsità, colonizzando le menti in profondità, tende anche a abitarle più a lungo della verità. È un veleno che intossica il pensiero, lo condiziona in modo persistente. La verità, invece, alloggia nella mente senza occuparla: non ama il buio delle caverne (o la loro illuminazione artificiale), né il sole accecante (la mistica delle idee assolute, superiori). Non crea certezze, non è fatta di granito e non frequenta le tombe. Prende forma nelle trasformazioni erotiche affettive e mentali che dischiudono i sentieri del vivere e li connettono tra di loro. Ci si può sentire vivi perché si gode delle cose, conoscendole, senza sottometterle al proprio dominio che le annienta. O si può cercare di mantenersi vivi difendendosi dalla vita stessa. La differenza tra il vero e il falso è questa. Migranti. Centri rimpatri, il Garante accusa: “diritti non rispettati” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 20 ottobre 2018 Il Viminale risponde: “degrado per colpa degli ospiti”. Gli attuali Centri per il rimpatrio degli immigrati irregolari? “Claustrofobici, non adeguati, somigliano a carceri ma senza analoghe garanzie per chi vi è trattenuto”. È la valutazione del Garante nazionale per i diritti dei detenuti e delle persone private di libertà, Mauro Palma, che manifesta ad Avvenire le sue perplessità “nel caso in cui le strutture attuali vengano utilizzate, come dispone il nuovo decreto sicurezza, per ospitare persone fino a 180 giorni in vista del rimpatrio”. Rilievi, dubbi e raccomandazioni sono elencati in un rapporto, inviato al Viminale a settembre e reso pubblico ieri dall’ufficio del Garante (composto anche da Daniela de Robert ed Emilio. Rossi), in merito alle visite effettuate fra febbraio e marzo in 4 dei 5 Cpr finora attivi: Brindisi-Restinco, che al momento della visita ospitava 43 persone a fronte di 48 posti; Palazzo San Gervasio a Potenza i121 febbraio, con 33 ospiti, a fronte di 72 posti (che diventeranno 152 a lavori completati); il Cpr di Bari, con 89 immigrati a fronte di 90 posti; quello di Torino, con 171 persone (di cui 20 richiedenti asilo) a fronte di 175 posti. Ai rilievi, il Viminale replica punto per punto - con una lettera dell’11 ottobre, firmata dal prefetto Gerarda Pantalone, rivendicando gli “sforzi per migliorare le strutture”, spesso vanificati dai “continui e violenti comportamenti degli ospiti in danno dei locali e degli arredi”. Nella lettera, peraltro, il prefetto comunica come il Viminale non abbia ricevuto il rapporto del 2017 sui Cie. Un manganello a Brindisi, alcune “celle” a Torino. La vita nei Cpr, osserva il Garante, è “assimilabile a quella di un ambiente carcerario”. Nel rapporto si manifesta preoccupazione per la presenza di alcune “celle di sicurezza” nel “livello interrato” del Cpr di Torino, che non erano state preventivamente segnalate al Garante. Nel dossier s’invocano più garanzie sul piano dei diritti alla difesa, della riservatezza e dei reclami di chi è trattenuto. E si denuncia la mancanza “nelle aree mediche di registri che riportino le lesioni di qualsiasi causa riscontrate in sede di visita degli ospiti”. Inoltre, nel paragrafo “strumenti atti a offendere”, si riferisce come “durante la visita al Cpr di Brindisi-Restinco, il Garante ha trovato appoggiato sul tavolo della sala dei colloqui un manganello appartenente a uno degli agenti delle Forze di Polizia in servizio nel Centro”. Il Garante “stigmatizza tale fatto, ritenendo che il personale non possa introdurre nel Centro, salvo specifiche esigenze, qualsiasi oggetto che possa essere utilizzato - o percepito come utilizzabile - quale strumento di minaccia o violenza”. Blatte e docce rotte. Nel rapporto, il Garante elenca diversi “fattori di grave criticità” che non hanno solo a che fare con i danni alle strutture, spesso fatiscenti: l’assenza di locali e ambienti per le attività in comune”; il divieto di attività ricreative; la mancanza di spazi adibito a luogo di culto. I bagni? Fatiscenti o, a Torino, senza porte, con poche docce (una su quattro) funzionanti. In altri casi, “i migranti sono costretti a mangiare in piedi all’esterno o seduti sui letti”. Ancora, si legge dei letti senza lenzuola a Bari e di blatte nel Cpr di Potenza. Situazioni che “pregiudicano pesantemente la qualità della vita” e determinano il “rischio di degrado anche nell’esercizio dei più elementari diritti primari”. Minori, richiedenti asilo. Altro nodo, in tutti i Cpr visitati, è “la promiscuità delle persone trattenute”, ossia il metter insieme “differenti posizioni sul piano giuridico”: detenuti per irregolarità amministrativa; soggetti provenienti dal circuito penale; persone che hanno richiesto asilo successivamente alla loro collocazione nei Cpr. Tale “mescolanza”, avverte il Garante, può favorire “contatti col mondo dell’illegalità”, anche perché “non tutti gli ospiti vengono effettivamente rimpatriati”. In più la relazione denuncia due casi di giovani tenuti nel centro brindisino, nonostante avessero dichiarato la minore età: il primo per sei giorni; il secondo per otto. Ciò nonostante una legge del 2017 stabilisca che nelle more dell’identificazione vada garantita l’accoglienza in strutture per minori. In generale, conclude Palma, il Viminale “durante le nostre visite ha mostrato piena collaborazione. Confidiamo perciò che tenga nella dovuta considerazione le nostre raccomandazioni”. Stati Uniti. Donald Trump grida all’invasione dei migranti per vincere le elezioni di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 20 ottobre 2018 La carovana partita dall’Honduras verso gli Usa è una lauta occasione per rispolverare la propaganda xenofoba. Una carovana di migranti, quasi tutti honduregni, si sta dirigendo a nord attraverso il Guatemala verso il Messico e gli Stati uniti. Sono migliaia e migliaia, la più grande manifestazione di un fenomeno che si ripete da tempo: gruppi di centroamericani si uniscono per affrontare le sfide della migrazione, il loro numero fornisce sicurezza contro i criminali che seguono la rotta verso nord. Mai però aveva assunto questa dimensione, un vero e proprio esodo. Trump è andato su tutte le furie, scrivendo tweet a raffica, in cui intimava a Honduras, Guatemala e El Salvador di fermare la carovana, pena la sospensione di aiuti economici, e invitava perentoriamente il Messico a rafforzare le frontiere del nord, quelle che danno verso gli Stati uniti, notoriamente un colabrodo, e minacciando la mobilitazione dell’esercito americano lungo i confini del sud. Infine, ha dato la colpa ai Democratici - per il lassismo delle loro leggi - per tutto questo. Avrà pensato che era un’occasione troppo ghiotta per non giocarsela nelle elezioni di mid-term; in fondo, proprio la guerra dichiarata all’immigrazione, i muri col Messico, le accuse agli immigrati centroamericani di essere null’altro che stupratori, la separazione dei bambini dai propri genitori rimandati indietro, tutto questo è stato fuoco per la sua elezione e il consenso di cui ancora sembra godere, anche se ha spaccato la società americana a metà. Perciò, in questa sua campagna ci sta dando dentro con gli attacchi agli immigrati, lanciando allarmi sui criminali che stanno per riversarsi dentro il confine e sul fatto che tutta questa gente senza documenti causerà la dislocazione di produzioni e perdita di posti di lavoro. Ha usato questi toni in ogni manifestazione della campagna, che si è intensificata significativamente nelle ultime settimane. E molti candidati repubblicani hanno abbracciato questo messaggio anti- immigrazione mettendolo al centro delle loro stesse candidature elettorali. La carovana migrante si è formata circa una settimana fa a San Pedro Sula, una città nel nord dell’Honduras, tristemente famosa per gli alti livelli di violenza. All’inizio erano circa duecento persone - più o meno la consistenza delle altre carovane. Ma con l’improvviso passaparola, la mobilitazione è cresciuta rapidamente e in modo inaspettato. Quando il gruppo ha attraversato il confine con il Guatemala, viaggiando a piedi e in auto, erano diventati un migliaio. Altri immigrati si sono aggiunti strada facendo - e secondo alcune stime ora conta almeno quattromila persone - anche se alcuni gruppi più piccoli se ne sono staccati. Come le centinaia di migliaia di migranti che sono fuggiti dal Centro America negli ultimi anni, la maggior parte dei partecipanti alla carovana sperano in una nuova vita negli Stati Uniti, anche se alcuni si propongono di fermarsi in Messico. Molti parlano dei salari di fame, della disoccupazione e dell’assenza di servizi sociali in Honduras e sono alla ricerca di migliori opportunità altrove. Altri dicono di temere per la propria vita e intendono richiedere asilo in Messico o negli Stati Uniti. In passato, diverse campagne promosse da organizzazioni umanitarie hanno raccontato la storia di queste carovane per attirare l’attenzione sulla situazione dei migranti e dei loro paesi d’origine. Stavolta però nessuno sembra stare dietro questa carovana, davvero come se si fosse formata per aggregazione spontanea, per un’accumulazione di disperazione e di speranza. All’inizio, Trump ha attaccato l’Honduras, ma quando la carovana è passata in Guatemala l’Honduras poteva fare ben poco, e comunque il presidente Juan Orlando Hernández ha mobilitato le forze di frontiera e ha ammonito i cittadini a non raggiungere la carovana, giudicandola una iniziativa politica contro il proprio governo. Il presidente del Guatemala, Jimmy Morales, ha detto di aver parlato con il presidente honduregno per garantire un percorso sicuro ai migranti che decidono di voler tornare a casa: ma è difficile credere che qualcuno voglia rifare tutta la strada all’indietro. Intanto in Messico, il governo ha schierato circa 700 agenti di polizia nazionale sul confine meridionale e ha ammonito i partecipanti alla carovana di non entrare illegalmente nel paese, anche se a chi ha documenti e visti in regola sarà consentito entrare. Alcuni sono già riusciti a passare e si sono formati piccoli accampamenti, e aspettano di ricongiungersi con il resto della carovana - almeno quelli che ce la faranno. Che cosa succederà dopo? Trump da lunedì sarà in Texas a sostenere la campagna di Ted Cruz che se la deve vedere con Beto O Rourke in uno scontro per un seggio al Senato che sembrava già scritto e che invece lo sfidante democratico sta rimontando. L’ultima sfida televisiva ha avuto toni durissimi. “Lei è un disonesto - gli ha urlato contro a un certo punto Beto. Ecco perché il presidente la chiama “Ted il bugiardo”, un nomignolo che le si attaglia perfettamente”. O’Rourke fa ampio ricorso, in quest’ultimo scorcio di campagna elettorale, alle accuse che Trump lanciava contro Cruz, al tempo delle primarie repubblicane. Ma lo ha anche accusato di assenteismo: Cruz ha un record di assenze al Senato, e O’Rourke ne ha approfittato per dire che non fa gli interessi dei texani, “all talk and no action”, insomma di fare solo chiacchiere. Cruz, dal canto suo, ha attaccato O’Rourke in una aggressiva campagna di manifesti accusandolo di voler aumentare le tasse sul petrolio, argomento questo molto caro ai texani. Ma non c’è solo Beto. Gli americani hanno un sicuro indizio per valutare la forza di un candidato, ovvero i fondi raccolti per sostenere la sua campagna. O Rourke infatti ha superato i 38 milioni di dollari, una cifra blockbuster. Ma sono diversi, almeno otto, i candidati democratici alla Camera che stanno raggiungendo cifre record. Non è detto che questo basti per vincere, ma di sicuro basta per battersi. Farsi eleggere costa sempre di più: confrontando questa campagna con quella del 2016, appena due anni fa, un candidato che raccoglieva intorno ai 400mila dollari per ogni quarto di campagna elettorale (l’intero ciclo è di due anni, quindi un quarto equivale a un semestre) poteva considerarsi un ottimo raccoglitore di fondi; oggi, sono diversi gli sfidanti che raccolgono più di un milione per ogni semestre. A esempio, sempre nel 2016, correndo per il 23simo distretto per la Camera, lo sfidante democratico, Pete Gallego, raccolse in tutti i due anni della sua campagna meno denaro di quanto almeno tre sfidanti democratici attuali hanno raccolto in un solo semestre. Insomma, il Texas - dove dice Ted Cruz che non ci sono abbastanza democratici per batterlo - sta diventando cruciale, anche se è improbabile un rinnovo della Camera a favore dei Democratici, mentre è possibile che qualcosa cambi negli equilibri del Senato dove su cento la maggioranza dei repubblicani è proprio di 51 voti, risicatissima. Intanto Trump ha incassato una prima vittoria nello scontro legale con la pornostar Stormy Daniels. La Daniels, che nel 2016 accettò un pagamento poco prima che iniziasse la campagna elettorale per tacere una sua presunta relazione nel 2006 con Trump, aveva raccontato di essere stata minacciata da un uomo sconosciuto in un parcheggio di Las Vegas nel 2011 dopo che la donna aveva deciso di cooperare con un magazine su un articolo per la storia con Trump. Trump aveva subito bollato la storia come solo una truffa, a con. E da qui una causa per diffamazione. Il giudice ha ritenuto che quella di Trump fosse solo un’iperbole e appartenga allo “stile” della chiacchiera politica e perciò non era imputabile. Ma la grana più grossa, per Trump, viene dal suo legale, proprio quello che trattò il pagamento della Daniels, Michael Cohen, oltre tutto ex tesoriere del Republican National Committee, e che non solo si è dichiarato colpevole ma ora ha saltato il fosso e passato il campo. Si è registrato come elettore democratico e ha lanciato una campagna #getoutandvote - esci e vai a votare: “Queste, potrebbero essere le elezioni più importanti della vostra vita”. Magari, ha ragione. Meno armi e più libri. Gli studenti vogliono cambiare la Colombia di Alessandro Portelli Il Manifesto, 20 ottobre 2018 Gli universitari portano 400 mila persone in piazza contro i tagli all’istruzione. L’arte e la cultura come diritti civili e strumenti di lotta. Da Bogotà a Medellin, viaggio nel Paese che non si arrende alla destra e all’immaginario dei narcos. Ufficialmente, la piazza centrale del grande campus dell’Universidad Nacional di Bogotà, in Colombia, si chiama piazza Santander, ma per tutti è piazza Che Guevara, dominata dall’icona del Che sulla parete dell’edificio principale. Oggi, 10 ottobre, è nereggiante di ombrelli. È uno dei punti di concentramento della grande manifestazione nazionale delle università contro i tagli all’istruzione. Si annuncia una giornata storica, scendono in strada tutti, gli studenti, i docenti, gli impiegati, persino i rettori delle università pubbliche; partecipano anche quelli delle università private (a Bogotà ce n’è una dietro ogni angolo di strada, da quelle qualificatissime e carissime alle cosiddette università-garage, buchi che vendono illusioni a pagamento). Anche per loro è questione di cittadinanza. Quando ci mettiamo in cammino e smette di piovere, i ponti che attraversano il vasto stradone sono nereggianti di gente e addobbati di striscioni. A mano a mano confluiscono cortei da altre parti della città. Il corteo sembra infinito. Non ci sono bandiere o segnali di organizzazioni politiche. Gli studenti sfilano con le insegne dei dipartimenti e delle discipline - architettura porta a spalla un palazzo di cartone (gli hanno letteralmente demolito l’edificio della facoltà, non hanno più una sede); design brandisce enormi matite (e mi vengono in mente le “matite spezzate” degli studenti argentini durante la dittatura); il gruppo degli studenti indigeni in abiti tradizionali fa risuonare la conchiglia rituale ed espone cartelli che dicono in due lingue “vogliamo studiare”; gli studenti di storia gridano “dov’è la storia? La storia è nella strada!”. Lo slogan dominante, scandito e cantato, è “Somos estudiantes, queremos estudiar, para cambiar la sociedad”: lo studio e la scuola come diritto civile e arma di lotta. Penso alla grande canzone di Violeta Parra: “Me gustan los estudiantes, jardín de las alegrías, uccelli libertari come gli elementi, lievito del pane che uscirà dal forno per nutrire i poveri”. Un cartello: “Un paese differente non si fa con gente indifferente”: giocano con le parole, uno striscione evoca il presidente (di destra) Ivan Duque: “Con Duque non hay quien se eduque”, con Dunque non si educa nessuno. Passiamo davanti a un grande palazzo in costruzione, dalle finestre gli operai e le operaie, da tutti i piani, salutano col pugno chiuso e bandiere improvvisate. Una compagna accanto a me commenta: sanno che stiamo manifestando perché anche i loro figli possano studiare. Un’altra: ma forse i loro figli sono già qui, sono nell’università pubblica e lottano per poterci restare. Siamo partiti alle dieci, arriviamo alla piazza centrale che sono le quattro e ancora si vedono a perdita d’occhio pezzi di corteo che cercano di entrare. Parla dal palco Gustavo Pedro, ex guerrigliero, già sindaco di Bogotà, candidato di sinistra alla presidenza (8 milioni di voti), e non tutti sono d’accordo, non gli va che un politico, sia pure di sinistra e rispettato, metta il cappello sulla loro giornata. Alla fine, lo diranno anche i giornali il giorno dopo, siamo 400mila, la più grande manifestazione di cui si abbia memoria. La cosa più faticosa delle manifestazioni non è il corteo, ma rifarsi a piedi la strada del ritorno. Oggi però è bello anche questo, sembra una giornata di festa, incroci dappertutto facce sorridenti di ragazze e ragazzi avvolti negli striscioni e nelle bandiere o con ancora un cartello in mano. Bogotà è trasformata, gli studenti hanno dato una dimostrazione. Nella facoltà occupata hanno deciso che, nonostante la giornata di mobilitazione, il mio seminario sul progetto del Calendario Civile si tenga lo stesso perché è anche questo una forma di lotta. E, in una Colombia che sta ancora faticando a tirarsi fuori da decenni di conflitto, il calendario civile ricomincia da qui. A metà dei 400 chilometri di curve, salite e camion fra Bogotà e Medellín, ci fermiamo per una visita alla Hacienda Nápoles. Adesso è un parco nazionale statale, ma era la tenuta di Pablo Escobar, il feroce e carismatico imperatore del narcotraffico, che nel suo delirio di grandezza ne aveva fatto una specie di Africa privata, con addobbi kitsch e un incredibile zoo di animali esotici. L’ossessivo altoparlante che spiega le attrazioni racconta che una coppia di ippopotami portati qui di contrabbando (ma come si fa a introdurre di contrabbando due ippopotami? Nel sottofondo della valigia? Già questo è un segno dell’onnipotenza dei narcos) si sono riprodotti e adesso c’è una mandria di quaranta aggressivi ippopotami allo stato brado che di notte escono dalla tenuta e vanno a scorrazzare nelle strade dei villaggi vicini. Ci sono cartelli e un arrangiato piccolo museo della memoria che proclamano la vittoria dello stato sul crimine; ma sull’arco dell’ingresso campeggia una copia del piccolo aereo con cui Escobar compì il suo primo volo portando la droga negli Stati uniti. L’originale ce l’ha la polizia; ma il fatto che i gestori statali del parco abbiano fatto una copia e la tengano lì rivela che anche loro sanno che tanta gente viene qui attratta anche dall’aura ambigua di Pablo Escobar che ancora segna il luogo. A Medellín, Università Nazionale occupata, tende e amache appoggiate sul cemento della cafeteria. Un busto ricorda Camilo Torres, il prete guerrigliero: insegnava qui. Un grande striscione: “Arte en resistencia”. Una ragazza mi spiega che lottano contro le distorsioni di genere nell’istituzione; un’altra, che viene da un villaggio poco fuori, mi racconta della necessità di cambiare, modernizzare e democratizzare l’agricoltura. Un collettivo di studenti di arte dell’altra università pubblica, l’Universidad de Antioquia, fa un concerto con classici di tutti i generi della musica popolare colombiana. E insistono anche loro sull’arte e la cultura come diritti e come strumenti di lotta. Una scritta sul muro, in questa città insanguinata dal narcotraffico, dalla repressione, dalla guerra civile: meno armi, più libri. La mattina dopo, un quartiere popolare, la Comuna 13. È una giornata di ricordo: il 16 ottobre 2002, l’”Operazione Orion” condotta fianco a fianco da esercito e paramilitari aggredì il quartiere con elicotteri, bombe, carri armati: la scusa era colpire la guerriglia, di fatto fu un massacro indiscriminato. Mi colpisce la data, gli racconto del nostro 16 ottobre, la retata nazista nel ghetto di Roma, e si crea un vincolo emozionale fortissimo. La signora Rosa Amalia Tejado Alvarez racconta il massacro - “uccidere non va mai bene, ma quel giorno hanno ammazzato di tutto, bambini, vecchi, gente che non c’entrava niente”: non era tanto una missione militare quanto un atto terroristico in cui un nuovo governo di destra annunciava al paese le proprie intenzioni. Continua Rosa: “A ottobre nell’operazione Orion mi è morto un figlio, a marzo ne hanno ucciso un altro, poi nei mesi dopo mia nuora, un cugino… a ottobre è morto mio padre. Lui è morto di morte naturale”. Fra la repressione e il narcotraffico, la morte naturale è l’eccezione. Organizzano l’Associazione del Giovani Cristiani (mutazione della Ymca!) e un gruppo straordinario che si chiama Partido de la Doñas - non un’organizzazione politica ma un nucleo di solidarietà, sostegno reciproco, rivendicazione della memoria, difesa del quartiere. Un loro manifesto dice: “Non si politicizza il dolore”. Sono di tutte le generazioni, ma mi colpiscono le più anziane, addobbate a festa con magliette rosse e viola, cappelli e nastri multicolori. Quando parte la musica, ballano scatenate e senza ritegno; ma capisci benissimo che all’occorrenza sarebbero capaci di qualunque cosa. Adesso qui è una festa di strada, piena di orgoglio e allegria, si mangia, si parla e si balla come in certe feste dell’Unità dei tempi andati, ma mi dicono che basta salire di poche centinaia di metri e siamo in territorio di bande armate di narcotrafficanti. La mattina, Rosendo Espinosa, musicista parrandero, mi ha cantato una sua canzone che ne parla: “Io non capisco con che criterio ragionano quelli che fanno la guerra, sanno benissimo che se vinci vai in galera e se perdi vai al cimitero”. La giornata finisce con Duván Calvo, giovane cantautore locale, e una sua canzone: “Sogno il giorno in cui potremo condividere sogni e vita, e dire semplicemente: sono colombiano”. Torno a Bogotà. La mattina, giorno di festa nazionale, mi svegliano percussioni e slogan sotto la finestra. Le università sono ancora occupate e in sciopero, penso che sia un altro corteo studentesco, scendo in strada, e invece è una sfilata capeggiata da tamburi, maschere, clown, artisti di strada. I cartelli dicono “Bogotà ciudad caminable”: camminano per riprendersi la città, almeno in questo giorno. Anche camminare è un atto politico, e poi sono quasi tutti giovani, forse ci sono gli stessi che hanno sfilato qualche giorno fa. Fra gli slogan ce n’è uno che sarebbe andato bene anche allora: “Tenemos, tenemos, tenemos cultura”. Polonia. La Corte europea boccia le nomine dei giudici di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2018 A due giorni da una consultazione elettorale in Polonia, la Corte europea di Giustizia ha deciso di chiedere la sospensione provvisoria ma immediata di una controversa riforma della Corte suprema polacca. Tra le altre cose, il pacchetto di misure entrato in vigore a Varsavia prevede di ridurre l’età di pensionamento dei giudici del tribunale a anni, una scelta che ha indotto la Commissione europea ad aprire una procedura di infrazione e di adire la magistratura comunitaria. Da mesi ormai l’esecutivo comunitario è impegnato in un braccio di ferro con il governo polacco, a cui rimprovera violazioni dello stato di diritto. La riforma della Corte suprema è uno dei tanti aspetti di una controversa riforma dell’apparato giudiziario. La riduzione dell’età pensionabile da 70 a 65 anni è stata criticata da molti. Alla fine di settembre, Bruxelles aveva chiesto alla Corte europea di Giustizia di esprimersi urgentemente. Nella sua ordinanza pubblicata ieri in Lussemburgo, la vice presidente della Corte, Rosario Silva de Lapuerta, ha deciso di chiedere a Varsavia la sospensione di alcune delle misure, in particolare quella sull’età pensionabile. La Commissione considera che questa scelta indebolisce l’indipendenza dei magistrati tanto più che la legge prevede la possibilità di prolungare il mandato dei giudici. Sempre ieri, la Corte europea di Giustizia ha preannunciato che una sentenza nel merito è da prevedere nel prossimo futuro. In ultima analisi, in caso di inadempienza della Polonia, la Commissione potrà fare ulteriore ricorso e chiedere sanzioni pecuniarie contro il paese. Il premier polacco Mateusz Morawiecki ha spiegato che il suo governo risponderà alla Corte “dopo avere analizzato” l’ordinanza. Molti osservatori si chiedevano ieri se la vicenda indurrà l’esecutivo, preoccupato per la sua immagine, a modificare la riforma della giustizia. La questione della Corte suprema si inquadra in un contesto più ampio. Alla fine dell’anno scorso, la Commissione ha fatto scattare contro la Polonia la procedura ex articolo 7 dei Trattati per violazione dello stato di diritto nel quadro di una riforma del sistema giudiziario che metterebbe a rischio l’indipendenza della magistratura. Il dossier è in discussione tra i governi dell’Unione. Sul tavolo vi è un monito ufficiale a Varsavia, ed eventualmente la sospensione dei diritti di voto del paese. Per ora, una minoranza di stati membri sta bloccando qualsiasi avvertimento. Il caso vuole che proprio questo fine settimana si terranno in Polonia elezioni locali, un test politico per il partito nazionalista Diritto e Giustizia (PiS). Si tratta della prima consultazione elettorale da quando il partito è giunto al potere nel 2015. In questi anni, il governo ha adottato non poche riforme. Oltre a quella del sistema giudiziario, ha introdotto generosi sussidi alle famiglie. Un recente sondaggio Kantar dà al PiS il 31% dei suffragi. Storicamente, il PiS ha ottenuto risultati deludenti a livello locale. Medio Oriente. Caso Khashoggi, Riad conferma: “ucciso nel consolato di Istanbul” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 20 ottobre 2018 Si incrina il potere del principe Mbs. Interviene re Salman. Voci di una fronda intorno allo zio, Ahmed, 76 anni. È stata la tv a confermare l’uccisione del giornalista dissidente “Il giornalista Jamal Khashoggi è morto in seguito a una colluttazione con alcune persone con cui si era incontrato nel consolato saudita a Istanbul”. Per la prima volta arriva l’ammissione delle autorità di Riad, accompagnata dalla notizia dell’arresto di 18 sauditi e dal licenziamento del vicecapo dell’intelligence Ahmed Al Assiri e del consigliere Saud Al Qahtani, due figure molto vicine al principe Mohammed bin Salman, l’erede al trono. Mentre i sospetti sul coinvolgimento di quest’ultimo nell’assassinio di Khashoggi spingono ormai lo stesso Trump a prendere le distanze (secondo il New York Times, il presidente Usa dice ora agli alleati che lui il principe Mohammed “lo conosce appena”) c’è un altro fronte scottante per l’erede al trono saudita: quello interno. Lo scrive David Ignatius, firma del Washington Post con formidabili contatti sia a Riad che nella Cia: “Fonti saudite mi dicono che coloro che si oppongono a Mbs si stanno silenziosamente raccogliendo attorno al Principe Ahmed bin AbdulAziz”. Ignatius non è l’unico ad aver colto segnali di spaccature nella Casa di Saud. Più fonti parlano di malumore dei principi riuniti in conclave per arginare l’emergenza. Notizie inverificabili si accompagnano a dati di fatto. Il primo è che i metodi di Mbs, diventato erede al trono saltando ed esautorando parenti più anziani, mettendone altri agli arresti per corruzione e accentrando il potere, non sono mai piaciuti a molti principi che ora, dopo il caso Khashoggi, possono metterne apertamente in discussione l’idoneità a guidare il Paese (è il re infatti a nominare il suo erede ma sono i 35 principi del Consiglio del Giuramento di Fedeltà che dovranno confermarlo al potere). Il secondo segnale è il dissenso del principe Ahmed bin AbdulAziz, 76 anni, fratello di Re Salman. Il 3 settembre a Londra, mentre entrava nella sede dell’ambasciata, si è fermato a parlare con alcuni manifestanti yemeniti che gridavano slogan contro la famiglia reale. Ha detto loro che gli slogan dovrebbero rivolgersi contro chi governa, suo fratello e suo nipote: in un filmato si sente bene mentre esprime questo concetto. Sempre a settembre su Twitter è nato l’hashtag in arabo #Ahmed_bin_AbdulAziz_re_dell’Arabia_Saudita. Il terzo segnale è che l’82enne Re Salman ha deciso di gestire di persona il caso Khashoggi: secondo la Reuters ne era stato tenuto all’oscuro dal figlio, ma dopo le reazioni internazionali ha inviato in Turchia il suo più fidato consigliere, il principe Khaled Al Faisal: una prima esautorazione di Mbs. Poi è stata avviata l’inchiesta che ha condotto alle ammissioni di ieri. Ma fa riflettere anche che re Salman abbia promesso una riforma dei servizi di intelligence, guidata da suo figlio Mohammad, sottolineando così l’intenzione di proteggerlo. (Ha collaborato Farid Adly) Nicaragua, sei mesi di dura repressione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 ottobre 2018 A sei mesi dall’inizio della repressione delle proteste sulle riforme in materia pensionistica, un rapporto di Amnesty International intitolato “Instillare il terrore: l’uso della forza letale in Nicaragua” documenta possibili gravi violazioni dei diritti umani e crimini di diritto internazionale commessi dalle autorità nicaraguensi tra il 30 maggio e il 28 settembre, tra cui arresti arbitrari, torture e il massiccio e indiscriminato uso della forza eccessiva da parte della polizia e di gruppi filo-governativi muniti di armi pesanti. Al 24 agosto, le persone uccise (in prevalenza da forze dello stato) erano almeno 322 e oltre 2000 i feriti, cui va aggiunta l’uccisione di 21 agenti di polizia. Secondo Ong locali, alla data del 18 agosto le autorità nicaraguensi avevano aperto procedimenti penali nei confronti di almeno 300 manifestanti. La nuova strategia repressiva del governo Ortega prevede il sempre maggiore ricorso a gruppi filo-governativi dotati di armi a uso militare i quali hanno agito, spesso in tandem con le forze di polizia, per scoraggiare le proteste, terrorizzare la popolazione e distruggere le barricate erette dai manifestanti. Amnesty International ha documentato l’uso, da parte della polizia e dei gruppi armati filo-governativi, di fucili del tipo AK; di fucili di precisione Dragunov, Remington24 e FN SPR; di armi automatiche RPK e PKM e persino di lanciarazzi a spalla PG-7 muniti di granate. In alcuni casi si tratta di armi di guerra il cui uso è vietato nelle operazioni di mantenimento della pubblica sicurezza. Sebbene talvolta i manifestanti abbiano usato mortai artigianali e, in casi sporadici, pistole e fucili, questo non giustifica l’uso massiccio, sproporzionato e soprattutto indiscriminato della forza letale contro tutti i manifestanti, in luogo di una risposta con la minima forza necessaria per ripristinare la pubblica sicurezza. Il rapporto di Amnesty International denuncia anche sei possibili casi di esecuzione extragiudiziale, un crimine di diritto internazionale: tra questi, l’uccisione del 16enne Leyting Chavarría, raggiunto da un proiettile al petto mentre le forze di polizia e i gruppi armati filo-governativi stavano assaltando le barricate erette nella città di Jinotega. Secondo testimoni oculari, un agente di polizia ha ucciso il ragazzo, che aveva in mano unicamente una fionda. Le forze di polizia hanno ucciso anche un loro collega, Faber López. Sebbene il governo abbia accusato “terroristi” armati, la famiglia del poliziotto ha denunciato che il corpo non presentava fori di proiettile bensì segni di tortura. Alla vigilia della sua morte, López aveva telefonato ai suoi familiari annunciando che avrebbe dato le dimissioni e che se non li avesse contattati il giorno dopo, sarebbe stato perché i suoi colleghi l’avevano ucciso. Amnesty International ha poi raccolto informazioni su almeno 12 casi di tortura, compreso un caso di violenza sessuale contro una ragazza in un centro di detenzione ufficiale. In diversi di questi casi, a un mese di distanza, le vittime incontrate dall’organizzazione per i diritti umani recavano ancora i segni delle torture subite. Un numero crescente di vittime di violazioni dei diritti umani ha rinunciato a presentare denuncia per timore di rappresaglie. Invece di condurre indagini tempestive, imparziali e approfondite, le autorità spesso intimidiscono e minacciano le vittime e i loro familiari. La crisi ha causato lo sfollamento interno e la migrazione forzata di migliaia di persone. Il 31 luglio l’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha segnalato che almeno 8000 persone avevano chiesto asilo nella Costa Rica, mentre altre 15.000 avevano preso appuntamento per un colloquio nelle settimane successive. Etiopia. Muferiat Kamil, la ministra della pace di Paolo Lepri Corriere della Sera, 20 ottobre 2018 Muferiat Kamil sarà la “ministra della pace” nel governo di svolta guidato in Etiopia da Abiy Ahmed. È una delle dieci donne (la metà di tutta la squadra) scelte dall’ex funzionario dei servizi segreti (ma non è il Putin di Addis Abeba) che in soli sei mesi ha firmato l’accordo con l’Eritrea (mettendo fine ad una rivalità politica culminata in una tra le più assurde guerre africane), rilasciato migliaia di prigionieri, legalizzato i partiti di opposizione, invitato i politici in esilio a rientrare in patria, annunciato programmi per combattere la diseguaglianza e per privatizzare parzialmente le maggiori aziende di Stato. “Un incrocio tra Che Guevara e Emmanuel Macron”, ha scritto il Financial Times. Del progetto di quest’uomo dall’aria tranquilla (che però ha fatto nascere il termine “Abiymania”), Muferiat è una delle colonne. La ministra della pace, infatti, avrà tra l’altro il compito di vigilare sulla sicurezza dello Stato. Lo farà con l’esperienza maturata in uno dei gruppi della complicata mappa politica del Paese, il Movimento democratico del popolo dell’Etiopia meridionale (Sepdm). Quarantasei anni, nata a Gimma, laureata in agraria, è stata la ministra più giovane (questioni femminili) nella poco luminosa era di Meles Zenawi. Nell’aprile scorso ha avuto l’incarico (mai andato in precedenza ad una donna) di presiedere il Parlamento. Lei è islamica, mentre il capo del governo, figlio di un musulmano e di una cristiana, è protestante. È ovvio chiedersi se la scommessa di Abiy (e di Muferiat) abbia qualche probabilità di essere vinta. Stabilizzare, creare prospettive di vita, costituisce tra l’altro l’unico modo possibile per limitare l’esodo dei dannati della terra che già negli anni Settanta fuggivano nascosti in una cassa per animali. Come Yosef in Leggere il ventodi Dinaw Mengestu, una delle voci più interessanti della narrativa contemporanea. Ma l’Etiopia (che continua a essere dilaniata da violenze di matrice etnica) ha troppe tragedie alle spalle per incoraggiare la speranza: il colonialismo, l’impero, la dittatura “rossa”, le carestie, la fame, le guerre. Impossibile dimenticare. “La storia merita di essere rivista - scrive sempre Mengestu - se non per amore dei morti, almeno di noi stessi”.