Il crollo del ponte di Genova vissuto “da dentro” la galera Ristretti Orizzonti, 1 ottobre 2018 Quando nel nostro Paese succede qualcosa di tragico, e purtroppo succede spesso, anche le carceri sono coinvolte, perché dentro ci stanno esseri umani, persone che della società sono parte, che hanno fuori famiglie, amici per cui sono in pena. Con un gruppo di detenuti del carcere di Genova abbiamo discusso del crollo del ponte Morandi, a poco più di un mese dal disastro. Dalle loro riflessioni appaiono da una parte la rabbia, le accuse contro la politica, a volte legittime, a volte generalizzate senza fare le giuste distinzioni, tutti sentimenti che accomunano “il dentro” e “il fuori”, le persone libere e quelle prigioniere. Ma c’è qualcosa di profondamente diverso che invece colpisce e su cui è importante porsi delle domande: è il senso di impotenza, il non avere notizie in tempi “umani” delle proprie famiglie, che potrebbero essere state coinvolte, non poter donare il sangue, non poter prestare il proprio lavoro volontario per dare una mano a chi in quella catastrofe ha subito danni irreparabili. È successo, ma troppo raramente, che anche a delle persone detenute sia stata data la possibilità di portare aiuto dopo un disastro, una calamità naturale, è successo di recente dopo il terremoto di Amatrice e in altre situazioni, nel carcere di Bollate per esempio c’è una squadra di detenuti in grado di intervenire in caso di eventi di particolare gravità. Ma forse bisognerebbe fare un lavoro di informazione capillare, per spiegare alla gente che in carcere non ci sono solo feroci criminali, né tanto meno “i mostri”, ma ben 21.800 persone circa che devono scontare meno di tre anni di pena o di residuo pena, di cui 8.500 hanno meno di un anno da stare in carcere, 7.500 tra un anno e due anni, 5.800 tra due e tre anni. Persone che stanno facendo un percorso di cambiamento, e che comunque fra poco usciranno dalla galera: permettere loro di restituire qualcosa alla società rendendosi utili nei momenti di particolare necessità farebbe bene sia a loro che alla società stessa, e darebbe loro modo di prepararsi gradualmente a un reinserimento vero, che può avvenire solo se c’è una opportunità di lavoro dignitoso e la possibilità di rientrare in famiglia, riallacciare i rapporti con i propri cari e ricostruirsi una vita, lontana dai reati. E tutto questo costituirebbe un rischio molto minore per tutti, perché è dimostrato da ricerche significative che le persone che fanno una uscita graduale dal carcere, invece che essere catapultate fuori violentemente a fine pena, tornano a commettere reati in percentuali molto inferiori, rispetto a quelle di chi sconta tutta la pena fino all’ultimo giorno in carcere. Dal carcere di Genova Marassi, alcune riflessioni sul disastro Si è detto molto sulla tragedia che ha colpito Genova, forse troppo, di fatto ci sono famiglie che piangono, altre fuori di casa e una città in ginocchio con la viabilità che cambia ogni giorno, appesa ai fili di un tempo infinito, perso in interminabili code. Alla fine abbiamo deciso di rendere pubbliche anche noi le nostre riflessioni, dando voce a tutti coloro che sono privi della speranza di poter dare un aiuto concreto e vivono le disgrazie del proprio territorio chiusi in una cella, dove non esiste la possibilità di sapere in tempo reale se i propri cari, magari in viaggio per un colloquio, o altre persone conosciute stiano bene. Ci sono tante braccia forti che rimangono conserte, senza che mai venga presa in considerazione l’ipotesi di poter essere messe a disposizione della collettività, nei momenti di bisogno. Quelli che seguono sono i nostri pensieri, le nostre paure, le nostre ansie. Questo tragico evento mi ha provocato lo stesso impatto delle torri gemelle e mi sono sentito sbalordito, avevo paura che riguardasse qualcuno che conosco. Ho provato dolore e stupore. Il ponte è stato costruito in un’epoca in cui non c’erano tante macchine e penso che le strutture debbano evolversi parallelamente allo sviluppo del traffico e del commercio. Dalla mia umile posizione di carcerato prendo atto di questo avvenimento provando un totale senso d’impotenza. Compatisco profondamente le famiglie dei defunti e coloro che sono stati sinistrati, nonché tutta la cittadinanza di Genova che ne patirà i danni collaterali per chissà quanto tempo. (Xavier Torres) Nel luogo in cui mi trovo, nel carcere di Marassi, ascolto il TG 24 ore su 24 e ho l’impressione che, dopo tutto quello che è successo, non ci sia rispetto per i familiari delle vittime. Cercano di darsi la colpa l’uno con l’altro, ma quasi di sicuro finirà “all’italiana”, la responsabilità verrà scaricata sul più debole. (Antonio Staropoli) Disdegno e rabbia per questa disgrazia che ha colpito Genova, in particolare per le persone che abitavano sotto il ponte. Nel 2018 è insensato che una struttura simile possa crollare per mancata manutenzione. Alla sera di quel martedì 14 agosto, ho sentito alla TV che serviva il sangue. L’indomani sono andato in infermeria e mi sono offerto come donatore, ma mi hanno risposto che non occorreva più. Avrei voluto dare una mano concreta, avrei voluto partecipare in qualsiasi modo per aiutare. (Franco Marino) Questo fatto mi conferma l’andamento del paese. (Discetti Alessandro) Credo che questo avvenimento triste non sarà l’ultimo, perché in Italia per intascare i soldi succede spesso che i lavori vengano realizzati con materiali scadenti. Le persone devono aprire la mente e rendersi conto che la cattiva politica, quella attuale come quella precedente, è la prima causa dei danni alla vita delle persone. Penso che i cittadini debbano riflettere prima di mandare qualcuno al governo. (Daniele Scognamillo) Dispiacere per le vittime e per le loro famiglie, questa è la prima cosa che ho provato. Il mio pensiero è andato a loro, è stato angosciante seguire alla televisione i fatti e sono stato in apprensione per le persone conosciute. Per quanto riguarda il ponte invece, innanzi tutto è l’ennesima prova dell’incapacità di tanti di quelli che ci governano e del sistema in generale. Si trattava di un ponte vecchio, tutti sapevano che aveva dei grossi problemi, ma nessuno si è preso la responsabilità di chiudere l’accesso a quel tratto di autostrada, per mettere in sicurezza le persone finché si era in tempo. Hanno avuto paura. Quindi ritengo che i responsabili siano coloro che non hanno voluto fermare l’economia di Genova per qualche mese, a discapito delle vittime, e invece adesso ci vorranno anni. Tutti quelli che conoscono i materiali di costruzione sanno bene che la salsedine corrode sia il cemento che il ferro, ma nessuno ha evidenziato questo problema. Se un ponte in Val d’Aosta dura 70 anni, qui a Genova può essere sicuro forse per 35. È questa la mia indignazione più profonda. Spero almeno che questo serva per migliorare la situazione degli altri ponti in Italia. La mia indignazione peggiore è lo stupore per il fatto che il ponte sia stato costruito sopra dei palazzi. Come mai non c’erano ville con piscina lì sotto? Avrei voluto partecipare alle operazioni di soccorso, anche a quelle di rimozione delle macerie e di ricostruzione, ma nella mia condizione questa opportunità non viene nemmeno presa in considerazione. (Bruno Trunfio) Redazione di Ristretti Orizzonti, Genova Marassi “Messa alla prova” in aumento, nel 2017 oltre 23mila casi Adnkronos, 1 ottobre 2018 Il ricorso all’istituto della messa in prova dell’imputato, in vigore da quattro anni, è in costante aumento, tanto che nel 2017 è stato applicato in 23.492 casi e nei primi quattro mesi del 2018 in 12.649. A rilevarlo è la relazione trasmessa al Parlamento dal ministero della Giustizia aggiornata al 31 maggio di quest’anno. “L’aumento dei casi di sospensione del procedimento - sottolinea il documento di via Arenula - è particolarmente importante, passando da 511 nel 2014 a 9.690 nel 2015, 19.187 nel 2016 e 23.492 nel 2017. L’incremento del numero di misure eseguite dal 2015 al 2017 è risultato pari al 142%”. Nel 2018, nei primi quattro mesi si è passati da 11.102 a 12.649 applicazioni, con un incremento pari al 14%. Viceversa diminuiscono i casi nei quali la misura viene revocata. Nel 2017, 322, pari all’1,4 per cento del totale, con un calo rispetto al 3,7 registrato nel 2016. Quanto alla tipologia dei reati e degli imputati interessati all’applicazione dell’istituto, risulta più frequente la violazione del codice della strada (8.203 casi), seguita dagli illeciti contro il patrimonio e l’economia (6.396), la normativa sulla droga (5.552) e la persona (2.193), mentre sono maggiormente rappresentate le categorie del lavoro dipendente (34%) e dei disoccupati (21%). Il 15% è lavoratore autonomo e il 21% è impiegato in altri settori. Riguardo al lavoro di pubblica utilità assegnato agli ammessi alla prova, il 71% si svolge in strutture o servizi socio-assistenziali alla persona, il 20% nel settore della manutenzione del verde pubblico e dell’ambiente, il 6% in attività di segretariato sociale e il 3% nel settore della Protezione civile. “L’istituto della messa alla prova - sottolinea la relazione ministeriale - si avvia a superare l’attuale funzione residuale, ancillare rispetto ai riti processuali ordinari e limitata a un ristretto numero di reati, per assumere il sembiante di una misura realmente alternativa al processo e sempre più aderente ai canoni della restorative justice di stampo europeo”. “Tanto la normativa sovranazionale quanto la condanna dell’Italia, da parte della Cedu, per ‘trattamenti disumani e degradanti’ verso i detenuti, hanno imposto - si legge ancora nel documento di via Arenula- un cambio di passo alla politica criminale italiana: la risposta alla violazione del patto sociale viene costruita con attenzione alle caratteristiche del caso specifico, alla storia personale e relazionale del soggetto autore di reato, alla sua capacità di intraprendere percorsi esistenziali diversi, che lo allontanino dall’illegalità, prevenendo il rischio di recidiva”. “Il lasso di tempo trascorso dalla riforma consente di considerare acquisita l’implementazione del ricorso alla messa alla prova negli ultimi anni, nonché la validità della stessa come risposta credibile ed efficace alla violazione del patto sociale”. “Le finalità perseguite dal legislatore con l’introduzione nel nostro ordinamento della sospensione del procedimento con messa alla prova per adulti riguardano, in particolare, l’offerta di un percorso di reinserimento alternativo ai soggetti sottoposti ad un processo per reati di minore allarme sociale, accompagnata dalla funzione deflattiva dei procedimenti penali”. “Pur fornita di una componente afflittiva che ne salvaguarda la funzione punitiva, la “sospensione del procedimento con messa alla prova” - conclude la relazione del ministero della Giustizia - è chiamata soprattutto a soddisfare istanze special-preventive e risocializzanti, attraverso l’incentivazione dei comportamenti riparativi indirizzati alla persona offesa dal reato e alla comunità”. “L’istituto si propone quindi di interrompere, per l’imputato, il processo deviante”, evitando così “il passaggio da una condizione di devianza ad una di delinquenza vera e propria”. Se la “popolocrazia” diventa l’ultimo stadio del nuovo corso di Mauro Calise Il Mattino, 1 ottobre 2018 Siamo in un’epoca post-ideologica. Se qualcuno lo avesse dubitato, la vittoria grillina all’insegna “né di destra né di sinistra” ne è stata la conferma. Il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia con le sue dichiarazioni pro Salvini, sembra seguire la lezione. Del resto anche nella Seconda Repubblica la Confederazione ha sempre evitato di issare barricate, pure di fronte a governi che l’avevano sommersa di tasse. Non è neppure vero che gli industriali mai si sarebbero schierati con un partito, come invece oggi avrebbero fatto con la Lega: ai tempi del secondo governo Berlusconi, nel 2001, il cuore di viale dell’Astronomia batteva per il centro-destra; e ancora ricordiamo un Cavaliere nella difficile campagna elettorale del 2006 sostenuto dalla base imprenditoriale (un po’ meno dai vertici). L’attuale dirigenza di Confindustria, del resto, ha sostenuto il Sì al referendum del 2016: che era promosso da un solo partito, il Pd. Non dovrebbe quindi sorprenderci e men che meno scandalizzarci l’apertura di credito alla Lega. Seppure con alcuni paletti e relativo banco di prova. L’organizzazione degli industriali deve premunire gli interessi delle aziende, ovvio che guardi con realismo e con senso della misura a quella componente del governo che a loro - specie in alcune aree del Paese - è sempre stata vicina, la Lega. Detto questo, le dichiarazioni di Boccia hanno comunque qualcosa di insolito, se si pensa che il governo Conte si presenta come orgogliosamente “populista” e per certi aspetti possiede condotte e linguaggi di carattere rivoluzionario: figlio com’è di una profonda rottura, che il risultato del 4 marzo ha fatto emergere. Insomma, siamo davanti a una presa d’atto con realismo anche se non con eccessivo entusiasmo. Dopo l’alta tensione estiva che all’indomani del decreto dignità e alla relativa stretta sui contratti a termine, aveva fatto evocare clamorosamente agli industriali la piazza, siamo davanti all’avvio di un dialogo con la Lega, cioè con quella parte della maggioranza che presenta nel suo programma molti punti coincidenti con quelli degli industriali. Che cosa vogliono infatti entrambi, Lega e Confindustria? Sviluppo, crescita, investimenti, tutto ciò di cui, e non solo secondo loro, ha bisogno il paese, e che certo non è stato stimolato a sufficienza negli anni precedenti. È quindi necessaria una profonda discontinuità con le politiche del passato, che ancora non vediamo nel Def. Come arrivarvi? Una strada inevitabile passa per un’importante riduzione delle tasse sui produttori e sulle imprese, e un modello a cui ispirarsi possono essere i tagli di Trump, anche se in dimensioni difficilmente replicabili in Italia. Tutto “tatticismo”? Confindustria lancia un segnale perché, rispetto a politiche care ai 5 stelle, di spesa improduttiva e in alcuni casi persino punitive nei confronti delle imprese (pensiamo a molti tratti del “decreto dignità”), la voce leghista si faccia maggiormente sentire nel governo, e nel paese. Tuttavia, come ha spiegato una nota di Confindustria di ieri “non si può essere pro imprese sui territori e contro a livello nazionale” e gli imprenditori si confrontano con tutto il governo e non solo con una parte. E quella quantitativamente più rilevante in termini di voti nella maggioranza, non occorre mai dimenticarlo, è costituita dai 5 stelle e non dalla Lega. Il gesto di Boccia, non accolto con favore da tutta l’organizzazione, mostra però anche l’esistenza di una divergenza all’interno di quel mondo: tra un ramo dell’industria che vuole più globalizzazione, e che non è più da tempo “italiana”, e un’altra parte invece disposta a ragionare in termini di regolazione e persino di “protezione” - un termine caro anche a Macron, per dire. Questa divisione nel mondo del business troviamo anche in altre paesi, in Francia, in Gran Bretagna, dove una parte dell’impresa non guarda con sfavore a Corbyn a dispetto delle sue ricette para comunistiche, e naturalmente negli Usa nei confronti di Trump. Si chiama corporativismo, e nasce sempre nei momenti in cui, a un’ondata di globalizzazione, segue il ritorno allo Stato nazionale e al controllo politico (fu così per l’Europa degli anni Venti e Trenta, anche nelle democrazie liberali). Si tratta di vedere se, oggi, un “patto dei produttori”, un neo-corporativismo, lo stesso che ad esempio definisce il rapporto tra lo Stato cinese e le sue imprese, potrà rafforzare quelle italiane sullo scenario mondiale o non rischia di indebolirle. Molto, anche se non tutto, dipenderà dalle risposte della politica e del governo. Il ministro Bonafede e il disastro della giustizia di Ubaldo Pagano* Gazzetta del Mezzogiorno, 1 ottobre 2018 Il 21 giugno il ministro Bonafede ha decretato la sospensione delle udienze penali di tutti i procedimenti in qualunque fase e grado sino al 30 settembre. La sospensione delle udienza e la inagibilità del Palazzo di Giustizia hanno di fatto paralizzato non solo i processi ma anche le attività di indagine e di tutela per tutti i cittadini del distretto. Durante la sua visita a Bari, all’indomani della nomina, aveva annunciato trionfante di aver risolto il “problema”: tende smantellate, udienze sospese, prescrizione sospesa e nuova sede individuata nell’ex palazzo Inpdap. Da più parti si evidenziava la inidoneità della sede scelta e la illegittimità dei provvedimenti adottati ma il Ministro proseguiva imperterrito rifiutando la proposta di nomina di un commissario straordinario per l’emergenza. Dopo poche settimane il Ministero non poteva che decretare la inidoneità dell’ex Palazzo Inpdap - quindi avvocati e magistrati avevano ragione - ad ospitare il Tribunale. Come se il venir meno di questa ipotesi non significasse nulla, organizzava in tutta fretta il trasloco degli uffici di via Nazarianth in ben quattro uffici diversi: presso il Tribunale di Modugno veniva trasferito parte del Tribunale, la Procura traslocava in via Brigata Regina dove c’è posto per soli 10 magistrati e per 52 cancellieri su 104, che dovranno lavorare quindi su due turni dalle 7.30 alle 21. In più: le udienze venivano dislocate tra Bitonto, Modugno e la sede del Tribunale Civile mentre non si sa ancora dove saranno trasferiti archivio e mobilio. Tra un colpo di scena e l’altro il 30 settembre è arrivato e gli avvocati e i cittadini speravano nella ripresa dei processi. Il Presidente del Tribunale emette il 25 settembre un decreto con cui dispone l’organizzazione della attività giudiziaria penale e si scopre così che non riprenderà un bel nulla! Continueranno sostanzialmente a svolgersi le sole udienze con imputati sottoposti a misure cautelari, le convalide di arresto con contestuale processo per direttissima e le udienze gip e gup vengono trasferite presso l’ex Tribunale di Bitonto. Nei giorni scorsi il Ministro della Giustizia è giunto nuovamente in Puglia e trionfante in quel di Trani ha annunciato di aver individuato nell’ex palazzo Telecom la sede definitiva del Tribunale Penale. Nulla ci ha detto tra un twitt e un post su Facebook sui tempi reali e certi per la ripresa della attività giudiziaria penale nel capoluogo di regione. Ministro la invito ad abbandonare il mondo dei social e a calarsi ne mondo reale. Ebbene, è arrivato o no il momento di governare? È arrivato o no il momento di risolvere i problemi per cui è stato preposto al Ministero della Giustizia della Repubblica Italiana? Il Ministro si rende conto che la giustizia penale a Bari è paralizzata e che, se tutto va bene, la situazione si sbloccherà almeno tra un anno? Il Ministro sa che nel frattempo valanghe di reati si prescriveranno? Il Ministro sa che ad oggi bisogna rinotificare circa 100.000 citazioni a comparire in una sede provvisoria (quella di Modugno) e che, probabilmente, tra qualche mese, arrivata la data dell’udienza, quella sede provvisoria sarà chiusa (in quanto il Tribunale penale sarà stato trasferito questa volta nel palazzo ex Telecom di Poggiofranco) e bisognerà nuovamente rinotificare tutte quelle citazioni? Certo che lo sa, il Ministro lo sa, ma siccome è il ministro Malafede, cerca di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica con il siparietto del biglietto aereo. Signor Ministro abbia un sussulto di dignità, rispetti chi con enormi sacrifici e molto spesso con basse gratificazioni si adopera per il funzionamento della Giustizia, cerchi di rimediare ai suoi gravi errori ed alla mancanza di coraggio che le hanno impedito di emanare la decretazione di urgenza facendoci perdere tre preziosi mesi di tempo. E, soprattutto, torni presto a “metterci la faccia”. Ministro proceda una volta per tutte con un provvedimento utile e di buon senso: distacchi presso il Tribunale di Bari 50 unità che provvedano ad effettuare quelle centinaia di migliaia di citazioni che sono indispensabili per garantire il regolare svolgimento dei processi a seguito del trasferimento della sede. Inserisca nel Def anche un elemento di pace fiscale con la categoria degli avvocati non cancellando i debiti ma semplicemente sospendendo il pagamento degli oneri fiscali per chi sta subendo la paralisi della sua attività professionale. *Parlamentare del Pd Travolti da una rabbia cieca che uccide di Pierangelo Sapegno La Stampa, 1 ottobre 2018 Nella schiuma di rabbia, che separa l’arena della follia dalla normalità, la cronaca di questi giorni ci consegna un Paese rovesciato che sta perdendo le regole più elementari della convivenza. A Lecce, un uomo di 57 anni ha scaricato la sua 357 Magnum uccidendo un pensionato, il figlio e la sorella della moglie, rimasta gravemente ferita, solo perché non dovevano parcheggiare sotto casa sua. E a Fontane di Villorba, Treviso, un giovane è morto e 7 sono ricoverati in ospedale (3 in prognosi riservata), aggrediti durante una festa d’addio al celibato dai vicini che non gradivano troppo tutta quella baldoria. Bastano davvero un po’ di rumore e un parcheggio sbagliato per dare sfogo alla propria violenza? Bertolt Brecht diceva: “Tutti a dire della rabbia del fiume in piena, e nessuno della violenza degli argini che la costringono”. Gli argini, cioè il perimetro informe che racchiude la violenza, appartengono per intero alla nostra società, sfibrata da una crisi infinita, segnata dalle ingiustizie, dal parassitismo di certi privilegi, da un impoverimento diffuso e dall’assenza di un futuro, soprattutto, che hanno generato l’invidia rancorosa dei più deboli sommata alla paura di perdere non solo le cose che hai, ma pure quelle che pensavi di avere. In questa miscela esplosiva, che si riflette benissimo in certe violenze verbali del web, l’odio è diventato prima una categoria politica, che pensa di godere della stessa immunità concessa ai parlamentari, e poi anche una categoria sociale. L’atmosfera corrosa di questi ultimi tempi e la sensazione diffusa di un avvenire sempre più incerto hanno di fatto sdoganato l’odio, come un sentimento che appartiene per intero alla crisi dei nostri giorni e ne esprime la sua rabbia cieca. E se l’odio porta consensi, perché non giustificare anche la rabbia che lo provoca? L’impoverimento cattivo della società ha creato quasi un’umanità di risulta, un popolo rancoroso che ha smarrito le sue sicurezze. In un Paese che si prepara ad armarsi per concessione legislativa, questa rabbia diffusa e incontrollata è un serio motivo di preoccupazione. Nel Far West c’erano i ranch da difendere e le tribù dei pellerossa in guerra. Ma la nostra cronaca oggi non ci sta raccontando storie di legittima difesa. Ci racconta invece storie trasversali di illegittima rabbia, che riguardano tutti, nessuno escluso. Si spara all’immigrato che ti può rubare il lavoro, alla donna che ti vuole lasciare, al vicino di casa che è uno straniero dell’Est come te ma che si diverte e fa un gran chiasso, semplicemente perché ognuno di loro, in modo diverso, non la pensa come te. Avvocati: obiettivo tutela in Costituzione, sono 30mila i legali “dipendenti” di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2018 Rivalutare il ruolo dell’avvocato nella società democratica e nella Costituzione: sarà questo il filo rosso che percorrerà la tre giorni dedicata al 34° congresso nazionale forense, che si aprirà giovedì a Catania. Proprio nel pomeriggio del primo giorno verrà presentato un progetto di riforma costituzionale che intende sottolineare il ruolo pubblicistico degli avvocati pur nel rispetto dell’autonomia e indipendenza propri della libera professione. Tema a cui se ne aggiungono almeno altri quattro che saranno approfonditi nel corso del congresso: la possibile ennesima riforma del processo civile, l’assetto delle società tra avvocati, la disciplina contrattuale di chi lavora in regime di esclusiva per uno studio, il chiarimento sulla natura giuridica degli Ordini. “Cresce - spiega Francesco Logrieco, vicepresidente del Consiglio nazionale - il ruolo sociale dell’avvocatura e parte anche da questo presupposto l’intento di rafforzare la presenza dell’avvocato all’interno della Costituzione, dove manca una articolo specifico dedicato al nostro ruolo”. Va di pari passo con la riaffermazione costituzionale del ruolo dei legali l’obiettivo di creare condizioni di lavoro che assicurino l’autonomia e l’indipendenza della professione. Il tema caldo è quello della mono-committenza. “Ci sono circa 3omila colleghi - afferma Logrieco - che lavorano in via esclusiva e a tempo pieno per uno studio”. Sono partite Iva, ma di fatto è come se si configurasse un rapporto di lavoro dipendente, perché i margini di manovra per quegli avvocati sono minimi o nulli: fanno ciò che decide il dominus, il titolare dello studio. Una situazione che ha ripercussioni sulle tutele e le garanzie, a cominciare da quelle economiche. “C’è la necessità di regolamentare questo tipo di collaborazioni - aggiunge Logrieco - salvaguardando però la natura della nostra professione”. Se questo problema riguarda soprattutto i giovani, c’è sul tappeto un altro tema che investe i livelli più strutturati di attività: è quello delle società tra avvocati. “I nodi da sciogliere sono molti - commenta il vicepresidente del Consiglio nazionale forense - e lo dimostra il fatto che le Sta costituite finora sono poche. Il fatto è che si è rimesso mano all’impianto disegnato dalla legge 247 del 2012 sull’ordinamento della professione forense. Quel sistema prevedeva un modello di società che andava bene e sarebbe bastato darvi seguito. Invece si è voluto rimetterci mano stravolgendo la previsione originaria, ma senza alcun beneficio per la categoria”. A proposito di riforme continue, un altro tema che sarà dibattuto nel congresso è quello di un ulteriore intervento sul processo civile annunciato dal Governo. “L’obiettivo è sempre quello - sottolinea Logrieco - di accorciare i tempi delle sentenze e ridurre i carichi processuali. Per arrivarci, la vera soluzione è, però, raddoppiare il numero dei magistrati e assumere personale amministrativo. Il processo civile telematico a qualcosa è servito, ma non ha inciso in profondità. D’altra parte, manca in Cassazione e soprattutto presso il giudice di pace, dove invece andrebbe previsto”. Il congresso, infine, solleciterà un chiarimento sulla natura giuridica dell’Ordine: ente pubblico non economico o associazione d’impresa? “Una questione che non riguarda solo noi - sottolinea Logrieco - ma anche le altre professioni. La norma sembra chiara nel senso di assegnare agli Ordini la natura di enti pubblici non economici, ma alcune interpretazioni, soprattutto da parte di talune Autorità di garanzia, non sono del medesimo avviso”. Misure cautelari: vaglio autonomo delle singole posizioni oggetto di decisione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2018 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 10 agosto 2018 n. 38505. In tema di motivazione delle ordinanze cautelari personali, la necessità di una “autonoma valutazione” delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza da parte del giudice, richiesta dall’articolo 292, comma 1, lettera c), del Cpp, così come modificato a opera dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, è compatibile con le ricorrenti tipologie di motivazione dei provvedimenti costituite dalla motivazione per relationem e dalla motivazione “per incorporazione” nell’ordinanza del giudice della richiesta presentata dal pubblico ministero, sempre però che sia possibile affermare che il giudice abbia fatto luogo a un effettivo vaglio degli elementi di fatto ritenuti decisivi, senza il ricorso a formule stereotipate, spiegandone la rilevanza ai fini dell’affermazione dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari nel caso concreto, e ciò abbia fatto per ciascun indagato e in relazione ai distinti fatti oggetto di incolpazione. Lo hanno deciso i giudici della sesta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 38505 del 10 agosto 2018. Vaglio autonomo delle singole posizioni oggetto di decisione cautelare - A supporto della decisione, e del significato attribuito al vaglio autonomo delle singole posizioni oggetto di decisione cautelare, la Cassazione ha puntualizzato che il giudice che decide la compressione della libertà di un determinato soggetto, proprio per rispettare i principi costituzionali in gioco (quali la tutela della libertà delle persone e il correlato diritto di difesa, nonché l’esercizio indipendente della giurisdizione), deve incentrare la propria valutazione sulla “specifica” posizione del soggetto attinto dalla misura cautelare che costituisce oggetto di giudizio. In proposito, la Corte, proprio nel ribadire la necessità di questo vaglio specifico sulle singole posizioni, ha invece espressamente preso le distanze dall’orientamento (cfr. sezione II, 4 maggio 2017, Pm in proc. Persano) secondo cui a tal fine sarebbe sufficiente il fatto che l’ordinanza, benché redatta con la tecnica del cosiddetto “copia-incolla”, abbia accolto la richiesta del pubblico ministero solo per talune imputazioni cautelari ovvero solo per alcuni indagati, in quanto il parziale diniego opposto dal giudice o la diversa gradazione delle misure costituirebbero, di per sé, indice di una autonoma valutazione critica e non meramente adesiva, della richiesta cautelare, nell’intero complesso delle sue articolazioni interne. In termini, sull’inidoneità del rigetto parziale della misura a dimostrare la valutazione “autonoma” da parte del giudice, cfr. sezione VI, 19 giugno 2018, Berardi: in tema di motivazione delle ordinanze cautelari personali, la necessità di una “autonoma valutazione” delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza da parte del giudice, richiesta dall’articolo 292, comma 1, lettera c), del codice di procedura penale, così come modificato a opera dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, non può ritenersi assolta sostenendosi che l’ordinanza, benché redatta con la tecnica del “copia-incolla”, abbia assolto l’obbligo di legge per il solo fatto che sia stata accolta la richiesta del pubblico ministero solo per talune imputazioni cautelari ovvero solo per alcuni indagati, in quanto il parziale diniego opposto dal giudice o la diversa graduazione delle misure non costituiscono, di per sé, indice di una valutazione critica, e non meramente adesiva, della richiesta cautelare, essendo necessario che l’autonoma valutazione del giudice sia espressa in relazione alla specifica posizione oggetto di giudizio, rispetto alla quale detto requisito della motivazione è previsto a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio. Più in generale, va ricordato che, in tema di interpretazione della previsione dell’autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza, la giurisprudenza prevalente è nel senso che non si tratta di previsione con carattere innovativo, essendosi piuttosto in presenza della sottolineatura di un obbligo già sussistente per il giudice di manifestare all’esterno in modo percepibile il proprio convincimento, obbligo correlato ai principi di terzietà e imparzialità che sovrintendono alla funzione giudicante, che è peraltro compatibile anche con una tecnica redazionale per relationem, sempre che dal contenuto complessivo del provvedimento emerga in modo chiaro che si sia presa cognizione dei contenuti dimostrativi dell’atto richiamato o incorporato e li si abbia autonomamente rapportati ai parametri normativi di riferimento. Ciò che conta, in sostanza, è che il giudice della cautela proceda a un vaglio critico delle risultanze investigative tramite un’attività ricostruttiva, che, tuttavia, non implica, con riferimento all’esposizione della motivazione, la necessità di una riscrittura originale del testo della richiesta del pubblico ministero; mentre, per converso, allorquando la motivazione “per incorporazione” riproduca refusi, stilemi, o improprietà terminologiche proprie della richiesta del pubblico ministero (ad esempio: “ad avviso di questo pubblico ministero”), ciò indizia di un controllo superficiale da parte dell’organo giudicante e una valutazione non sufficientemente meditata, o comunque autonoma (cfr. sezione III, 8 marzo 2016, Barra e altri). Il falso profilo Facebook “aggrava” lo stalking di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2018 Tribunale di Torino, sentenza n.878 del 13 giugno 2018. Scatta l’accusa di stalking aggravato per chi, presa “di mira” una donna, crei un falso profilo Facebook a suo nome, finga di esserle legato e la inondi di messaggi indesiderati causandole uno stato di ansia e timore tale da indurla a cambiare abitudini. Del resto, quando si molesta qualcuno usando i social, il danno alla vittima si amplifica. La stretta sul dilagante fenomeno dello stalking via web arriva, questa volta, dal Gip del Tribunale di Torino che, con sentenza 878 dello scorso 13 giugno, si assesta su un filone ben consolidato. Il caso - A finire sotto processo, è un uomo che - ossessionato da una ragazza - inizia a bombardarla di messaggi minacciosi e offensivi alternati ad inaspettate dichiarazioni amorose. Ma lo stalker, per mettersi in contatto con gli amici della malcapitata (e rendere più credibile il suo piano) apre persino un profilo a suo nome, corredandolo della foto di una donna a lei somigliante e usa il falso account per stringere amicizia con i suoi conoscenti. Tutto ciò, nonostante fosse stato già ammonito dal giudice per le molestie commesse contro la poverina. La condanna - Una persecuzione in piena regola, dunque, che gli viene a costare la condanna alla pena, patteggiata, di quattro mesi di reclusione per stalking aggravato dall’uso di strumenti informatici e telematici. La colpevolezza dell’imputato, d’altronde, era emersa con chiarezza sia dalle risultanze delle attività investigative compiute dalla polizia postale a seguito della denuncia-querela sporta dalla persona offesa che dal testo dei messaggi inviati via mail e mezzo Facebook. A qualificare il comportamento criminoso come stalking, sia la reiterazione delle azioni che le conseguenze delle condotte contestate. I contorni dello stalking - Infatti, per ravvisare lo stalking occorre, innanzitutto, la commissione di più atti molesti o minacciosi: reiterate telefonate (Tribunale di Campobasso 8/2017), massiccio invio di sms (Tribunale di Bari 2800/2017), intimidazioni (Tribunale di Genova 5425/2016) o pedinamenti (Tribunale di Genova 37/2017). Sufficienti, tuttavia, anche due sole azioni (Tribunale di Nocera Inferiore 1941/2016) realizzate nella stessa giornata, purché autonome (Cassazione 38842/2018). Ancora, la condotta dovrà essere tale da procurare alla vittima “un persistente stato di ansia ed agitazione” ed il “timore di subire atti lesivi della sua incolumità personale, con conseguente alterazione delle proprie abitudini di vita” (Tribunale di Genova 37/2017). Elementi, inclusi gli effetti destabilizzanti della serenità della vittima (Cassazione 49681/2017), tutti sussistenti nella vicenda. Ad aggravare la posizione del reo, poi, l’uso del social e l’aver protratto il “pressing” per un periodo di tempo apprezzabile tanto da incidere sulla vita lavorativa, relazionale e affettiva della donna, costretta a stravolgere le proprie abitudini per fuggire a quel tedioso accanimento. Unica attenuante per lo stalker, aver risarcito la vittima con una somma di denaro che la stessa - firmando una scrittura privata di rinuncia a costituirsi parte civile - aveva ritenuto “congrua e satisfattiva delle sue pretese risarcitorie”. Condanna ben ferma, quindi, ma parzialmente riparata dall’indennizzo dei danni. Integra la diffamazione l’email in molteplici copie di Francesco Barresi Italia Oggi, 1 ottobre 2018 Inviare un’email con in copia numerosi destinatari integra il reato di diffamazione. Lo spiega la quinta sezione penale della Suprema corte di cassazione, nella sentenza 34484/2018, che ha affrontato una caso in cui un uomo inviò a ben sei funzionari doganali in copia una email estremamente diffamatoria indirizzata ad un collega. Da qui la querela per ingiuria aggravata, trattandosi appunto di una email plurima. Ma il tribunale riformò la definizione di reato, assolvendo l’uomo dalle accuse aggravate. E il funzionario chiese giustizia direttamente presso la cassazione, chiedendo che venisse riformata la sentenza assolutoria. I giudici, osservando i precedenti circa il reato di diffamazione contemporaneo, hanno accolto il motivo di ricorso del funzionario equiparandolo, però, ad un concorso di ingiuria e diffamazione ed escludendo quindi la fattispecie dell’aggravante. “L’invio di e-mail a contenuto diffamatorio”, spiegano gli ermellini nel dispositivo di legge, “realizzato tramite l’utilizzo di internet, integra un’ipotesi di diffamazione aggravata e l’eventualità che fra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona a cui si rivolgono le espressioni offensive, non consente di mutare il titolo del reato nella diversa ipotesi di ingiuria. E ancora che la missiva a contenuto diffamatorio”, proseguono i giudici di piazza Cavour, “diretta a una pluralità di destinatari, oltre l’offeso, non integra il reato di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, bensì quello di diffamazione, stante la non contestualità del recepimento delle offese medesime e la conseguente maggiore diffusione della stessa. Secondo questa impostazione il reato, comunque ormai depenalizzato, di ingiuria, in tal caso rimane assorbito”. E i giudici proseguono nell’argomentazione del principio di diritto secondo cui “il fatto che quando la corrispondenza con più destinatari avviene per via telematica”, si legge, “se è vero che la digitazione della missiva avviene con unica azione, la sua trasmissione si realizza attraverso una pluralità di atti operati dal sistema e di cui l’agente è ben consapevole; di qui la conclusione che in ogni caso il fatto contestato integra quantomeno anche il reato di diffamazione”. La successione delle leggi penali nel tempo. Selezione di massime Il Sole 24 ore, 1 ottobre 2018 Successione di leggi penali - Tempus commissi delicti - Criterio della condotta e criterio dell’evento - Applicazione della legge penale vigente al momento della condotta. In tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta. (Fattispecie relativa a omicidio stradale, in cui l’evento della morte era intervenuto nella vigenza della nuova disciplina più sfavorevole di cui all’art. 589-bis del codice penale,mentre la condotta ascritta all’imputato si collocava in epoca precedente, vigente il regime più favorevole di cui all’art. 589, comma 2, c.p.). • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 24 settembre 2018 n. 40986. Fonti del diritto - In genere - Legge più favorevole al reo - Criteri di individuazione - Comparazione in concreto - Necessità - Fattispecie in tema di prescrizione. In ipotesi di successione nel tempo di plurime leggi penali, tutte posteriori al “tempus commissi delicti”, l’individuazione del regime complessivamente di maggior favore per il reo, ai sensi dell’art. 2, comma quarto, cod. pen., deve essere operata in concreto fra tutte le leggi succedutesi, senza che la verifica possa essere limitata a quella vigente al momento del fatto e a quella vigente alla data della decisione. (Fattispecie di violenza sessuale commessa sotto il regime prescrizionale anteriore alle modifiche apportate dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e a quelle di cui alla legge 1° ottobre 2012 n. 172, nella quale la S.C. ha annullato, senza rinvio, la decisione della Corte territoriale che aveva omesso di dichiarare l’intervenuta prescrizione del reato per effetto della riduzione dei termini operata dalla novella del 2005, limitando il confronto fra la disciplina vigente all’epoca del commesso reato e l’ultima, vigente alla data della sentenza). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 24 gennaio 2017 n. 3385. Successione di leggi nel tempo - Reato permanente - Reati edilizi - Reato ex art. 181, comma primo-bis, D.Lgs. n. 42 del 2004 - Natura permanente - Conseguenze - Individuazione della legge applicabile. Il reato di costruzione edilizia in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, previsto dall’art. 181, comma 1-bis del D.Lgs. n. 42 del 2004, ha natura permanente come gli analoghi reati edilizi, protraendosi la condotta illecita per tutta la durata dei lavori, e si consuma con la definitiva ultimazione dei lavori ovvero con l’interruzione della condotta per qualsiasi motivo (nella specie, l’intervento del sequestro); ne consegue che, nell’ipotesi di condotta protrattasi unitariamente sotto l’imperio di due diverse leggi, l’ultima delle quali abbia aggravato il regime sanzionatorio del fatto, elevandolo da contravvenzione a delitto, va applicata solo la disposizione vigente alla data della cessazione della permanenza e, per l’effetto, il più lungo termine di prescrizione. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 29 ottobre 2015 n. 43597. Successione di leggi nel tempo - Individuazione della disciplina applicabile - Reato a forma libera - Tempus commissi delicti - Coincide con il verificarsi dell’evento. Ai fini dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 2 cod. pen., il tempus commissi delicti va collocato al momento della consumazione del reato e, nei casi di reato a forma libera, tale momento coincide con il verificarsi dell’evento tipico. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 27 maggio 2015 n. 22379. Fonti del diritto - Leggi - Legge penale - Successione di leggi - Concorso di persone nel reato - Contributo del concorrente esauritosi prima della entrata in vigore di una nuova norma incriminatrice o sanzionatoria - Disciplina applicabile - Disciplina vigente al momento di perfezionamento del reato - Fattispecie. In tema di successione di leggi penali nel tempo, il concorrente che abbia realizzato un contributo causale interamente esauritosi prima della introduzione di una nuova norma incriminatrice o meramente sanzionatoria è soggetto alla disciplina sopravvenuta, anche se più sfavorevole, quando il reato è pervenuto a consumazione dopo l’entrata in vigore di quest’ultima. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta l’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203, in relazione ai reati di importazione e conseguente detenzione di armi da guerra, nei confronti di imputato che aveva intrapreso trattative con il venditore prima della introduzione della aggravante, e la condotta illecita si era però perfezionata dopo il suo arresto e dopo l’entrata in vigore della nuova norma per effetto dell’apporto di altri concorrenti). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 8 maggio 2014 n. 19008. Sardegna: Bonafede “i tribunali più piccoli saranno potenziati” di Tiziana Simula La Nuova Sardegna, 1 ottobre 2018 Parla il ministro della Giustizia: “Sono un presidio di legalità e vanno tutelati. Nell’isola ci sono stati miglioramenti nel civile ma nel penale c’è tanto da fare”. Rassicura sul destino dei piccoli tribunali e promette ossigeno a quelli in affanno, il ministro della Giustizia pentastellato Alfonso Bonafede. Lungi da lui l’idea di smantellare gli uffici giudiziari sul territorio “presidi di giustizia e legalità che in alcune realtà vanno, anzi, rafforzati”. E in quest’ottica garantisce il suo impegno sulla grave scopertura di organico che paralizza l’attività del tribunale di Tempio. Non ci sarà nessun risparmio sul sistema giudiziario. Piuttosto “investimenti per sanare le carenze di strutture e personale”. Signor ministro, dal suo osservatorio di Guardasigilli qual è lo stato di salute della giustizia in Sardegna? “Ci sono stati progressi nel settore civile, con miglioramenti nel rapporto tra procedimenti conclusi e procedimenti di nuova iscrizione. Nel penale rimane, invece, ancora tanto lavoro da fare, anche se registriamo esempi virtuosi, come in Corte d’Appello a Cagliari e al Tribunale di Lanusei. Con l’ultimo concorso per assistente giudiziario, poi, sono state assunte 100 unità negli uffici giudiziari sardi e vogliamo proseguire sulla strada delle assunzioni per colmare le carenze d’organico. A breve sarà indetta una nuova procedura d’interpello per la copertura delle posizioni dirigenziali vacanti su tutto il territorio nazionale. Per far funzionare la macchina della giustizia servono le persone, sono loro che fanno girare gli ingranaggi della macchina”. Gravi carenze di organico affliggono i tribunali di piccole dimensioni. Quello di Tempio Pausania, ad esempio, vive nella continua emergenza: attualmente ci sono 7 giudici presenti su 11 in pianta organica. Una situazione al limite della paralisi testimoniata da un’altissima percentuale di prescrizioni, pari al 50% in primo grado, con conseguenti casi di negata giustizia. Qual è il destino dei piccoli tribunali? Intende dare risposte al nostro territorio e se sì, in che modo? “Conosciamo la situazione del Tribunale di Tempio Pausania, balzata ai nostri occhi dai dati sulla conclusione dei procedimenti. Purtroppo questa condizione di organici scoperti si ripercuote negativamente sui cittadini e quindi cercheremo di affrontare nel più breve tempo possibile il problema. Sulla geografia giudiziaria, stiamo svolgendo un supplemento di analisi e riflessione. Quello che posso già dire è che non agiremo considerando il sistema giudiziario come un campo dal quale drenare risorse per obiettivi di risparmio e taglio della spesa. È un’ottica sbagliata e pericolosa: i tribunali rappresentano un presidio di giustizia e legalità e, specie in alcuni territori, vanno tutelati e anzi rafforzati con risorse e personale adeguati”. Alla luce di questa situazione, ritiene che sei tribunali in Sardegna siano troppi o siano sufficienti? “Già con Legge delega del 2011 sono state soppresse le sezioni distaccate di tribunale. Sulla base di quella riforma non possono essere fatti altri interventi perché vanno mantenuti i tribunali provinciali e almeno tre tribunali in ciascuna sede di corte d’appello. Come ho detto per altre regioni, anche in Sardegna, prima di decidere eventuali proposte di riassetto, andranno valutate attentamente l’attività di ciascun ufficio giudiziario e l’impatto della criminalità. In linea di massima posso dire che non è intenzione mia e del governo smantellare uffici giudiziari sul territorio né allontanare il servizio-giustizia dal cittadino. Per questo siamo impegnati a realizzare un migliaio di sportelli di prossimità nei prossimi due anni”. Come pensa di ridurre i tempi dei processi che oggi durano troppo a lungo. E un processo che dura a lungo danneggia imputato e vittime del reato? “Quella della lunghezza dei processi è la vera emergenza su cui bisogna intervenire. A breve presenteremo la riforma della procedura civile ma, come detto, puntiamo su consistenti investimenti per sanare le carenze di strutture e personale. Stiamo lavorando anche allo sviluppo del processo digitale e telematico”. Parliamo di libertà di stampa e di informazione, sempre più sotto tiro, con giornalisti minacciati, perquisiti, indagati. Il mondo politico può assumersi degli impegni a tutela dell’articolo 21 della Costituzione e del segreto professionale dei giornalisti? “La libertà di stampa e d’informazione è un valore irrinunciabile per qualsiasi Stato democratico e di diritto e come governo abbiamo il dovere di tutelarla. Per quanto mi riguarda, abbiamo fatto quanto in nostro potere nei casi occorsi da quando siamo al ministero della Giustizia: abbiamo interessato il nostro ufficio ispettorato per le vicende che hanno riguardato un giornalista bresciano e uno siciliano, due perquisizioni su cui abbiamo chiesto una verifica sulla legittimità dell’azione dei magistrati”. Il drammatico caso della mamma detenuta a Rebibbia che ha lanciato giù dalle scale i due figli di sei mesi e un anno e mezzo, uccidendoli, riporta fortemente all’attenzione la questione dei bambini costretti a vivere in carcere da innocenti, in un ambiente non consono alla loro crescita. Non crede che si debba investire di più nella realizzazione degli Icam, gli istituti a custodia attenuata per detenute madri? In Sardegna, c’è un Icam. Inaugurato nel 2014 e mai aperto. Perché? “Quella di Rebibbia è stata una tragedia che mi ha colpito nel profondo. Per questo mi sono precipitato subito sul luogo e, subito dopo, all’ospedale Bambin Gesù per avere informazioni sull’altro bimbo che ancora lottava per la vita. Abbiamo emanato immediatamente dei provvedimenti cautelari, in base a quanto ho potuto constatare personalmente e di cui non posso parlare per le indagini che sono ancora in corso. Sono rimasto sconcertato dalla strumentalizzazione fatta sulle spalle di due piccoli innocenti: mi sono vergognato di quanto hanno fatto e detto sindacati, politici e anche magistrati. Quanto agli Icam, ho inserito nell’atto di indirizzo del ministero la previsione di una struttura per regione perché il punto non è la capienza dei posti - attualmente queste strutture accolgono la metà della loro potenziale capienza - ma la vicinanza dai luoghi di origine. Ecco, ad esempio, la struttura a cui fa riferimento lei non è attiva perché in Sardegna c’è solo una detenuta con un figlio al seguito, a Sassari. Nella maggior parte dei casi le madri non vogliono abbandonare il proprio territorio in cui, magari, risiede il resto della famiglia”. Secondo lei, aumentare le pene per certi reati - come la corruzione - è un deterrente? “Sulla corruzione, quella che stiamo realizzando, non è una semplice riforma ma una vera rivoluzione. Inasprire le pene è solo un elemento ed è la combinazione delle disposizioni contenute nello spazza-corrotti che renderà la corruzione non solo moralmente riprovevole, ma anche assolutamente non conveniente. È finita l’era dei ‘furbi’ che la facevano sempre franca. Con il Daspo per i corrotti, l’agente sotto copertura, i pentiti della corruzione, il carcere certo in caso di condanna, l’Italia chiude una stagione e ne apre un’altra: quella dell’onestà. Questa legge ha riflessi di sviluppo economico e culturale e di equità: gli imprenditori onesti possono finalmente contare su uno Stato al proprio fianco”. Crede nelle misure alternative al carcere? “Credo nel valore di queste misure e nell’utilità che possono avere in alcune circostanze. Ma una cosa deve essere chiara: la certezza della pena va garantita altrimenti i cittadini perdono la fiducia. Lo dico ancor più chiaramente: no a svuota-carceri o misure simili. Non c’è dubbio che dovremo lavorare per migliorare le condizioni del nostro sistema penitenziario, incrementando il personale di polizia penitenziaria e rendendo le carceri luoghi sicuri e dignitosi dove si rieduca e non solo si punisce il detenuto, così da preparare il reinserimento nella società. Per questo stiamo investendo su progetti di inclusione basati sul lavoro, lo sport, l’arte e la cultura”. Legittima difesa. In che termini intendete modificare l’attuale legge? “Quella a cui il governo sta lavorando è una riforma seria ed equilibrata che contempera i diversi interessi in gioco. Dire che legittima l’omicidio o che favorisce la diffusione delle armi è sbagliato e non tiene conto del merito del provvedimento. Bisogna eliminare quelle zone d’ombra presenti nella legge che costringono un cittadino che si è legittimamente difeso, ad attraversare tre gradi di giudizio. Vogliamo fornire ai giudici un testo chiaro e senza ambiguità”. Calabria: l’Osservatorio regionale sulla violenza di genere striglia i Comuni ildispaccio.it, 1 ottobre 2018 “Rispettare legge e assegnare con urgenza alloggi a donne vittime”. Garantire una abitazione alle donne che hanno avuto il coraggio di denunciare il compagno violento. Questa la richiesta che viene da Mario Nasone e da Giovanna Cusumano, rispettivamente coordinatore e vice coordinatore dell’osservatorio regionale sulla violenza di genere. “È un dato statistico, infatti - affermano Nasone e Cusumano - che in Italia ben 6 milioni 700mila donne e bambini sono vittime di violenza tra le mura di casa, e se si confronta questo numero con la percentuale del (solo) 7%, che rappresenta la cifra di questi crimini che viene processata, si può facilmente comprendere come quello abitativo sia un problema molto sentito dalle donne vittime di maltrattamenti. In pochi ancora sanno che dal primo febbraio del 2018 è stata pubblicata la legge n. 4, che statuisce che chi viene condannato per una serie di reati che rientrano nel più ampio genere di violenza familiare (quali incesto, maltrattamenti, omicidio, anche preterintenzionale, lesioni, sequestro di persona e violenza sessuale) decade dalla relativa assegnazione dell’alloggio di residenza pubblica. In tal caso, le altre persone conviventi non perdono il diritto di abitazione e subentrano nella titolarità del contratto. Ma altrettanto poco conosciuta e ancor meno applicata dai Comuni calabresi è la legge della regione Calabria n. 20 del 2007. L’art. 7 della suddetta legge che statuisce in tema si “assistenza alloggiativa garantita”, così testualmente recita: “I Comuni, al fine di garantire adeguata assistenza alloggiativa alle donne, unitamente ai loro figli minori, che vengono a trovarsi nella necessità, adeguatamente documentata dagli operatori dei Centri antiviolenza e/o dagli operatori comunali, di abbandonare il proprio ambiente familiare e abitativo, in quanto vittime di violenze e abusi sessuali fisici o psicologici e che si trovano nell’impossibilità di rientrare nell’abitazione originaria, si avvalgono della riserva degli alloggi di cui all’articolo 31 della legge regionale 25 novembre 1996, n. 32”. Purtroppo, però, nonostante una precisa disposizione di legge, i Comuni calabresi, in palese violazione della stessa, continuano ad ignorare il dettato normativo. Risalgono proprio a qualche giorno fa due segnalazioni fatte al Sindaco della città metropolitana di Reggio Calabria, a cui è stato richiesto, da chi è preposto, l’assegnazione con urgenza di un alloggio per due donne vittime di violenza. Nello specifico, una delle donne maltrattate è a tutt’oggi “costretta”, per mancanza di alternative, a vivere con i figli minori in un appartamento sottostante a quello dell’ex marito violento che la vittima aveva regolarmente denunciato. Una situazione di grave rischio che sta portando i servizi a valutare l’allontanamento dei minori per assicurare loro adeguata protezione. È superfluo ribadire la gravità delle violazioni di quelle previsioni normative finalizzate a tutelare la posizione della vittima di reati endo-familiari, nonché a scongiurare irreparabili tragedie familiari. Peraltro, le conseguenze di questi mancati interventi hanno ricadute importanti non solo per le vittime di violenza, ma anche sotto il profilo della spesa pubblica. Intanto le case rifugio e le case accoglienza che ospitano nell’emergenza le donne maltrattate, non potendo in molti casi dimetterle per mancanza di soluzioni abitative, registrano spesso una situazione di esaurimento dei posti e l’impossibilità di potere procedere a nuove accoglienze. Inoltre si registra a carico della regione uno spreco di risorse economiche rilevantissimo. Infatti, per ogni donna ed ogni minore accolto vi è una retta giornaliera a carico della Regione ed a favore dei CAV o delle case rifugio che si traduce in una voce di spesa per il bilancio regionale che potrebbe essere utilizzata per rafforzare le misure di protezione. Serve una assunzione di responsabilità immediata da parte dei Sindaci che sono chiamati a provvedere anche attraverso l’utilizzo dei beni confiscati, che, si ricorda, sono a pieno titolo parte del patrimonio di edilizia residenziale del Comune. L’Osservatorio, peraltro, oltre a richiedere il rispetto delle vigenti disposizioni di legge propone ai Comuni calabresi di modificare il loro regolamento comunale sull’edilizia pubblica residenziale, affinché possano assegnare in via d’urgenza, a seguito di provvedimento giudiziario e/o di pubblica sicurezza, ed in deroga alle graduatorie vigenti alloggi disponibili a nuclei familiari composti da donne che abbiano subito violenza. L’osservatorio in ogni caso continuerà a svolgere la sua funzione di monitoraggio e di raccolta di segnalazioni vigilando sulla effettiva applicazione della normativa vigente e segnalando le violazioni alle competenti Autorità. Si chiede, inoltre - concludono Nasone e Cusumano - che i consigli degli ordini degli avvocati della regione, nonché le diverse associazioni che si occupano della difesa dei diritti civili, di valutare la possibilità di attivare servizi di assistenza legale per tutte quelle donne vittime di violenza che chiedono il riconoscimento dei diritti previsti dalle norme vigenti”. Firenze: detenuti a confronto con gli scrittori, il carcere diventa racconto stamptoscana.it, 1 ottobre 2018 Creare un collegamento tra la realtà dei detenuti studenti in carcere e quelli di una classe serale. È questo l’obiettivo di “Ponti” il progetto presentato oggi a Firenze Libro Aperto, il Festival Libro di Firenze e realizzato da cinque scrittori come Marco Vichi, Valerio Aiolli, Enzo Fileno Carabba, Anna Maria Falchi, Leonardo Gori. Gli scrittori, da aprile a maggio, sono entrati in carcere e hanno incontrato in cinque appuntamenti i detenuti del carcere di Ranza di San Gimignano (SI), stimolando laboratori di scrittura che hanno portato alla stesura di storie e racconti. Nello specifico il progetto, che ha utilizzato la scrittura e la capacità di raccontare il mondo di questi cinque autori contemporanei, ha coinvolto le classi delle medie della Casa di reclusione di Ranza a San Gimignano e la classe del biennio della scuola serale di Poggibonsi, ambedue gestite dall’Istituto C.P.I.A. 1 (Centro Provinciale Insegnamento Adulti) di Siena con il patrocinio e il contributo della Regione Toscana. “I ponti servono ad unire tanti punti distanti tra di loro - ha detto Marco Vichi illustrando il progetto - e probabilmente il ponte più difficile da creare è proprio quello tra il dentro e il fuori dal carcere”. Alla presentazione del progetto sono intervenuti, oltre al gruppo di scrittori, anche Olivia Mariangela e Cristina Felici, docenti all’interno del carcere e Christine Von Borries magistrato della Procura di Firenze, oltre a Don Vincenzo Russo cappellano del carcere di Sollicciano. Il progetto ha utilizzato la scrittura come mezzo per creare un nesso tra tipi di scuole molto diverse tra loro e persone e sensibilità altrettanto diverse. La realtà carceraria, in particolare per i casi di detenuti ergastolani è spesso fatta di isolamento, perdita di obiettivi e motivazioni che la scuola può in parte colmare utilizzando la scrittura come mezzo di comunicazione, di stimolo, come generatore di obiettivi e passioni. Una connessione che possa porre le basi per una maggiore consapevolezza delle similitudini e differenze tra due mondi diversi ma che possano avere affinità nella sfera scolastica e nell’ambito della crescita personale. Santa Maria Capua Vetere (Ce): “Epoché”, magistrati e detenuti insieme sul palco casertafocus.net, 1 ottobre 2018 Grande successo per lo spettacolo “Epoché”, il progetto che ha permesso a magistrati e detenuti della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere di esibirsi insieme sul palco, al fine di coltivare la conoscenza sul principio costituzionale della finalità rieducativa della pena. Un evento di straordinario valore sociale che ha generato un’atmosfera magica, all’interno del laboratorio teatrale, dell’I.S.I.S.S Ettore Majorana. “Benvenuti alla terza edizione della ‘Settimana della cultura’, con il suo sesto appuntamento”. Ad accogliere il folto pubblico in platea, Filippo Morace, direttore artistico dell’evento culturale giunto alla terza edizione. “Voglio ringraziare la preside Pina Sgambato, per l’accoglienza ricevuta, il direttore artistico che ha diretto l’evento culturale e i magistrati di sorveglianza così come i detenuti. Sono stato ricevuto dal Prefetto per l’episodio isolato e increscioso che ha colpito la nostra cittadina qualche giorno fa. Dobbiamo avere fiducia nella giustizia, per i miei concittadini mi impegno al massimo, senza lasciare nulla al caso. Un grazie particolare al consigliere delegato alla cultura Michele Nuzzo, perché Santa Maria a vico non é solo un cantiere aperto, per le numerose opere pubbliche in itinere ma ha uno sguardo sempre attento alla crescita culturale dei nostri cittadini”. Andrea Pirozzi, sindaco. “Cultura che va intesa come momento di coesione, aggregazione sociale e di educazione alla legalità, un imperativo quotidiano affinché si radichi nelle coscienze soprattutto dei giovani e li educhi nel rispetto del dettato costituzionale. La chiave di lettura di questo spettacolo teatrale é: loro protagonisti del palcoscenico, noi attori della società”. Michele Nuzzo, consigliere delegato alla cultura. A calcare la scena, in sinergia con i detenuti, i magistrati di sorveglianza Lucia Di Micco e Marco Puglia che ha curato anche la regia. Milano: a Bollate è arrivata la Corrida in carcere di Emanuela Cimmino* Ristretti Orizzonti, 1 ottobre 2018 Dopo la messa in scena di “Buona La prima, la storia confusa del 17.4.18”, squilli di trombe, colpi di batteria, giochi di prestigio e di magia, travestimenti, monologhi ed imitazioni hanno divertito il pubblico nei pomeriggi estivi nei cortili dei passeggi del primo e secondo reparto della Casa di Reclusione di Milano Bollate. Nelle date del 4 e del 6 Luglio 2018 è arrivata la Corrida in carcere. Una sfida all’ultimo fronte, da un lato un gruppo di detenuti del primo reparto, dall’altro quelli del secondo, che nonostante il caldo rovente, si sono esibiti individualmente o in coppia con le loro performance. A fare da sfondo due vallette un po’ buffe e distratte, una spettinata per via della parrucca bionda un po’ malandata, l’altra volata via perché il prescelto a caso tra il pubblico non la sopportava. E due presentatori, diversi, molto diversi tra loro, uno elegante, serio, professionale; l’altro iperattivo che fermo non è riuscito proprio a stare. Il pubblico ha fatto da giuria, applausi per i meritevoli e fischi e pernacchie per chi non è andato in finale ma almeno ha fatto ridere e divertire. Applausi e pernacchie che sono arrivati anche da chi, la Corrida, l’ha seguita dalle finestre delle proprie camere di pernottamento che affacciano sui passeggi. Ma come acclamava il buon Corrado “E non finisce qui”, la Corrida, quella in carcere, ha avuto la sua finale. E che finale è stata quella del 28 settembre! Durante il mese di agosto i finalisti guidati dal Funzionario della professionalità giuridico - pedagogica ideatore dell’evento, hanno lavorato assieme alla progettazione e stesura del palinsesto, cercando testi, musiche, canzoni da cantare, ballare e perfino da mimare. Hanno lavorato sulla musica, gli effetti, un mix tra live e registrazione; dietro le quinte detenuti con competenze da tecnici del suono ed ex componenti di cover band. E poi dal 6 settembre, prove su prove, giorno dopo giorno, ore dopo ore trascorse in sala musica, 15 ristretti dietro la direzione artistica e musicale del Funzionario giuridico - pedagogico non hanno smesso di mettersi in gioco, scoprendo talenti e migliorando in termini vocali, espressivi. Chitarre elettriche, acustiche, batteria, bonghetti, Jambè, un’armonica e una tastiera, gli strumenti suonati. La presenza sul palco del gruppo Live ha reso tutto molto più suggestivo, sentito; previsto dal palinsesto dopo due/tre performance, intervalli musicali, dalla Casa del sole popolarissima canzone folk americana che ha visto una standing ovation da parte del pubblico, al Coro dei pompieri, noto per il film Altrimenti ci arrabbiamo, che ha richiesto durante le prove, tecniche di rilassamento e di respiro. Gold, Periquito pin pin, Spunta la Luna dal monte, le canzoni in sfida, seguite dalla prova di ballo sulle note di Thriller e Twist & Shout danzando con gli strumenti e per concludere la prova di mimo, il secondo reparto ha mimato I migliori anni di Renato Zero ed il primo reparto Come nelle Favole di Vasco Rossi. Un presentatore preciso e da un simpatico imbarazzo e due veline, una bionda ed una mora, una piemontese tutta peperina ed una sarda impacciata che è scappata via, hanno accompagnato i partecipanti alla loro postazione, davanti al pubblico. Un The Champion dei Queen ha fatto da sottofondo alla premiazione. Per i vincitori una pergamena di dimensioni differenti a seconda della postazione raggiunta. Una Corrida in carcere, in quella di Bollate, che si è conclusa con una magica, ed alquanto provata in termini di emozioni, interpretazione del mio Canto Libero di Lucio Battisti. Un Canto Libero per il quale i 15 protagonisti hanno studiato le note, le parole, hanno appreso tonalità e timbri, un Canto Libero che ha liberato le capacità represse, che ha sconfitto la vergogna e rafforzato la voglia di fare qualcosa di costruttivo anche divertendosi, oltre che di bello. Perché questa Corrida in carcere, scriviamocelo sinceramente, è stata proprio bella. *Funzionario della professionalità giuridico-pedagogica Palermo: chi ha paura dell’Ucciardone? La fortezza borbonica, monumento da scoprire balarm.it, 1 ottobre 2018 A Palermo viene chiamato anche “Grand hotel Ucciardone” perché i boss erano detenuti qui: ma il cupo carcere ha una storia antica e per la prima volta apre le porte. Gli immensi magazzini con i segreti più oscuri della storia del crimine di Palermo, le mura borboniche e l’atmosfera cupa che un carcere storico come questo sa evocare: l’Ucciardone di Palermo ha un nome e una storia famosa nel mondo e, per la prima volta, apre le porte a cittadini e turisti per i weekend del festival “Le Vie dei Tesori” (guarda quali altri luoghi puoi visitare). La storia della città passa infatti anche tra queste mura: fortezza borbonica edificata su un terreno di cardi spinosi. E il nome pare venga proprio da qui: dal siciliano “u ciarduni” (il cardone), a sua volta dal francese chardon, che vuol dire cardo. La direttrice Rita Barbera spiega che da diversi anni non si faceva ordine nei magazzini e anche come è così che sono venute fuori diverse cose che stanno ancora finendo di sistemare, dalle vecchie uniformi delle guardie a libri antichi e raccolte di leggi. Palermo lo conosce anche come “Grand hotel Ucciardone” perché qui erano reclusi i grandi boss della mafia che potevano permettersi di brindare e imbandire banchetti a base di aragoste e di celebrare matrimoni nella cappella del penitenziario (è stato Buscetta, in tenuta elegante per le nozze della figlia). Durante il Festival saranno esposte le divise anni Cinquanta del personale e ci sarà un racconto itinerante all’esterno delle sezioni con la compagnia di teatro di Lollo Franco in veste di cantastorie. Saranno narrati alcuni episodi celebri, tra leggenda e realtà del carcere come l’omicidio di Gaspare Pisciotta, avvelenato da un caffè, o l’esecuzione di Vincenzo Puccio, killer del capitano Emanuele Basile, fino alla messa celebrata dal cardinale Pappalardo e andata deserta per protesta dei detenuti. Il monumento oltre la storia: l’Ucciardone è un carcere risalente all’epoca borbonica e la struttura, di tipo panottico, è del 1834. Si trova nel centro di Palermo, fuori le mura del centro storico, ed è composto (si vede dall’alto) da otto bracci e suddiviso in nove sezioni. Oltre la biblioteca e il campetto è presente un’area verde con un’area attrezzata come parco giochi. È stato progettato all’inizio del XIX secolo dall’architetto Nicolò Puglia e riformato, come oggi si vede, dall’architetto palermitano Emmanuele Palazzotto (Palermo 1798 - 1872). Nel 1842, con il trasferimento dei detenuti dallo storico carcere della Vicaria (Palazzo delle Reali Finanze in piazza Marina, dello stesso architetto Palazzotto) iniziò la sua attività. L’8 gennaio 2018 il carcere è stato intitolato al maresciallo degli agenti di custodia Calogero Di Bona, ucciso dalla mafia nell’agosto 1979. Oggi all’Ucciardone sono attive politiche di rinascita per i detenuti: è stato avviato un pastificio, curato dall’imprenditore Giglio, che consente di fare la pasta con grano antico e a breve nascerà una sartoria curata da maestri e artigiani. Tra i vari progetti i detenuti hanno anche imparato a recuperare e decorare con lo stile dei carretti siciliani degli sgabelli che ora arredano le loro celle con alcuni esemplari donati al Papa e monsignor Lorefice. Inoltre si fa giardinaggio nell’orto e teatro e, a breve la direzione pensa di aprire al pubblico la vendita dei prodotti coltivati per incrementare le attività dei laboratori. Nel libro di Nino Di Matteo quel “patto sporco” con la mafia di Corrado Stajano Corriere della Sera, 1 ottobre 2018 In un’intervista con Saverio Lodato, in libreria per Chiarelettere, il sostituto procuratore esplora i retroscena della “trattativa con lo Stato” e affronta una stagione drammatica. Ci si è già dimenticati, in questo Paese senza memoria, della terribile sentenza del 20 aprile di quest’anno, il processo detto della Trattativa tra lo Stato e la mafia? Un pentolone ribollente di brutture, di tradimenti, del sangue di tanti innocenti vittime dell’Italia peggiore? La notizia della grave condanna inflitta dalla Corte d’assise di Palermo agli assassini mafiosi e a uomini delle istituzioni con indosso l’uniforme dell’Arma benemerita della Repubblica sembra già scivolata via lasciando il posto alle notizie piccanti, esse sì di rigore, sui sarti, i cuochi, i portatori di influenze e di sogni. Per fortuna esistono ancora i libri. Ne è appena uscito uno che fa rabbrividire, Il patto sporco. Il processo Stato-mafianel racconto di un suo protagonista: Nino Di Matteo, il pubblico ministero più perseguitato del Bel Paese, che analizza le motivazioni della sentenza di condanna e risponde, in una approfondita intervista, alle domande di Saverio Lodato, tra i più agguerriti giornalisti del fenomeno mafioso. Il libro narra fatti conosciuti e sconosciuti, documentati e rilevanti, vista la fonte, ed è importante per costruire la storia sanguinosa, spesso coperta di mistero di questi anni. Nino Di Matteo, ora sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia, non si sente un eroe. Quel che ha fatto l’ha fatto, dice con semplicità, soltanto nel nome dello Stato di diritto, con grandi sacrifici, suoi e della sua famiglia. Sottoposto “al primo livello di protezione eccezionale”, non deve esser stato facile vivere in quel modo, lasciato solo anche da chi avrebbe dovuto difenderlo, l’Associazione nazionale magistrati, il Consiglio superiore della magistratura, insultato anche da persone impensabili, accademici, opinionisti, giornalisti, magistrati. Ma lui aveva le prove di quel che faceva: risultano ora con chiarezza dalle 5.252 pagine delle motivazioni della sentenza della Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto depositata il 18 luglio scorso. Ne ha subite di minacce in 25 anni di inchieste e di solitudine Nino Di Matteo. Totò Riina, intercettato nel 2013 nel carcere di Opera mentre all’ora d’aria parla con un mafioso pugliese: “Gli farei fare la fine del tonno. La stessa che ho fatto fare a Falcone”, dice commentando con rabbia l’impegno di Di Matteo nel processo sulla Trattativa. “Lei deve stare attento perché noi siamo molto avanti. Abbiamo già comprato l’esplosivo, abbiamo studiato tutte le sue abitudini”, gli dice nel carcere di Parma, nel 2014, il mafioso Vito Galatolo. “Perché?”, chiede il magistrato. E il mafioso, levando lo sguardo alla famosa fotografia di Falcone e Borsellino sorridenti, appesa alla parete, in palermitano stretto replica indicando Falcone: “Non comu a chistu, ma come l’autru”. E aggiunge: “Ce lo hanno chiesto”. (Sono stati differenti, quindi, la matrice e i moventi della strage di via D’Amelio rispetto a quelli della strage di Capaci. Chi chiese, al di fuori della mafia?) E un costruttore palermitano che si era occupato dell’acquisto del tritolo per uccidere Di Matteo, all’ufficiale della Guardia di Finanza che l’arrestava dice: “Per capire dove viene l’esplosivo e che cosa c’è dietro, dovete cercare in alto”. E ancora. Matteo Messina Denaro, l’attuale capo della mafia, latitante da 25 anni, “rampollo di una famiglia con quattro quarti di nobiltà mafiosa” dice che Di Matteo è andato troppo avanti con le sue inchieste. Il magistrato commenta così le ragioni della latitanza del capomafia: “Temo la copertura di ambienti deviati delle istituzioni che hanno ragioni di temere, sapendo di quali terribili segreti è a conoscenza, che un giorno possa decidere di vuotare il sacco”. Un libro di piombo questo “Il patto sporco”. Quei 200 chili di tritolo comprati in Calabria per uccidere Di Matteo non sono stati trovati. Dove sono nascosti? C’è ancora, da parte della mafia, l’intenzione di usarli? C’è qualcuno che sa dove sono, nelle istituzioni, nei Servizi, “deviati”, naturalmente? Una minaccia che pesa. Questo processo non è fondato, come in una guerra dichiarata tra eserciti nemici che trattano ad esempio su uno scambio di prigionieri: la posta in gioco, invece, è stata discussa alla pari tra uomini dello Stato e i poteri criminali di quello stesso Stato. Il reato contestato è infatti: “Violenza e minaccia a corpo politico dello Stato”. I governi del tempo. Una trattativa soltanto politica: “I carabinieri (generali e ufficiali superiori) omettono di lasciare traccia scritta dei loro colloqui (con gli uomini della mafia), omettono di riferire ai vertici dell’Arma e alla magistratura, cercano invece sponde politiche, informando autorità istituzionali e parlamentari”. E ancora: “Non lo hanno fatto perché sapevano che con Vito Ciancimino stavano conducendo una trattativa politica: cosa volevano i mafiosi per far interrompere quella strategia dell’attacco frontale allo Stato e alla politica? Ecco perché, mentre tacevano con chi avrebbe dovuto sapere, riferivano ad autorità politiche e ministeriali”, di cui la sentenza fa abbondantemente i nomi e illustra i desideri dei mafiosi, contro i “pentiti”, il carcere duro, il 41 bis, il sequestro dei beni, la modifica della legge Rognoni-La Torre, la revisione, attraverso una sentenza della Corte di Strasburgo, degli ergastoli del maxiprocesso del 1986. E questo - la pressione assassina - seguitando a uccidere: dopo via D’Amelio, le stragi di Firenze, Roma, Milano, del 1993; la bomba non esplosa per il cattivo funzionamento del telecomando nel gennaio 1994 allo stadio Olimpico di Roma che avrebbe ucciso centinaia di carabinieri. Il libro è ricco di fatti che provano l’esistenza della vergognosa trattativa e anche di interrogativi non tutti con una risposta. Perché Totò Riina, in corso d’opera, decide di cambiare il piano dell’assassinio di Falcone, non più a Roma, ma in Sicilia? E dieci anni prima: chi ha rubato il diario di Carlo Alberto dalla Chiesa nella cassaforte di villa Pajno, a Palermo, subito dopo il suo assassinio in via Carini, poco lontano? (Specialisti di Servizi, non rozzi criminali). Dov’è finita, 1992, l’agenda rossa di Paolo Borsellino sul campo di battaglia di via D’Amelio, passata in più di una mano? Qual è il vero significato dei foglietti coi numeri di telefono del Sisde di Roma e del capocentro di Palermo trovati dalla Polizia scientifica sul cratere di Capaci? Chi fece sparire quasi del tutto i file informatici di Falcone dopo la sua morte? Quali furono i motivi dell’accelerazione dell’assassinio di Paolo Borsellino? Che cosa aveva scoperto il magistrato nei tragici 57 giorni dopo Capaci? La cattura di Riina, nel gennaio ‘93, poi, e la mancata perquisizione del suo covo, sono smaccate prove dell’accordo tra le parti “per evitare che saltassero fuori atti e documenti compromettenti proprio su quella fase della trattativa”. Come mai restò segreta per quasi vent’anni la lettera che i familiari dei detenuti a Pianosa e all’Asinara inviarono nel febbraio 1993 al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro furibonda di minacce contro Nicolò Amato, a capo del Dipartimento delle carceri, e contro Vincenzo Scotti, ministro dell’Interno che si erano mostrati intransigenti nel loro lavoro? Rappresentavano un ostacolo per ogni accordo sottobanco e vennero rimossi rapidamente dal loro incarico. (Quella lettera segreta fu trovata da Nino Di Matteo e dall’allora pm Antonio Ingroia solo nel 2011 negli archivi del Dipartimento delle carceri). Quando i capimafia oltranzisti e moderati - come in politica - si convinsero che il nascente movimento di Forza Italia, tramite Dell’Utri, rappresentava la carta vincente? Andreotti, ormai aveva fatto il suo tempo, l’assassinio di Lima aveva segnato un’epoca. (Nelle sedute della Commissione antimafia della XII legislatura, il primo governo Berlusconi, nel ‘94, si parlava ossessivamente di 41 bis e di “pentiti”, la minaccia di cui liberarsi). Questo amaro libro è anche l’utile specchio di un Paese fragile come il nostro. Popolato però di uomini e donne che fanno il loro dovere e ancor più del loro dovere, con grande passione. Energie positive che restano isolate perché mancano i ponti della buona politica. L’altra Italia. Migranti. Permessi di soggiorno come “premio” al valore civile di Enrico Santi Italia Oggi, 1 ottobre 2018 Stop ai permessi di soggiorno per motivi umanitari, ma via libera a quelli premiali per lo straniero che compie atti di particolare valore civile. Nuove procedure e tempistiche per il trattenimento dei richiedenti asilo. Tempi più lunghi, fino a quattro anni, per la conclusione dei procedimenti di concessione della cittadinanza per residenza o matrimonio. Lo prevede il decreto legge su immigrazione e sicurezza approvato dal consiglio dei ministri nella seduta del 24 settembre scorso. Permessi di soggiorno. Il decreto legge abroga di fatto il permesso di soggiorno per motivi umanitari, sopprimendo la possibilità per le commissioni territoriali e per il questore di valutare, rispettivamente, la sussistenza dei “gravi motivi di carattere umanitario” e dei “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”. Vengono d’altra parte tipizzate le ulteriori ipotesi meritevoli di eccezionale tutela per motivi di carattere umanitario con la previsione di speciali permessi di soggiorno per cure mediche (quando lo straniero si trovi in condizioni di salute di eccezionale gravità tali arrecare un irreparabile pregiudizio alla sua salute in caso di rientro nel paese di origine) e per le situazioni contingenti di calamità naturale nel Paese di origine che impediscono temporaneamente il rientro dello straniero in condizioni di sicurezza. Resta fermo quanto disposto dall’art. 20 del Dlgs 286/1998, che prevede le misure di protezione temporanea in occasione di conflitti, disastri naturali e altri eventi di particolare gravità. Viene poi previsto il rilascio di un permesso di soggiorno con finalità premiale e di integrazione sociale per lo straniero che compie atti di particolare valore civile. Il permesso di soggiorno per richiesta di asilo costituisce documento di riconoscimento, ma non consente l’iscrizione all’anagrafe dei residenti, restando comunque impregiudicato l’accesso ad alcuni servizi (iscrizione al servizio sanitario, accesso al lavoro, iscrizione scolastica dei figli, misure di accoglienza). Per le controversie in materia di diniego o di revoca dei permessi di soggiorno viene individuato nel rito sommario di cognizione il rito applicale innanzi alle sezioni specializzate istituite con il decreto legge n. 13/2017. Il ricorso potrà essere proposto entro trenta giorni dalla notificazione, oppure sessanta se il ricorrente risiede all’estero. Quando è presentata istanza di sospensiva, il giudice decide entro cinque giorni. L’ordinanza che definisce il giudizio non è appellabile. Il termine per proporre ricorso in Cassazione è fissato in trenta giorni e la decisione sull’impugnazione deve essere adottata entro sei mesi dal deposito del ricorso. Provvedimenti di espulsione. In attesa della definizione del procedimento di convalida del provvedimento di espulsione disposta con accompagnamento alla frontiera, in mancanza di disponibilità di posti nei centri di permanenza per il rimpatrio lo straniero potrà permanere in altre strutture idonee, nella disponibilità dell’autorità di pubblica sicurezza. Il giudice di pace potrà autorizzare la temporanea permanenza dello straniero, anche dopo l’udienza di convalida, presso locali idonei dell’ufficio di frontiera, comunque per un tempo non superiore alle 48 ore successive all’udienza. Richieste di asilo. Viene introdotta una nuova ipotesi di trattenimento dei richiedenti asilo per un tempo limitato strumentale all’accertamento dell’identità o della cittadinanza del richiedente. Il richiedente asilo potrà essere trattenuto, per il tempo strettamente necessario e comunque non superiore a 30 giorni, presso appositi locali all’interno delle strutture già individuate come hot spot, allo scopo di accertarne l’identità o la cittadinanza. Il trattenimento in queste strutture, in cui sono già effettuate le procedure di identificazione e di rilevamento foto-dattiloscopico, dovrà essere limitato al tempo strettamente necessario alla determinazione dell’identità o la cittadinanza. Se non sarà possibile determinarne l’identità, il trattenimento potrà poi essere effettuato nei centri di permanenza per il rimpatrio fino ad un massimo di 180 giorni. Tale periodo, rispetto agli attuali 90 giorni, viene prolungato in quanto le procedure finalizzate all’accertamento dell’identità e della nazionalità o all’acquisizione di documenti per il viaggio dello straniero richiedono mediamente cinque mesi per il loro completamento. Per assicurare una efficace e più rapida gestione delle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, il decreto introduce poi alcune disposizioni finalizzate a contrastare il ricorso strumentale alla domanda di protezione, intervenendo sulle domande reiterate al solo scopo di impedire l’esecuzione imminente di un provvedimento di allontanamento o comunque reiterate più volte, pur dopo una decisione definitiva di inammissibilità o di rigetto nel merito. Se i richiedenti hanno in corso un procedimento penale per uno dei reati che in caso di condanna definitiva comporterebbero diniego della protezione internazionale, vengono sospesi l’esame della domanda di protezione e l’obbligo di lasciare il territorio nazionale. Entro 12 mesi dalla sentenza definitiva di assoluzione, il richiedente potrà chiedere la riapertura del procedimento sospeso; in caso di inerzia la Commissione competente dichiara l’estinzione del procedimento. Acquisizione della cittadinanza. Aumenta da 200 a 250 euro l’importo del contributo richiesto per le istanze o le dichiarazioni di elezione, acquisto, riacquisto, rinuncia o concessione della cittadinanza. Viene prolungato da 24 a 48 mesi il termine per la conclusione dei procedimenti sia di concessione della cittadinanza per residenza sia di quelli di attribuzione per matrimonio. Scatta la revoca della cittadinanza per coloro che abbiano riportato condanne definitive per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, e per i reati di assistenza ad appartenenti ad associazioni sovversive e con finalità di terrorismo e di sottrazione di beni sottoposti a sequestro per prevenire il finanziamento di condotte con finalità di terrorismo. La revoca viene adottata con decreto del presidente della repubblica su proposta del ministro dell’interno, entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Le mani delle coop nere sul business dei migranti di Andrea Palladino La Stampa, 1 ottobre 2018 Ci sono i piccoli boss locali. E poi i colossi del sociale che macinano decine di milioni. Tutti con gli amici giusti, in contesti dove la politica pesa, senza distinzioni di schieramento. Se Mafia Capitale era il cancro che infettava Roma corrompendo politica e amministrazione, è vero che il suo sistema si ripete, in piccolo, in tutta Italia. Il cuore del business dei migranti si chiama Cas, sigla delle strutture gestite da privati attraverso bandi delle prefetture. Nati nel disastro della disorganizzazione dell’emergenza, con la politica che non ha potuto o in alcuni casi voluto occuparsi del fenomeno, i Cas sono spuntati come funghi. A fine anno erano 9.132 (il 99,8% delle strutture di prima accoglienza) e gestivano 148.502 richiedenti asilo (il 93,5% del totale). I Cas sono spesso semplici case risistemate, senza grandi pretese. Hanno un vantaggio: i piccoli numeri sono più gestibili e hanno un minor impatto sul territorio. E uno svantaggio: non sono gli Sprar, organizzati dagli enti locali e sottoposti a un sistema di controlli molto più rigido. Aggiungeteci che nel 2017 lo Stato ha elargito qualcosa come 1,68 miliardi di euro ai Cas, come poteva finire? Accanto a cooperative, onlus e organizzazioni serie, che da sempre si occupano del sociale, sono arrivati i predoni. Che spesso sono legati a chi è al potere in quei territori. A differenza di quel che vuole la vulgata, chi intasca i famigerati 35 euro per richiedente asilo sfruttando situazione e migranti, prime vittime del sistema, può dunque avere un diverso colore politico. Anche “nero”. Cooperative con la mano tesa Prendete il caso Fondi, nel cuore del Sud Pontino, l’area in provincia di Latina che si spinge fino al confine con Caserta. Quarantamila abitanti, sede del più importante mercato ortofrutticolo all’ingrosso del centro Italia, è da almeno 15 anni la roccaforte laziale della destra, soprattutto di Forza Italia. Gli affari a Fondi non riguardano solo frutta e verdura. Due Onlus, Azalea e La Ginestra, dal 2015 gestivano i centri di accoglienza per richiedenti asilo con un giro d’affari di quasi sei milioni di euro. Nel 2016 scoppia una rivolta, gli ospiti senza stipendio scendono strada, si ribellano, qualcuno chiama la Polizia. I magistrati di Latina decidono però di capire meglio cosa accade nei centri gestiti da piccoli imprenditori locali, famiglie fondane conosciute. La squadra mobile scopre le condizioni disumane di quelle case di accoglienza: sovraffollamento, 1,66 euro spesi per fornire due pasti, vestiti recuperati qui e lì nei cassonetti dei rifiuti. In altre parole una cresta sui finanziamenti destinati a rendere la vita perlomeno dignitosa a chi aveva scelto l’Italia per sfuggire a guerre e persecuzioni. Pochi giorni fa il pm Giuseppe Miliano ha chiuso l’inchiesta, chiedendo il rinvio a giudizio. In città i movimenti dell’ultra destra intanto cercavano di fatturare politicamente. Forza Nuova annunciava manifestazioni contro le vittime, dimenticando di raccontare fino in fondo chi fossero i carnefici. Uno di questi, Luca Macaro, ha una storia interessante. Candidato nella lista Progetto Fondi, che appoggiava insieme alla Lega Lazio il candidato della destra Franco Cardinale, un padre - anche lui coinvolto nella gestione del centro di accoglienza, ma non indagato - che su Facebook metteva la classica manina tesa a mo’ di saluto romano e cuccava like sul profilo proprio dei camerati di Forza Nuova. Una passione per i migranti, quello della famiglia Macaro, recentissimo. Scorrendo il profilo Facebook di Luca Macaro fino a qualche anno fa erano ben altri gli interessi: movida e aperitivi. Il colosso che finanzia Fi Se le due Onlus laziali in fondo erano piccole imprese, un vero e proprio gigante dell’accoglienza è invece il gruppo Senis Hospes / MediHospes, il gestore del centro di Borgo Mezzanone in provincia di Foggia. Travolto dallo scandalo nato dopo l’inchiesta giornalistica dell’Espresso, non si è perso d’animo. E, soprattutto, non è mai uscito dal giro. Secondo i dati del Viminale nel 2017 ha gestito 15 centri, da Pordenone a Messina, per un totale di 2.067 ospiti e un incasso superiore a 20 milioni di euro. Anche qui amicizie e legami puntano a destra. Nelle dichiarazioni depositate alla Tesoreria della Camera dei deputati relative alle elezioni del 2013 il gruppo Senis Hospes risulta nell’elenco dei donatori del Popolo delle libertà di Silvio Berlusconi, con un versamento di 15 mila euro. Il presidente del gruppo, Camillo Aceto, ha poi staccato personalmente un assegno da 5 mila euro a Maurizio Lupi, che poco dopo diverrà ministro delle Infrastrutture. Ma i rapporti tra Aceto e Lupi erano prima di tutto ideologici, grazie al legame dei due con il movimento cattolico Comunione e Liberazione. In Sicilia c’è l’Udc Raccontano le cronache che a Trapani, con il picco del flusso di migranti, i vecchi Ras si siano messi a rastrellare case, cascine, piccole strutture. Posti letto da utilizzare per l’accoglienza. Nulla a che vedere con lo spirito umanitario che pur contraddistingue una parte dell’isola. Nel 2016 le indagini portarono ad arrestare anche un sacerdote, don Sergio Librizzi, con pesanti accuse di molestie sessuali e di affari illeciti con i richiedenti asilo (condanna a 9 anni appena tornati in Appello dopo un passaggio in Cassazione). Le indagini, però, non si sono fermate. Da un’intercettazione spunta una nuova pista, che conduce lo scorso luglio a un arresto eccellente. L’ex deputato regionale dell’Udc, Onofrio Fratello, finisce in manette con l’accusa di aver gestito una capillare rete di strutture attraverso prestanome. L’ex deputato regionale era stato condannato per mafia il 13 dicembre 2006 ed era sottoposto a una vigilanza sui movimenti patrimoniali. Da Cosa nostra al business sulla pelle di chi fugge dall’inferno di Tripoli il passo è stato breve. Profondo Nord e politica Prima la Dc, poi il Pdl. Simone Borile, la politica, la masticava da sempre. Così come la monnezza, il suo primo business nel Veneto dei padroncini. Poi sono arrivati i migranti e ha intuito il nuovo filone. Le cose, però, non sono andate bene. Lo scorso marzo la Finanza di Padova ha sottoposto a sequestro preventivo 3 milioni di euro per la sua attività con i rifiuti. Quindi è arrivata l’inchiesta sulla gestione dei migranti dei centri di Cona e Bagnoli, dove è indagato. E anche in questo caso le indagini erano partite dalle proteste degli ospiti. Ispezioni e contestazioni Centinaia di bandi, controlli difficoltosi, che spesso arrivano dopo le inchieste giornalistiche o le proteste degli ospiti. Nel 2017 solo il 40% di queste strutture ha ricevuto un’ispezione e, in 36 casi, si è arrivati alla revoca dell’affidamento per gravi inadempienze. Le contestazioni sono state 3.000 e le penali applicate ammontano a 900.000 euro. Numeri in fondo piccoli se si pensa all’intero sistema. Recita la Relazione sul sistema di accoglienza, appena resa pubblica e a firma del ministro dell’Interno Salvini: “Nell’indire le gare finalizzate al superamento degli affidamenti diretti, i prefetti hanno affrontato oggettive difficoltà riconducibili all’inidoneità di molti immobili proposti, non rispondenti agli standard previsti od offerti da soggetti non qualificati o addirittura collegati ad ambienti malavitosi”. Anche per questo dallo scorso 1° dicembre il ministero ha assegnato un prefetto al coordinamento delle ispezioni e si è concordato con l’Anticorruzione uno schema unico dei capitolati d’appalto per rendere omogenei requisiti e standard. Sarà però difficile ci vorrà tempo per liberarsi dei predoni. Un’idea sarebbe partire dal Lazio, la regione più critica. Se a livello nazionale la media delle contestazioni per centro visitato è stato di 0,79, qui siamo a 2,38: tre volte tanto. Forse non è un caso se a Roma tutti ricordano la frase di Salvatore Buzzi, il Ras delle coop alleato con il nerissimo ex Nar Massimo Carminati: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. “Servono appalti trasparenti e la modifica dell’automatismo dei 35 euro a ospite” di Raphael Zanotti La Stampa, 1 ottobre 2018 “Per migliorare il sistema bisogna abbandonare l’idea dei 35 euro a persona”. Sentirlo dire da una Onlus che si occupa di accoglienza può suonare strano, ma l’idea di Simone Andreotti, presidente di InMigrazione, ha una sua logica: se lo Stato promette a tutti, Centri enormi e piccole realtà, la stessa cifra questo non può che portare alla creazione di Centri di accoglienza colossali, dove girano troppi soldi, molti appetiti, poca integrazione ed enormi problemi di ordine pubblico. Manca autentica integrazione - L’idea, invece, dev’essere un’altra: più denaro ai progetti più piccoli, gestibili, dove l’integrazione è seguita davvero. Meno ai grandi hub dove si offre meno in termini qualitativi e si possono fare economie di scala. Ma, soprattutto, a Simonetti interessa che sia rivisto il criterio con cui vengono predisposti i bandi delle prefetture. “Perché - dice - i problemi nascono a monte, quando si studia come gestire questo fenomeno”. Per dimostrarlo la sua associazione ha compiuto un lavoro certosino incrociando 80 gare d’appalto pubblicate dalle prefetture nel 2018 per la gestione di 180.000 richiedenti asilo. Il quadro che ne emerge è fatto più di ombre che di luci: solo 16 bandi raggiungono la sufficienza, 64 sono considerati carenti e altri 21 molto carenti. Il primo aspetto critico è quello quantitativo: solo una gara su quattro ha previsto un limite inferiore a 60 ospiti per centro di accoglienza. Strutture più piccole sono più gestibili e hanno un minore impatto sulla comunità, come dimostrano esempi negativi come il gigantesco Cara di Mineo. Per quanto riguarda l’aspetto qualitativo, solo il 40% dei bandi raggiunge la sufficienza. Le maggiori criticità riscontrate riguardano l’orientamento e il supporto legale per la domanda di protezione internazionale (giudizio negativo per l’88% dei bandi), l’insegnamento dell’italiano (negativo l’82%), la mediazione linguistica e culturale (negativo il 75%), i servizi di assistenza psicologica e sociale (negativo il 57%) e i servizi connessi al lavoro, al volontariato e alla positiva gestione del tempo (49% negativo). Unica nota positiva, l’assistenza sanitaria, considerata positiva nell’85% dei bandi. “L’offerta dei bandi è lo spartiacque tra strutture gestite con una logica assistenzialista, dove le persone accolte restano in uno stato di inattività e passività, e strutture gestite bene, dove queste persone possono integrarsi con il tessuto del territorio” spiega Andreotti. Il merito solo in una gara su tre Per arrivare a questi traguardi, però, servono professionalità. E anche su questo versante i nuovi bandi del 2018 non sembrano incoraggianti: solo in una gara su tre la professionalità delle équipe chiamate a gestire i Cas hanno un peso sul punteggio incidendo sulla graduatoria finale. Andreotti è convinto che questo farebbe un gran bene a tutta la nazione: “L’accoglienza straordinaria porta a quasi un miliardo di euro - dice, senza contare un altro miliardo stimabile per l’indotto. Calcoliamo che in questo modo potrebbero crearsi 36.000 posti di lavoro qualificati”. L’impegno di sostenere la pace Etiopia-Eritrea di Emanuela Del Re Corriere della Sera, 1 ottobre 2018 L’Accordo il 16 settembre scorso porterà beneficio all’intero Corno d’Africa: si apre una fase di rinnovato dialogo. È un Accordo di Pace storico quello firmato da Etiopia ed Eritrea il 16 settembre scorso. Ha provocato un sussulto nell’Africa intera e nel mondo perché è una svolta epocale, che potrebbe portare enormi benefici. L’Italia e la comunità internazionale devono riconoscerne l’importanza e sostenerlo, questo accordo, e accompagnarlo nella sua evoluzione. Gli esiti del processo non sono scontati, date le recenti violenze ad Addis Abeba, ma le opportunità restano grandissime per lo sviluppo dei due paesi. La società civile, ad esempio, potrebbe essere più libera di esprimersi e di emergere, e quindi di smuovere le risorse umane con iniziative, creatività e innovazione, creando “futuro” per le nuove generazioni e per gruppi vulnerabili come le donne. Sul piano politico, va sottolineato che capovolgendo radicalmente la storica posizione di Addis Abeba, il Premier etiope si è fatto promotore della revoca delle sanzioni verso l’Eritrea, che verrà valutata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu nei prossimi mesi. Ma è l’intero Corno d’Africa a trarre beneficio: si apre una fase di rinnovato dialogo tra Etiopia, Eritrea e Somalia. Storica la visita ad Asmara di Mohamed Abdullahi Mohamed Farmajo, primo Capo di Stato somalo a recarsi in Eritrea dalla sua indipendenza nel 1991. Anche le dinamiche tra Eritrea e Gibuti potrebbero migliorare. Nuovo impulso deriverà dall’accordo nei rapporti commerciali, delle comunicazioni e dei trasporti come previsto dalle intese tra i due paesi, consapevoli che tali rapporti sono fondamentali perché i dividendi della pace possano diffondersi a tutte le popolazioni del Corno, sfruttando l’effetto traino dell’economia dell’Etiopia che nel 2017 è stato il paese a più alta crescita del mondo. Sono ripresi i voli commerciali tra i due Paesi, sono state riaperte frontiere e ambasciate, navi etiopi hanno iniziato a usare il porto eritreo di Massaua. I Paesi rivieraschi del Mar Rosso, la Turchia, la Cina, la Russia, gli Usa e alcuni attori europei talvolta in ordine sparso hanno intensificato le loro attività nell’area. L’Ue potrebbe avere grande influenza. L’Italia intrattiene rapporti di amicizia storici con Etiopia ed Eritrea. Una continuità storica confermata ad esempio dalle due grandi scuole italiane statali ad Addis Abeba e ad Asmara in cui crescono i figli dei due paesi. Nel Corno l’Italia già esercita un ruolo di primo piano (spesso fuori dai riflettori mediatici) nella sicurezza marittima, in Somalia, nella partnership a tutto campo con l’Etiopia, con una base militare logistica a Gibuti. Molte le imprese commerciali italiane in Etiopia, e forte è il potenziale incremento, per il nuovo assetto che potrebbe portare più investimenti esteri nella regione e una loro progressiva integrazione economica con la Free Trade Area. Potremmo investire di più in tanti settori, dall’agro-industria alla pesca, al turismo, alle energie alternative e altro. Importantissime sono le iniziative di cooperazione allo sviluppo: nel biennio 2017-2018 l’Italia ha donato oltre 81 milioni di euro per interventi di sviluppo e umanitari in Etiopia, Somalia ed Eritrea, e ha erogato crediti di aiuto all’Etiopia pari a 47 milioni di euro. Gli stanziamenti potrebbero aumentare, anche in funzione della stabilizzazione della regione. Etiopia ed Eritrea manifestano il desiderio di maggiore presenza italiana, per le specificità e la qualità del modello italiano in tutti i campi. Il premier etiope Abiy Ahmed e il presidente Isaias Afwerki hanno saputo cogliere il nuovo senso della storia, superando perfino la questione dei confini territoriali, per lasciar spazio ad un’Africa globalizzata, che per noi costituisce un partner strategico prioritario perché è un continente di risorse, nonostante le sfide. Celebrare la pace tra Etiopia ed Eritrea, sostenerla, annunciarla con gioia, non è solo un dovere, ma costituisce un impegno a lungo termine per la costruzione di uno sviluppo condiviso sostenibile nel lungo periodo, con sicuro beneficio per tutti. Egitto. Legata ai Regeni denuncia molestie. Il governo la fa condannare di Giordano Stabile La Stampa, 1 ottobre 2018 L’attivista Amal Fathy, moglie del consulente legale della famiglia Regeni, Mohamed Lotfy, è stata condannata a due anni di carcere per un video postato su Facebook, una denuncia contro la piaga delle molestie sessuali in Egitto. Fathy è stata condannata a due anni di carcere per aver “diffuso fake news”. In base alle nuove leggi approvate negli ultimi due anni in Egitto, si intende per “fake news” versioni dei fatti non in linea con quanto sostiene il governo o le autorità di polizia. Fathy, che si batte per i diritti civili e la parità fra uomini e donne, è già da 141 giorni in carcere per accuse di “terrorismo”, ma in questo caso potrà essere rilasciata dietro pagamento di una cauzione di 20 mila sterline, circa 1.000 euro. La condanna però preoccupa soprattutto in vista del processo per imputazioni più gravi, di “appartenenza a un gruppo terroristico”, per avere “usato un sito Internet nel promuovere idee che spingono ad attacchi terroristici”. “Stavamo meglio 70 anni fa”. Nel video di dodici minuti, postato a maggio, Fathy, 33 anni, spiegava che lei stessa è stata molestata due volte in un solo giorno e criticava il governo egiziano per la mancanza di progressi nel contrastare il fenomeno. Raccontava che in taxi un conducente “ha aggiustato lo specchietto per potermi guardare poi ha fatto commenti disgustosi”. In un altro caso un bancario ha cercato di ricattarla mentre cercava di risolvere un problema con un prestito. “Stavamo meglio settant’anni fa - è la conclusione del video - quando le donne andavano in giro in minigonna e se qualcuno le importunava bastava chiamare un agente per farlo finire in carcere”. Secondo l’Onu il 99,3 per cento delle egiziane ha subito almeno una molestia nella sua vita, mentre un sondaggio della Thomson Reuters Foundation ha posto Il Cairo in cima alla classifica della “città più pericolose per le donne”. Per il marito Mohamed Lotfy, capo della Commissione egiziana per i diritti e le libertà e consulente della famiglia Regeni, “questa sentenza contiene un messaggio per ogni molestatore, che è libero di importunare senza paura di una punizione, e un messaggio alle vittime, che se denunciano, saranno messe in carcere”. Anche Amnesty International ha condannato il verdetto, definito “una clamorosa ingiustizia”. In un caso simile, a luglio, la turista libanese Mona el-Mazbouh è stata condannata a otto anni dopo che aveva denunciato su Facebook le molestie subite durante il suo soggiorno al Cairo, per “aver diffuso voci false e dannose per la società”. La sentenza è stata poi ridotta a un anno e la giovane rilasciata.