Che ci fanno in cella quei 62 bambini? di Valentina Stella Il Dubbio, 19 ottobre 2018 Convegno delle Camere Penali. A un mese dalla tragedia nel carcere di Rebibbia dove una detenuta ha ucciso i suoi due bambini, la Camera Penale di Roma ha organizzato un convegno - moderato dal direttore del Dubbio Piero Sansonetti per “riflettere sulle criticità e sulle prospettive di modifica del sistema”. Oltre al dibattito, i penalisti romani hanno deliberato nella stessa giornata l’astensione “come estrema ratio - ha spiegato il presidente della Camera Penale di Roma, Cesare Placanica - per porre l’attenzione su un fatto eccezionale: la morte drammatica di due bambini a opera della loro madre mentre erano nella custodia dello Stato”. Il primo ad intervenire, anche se “con difficoltà a causa dell’iniziativa di astensione”, è stato Giovanni Salvi, Procuratore generale di Roma che, non potendo entrare nel merito di quanto accaduto a Rebibbia in quanto le responsabilità individuali sono in fase di accertamento, ha posto l’accento sul disagio psichico in generale e sulla scarsità dei posti nelle Rems, situazione che nel Lazio è stata fronteggiata con un protocollo unitario di collaborazione tra la magistratura, dipartimenti di salute mentale e personale penitenziario affinché “il disagio mentale venga affrontato in maniera rapida e selettiva”. Maria Antonia Vertaldi, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, ha sottolineato una percentuale importante ossia che “il 41,3% dei detenuti risulta affetto da un disagio psichico più o meno grave” e ha spiegato l’obiettivo di un protocollo contro il rischio suicidario tra la Asl 2 di Roma e il carcere di Rebibbia secondo il quale “appena il detenuto entra in carcere devono essere messe in atto tutta una serie di attività di screening affinché possa intervenire subito il dipartimento di salute mentale qualora ci fossero delle criticità”. Il dibattito si è acceso poi con l’intervento del presidente della seconda sezione penale della corte d’assise d’appello di Roma Tommaso Picazio secondo il quale “non è opportuno fare riflessioni di questo tipo sull’onda del turbamento. Necessario è invece interrogarsi sul processo penale che spesso non funziona in termini di tempi ed efficacia, fino a risultare quasi ingiusto. A quasi cinquant’anni dalla legge Valpreda ancora si continua a discutere di custodia cautelare sull’onda dell’emozione. Per questo l’avvocatura penalista fare da traino culturale, perché è inutile aspettare che lo faccia la magistratura” e ha poi concluso “Stare in carcere è sempre una tragedia”. A replicare ci ha pensato Riccardo Polidoro, Responsabile Osservatorio carcere Ucpi: “viene chiesto a noi di fare da traino. L’avvocatura da sempre denuncia l’abuso della custodia cautelare e la vergogna delle nostre carceri e invece cosa fanno l’Anm e il Csm, spesso uditi, su questi temi? Eppure dall’inizio dell’anno ci sono stati 48 suicidi e 110 morti naturali in carcere. Ma nessuno ne parla”. In merito al tema del convegno, Polidoro ha evidenziato che “secondo gli ultimi dati al momento in carcere ci sono 52 madri con 62 figli, bambini che non conoscono la profondità dell’orizzonte e che avranno problemi fisici e psichici. Per evitare queste tragedie i Tribunali di Sorveglianza devono sentire il dovere e la volontà di informarsi sui singoli casi, conoscere bene le situazioni su cui andranno ad esprimersi”. Applausi dalla platea di avvocati sono arrivati a Riccardo De Vito, Presidente di Magistratura Democratica, che ha fatto una sorta di mea culpa della categoria: “è chiaro che sulla vicenda di Rebibbia il ragionamento deve riguardare la magistratura. La direttrice del carcere non poteva tirare fuori la detenuta. Il problema dell’ingresso in carcere delle madri è più complesso di quanto potrebbe apparire. Di sicuro ci dovrà essere una maggiore attenzione da parte della magistratura e dell’avvocatura e degli operatori del diritto in genere a valutare bene quelle che sono le rilevanti esigenze cautelari, o meglio le esigenze di eccezionale rilevanza. Di sicuro bisognerà stare attenti ad un giudizio prognostico che tenga in considerazione i nuovi orientamenti della Corte Costituzionale, nonché le prognosi in relazione alle possibili sospensioni dell’ordine di esecuzione ovvero il differimento obbligatorio nei confronti delle detenute madri”. E sulla decisione del Ministro Bonafede di sospendere immediatamente il direttore del carcere femminile di Rebibbia, il Vice e il Vice Comandante della Polizia Penitenziaria, De Vito è molto duro: “tale decisione inocula il virus per cui la giustizia viene fatta senza motivazione, solo per soddisfare gli istinti della folla. Una giustizia veloce, senza spiegazioni, che ti dà subito la certezza della sanzione e di un colpevole è una visione opposta al garantismo”. Per Marco Patarnello, Magistrato di sorveglianza di Roma, “non facciamo un buon servizio se vogliamo dare al malato psichico un destino extra-carcerario. Se “mai più bambini in carcere” va a significare “mai più madri in carcere” il problema diventa ancora più complesso”. Tuttavia, ha chiesto polemicamente Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio: “come mai subito dopo la tragedia, sei detenute di Rebibbia sono state trasferite nella Casa di Leda? “. A seguire proprio l’intervento di Lillo di Mauro, responsabile della struttura per madri detenute Leda che ha criticato la legge 62 del 2011 sulle detenute madri, “laddove prevede case protette ma senza oneri per lo Stato, a differenza degli Icam - istituti a custodia attenuata - e ovviamente il carcere. Si tratta di una aberrazione”. In chiusura intervento molto polemico di Riccardo Arena, conduttore di Radio Carcere su Radio Radicale: “oggi (ieri, ndr) tutti hanno lodato il nido di Rebibbia, ma sono morti due bambini detenuti. Chi si prende la responsabilità di quanto accaduto? Qui le responsabilità le ha lo Stato che tiene i bambini in carcere, la magistratura con il proprio deficit culturale, la politica che in questi anni non ha saputo risolvere la vergogna dei bambini in carcere e un sistema carcerario che, non solo provoca la follia, ma che è del tutto folle. Ora credo che, dinanzi ad un fatto così grave, non si dovevano fermare solo i penalisti di una città, ma un intero Paese che si definisce civile. Ma purtroppo ormai siamo assuefatti alla disfunzione”. Tra il pubblico anche l’avvocato Andrea Palmiero, legale di Alice Sebesta, che al momento, come ci spiega, “è rinchiusa in un carcere sorvegliata a vista ma per sicurezza personale non posso dire dove. Il 22 ottobre iniziamo l’incidente probatorio quindi il conferimento dell’incarico per valutare la problematica psichiatrica della mia assistita. Ho già versato in atti parecchia documentazione che riguarda un lungo percorso psichiatrico, circa 9 anni, che ha avuto in Germania. Ha dei trascorsi molto forti”. Su quanto è successo l’avvocato Palmiero dice di non “potersi rimproverare nulla perché io lo avevo fornito un domicilio una settimana prima degli eventi ma è stata rigettata l’istanza”. La “cella zero” delle carceri disumane di Carmine Gazzanni Left, 19 ottobre 2018 A Poggioreale per decenni è esistito un luogo del terrore dove i detenuti venivano picchiati. Pratiche illegali che hanno preso piede anche in altri penitenziari, come dimostrano gli esposti dei Garanti dei detenuti del Lazio e del Piemonte. “Solo una lampada accesa. Tutt’intorno il nulla, solo quattro mura sporche di sangue e muffa. All’inizio c’era un cappio appeso. Era l’illuminazione del terrore. Centinaia e centinaia di detenuti ci sono passati”. Pietro Ioia è stato il primo che ha denunciato le torture e le violenze che avvenivano nella cosiddetta “cella zero” del carcere di Poggioreale a Napoli. Bastava un pretesto, una scusa qualsiasi e il detenuto veniva portato nella stanza al piano terra. Senza telecamere, senza finestre. “Era il 1982 la prima volta che sono stato portato lì e picchiato”, racconta Pietro. Erano, quelli, i tempi della guerra tra la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e la Nuova famiglia, una guerra i cui effetti si ripercuotevano anche sui penitenziari napoletani. “Noi ragazzini venivamo obbligati dai boss a custodire le armi in carcere. Ci fu un’irruzione dei Nocs. Furono loro che crearono una stanza del terrore per ottenere confessioni”. Così nasce la “cella zero”. Che per oltre 30 anni è sopravvissuta nel silenzio totale. Ed è contando su tale silenzio che, secondo le testimonianze, la “squadra della Uno bianca” prelevava detenuti per riempirli di botte, calci, schiaffi. C’era Ciondolino, così chiamato dai detenuti per il rumore del suo voluminoso mazzo di chiavi; Melella, dal nome delle guance rosse che gli si facevano quando beveva; e poi Piccolo boss, ‘O sfregiat, Zorro, Bei capelli. “Il mio compagno di cella era un lavorante addetto alla pulizia” racconta ancora Pietro che, uscito da Poggioreale, ha aperto un’associazione che raccoglie ex detenuti a Napoli. “Quando un agente gli diceva “comincia dalla zero” capiva che la sera c’era passato qualcuno. E si metteva i guanti perché ci sarebbe stato tanto sangue da togliere”. Un orrore che oggi è reso visibile dalle tante testimonianze che si sono susseguite a quelle di Ioia. Tutte oggi agli atti e tutte drammaticamente simili. Svegliati spesso nella notte, per futili o magari pretestuosi motivi, portati al piano terra, fatti denudare. E lì minacciati, torturati, picchiati. Emblematica la storia di F., costretto a fare “molte flessioni ricevendo tra l’altro percosse e calci”. Il giorno dopo, per via dei tanti dolori soprattutto al lato sinistro del viso, richiede una visita medica. Ma “era presente lo stesso agente che la sera prima aveva effettuato gli abusi che mi ha personalmente interrogato sui motivi della visita”. Peggio ancora è andata a un ex tossicodipendente che doveva scontare sei mesi di carcere, finito addirittura in coma con evidenti fratture ed ematomi sparsi in tutto il corpo. “Mi hanno portato nella cosiddetta “cella zero” per picchiarmi fino a farmi andare in coma, mi hanno colpito per tutto il corpo, anche ai testicoli per farmi perdere i sensi”, ha denunciato pochi mesi fa intervistato da Fanpage. Storie incredibili che raccontano di una pratica che, pur non coinvolgendo in toto la polizia penitenziaria, rischia di diventare un usus comune e reiterato nel tempo. A Napoli come, pare, anche a Viterbo. Il garante dei detenuti di Lazio e Umbria, Stefano Anastasia, solo pochi mesi fa ha consegnato in procura un esposto sulle violenze nel carcere Mammagialla di Viterbo. In quel documento si legge che almeno dieci detenuti sarebbero stati picchiati. Nei locali doccia, sulle scale o in stanze in uso alla sorveglianza. Tutte zone lontane dalle telecamere di sicurezza. “Quando ci portano lì sappiamo che è per essere picchiati”, ha ammesso un detenuto. Un altro, invece, ha raccontato di essere stato “trasportato presso le scale dell’istituto e lì un gruppo di circa dieci agenti di polizia penitenziaria” lo avrebbe pestato. Ma col volto coperto dai passamontagna per non farsi riconoscere. Tra i ragazzi ascoltati da Anastasia c’era anche Sharaf Hassan, 21enne egiziano. Nell’esposto si legge che Hassan diceva di essere stato picchiato il 20 marzo “da alcuni agenti di polizia penitenziaria”, i quali “con molta probabilità gli avevano lesionato il timpano dell’orecchio sinistro”, perché “sentiva come il rumore di un fischio”. Il ragazzo avrebbe mostrato le sue ferite al garante: segni rossi sulle gambe e tagli sul petto. “Ho paura di morire”, avrebbe detto. Pochi mesi dopo, il 23 luglio, Hassan è stato trovato morto in cella: si sarebbe impiccato con un asciugamano. Accertamenti, però, sono ancora in corso per capire cosa sia accaduto. E cosa accada ancora oggi a Viterbo: secondo quanto risulta a Left, sarebbero addirittura due le inchieste in corso sul Mammagialla. Spostiamoci al Nord. Più precisamente a Ivrea. Già nella scorsa legislatura sono state presentate interrogazioni per l’utilizzo, anche qui, di una cella liscia. L’acquario, la chiamano. È lì che sarebbero stati portati alcuni detenuti la notte del 25 ottobre 2016, quando “le guardie hanno usato violenza indiscriminata. Chiamata la squadra di supporto da Vercelli e riuniti in forza, armati di idranti e manganelli hanno distrutto dei compagni detenuti riducendone due quasi in fin di vita”. Questa la denuncia che un detenuto è riuscito a far avere al garante in Piemonte, il quale ha immediatamente presentato un esposto. Un altro dei procedimenti nasce, invece, dalla testimonianza di due detenuti che, dallo spioncino del blindo che chiude il reparto “semiliberi”, avrebbero visto gli agenti prelevare H. e pestarlo. Una circostanza che troverebbe conferma nel diario clinico di H., da cui si evince che anche il medico che l’ha visitato ha parlato di “sanguinamento nasale” e di “escoriazioni su gambe, braccia e polsi”. Interrogato, è stato lo stesso H. a raccontare cosa sarebbe accaduto: dopo la sua protesta perché voleva tornare nel reparto ordinario e andar via dall’isolamento, gli agenti lo avrebbero completamente bagnato con l’idrante antincendio e picchiato con calci, schiaffi e pugni in faccia e “nell’occasione mi rompevano anche il naso”. Ma i drammi non finiscono qui e spesso possono assumere anche tinte tragiche. Come nel caso di Alfredo Liotta. È il 26 luglio 2012 quando il suo corpo viene ritrovato ormai senza vita in una cella del carcere di Siracusa. All’inizio si dirà che Alfredo è morto per un presunto sciopero della fame. Peccato però che di tale sciopero non ci sia alcuna traccia nel diario clinico. I familiari avevano denunciato invano un dimagrimento di 40 kg tanto da ridurlo su una sedia a rotelle: solo dopo si capirà che Alfredo soffriva di una grave crisi anoressica di cui nessuno, in carcere, si sarebbe fatto carico. Oggi per la morte del ragazzo sono imputate nove persone, ma c’è il rischio che non si giunga mai alla verità: dopo una serie di rinvii, la prima udienza è stata fissata per il 28 maggio 2019. “Abbiamo depositato una richiesta al presidente del tribunale per anticipare la trattazione del procedimento - spiega Simona Filippi, legale dell’associazione Antigone. Non si può far partire un processo a quasi sette anni dalla morte della vittima”. Dal tribunale, però, non è arrivata alcuna risposta. Di uguale negligenza sarebbe stato vittima Stefano Borriello: ha solo 29 anni quando muore nel carcere di Pordenone. Causa della morte: un’infezione polmonare. Di cui nessuno, neanche il medico della Casa circondariale, si sarebbe avveduto. E oggi proprio il medico è rinviato a giudizio perché avrebbe omesso di diagnosticare la malattia, non provvedendo ad alcune analisi che avrebbero “evidenziato con estrema probabilità” i caratteri della polmonite. Funziona così. Chi muore di polmonite e chi perché è caduto dalle scale. Il proibizionismo uccide. Lo Stato non sia più complice delle narcomafie di Rita Bernardini Left, 19 ottobre 2018 Tutto cominciò da quelle foto del corpo martoriato di Stefano Cucchi. “Non avete avuto paura a mostrare come era stato ridotto Stefano” disse Marco Pannella ai familiari, e in particolare a Ilaria, all’indomani di quella conferenza stampa scandalo del 29 ottobre 2009, organizzata dal Comitato presieduto da Luigi Manconi. Senza quelle foto - “e la prudenza che avete usato nel mostrarle”, disse Pannella - non saremmo riusciti a conoscere quel che Stefano ha voluto fare e comunicare in quei giorni tremendi che precedettero la sua morte. Marco leggeva in quell’ultimo scorcio della vita di Stefano l’essenza di un comportamento “radicale”, esemplare. Gli era capitato in quei giorni di parlare con un giovane tassinaro romano che era stato compagno di palestra di Stefano e che gli aveva riferito che Stefano parlava spesso di lui, Pannella, e della battaglia radicale per la legalizzazione degli stupefacenti, con la quale concordava pienamente. “Stefano si è comportato come il più esperto di noi”, diceva Pannella, nel rispondere alla violenza dello Stato con la nonviolenza del rifiuto di cibo e acqua quando gli fu negato il suo sacrosanto diritto di parlare con un avvocato. Questo suo volere e “dover essere” sono stati nutrimento ed hanno avuto moltissimo a che fare con tutto ciò che si è verificato in questi lunghi nove anni, fino ai nostri giorni, che sono quelli dell’”ammissione shock” da parte di uno dei carabinieri del brutale pestaggio cui fu vittima Stefano. Se ci siamo arrivati è grazie al coraggio, alla fermezza e all’amore della famiglia e dei tanti che l’hanno sostenuta, alla straordinaria capacità comunicativa e alla tenuta della sorella Ilaria, alla professionalità e umanità dell’avvocato Fabio Anselmo. E a Stefano, che in quelle ore tremende ha saputo agire e reagire di fronte a chi gli negava il dovuto per legge, cioè poter parlare con il suo avvocato. Quelli appena passati sono i giorni che né Stefano né Marco hanno potuto vedere, giorni che stanno restituendo verità e conoscenza ad una storia ignobile di regime che avrebbe dovuto rimanere sepolta sotto una coltre indicibile di disonorevoli omertà, complicità, insensibilità, prepotenze, volgarità che hanno coinvolto un’estrema minoranza - ma compatta come una falange - di appartenenti alle forze armate, custodi, magistrati, sanitari, periti e uomini politici stile Giovanardi o Salvini. La relazione della Direzione nazionale antimafia, presentata al Parlamento il 31 luglio scorso, afferma che quello della cannabis, cioè la sostanza stupefacente “illegale” usata da Stefano e da almeno altre 4 milioni di persone in Italia, è un mercato in continua espansione nel mondo (e in Italia) e che “le azioni di contrasto che, fino ad ora, sono state svolte, nonostante i migliori propositi e gli sforzi più intensi, non hanno determinato, non solo, una scomparsa del fenomeno (che per quanto auspicabile appare obbiettivamente irrealizzabile), non solo un suo ridimensionamento, ma neppure un suo contenimento”. Attraverso la repressione è dunque impossibile - e ce lo dice un’autorevole fonte come la Dna - non solo debellare il fenomeno o ridimensionarlo, ma neppure contenerlo. Questo vuol dire che inutilmente, e per di più distogliendo ingentissime forze e risorse che potrebbero proficuamente essere destinate in altre direzioni, più di diecimila persone (per cannabis, sono state esattamente 12.137 nel 2017) finiranno ogni anno nelle caserme e/o in carcere, cioè in luoghi oscuri, difficilmente controllabili per come sono concepiti e organizzati oggi in Italia, soprattutto se a finirci sono cittadini “normali”, che svolgono una vita “normale”, come era la vita di Stefano, sebbene fosse consumatore di sostanze illecite come i derivati della cannabis; sostanze vietate dalla legislazione proibizionista che ben si guarda, e meno male, di inibire l’uso e l’abuso di alcool e tabacco che - sia detto per inciso - ogni anno provocano quasi centomila morti solo nel nostro Paese. La morte di Stefano non è stata causata dalle sostanze di cui faceva uso, ma dal frutto bacato della repressione proibizionista che della regolamentazione (legalizzazione) di un fenomeno di massa non vuole nemmeno sentir parlare, scegliendo così di far prosperare e proliferare le narcomafie, consegnando loro il monopolio della produzione e del commercio e conferendo a spregiudicati cartelli criminali l’immenso potere corruttivo dell’economia legale e del tessuto democratico, civile e sociale di ogni Paese. Stranieri il 34% dei detenuti: crisi e fallimento dell’integrazione di Antonio Amorosi affaritaliani.it, 19 ottobre 2018 Gli immigrati in Italia hanno raggiunto, tra regolari e irregolari, la percentuale del 10% circa della popolazione (5 milioni 958 mila). Ma su ogni 10 persone detenute complessive nelle nostre carceri 3 e mezzo (quasi) sono immigrati, per il 33,91% del totale. Un dato allarmante, pubblicato dal ministero della Giustizia e che fotografa le carceri italiane il 30 settembre scorso. Su 59.275 detenuti complessivi 20.098 sono immigrati. Tra questi il 18,7% sono di nazionalità marocchina, il 12,7% romeni, il 12,6% albanesi, il 10,4% tunisini e il 6,8% nigeriani, solo per indicare le nazionalità più emergenti. Certo questo non vuol dire che gli immigrati siano dediti al crimine più degli italiani (quasi che in qeusto vi fosse un elemento etnico). Sarebbe stupido anche solo pensarlo. Così come paragonare gli attuali flussi migratori che interessano il Belpaese a quelli di inizio secolo, degli italiani negli Stati Uniti o nel dopoguerra in Germania o in Belgio (usiamo questi due flussi europei come esempio). Diffidate da chi non analizza ogni processo migratorio inscrivendolo nel suo quadro storico e geopolitico, analizzandolo cioè per le sue peculiarità. Gli Stati Uniti, la Germania e il Belgio erano, nei periodi in oggetto, Paesi in fortissima espansione economica e che cercavano immigrati. L’Italia attuale è invece in recessione da quasi quindici anni (gli immigrati quindi arrivano in un Paese in recessione con gli effetti che ne conseguono sul mondo del lavoro). In Germania e in Belgio si giungeva, sia per numeri che per mansioni, in quanto manodopera richiesta dai Paesi d’accoglienza. D’altro canto è altrettanto stupido dire: “altro che immigrati nelle carceri, gli immigrati italiani hanno portato la mafia nel mondo”, riferendosi principalmente agli Stati Uniti, cioè alla stagione del gangsterismo anni 20 e d’intorni del secolo scorso. Se così fosse occorrerebbe spiegare come mai in Germania e in Belgio non si sono riscontrati gli stessi livelli di criminalità immigrata italiana nei periodi in oggetto né percentuali di detenzione così significative. Ogni flusso migratorio è lo specchio della società in cui si è sviluppata e mostra la capacità che hanno i Paesi di accoglienza di regolare i flussi o anche solo di volerlo fare. Se vi è un legame fra immigrazione e criminalità questo sta nella capacità di mostrare quale integrazione vi sia nel Paese ospitante o di accesso e quale volontà di integrazione mostri la popolazione che vi arriva. Più stranieri in Italia non vuol dire in proporzione più reati. Dal 2007 al 2015 il numero degli stranieri residenti in Italia è quasi raddoppiato ma i detenuti si muovono su percentuali simili (dai 18.000 ai 21.000 detenuti). Quindi le percentuali oscillano sugli stessi numeri. Un ruolo fondamentale sulla percentuale di soggetti stranieri che commette reati è giocato dalla condizione di clandestinità. Secondo uno studio della Rodolfo Debenedetti Foundation del 2013, il 90% degli stranieri che si trovano nelle carceri italiane sono degli irregolari. Dati simili sono stati indicati anche dal ministero dell’Interno. I reati più diffusi tra gli immigrati sono legati ai traffici e alle attività connesse agli stupefacenti. Questo non vuol dire che rendendo “regolare” chi non lo è si estingua per questi ultimi la possibilità di commettere reati. Ma val bene il ragionamento contrario. Più irregolari vi sono su un territorio più reati è possibile che questi commettano. Lo specchio delle carcere mostra la massa di soggetti che, per varie ragioni (tra cui quella che esistono ancora gli Stati che legiferano per i proprio cittadini che per generazioni hanno costruito quel Paese, pagato tributi, ecc.) non hanno titolo a restare in Italia e che invece vi restano lo stesso. A fronte poi della recessione in corso e del sistema economico e sociale finiscono con maggiore facilità nelle maglie della criminalità organizzata e di attività consimili. Perché il decreto sicurezza “frantuma” il concetto di cittadinanza di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2018 Il decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, uno dei molti interventi normativi degli ultimi anni battezzati con l’epiteto “sicurezza”, contiene previsioni in materie tra loro assai diverse. Le norme più innovative riguardano certamente la materia dell’immigrazione. Il decreto, infatti, rappresenta un passo significativo verso un nuovo “diritto degli stranieri”, diverso nell’impostazione culturale rispetto all’esperienza italiana dell’ultimo trentennio. Il Governo pare infatti trattare il fenomeno migratorio da un’ottica quasi esclusivamente securitaria, disciplinandolo insieme a mafia e terrorismo e, con le parole di Giovanni Maria Flick, applicando ai migranti “un’etichetta di sospetto e di qualificazione negativa a priori”. Tale cultura può ben sembrare lontana da alcuni grandi valori costituzionali, quali l’eguaglianza, la dignità della persona e la garanzia universale dei diritti fondamentali, tra cui il diritto di asilo. Tuttavia, ciò solo non consente di giungere a liquidatorie previsioni di incostituzionalità tout court dei punti qualificanti del testo, come qualcuno potrebbe essere tentato di fare. Infatti, la nostra è una Costituzione che lascia al legislatore, specie in questa materia, un’ampia discrezionalità che non deve trascolorare però in arbitrio ma rappresentare un razionale bilanciamento di interessi sulla base di scelte politiche. Dunque, più che procedere con proclamazioni di principio, guidati da pregiudizi negativi, appare necessario quel lavoro certosino del giurista, che esamina le singole norme e prova a distinguere tra quelle tecnicamente o politicamente inopportune e quelle illegittime, perché paiono davvero in urto con la Carta fondamentale o gli obblighi internazionali ed europei. E siccome gli ambiti sono molti, tale lavoro non si può esaurire in questo articolo, ma sarà necessariamente a puntate. Nei prossimi giorni si cercherà di esaminare alcuni punti essenziali: le novità in materia di diritto di asilo e di protezione umanitaria, la riforma dei trattenimenti e del sistema di accoglienza, le restrizioni in materia di cittadinanza italiana, ma anche le misure antiterrorismo e le modifiche alle misure di prevenzione e alla gestione dei beni confiscati. Qui partiamo da una domanda preliminare: è legittimo in questo caso l’uso del decreto legge? Detto altrimenti, sono davvero presenti gli straordinari casi di necessità e urgenza che la Costituzione richiede? Coltiviamo più di un dubbio in proposito. La giustificazione per il decreto legge, proprio nelle parti relative agli stranieri, sembra basata su emergenze più percepite che concrete. I dati mostrano un netto arretramento degli ingressi illeciti di stranieri in Italia, né si registra alcun aumento di reati da parte di questi ultimi. Lo stesso allarme terrorismo, che l’esecutivo pone a giustificazione della norma sulla revoca della cittadinanza, sembra non riflettere la realtà: in fondo, il nostro Paese non è teatro di attentati terroristici da un quarto di secolo. Né ci pare sufficiente affermare che “così fan tutti”, ovvero che la nostra storia antica e recente è ricca di Governi che hanno emanato decreti carenti dei requisiti di necessità e urgenza. Qui, per di più, siamo di fronte a un provvedimento che interviene in modo radicale sul sistema di protezione internazionale e su diritti riconosciuti dalla Carta, come quello d’asilo. Anche per questo siamo convinti che il processo legislativo ordinario avrebbe garantito un più meditato esame di questioni così rilevanti e delicate. I dubbi di costituzionalità non si limitano allo strumento, ma investono anche il contenuto del decreto. Di uno di essi si può dar conto già ora, proprio perché in questa norma si saldano l’opzione culturale della nuova maggioranza e il rischio di incostituzionalità della scelta concreta. Ci si riferisce alla previsione della revoca della cittadinanza a chi non è italiano per nascita ed è stato definitivamente condannato per delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale. Si tratta di casi che si verificheranno raramente. Tuttavia, l’effetto della disposizione sul sistema è dirompente: si frantuma il concetto di cittadinanza, introducendone una “di serie b” rispetto a quella che appartiene a chi è italiano dalla nascita. Banalmente, per lo stesso reato, sono previste conseguenze diverse, sicché i cittadini non sono più uguali davanti alla legge. Dal punto di vista giuridico si intravede la violazione del principio d’eguaglianza e del divieto di privare una persona della cittadinanza per motivi politici, previsto dall’articolo 22 della Costituzione, anche perché molti dei reati indicati sono proprio delitti commessi per motivi “politici”. Inoltre, la disciplina potrebbe generare apolidia, uno status eccezionale per una persona, in contrasto con un’antica convenzione internazionale che appunto vieta agli Stati di creare nuovi apolidi. Sul piano culturale, poi, si tratta della fuoriuscita dall’idea unitaria di cittadinanza, nata come eguale garanzia dei diritti per tutti coloro che la possiedono nei confronti dello Stato, una delle più caratterizzanti la civiltà europea, dalla rivoluzione francese in avanti. E questa rottura del principio in forza del quale non devono esistere regimi speciali, può portare in futuro a estendere il catalogo dei reati per cui è prevista la revoca. Inoltre, la disciplina porta con sé il messaggio secondo cui chi non è italiano “di sangue” è di per sé sospetto, impostazione opposta rispetto alla logica sottostante a proposte di legge quale quella sullo “ius soli” avanzata nella scorsa legislatura, volta a includere nella comunità nazionale chi aveva assorbito la cultura italiana nel percorso scolastico. Dopo questi brevi cenni, nelle prossime “puntate” affideremo il testo alle lenti di altri giuristi, necessarie per individuare ciò che dovrebbe stare fuori dall’ordinamento per come lo conosciamo e ciò che è, come ogni disposizione, più semplicemente discutibile. Il giudizio generale sull’articolato, tuttavia, non è positivo, e non resta allora che sperare in un’attenta riflessione da parte del Parlamento in sede di conversione, soprattutto su quella che appare la matrice della novella, come caldamente invitato dal Presidente della Repubblica. Del resto, la Storia tristemente insegna che una restrizione dei diritti degli “altri”, dei “diversi” tende a precedere una restrizione generalizzata, per tutti. Difesa legittima anche se l’aggressore non è armato di Simona Musco Il Dubbio, 19 ottobre 2018 La nuova legge approvata in Commissione Giustizia del Senato. La legittima difesa verrà riconosciuta anche senza la minaccia vera e propria di un’arma. È questo il nodo centrale del testo base sulla riforma della legittima difesa, approvato ieri dalla commissione Giustizia del Senato, che arriverà nell’Aula di palazzo Madama martedì prossimo per l’esame. Un risultato che soddisfa principalmente la Lega, lasciando su posizioni critiche Forza Italia, Fratelli d’Italia e Pd. “Entro l’anno la riforma della legittima difesa dovrebbe diventare operativa a tutti gli effetti - hanno dichiarato soddisfatti, in una nota congiunta, il sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone, e il presidente della commissione Giustizia del Senato, nonché relatore, Andrea Ostellari, entrambi della Lega. Questo provvedimento contribuisce a fare chiarezza in una materia che lasciava un ampio margine di discrezionalità interpretativa e che, di conseguenza, non consentiva alle vittime del reato di vedere riconosciuta la legittimità dell’azione compiuta e di sentirsi tutelati dallo Stato, ma, al contrario, di essere vittime due volte”. Soddisfazione ribadita anche dal vicepremier Matteo Salvini su Twitter: “Come promesso, dalle parole ai fatti”. Le modifiche apportate riguardano, in particolare, l’articolo 52 e l’articolo 55 del codice penale, riconoscendo “sempre” la sussistenza della proporzionalità tra offesa e difesa nel caso di utilizzo di un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o la altrui incolumità, i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione”. Non è necessario che il ladro abbia un’arma in mano: d’ora in poi basterà la sola minaccia di utilizzarne una, anche senza una minaccia specifica alla persona. Esclusa la punibilità per eccesso colposo di legittima difesa se chi ha agito si trovava in stato di “grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. L’unico emendamento approvato sui 70 presentati è quello di Forza Italia, a prima firma Giacomo Caliendo, relativo alla riduzione da 5 a 4 anni di carcere della pena massima per la violazione di domicilio, mentre la pena sarà fino a 7 anni per il furto. “La sospensione condizionale - inoltre - è comunque subordinata al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa”, mentre le spese legali saranno a carico dello Stato: chi si è difeso, non pagherà per dimostrare la sua innocenza. Un punto sul quale, inizialmente, era sorto un problema di coperture poi risolto, ha spiegato Ostellari. Respinti, invece, tutti gli altri emendamenti, con il ritiro dei tre presentati dal M5s, che avrebbero lasciato più discrezionalità dal giudice. Che rimane, invece, troppo alta, secondo il centrodestra. “Deve essere il pm a dimostrare l’assenza delle condizioni per riconoscere la legittima difesa, e non chi si difende a dover dimostrare la sussistenza della causa di giustificazione”, ha dichiarato il responsabile Giustizia di Forza Italia, Enrico Costa. Per il dirigente del dipartimento Affari costituzionali di Fi, Francesco Paolo Sisto, “la Lega si è piegata ai 5 Stelle” e la riforma “è del tutto insufficiente a tutelare i cittadini”, mentre per Alberto Balboni e Raffaele Stancanelli, rispettivamente capogruppo in commissione Giustizia e vicepresidente della commissione, entrambi di Fratelli d’Italia, “la difesa” è “sempre legittima”. Una posizione confermata anche dal vicepresidente del Senato Ignazio La Russa, secondo cui i magistrati inquirenti avrebbero “una discrezionalità troppo ampia”, quando non può esserci “una valutazione circa lo stato d’animo di chi è aggredito”. Critiche di segno opposto, invece, quelle del Pd, secondo cui con tale testo “lo Stato lascia più soli i cittadini”, per la senatrice Valeria Valente, vicepresidente del gruppo dem e componente della commissione Giustizia, “chiedendo ai singoli cittadini di proteggersi da soli, esponendoli così a più rischi e più violenza”. Se il cittadino diventa un nemico da combattere di Checchino Antonini Left, 19 ottobre 2018 Dietro a vicende come quella di Cucchi, ci sono forze di polizia formate per affrontare scenari di guerra più che per la gestione della sicurezza pubblica. Il modello sono i soldati dei corpi speciali: non empatici, non riflessivi, obbedienti. Charlie Barnao, insegna Sociologia della sopravvivenza a Catanzaro, studia le marginalità estreme urbane (persone senza dimora, prostituzione) e ha una lunga consuetudine con le tematiche degli abusi in divisa o della formazione di personalità autoritarie o fascistoidi, per usare le parole di Adorno, attraverso l’addestramento militare. Un filone di studi che Barnao ha imboccato dopo l’esperienza della leva nei parà, nella Folgore. Storie come quella di Stefano Cucchi gli fanno venire in mente “immediatamente il tema dell’addestramento militare” che Barnao collega “immediatamente a vicende come quelle accadute nelle prigioni di Abu Ghraib e Bagram, nella caserma di Bolzaneto, e ai civili torturati da parte di soldati italiani in Somalia”. E, ancora, dice: “Penso a due militari siracusani tutti e due: Emanuele Scieri, un caso del 1999 riaperto di recente, e Tony Drago, caporale 25enne, che, come Scieri, venne trovato morto nel 2014 dopo essere precipitato da una palazzina nella caserma di Roma dei Lancieri di Montebello. Le analogie sono tantissime, per entrambi la prima ipotesi fu quella di suicidio ma poi, tra mille incongruenze, le famiglie tentano disperatamente di far riaprire il caso. Come per Scieri l’ipotesi della difesa è quella del pestaggio mentre faceva le “pompate”. Barnao ricorda come il caso Scieri fosse stato cavalcato, a suo tempo, da chi stava conducendo il processo di professionalizzazione delle forze armate con l’abolizione della leva obbligatoria: “Rileggendo i resoconti della commissione parlamentare, il nonnismo veniva associato al servizio militare di leva e la creazione di un esercito di professionisti veniva “venduta” come la soluzione per superare il nonnismo. Il caso di Tony Drago rivela, invece, che quei rituali sono ancora in voga. Drago era uno delle migliaia di ragazzi del Sud che era partito come Vfp1 (volontario in forma prefissata di un anno nell’esercito, ndr) per poter fare il poliziotto”. Con l’eccezione di una finestra biennale, che verrà chiusa a dicembre, il reclutamento nei corpi di polizia e carabinieri richiede proprio il passaggio in un’esperienza militare, chi opera in ordine pubblico s’è fatto le ossa nei teatri di guerra. Per Barnao è un dettaglio cruciale: “È un processo di militarizzazione che in sociologia viene definito della “doppia conversione”. Il sociologo si riferisce all’”amalgama di funzioni militari e di polizia” di cui hanno scritto Salvatore Palidda o Alessandro Dal Lago. L’esercito che scende in ordine pubblico, si pensi all’Operazione strade sicure, e, contemporaneamente, la guerra che diventa un’”operazione di polizia internazionale”. “E il tipo di addestramento è lo stesso, è di questo che mi occupo”. La tesi di Barnao è che questi episodi che in genere vengono ricollegati alle “mele marce” siano strettamente correlati al tipo di addestramento che viene impartito. “Questo in tutto il mondo”, puntualizza Barnao che sta per pubblicare i primi risultati di una ricerca su manuali di addestramento e manuali sulla tortura. Esistono manuali che insegnano la tortura? “Uno di questi, il più famoso, è il Kubark counter-intelligence interrogation con il quale la Cia addestrava i suoi agenti alle tecniche dure di interrogatorio coercitivo che, nel tempo, sarebbero state dichiarate tortura”. La parola Kubark è un criptonimo con cui la Cia designava se stessa. Elaborato nel 1963, sarebbe stato desecretato nel 1997 ma intanto era stato la base per una cospicua manualistica. “Dal 2001 assistiamo a un cambio di paradigma - riprende Barnao. Con la guerra globale, anche da un punto di vista legale, gli Usa hanno cambiato la denominazione del nemico, da combattente a terrorista, per eludere i vincoli della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. In questi manuali si spiegano le tecniche e le tre fasi della tortura: l’azzeramento della personalità con la perdita di ogni punto di riferimento, la seconda fase in cui si negozia l’informazione, la tortura è una serie di azioni razionali per ottenere informazioni, infine l’aggregazione o la riprogrammazione. Fasi della tortura, modello psicologico comportamentista, dinamiche interazionali fra torturato e torturatore corrispondono perfettamente alle fasi dell’addestramento, al modello psicologico e all’interazione fra addestratore e recluta. E ho scoperto che chi scrive i manuali di addestramento scrive anche i manuali per gli “interrogatori coercitivi”. Anche Naomi Klein ha usato la metafora della tortura nel suo Shock economy”. Barnao spiega ancora che tutti i corpi speciali del mondo sottopongono gli uomini a un corso di sopravvivenza, il programma Sere (Survival, evasion, resistance and escape). Per comprendere le ragioni storiche bisogna ricordare come la guerriglia dei Vietcong mise in crisi la tecnowar dello Zio Sam, il modello che era uscito dalla II guerra mondiale. Gli Usa, dopo che il 30% dei marines tornò con un disturbo da stress post traumatico, presero a mettere in atto la cosiddetta guerra sporca “e misero a punto un tipo di addestramento che puntava a blindare la mente del soldato”, spiega sempre Barnao, autore, con Pietro Saitta nel 2013 di “Costruire guerrieri. Autoritarismo e personalità fasciste nelle forze armate italiane”, contenuto nel volume collettaneo La violenza normalizzata. Si afferma da allora un modello di soldato “non empatico, non riflessivo, che non fraternizza col nemico, obbediente. E resistente alla tortura. Sere parte proprio per questo, negli anni 50. E come si insegna quella “resistenza”? Torturandoli. Anche i “nostri” ragazzi. Il soldato ideale è quello dei corpi speciali e tutti si ispireranno a questo modello”. E Cucchi, Aldrovandi, e tutti gli altri cosa c’entrano con questo modello? “Sono “danni collaterali” per chi applica queste dottrine. Non dovrebbe essere così. Inoltre questo modello non funziona, lo stiamo verificando proprio intervistando i soldati che tornano dalle missioni. Il comportamentismo, come pure il condizionamento operante, è inadeguato di fronte a tutte le variabili della “guerra sporca” o della gestione dell’ordine pubblico”. Cambiare modello di addestramento allora, anche perché nei territori esplorati da Barnao non c’è spazio per le retoriche sulla democratizzazione delle polizie o sulla polizia di prossimità. Il sociologo non ha dubbi: bisogna passare da un modello “rapido ed economico” a un approccio umanistico, in cui l’empatia sia un punto centrale, in cui l’altro da me sia un soggetto non più un oggetto”. Informiamoci sui nostri diritti, così possiamo difenderci di Leonardo Filippi Left, 19 ottobre 2018 La Onlus Acad dal 2009 difende e supporta legalmente chi subisce soprusi proprio da parte di chi, dalle violenze, ci dovrebbe proteggere. E troppo spesso non lo fa. Una battaglia che si gioca anche a livello mediatico con una capillare controinformazione volta a ridare voce alle vittime. “Per noi è impensabile che qualcuno rimanga solo di fronte agli abusi dell’apparato della giustizia. Per questo interveniamo, perché è la solidarietà a renderti più forte, anche nei momenti più tragici”. Con poche semplici parole, Semir riassume il significato della pratica quotidiana che porta avanti insieme agli altri attivisti ed attiviste dell’Associazione contro gli abusi in divisa (Acad). Una rete, nata nel 2009 e formalizzatasi come “Onlus” tre anni dopo, che con pazienza e dedizione difende e supporta chi subisce soprusi e violenze proprio da chi, dai soprusi, ci dovrebbe proteggere. E troppo spesso non lo fa. Talvolta beneficiando, per giunta, di complicità e insabbiamenti da parte delle istituzioni. “Nel nostro statuto sono indicate le attività che portiamo avanti - spiega Ilaria di Acad. Non solo la difesa delle vittime ma anche un osservatorio operativo su questi crimini, il mutuo soccorso per sostenere spese legali e un servizio di pronto intervento”. Un numero verde è attivo 24 ore su 24, ed è collegato ai cellulari degli attivisti. Per poter rispondere nel minor tempo possibile alle richieste di aiuto. Che arrivano anche tramite mail e la pagina Facebook. “Si va dal piccolo abuso della polizia municipale, alla richiesta di informazioni sui propri diritti quando si viene fermati ad un posto di blocco, fino a circostanze più gravi. In questi casi, inoltriamo la richiesta al presidio più vicino sul territorio, per poi passare tutto nelle mani dei nostri avvocati. Legali amici, che si impegnano a percepire il compenso minimo, e ad essere sempre reperibili”, prosegue Ilaria. I presidi locali, detti Acad point, sono sparsi in tutta Italia. Da Bergamo (il primo), a Lamezia, da Torino, a Roma a Benevento e così via. Nuclei operativi, per entrare in azione nel minor tempo possibile. “Quando riceviamo una segnalazione cerchiamo di recarci il prima possibile sul luogo dove è stato segnalato un abuso. Parliamo con chi può aver visto qualcosa. Con amici della vittima, negozianti, baristi” torna a dire Semir. Raccogliere informazioni è importante, e non solo ai fini della battaglia legale che chi subisce gli abusi può voler intraprendere. C’è una altra battaglia contro la quale spesso le vittime e Acad si devono attrezzare. E si gioca sui media. “Quasi sempre - dice Semir - nelle veline delle forze dell’ordine che partono a stretto giro dopo questi episodi, chi subisce il sopruso viene descritto come una persona anormale, come qualcuno che se l’è cercata. L’obiettivo è impedire che la gente comune possa identificarsi con loro. Possa pensare “poteva capitare anche a me”. Per questo, il nostro primo impegno è “riumanizzare” la vittima, attraverso un racconto alternativo a quello delle istituzioni, facendo controinformazione”. Un impegno che prosegue quando le vittime accettano il sostegno della associazione. Come è accaduto con la vicenda di Davide Bifolco il sedicenne ucciso a Napoli con un colpo sparato da un carabiniere nel 2014, nel quartiere Traiano, durante un inseguimento. “Dopo i fatti, siamo stati subito contattati da alcuni giovani napoletani. Partii io stessa insieme a due compagni di Bergamo e andammo a Napoli, incontrammo lo zio e uno dei fratelli di Davide - ricorda Maddalena, socia Acad fiorentina. Da lì ci siamo attivati per trovare un avvocato (Fabio Anselmo, il legale che ha assistito le famiglie Aldrovandi, Cucchi, Rasman, Uva, e molte altre ndr), e per sostenere i costi della perizia balistica, del perito di parte”. “È un caso che ci ha sconvolto davvero - spiega Maddalena, e il ragazzino sin dopo la sua morte è stato brutalmente attaccato dalla stampa mainstream. Si tentava di trasformare Davide da vittima in colpevole. Perché andava in tre in motorino, perché, si diceva, era vicino alla camorra...”. Una tragedia - così recitano le motivazioni della sentenza di condanna in primo grado del militare che ha sparato - causata da un proiettile partito in maniera “improvvisa, sicuramente non voluta”, un’esplosione che “non fu evitata a causa di grave imprudenza, negligenza e imperizia”. “Il processo Bifolco è appena ripreso (il 16 ottobre, mentre andiamo in stampa, i giudici d’Appello hanno ridotto a due anni e sospeso la pena al carabiniere che sparò, ndr) - racconta Natalia di Acad, avvocatessa napoletana. Il militare che lo ha ucciso sparò a Davide di spalle, durante un’azione molto discutibile. Il punto è che segnalazioni di interventi poco corretti delle forze dell’ordine sono assai frequenti. Pochi mesi fa sempre a Napoli fece scalpore il video che ritraeva due poliziotti mentre picchiavano un ragazzo. Il giovane che lavorava per una salumeria era in motorino senza casco e non si era fermato all’alt. Una volta raggiunto, lo hanno bloccato contro un muro e picchiato. Nel video, girato da un palazzo di fronte alla scena, si sentono le urla del ragazzo e l’abuso è palese. Il ragazzo non ha sporto denuncia, ma il video ha costretto la questura a fare almeno un comunicato che stigmatizzava l’operato degli agenti”. Fare controinformazione dunque, stare quotidianamente vicino alle vittime, sostenerle anche economicamente. Ma Acad spesso va oltre. “Come già avevamo fatto per il processo Magherini, anche in seguito all’omicidio di Sekiné Traoré ci siamo costituiti parte civile”, spiega Santino, del Acad point di Lamezia. Il giovane richiedente asilo maliano, 27 anni, fu ucciso nel giugno 2016 da un carabiniere durante un controllo presso la tendopoli di San Ferdinando, in Calabria. Subito sono girate versioni discordanti dell’accaduto. Per i militari, intervenuti dopo la segnalazione di una rissa in cui Traoré era coinvolto, si tratterebbe di legittima difesa, una reazione proporzionata rispetto al ferimento di un militare all’occhio da parte del giovane maliano. Ma, secondo altri testimoni, il colpo sarebbe stato sparato quando il ragazzo era già a terra. “A maggio si è tenuta la prima udienza del dibattimento - prosegue Santino, e nel frattempo abbiamo portato avanti una attività di sensibilizzazione continua, con comunicati e mobilitazioni”. Sensibilizzazione che arriva anche nelle scuole. “Abbiamo iniziato a fare interventi durante le assemblee studentesche” - spiega Carlotta di Acad Firenze. “Sono stati gli alunni a chiamarci. Ci arrivano domande di ogni tipo, sono curiosi di conoscere i loro diritti. E poi presentiamo i casi che abbiamo seguito, raccontiamo le storie di abuso, con video, inchieste, intercettazioni. Spesso gli studenti sono stupiti, non si capacitano di come siano potuti accadere”. Ma uno dei risultati più importanti, torna a dire Semir, “è stato quello di mettere in connessione chi ha subito queste vicende, e farli portavoce della loro lotta. Non è facile andare al di là della propria vicenda personale, e lottare contro un fenomeno più grande, perché il dolore è tanto. Ma talvolta ci si riesce. Rudra Bianzino, dopo l’uccisione del padre e la perdita della mamma, ha trovato in Acad una seconda famiglia. La sua generosità è davvero grande. Come quella di Grazia Serra”, nipote di Francesco Mastrogiovanni maestro di scuola morto dopo 72 ore di agonia, abbandonato in un corridoio del pronto soccorso. Ilaria Cucchi accusa: “Nistri vuole punire i carabinieri testimoni” di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 ottobre 2018 La sorella di Stefano parla dell’incontro col comandante dell’Arma. La ministra Trenta smentisce (ma non del tutto). Nulla da ridire sull’incontro avuto mercoledì sera con la ministra della Difesa Elisabetta Trenta: “Le mie aspettative su di lei non sono andate deluse”, premette Ilaria Cucchi - accompagnata dall’avvocato Fabio Anselmo e dall’ex senatore Luigi Manconi - davanti ad una platea di giornalisti di mezzo mondo riunita nella sala della Stampa estera. Però, aggiunge scandendo molto bene le parole e dopo aver ricordato tutto il suo amore e la sua stima per l’Arma dei carabinieri, “dal generale Nistri mi sarei aspettata non dico delle scuse, perché avrebbe potuto essere per lui troppo imbarazzante, ma certo non 45 minuti di sproloquio contro Casamassima, Rosati e Tedesco, gli unici tre pubblici ufficiali che hanno deciso di rompere il muro di omertà” su quanto accaduto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 a Stefano Cucchi, suo fratello, morto una settimana dopo essere stato arrestato. Il generale, aggiunge, “avrà sicuramente le sue ragioni, ma perché dirlo proprio in quella occasione? E perché dirlo a noi, parenti della vittima? Mentre è in corso un processo dove stanno emergendo gravissime responsabilità, siamo sicuri che vi sia proprio adesso una insopprimibile esigenza di punire proprio coloro che hanno parlato? Questo processo io, Fabio e la mia famiglia lo abbiamo fortissimamente voluto e ora il generale vuole colpire tutti coloro che hanno parlato”. Legge da un foglio, Ilaria - cosa insolita per lei - perché, spiega, “sono troppo arrabbiata” per parlare a braccio. Racconta perché la sera precedente aveva evitato i giornalisti, al termine dell’incontro con la ministra Trenta e con il generale Giovanni Nistri: “Non era quella la sede per una cittadina normale come me”. Ma ora parla, dopo aver appreso dal comandante dell’Arma che saranno presi provvedimenti disciplinari di Stato contro i due coniugi che con la loro testimonianza hanno permesso la riapertura del processo, Riccardo Casamassima e Maria Rosati, e contro il vice brigadiere Francesco Tedesco che ha accusato del pestaggio di Cucchi i suoi co-imputati Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro e ha denunciato la scomparsa dei verbali da lui stesso redatti il 22 ottobre 2009. Tutti e tre hanno fatto l’”errore” ulteriore - oltre a quello di aver rotto l’omertà di corpo - di aver denunciato pubblicamente, sui social o davanti ai giudici, le “pesanti conseguenze” subite sul lavoro dopo la loro testimonianza. “Danno peso ai post di Casamassima - riferisce Ilaria Cucchi - ma non ci difendono da quelli infamanti e violenti partoriti da pagine Fb e troll in gran parte gestiti da appartenenti a polizia e carabinieri. Ho chiesto aiuto, per questi, alla ministra Trenta che si è dimostrata molto sensibile. Non voglio odio ma solo verità e giustizia”. Perfino ieri, appena postata la notizia che qualcosa era andata storta durante l’incontro a Palazzo Baracchini, sulla bacheca di Ilaria Cucchi è comparso il messaggio di un hater. È successo spesso, in questi nove anni. Come è successo anche che uno degli imputati, il maresciallo Roberto Mandolini (il cui avvocato difensore ha accusato Tedesco di aver stretto un patto con il pm Musarò) abbia denunciato Ilaria Cucchi di diffamazione e le abbia chiesto 50 mila euro. Eppure questa donna lancia un appello a tutti: “Basta con gli insulti, basta con le violenze verbali, perché possono essere molto ma molto pericolosi”. La ministra Trenta ha però prontamente - ma poco convintamente - confutato su Fb il resoconto di Ilaria Cucchi: “Il comandante Nistri non ha portato avanti alcun sproloquio e non ha manifestato nei confronti di nessuno pregiudizi punitivi. Ero presente, se lo avesse fatto sarei intervenuta! Semplicemente, ha rimarcato l’obbligo per tutti i gradi al rispetto delle regole, il che rientra nelle sue prerogative di Comandante”. Dunque la ministra non smentisce affatto che Nistri abbia parlato - in quella sede e ai familiari della vittima - di punizioni in arrivo per i tre carabinieri che hanno permesso la riapertura del fascicolo e l’evolversi del processo bis. Misure, che potrebbero comportare la destituzione o la sospensione dall’Arma, e che a Tedesco furono annunciati nello stesso giorno in cui venne ascoltato dalla procura e notificati il giorno dopo. Naturalmente Elisabetta Trenta non ammette dubbi sulla sua versione dei fatti: “Non sto offrendo una mia personale interpretazione. Sto raccontando solo quel che è successo”. Una “verità” che comunque non scioglie i dubbi sollevati dall’avvocato Pini, legale di Tedesco: “Ove le parole riferite da Ilaria Cucchi sul comandante Nistri fossero confermate, si tratterebbe di una anticipazione (riguardo la punizione, ndr) illegittima e ingiustificata, oltre che lesiva e dannosa per il mio assistito”. E mentre in procura il pm Musarò interrogava ieri per sette ore consecutive il luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della Stazione Tor Sapienza indagato per falso ideologico nell’ambito della nuova inchiesta aperta dopo la denuncia di Tedesco, nella sala Stampa estera l’avvocato Anselmo si chiedeva: “L’arma è parte lesa? E allora perché non si costituisce parte civile?”. E Manconi avvisava: “Abbiamo un problema grande come una casa, la democratizzazione dei nostri corpi di polizia”. Uccise il marito con 24 coltellate, assolta per legittima difesa di Matteo Indice La Stampa, 19 ottobre 2018 “Lui la picchiava da anni”. Il delitto al termine dell’ennesima lite a Genova, nel quartiere popolare del Campasso. Aveva colpito il marito con 24 coltellate, uccidendolo al termine dell’ennesima lite a Genova, nel quartiere popolare del Campasso. Ma i giudici l’hanno assolta dall’accusa di omicidio volontario, sostenendo che avesse agito per legittima difesa. La storia è quella di Alessia Mendes, ballerina di lap-dance italo-brasiliana, 39 anni, e del coniuge Alessio Rossi, meccanico disoccupato trentacinquenne. La mattina del 22 giugno 2017 Alessia colpì a morte Alessio, che provò a fuggire sulle scale ma stramazzò a terra in un lago di sangue. La donna minacciò successivamente di lanciarsi dalla finestra, e dopo che i vigili del fuoco la salvarono ammise di aver straziato il compagno: “Lui mi voleva ammazzare a coltellate, io l’ho disarmato e colpito a mia volta per proteggermi. Mi aveva già pestato troppe volte in passato”. Alessia da allora è sempre rimasta in carcere, mentre il tribunale, a seguito dell’assoluzione, ne ha ordinato l’immediata liberazione. L’inferno domestico - Le testimonianze dei vicini hanno dimostrato che spesso la coppia era stata protagonista di litigi violentissimi, anche a causa del fatto che il marito consumava abitualmente crack e talvolta pure la moglie. Rossi era stato denunciato due volte da Mendes per maltrattamenti, sebbene poi fossero tornati insieme: “Sono sempre rimasta innamorata di lui nonostante ciò che mi aveva fatto - ha ripetuto più volte la donna - ma ormai mi faceva vivere segregata”. Decisiva nell’inchiesta si è rivelata una super-consulenza sulle macchie di sangue chiesta dal legale di Alessia, Rachele De Stefanis, che ha dimostrato sia la veridicità della sequenza descritta dalla ballerina, sia i pestaggi pregressi. L’accusa, rappresentata dal pubblico ministero Paola Crispo, aveva chiesto sedici anni senza attenuanti. Reati edilizi: no alla messa alla prova se prima non si elimina l’abuso di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 18 ottobre 2018 n. 47456. La messa alla prova in caso di condanna per abusi edilizi è subordinata alla demolizione delle opere: perché si estingua il reato, infatti, grazie alla probation è necessaria la preventiva eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose che da questo derivano. La Corte di cassazione - pur dando ragione nel merito al pubblico ministero che aveva impugnato la sentenza con la quale veniva dichiarato estinto il reato per esito positivo della messa alla prova - è costretta a considerare inammissibile l’impugnazione perché la pubblica accusa aveva sbagliato i tempi. L’eccezione, andava, infatti, sollevata non impugnando la sentenza che aveva dichiarato l’estinzione del reato per il “superamento” della probation, ma l’ordinanza che, in precedenza, aveva accolto l’istanza di accesso all’istituto. Era quella - sottolinea la Cassazione - la sede per far valere l’insussistenza dei presupposti per la sospensione del procedimento. Dal punto di vista sostanziale però la pubblica accusa aveva fatto centro. Non c’è margine per l’accesso ad un istituto di favore se prima non c’è una spontanea azione riparatrice. Non salva dal reato l’omissione di tasse per pagare stipendi di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 47482/2018. Non può integrare la causa di forza maggiore idonea ad escludere il reato di omesso versamento delle ritenute la scelta dell’imprenditore di destinare le risorse finanziarie disponibili al pagamento dei dipendenti e fornitori e non alle imposte. In tal modo infatti nonostante la crisi di liquidità, l’impresa si è finanziata con somme incamerate a titolo di sostituto di imposta non trattandosi quindi di fatti commessi per forza maggiore. A ribadire questo rigoroso principio è la Corte di cassazione con la sentenza 47482 depositata ieri. Il rappresentante legale di una società era stato condannato nei due gradi di giudizio per omesso versamento delle ritenute di acconto operate sugli stipendi dei dipendenti per tre anni di imposta. L’imputato ricorreva così in Cassazione lamentando un’omessa valutazione dell’insussistenza dell’elemento psicologico atteso che la situazione di difficoltà economica dell’impresa aveva impedito di adempiere all’obbligo di versamento. Peraltro, aveva ottenuto un mutuo ipotecario per fronteggiare la crisi con il quale aveva avviato il pagamento a rate del debito tributario. La Cassazione, confermando la decisione di appello, ha innanzitutto ricordato che in tema di reati fiscali omissivi l’inadempimento dell’obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando deriva da fatti non imputabili all’imprenditore. La giurisprudenza di legittimità ha escluso che possa esistere forza maggiore nella mancanza della provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria per effetto di una scelta politica imprenditoriale. Ne consegue che quando esiste il margine di scelta va esclusa la forza maggiore, così come la poca liquidità è destinata al pagamento di altri debiti, poiché è dimostrato in atti che l’imprenditore ha adottato una propria politica imprenditoriale. Peraltro, non può essere invocata la causa di forza maggiore quando l’inadempimento è stato concausato dal mancato pagamento di singole scadenze mensili. Nella specie, la crisi di liquidità si trascinava già da tempo e l’amministratore ha deciso di destinare le risorse disponibili non in favore dell’Erario, bensì per la prosecuzione dell’impresa, pagando cioè i dipendenti e i fornitori. Peraltro, le azioni volte all’ottenimento di finanziamenti da terzi garantiti con il proprio patrimonio personale, non erano sufficienti ad escludere la responsabilità penale, poiché la crisi di liquidità non era stata improvvisa, bensì derivava da un lungo precedente periodo, con la conseguenza che l’imprenditore avrebbe potuto destinare tali somme anche diversamente. In tema di ritenute, al fine di evitare possibili conseguenze penali in caso di crisi di liquidità, occorre ripartire le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da poter adempiere al proprio obbligo tributario anche se ciò comporta l’impossibilità di pagare i compensi ai dipendenti nel loro intero ammontare. Pertanto l’imprenditore che decida di versare interamente gli stipendi omettendo il pagamento delle somme all’erario, non può discolparsi per l’assenza dell’elemento psicologico del reato. Toscana: l’allarme del Garante dei detenuti “suicidi in aumento nelle carceri” di Luca Cellini agenziaimpress.it, 19 ottobre 2018 Preoccupazione è stata espressa dal garante regionale dei detenuti, Franco Corleone, alla luce degli ultimi suicidi e degli episodi di tensione e di protesta che si sono verificati, recentemente nelle carceri italiane, con casi anche in Toscana. “Una vera e propria strage nel 2017, il totale è stato di 52 detenuti che si sono tolti la vita, mentre il trend di quest’anno, ancora non concluso, è decisamente in aumento: al 3 ottobre dell’anno scorso, i suicidi risultavano 45, quest’anno, invece, siamo già a 49. In generale, in quest’ ultimo mese, i notiziari dal carcere hanno riportato dati sempre più allarmanti sulle condizioni di vita dei detenuti: aumento del sovraffollamento, disagio psichico e problemi relativi alla loro affettività”. Riunione a Roma “Queste notizie - aggiunge il garante - giungono proprio in concomitanza della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di tre decreti di modifica dell’ordinamento penitenziario in materia di sanità, lavoro e minori che tolgono ogni speranza di miglioramento delle condizioni carcerarie”. Domani a Roma ci sarà una riunione della conferenza nazionale dei garanti regionali e comunali che valuterà proprio la conclusione di una lunga fase di speranza di riforma. “Si indicheranno scadenze e impegni - ha aggiunto il Garante - per rispondere all’aggravarsi delle condizioni di vita nelle carceri avviate ad un intollerabile sovraffollamento”. Inoltre, tra i prossimi appuntamenti del garante, un nuovo incontro pubblico con il provveditore Fullone e il provveditore delle opere pubbliche per presentare i tempi degli interventi di ristrutturazione e la definizione dei mutamenti nella vita quotidiana nelle carceri toscane. Infine, conclude Corleone “attendiamo di conoscere la data dell’udienza della Corte Costituzionale sul nodo degli articoli 147 e 148 del Codice Penale che dovrebbero garantire l’efficacia dell’esperienza delle Rems (residenza per le misure di sicurezza) e l’assistenza psichiatrica nelle carceri”. Corleone ha, infine, espresso ringraziamento per il sostegno e la condivisione della sua iniziativa di sensibilizzazione sul disagio psichico nelle carceri. Napoli: morto Ciro Rigotti, scarcerato due giorni fa ormai in coma di Valerio Renzi fanpage.it, 19 ottobre 2018 È morto ieri nel suo letto Ciro Rigotti, detenuto di Poggioreale malato di cancro in uno stadio terminale. L’uomo aveva chiesto di poter passare i suoi ultimi giorni con i suoi cari, ma il via libera agli arresti domiciliari è arrivato solo lo scorso martedì: la figlia Nunzia ha fatto appena in tempo a portare suo papà a casa. Si è spento ieri sera Ciro Rigotti, il detenuto di Poggioreale malato di cancro in fase terminale ricoverato. Il primo a dare la notizia è stato Pietro Ioia, ex detenuto che in un libro ha raccontato gli abusi che avvenivano nella ormai famigerata Cella Zero di Poggioreale. Per Ciro i familiari avevano chiesto che potesse passare le sue ultime settimane di vita tra gli affetti dei suoi cari, ed è morto due giorni dopo da quando gli erano stati concessi gli arresti domiciliari, andandosene nel letto di casa propria come aveva sperato. La richiesta dei suoi avvocati era stata respinta un prima volta lo scorso 3 ottobre, per poi essere accettata martedì scorso. Per il giudice, nonostante fosse in fin di vita, ridotto a uno scheletro e con un tumore incurabile, Ciro era stato considerato ancora un pericolo. Fanpage.it nelle scorse settimane ha raccontato il dolore del paziente - detenuto e quello della sua famiglia, in particolare la lotta della figlia Nunzia per portare il padre a casa per gli ultimi giorni che gli rimanevano da vivere. Il caso di Ciro aveva fatto discutere, soprattutto perché lo stato di carcerazione in questo caso appare semplicemente un’afflizione per il detenuto e per i suoi affetti. Una vicenda ancora più incomprensibile alla luce del fatto che non parliamo di un detenuto condannato in via definitiva, ma di una persona privata della propria libertà come misura cautelare in relazione all’accusa di far parte di un’associazione a delinquere dedita allo spaccio di stupefacenti. “Non vedo (in questo caso ndr) né la funzione riabilitativa della pena stando in carcere, non vedo l’inquinamento di prove, la possibilità di scappare né tanto meno quella di reiterare il reato. Non possiamo solo tranquillizzare le nostre coscienze dando i domiciliari ospedalieri - aveva commentato il Garante dei detenuti Samuele Ciambriello - Credo che in questo momento possiamo parlare di un caso in cui illegittimamente un detenuto si trova agli arresti domiciliari ospedalieri in queste condizioni”. Napoli: “all’ergastolo ho preso tre lauree e con la condizionale giro l’Italia” di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 19 ottobre 2018 “La camorra si può sconfiggere solo con la cultura. È paradossale ma i boss vogliono che ci sia l’ergastolo e l’isolamento, vogliono che in carcere ci finiscano i killer perché per loro sono solo carne da macello. I giovani quando finiscono in carcere si comportano bene perché così gli è stato imposto. Loro non hanno paura del carcere a vita ma del perdono perché crollano gli alibi”. Dopo 27 anni di carcere, molti dei quali passati al 41bis nel bunker dell’Asinara, Carmelo Musumeci, mafioso catanese condannato all’ergastolo ostativo, quello senza benefici, ha potuto godere della libertà condizionale e da due mesi gira l’Italia per parlare della sua vita. Durante la lunghissima detenzione ha preso la licenzia media, il diploma, tre lauree e ha scritto due libri. Ieri era al Pan perché invitato dalla Onlus “Il carcere possibile”, presieduta dall’avvocato Anna Ziccardi, che ha deciso di estendere l’invito anche agli studenti di Giurisprudenza attentissimi durante le oltre due ore di relazioni. “Con l’ergastolo è come se mi avessero detto che la società che mi aveva giudicato colpevole non mi avrebbe mai più perdonato - ha spiegato - Io sono convinto invece che il carcere debba essere come un ospedale e curare chi commette un reato, non solo punirlo. Dovrebbe essere la stessa persona a decidere quando la sua pena è espiata”. Ha raccontato delle sue condizioni di vita difficili, di una infanzia di fame e del collegio dove c’erano ragazzi che invidiava e picchiava per vendetta. Poi i furti, le rapine e il primo arresto. “Andai al carcere di Marassi da minorenne e quando uscii iniziai a odiare tutto e tutti. Divenni capo di una banda che scatenò una guerra e fu lì che uccisi un uomo e ne ferii altri due”. La condanna al carcere a vita arrivò nel 1993, durante gli anni delle stragi e fu confinato da mafioso all’Asinara. “Capii che non avevo più nulla da perdere e iniziai a studiare per poter essere preparato a parlare a me stesso e agli altri”. E Musumeci non si è più fermato. “Parlare di carcere fa ottenere pochi consensi ma se il fenomeno fosse conosciuto bene potrebbe aumentare livelli di civiltà del nostro mondo - ha detto Anna Ziccardi. La storia di Musumeci è importante perché riesce a spiegare bene come alcuni magistrati hanno compreso che si poteva superare uno sbarramento normativo e concedere permessi a un ergastolano con reati ostativi”. La finalità rieducativa della pena “è una nostra battaglia. Crediamo in un Stato di diritto, liberale e democratico a cui sia consentito a tutti di nascere due volte. Tutti possono sbagliare ma tutti devono avere possibilità di reinserirsi in una città difficile come è Napoli”, ha ben spiegato Attilio Belloni, presidente della Camera Penale. Della stessa idea anche Ilaria Criscuolo in rappresentanza dell’Ordine degli Avvocati. “Le leggi non bastano a mutare le sorti del carcere e le vite di chi è recluso - ha detto il procuratore Capo Giovanni Melillo - Bisogna interrogarsi anche sulle scandalosa sorte delle misure alternative. Al 30 settembre erano otto le persone in semidetenzione”. Parma: “Laboratori teatrali in carcere”, i detenuti diventano attori parmadaily.it, 19 ottobre 2018 Comune, Istituto Penitenziario di Parma, Università e Progetti & Teatro in sinergia per raggiungere nuovi traguardi. L’8 e 9 novembre presso L’Istituto Penitenziario di Parma, andranno in scena le repliche dello spettacolo “Tito Andronico” che vede la partecipazione di otto detenuti/attori, che hanno svolto il laboratorio teatrale che vede il sostegno dagli assessorati al Welfare e alla Cultura del Comune di Parma e condotto da Carlo Ferrari e Franca Tragni di Progetti & Teatro. Questa mattina la conferenza stampa di presentazione degli appuntamenti che vedranno andare in scena l’esito del laboratorio alla presenza di Laura Rossi assessora al Welfare, di Michele Guerra assessore alla Cultura, di Franca Tragni e Carlo Ferrari Progetti & Teatro, di Annunziata Lupo funzionaria giuridica pedagogica dell’Istituto Penitenziario di Parma, di Vincenza Pellegrino docente di Politiche Sociali Università di Parma e di Trivelloni Francesco Sindaco di Fontanellato. “Quest’anno aggiungiamo un tassello ulteriore alla progettualità che ci vede interagire con l’Istituto Penitenziario. Creare opportunità che possano far conoscere la realtà carceraria fuori dalle mura permettendo ai cittadini di avere una maggiore consapevolezza è un obiettivo molto importante. Quest’anno abbiamo la collaborazione del Teatro Comunale di Fontanellato che ha inserito lo spettacolo “Tito Andronico” all’interno della stagione. L’8 e il 9 novembre il teatro del carcere aprirà le sue porte per ospitare il pubblico che assisterà allo spettacolo, esito del percorso laboratoriale condotto da Franca Tragni e Carlo Ferrari all’interno dell’Istituto. Il 10 novembre alla Casa della Musica ospiteremo un seminario proprio sul tema del ‘Teatro in Carcerè a cui parteciperà Vito Minoia, presidente del coordinamento nazionale Teatro in Carcere” ha introdotto l’assessora Rossi. “Le interconnessioni che si creano, la reciprocità che possiamo trarre da queste esperienze fanno bene alla città ed appartengono al progetto culturale dell’intera città. È con grande soddisfazione che partecipiamo come assessorato a questo progetto. È all’interno di contesti come il carcere che percepisci quanto la cultura può fare e il grande valore che ha” ha sottolineato Guerra. L’Università di Parma, in particolare alcuni studenti, viste le norme di sicurezza necessarie, di politiche Sociali del Dipartimento di Giurisprudenza, Studi Politici e Internazionali, guidati dalla docente Vincenza Pellegrino avranno tre giornate di approfondimento a partire dalla visione dello spettacolo e dall’incontro con gli attori. “È una sfida culturale ed è stata accettata dai miei studenti, solo l’apprendimento può colmare le distanze e conoscere la realtà del carcere, luogo in cui la cultura è una questione di sopravvivenza, è molto importante” ha commentato Vincenza Pellegrino. Franca e Carlo conoscono bene la realtà carceraria e mettono a disposizione dei detenuti la loro professionalità: “Ogni anno alziamo l’asticella, abbiamo una vera compagnia teatrale in carcere. Siamo felici di condividere questa esperienza perché genera riflessione”. “L’attività teatrale in carcere ha una altissima valenza pedagogica, i detenuti tramite l’arte della recitazione rielaborano vissuti. È importante che la comunità esterna possa entrare in contatto con noi e possa interagire, conoscere aiuta a eliminare pregiudizi” ha detto Annunziata Lupo. Le repliche, che avranno inizio alle ore 18, rientrano nell’articolata programmazione del Teatro Comunale di Fontanellato, e per la prima volta, vedranno due date a Parma nell’Istituto Penitenziario con lo spettacolo allestito nel teatro del carcere e vedrà detenuti/attori. Un progetto che cresce e che per la prima volta trova spazio e visibilità all’interno di una rassegna teatrale. Un momento di condivisione culturale, umano e sociale che vuole sempre di più avvicinare la realtà carceraria alla città creando quel rapporto di vicinanza e di attenzione ad un luogo che per la sua vocazione di ri-educazione e re-inserimento, non può sentirsi staccato e dimenticato dalla società che vive fuori del contesto penitenziario. Il laboratorio teatrale, inserendosi all’interno di una vera rassegna, crea una rete di sensibilità esterna, di curiosità, di approccio al luogo/carcere e amplifica il desiderio di essere spettatori di un evento speciale che riesce ad emozionare i protagonisti che in scena “liberi” agiscono e rendono il teatro ancora più magico. Le prenotazioni per procedure interne dovranno pervenire presso l’Istituto Penitenziario entro il 23 ottobre. Ascoli Piceno: nel carcere l’incontro “Giornalismo di pace - La verità oltre le sbarre” picenotime.it, 19 ottobre 2018 Sconfiggere le manipolazioni nell’informazione attraverso una consapevole responsabilità che il bene dipende da ciascuno di noi e impegnarsi nell’educazione alla verità come antidoto alla tentazione delle fake news. Prendendo spunto dalle parole di Papa Francesco per la 52esima Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, domani 19 ottobre si terrà la seconda tappa del V “Meeting nazionale dei giornalisti cattolici e non”, quest’anno organizzato in modo itinerante. Dopo il primo appuntamento tenutosi a Roma il 12 settembre, i partecipanti si ritroveranno nel Carcere di massima sicurezza di Marino del Tronto (via dei Meli, 218 - Ascoli Piceno). Sarà necessario iscriversi sulla piattaforma Sigef in quanto i posti in questo caso sono limitati. Tema dell’incontro (che avrà inizio alle 9 e fornirà 4 crediti ai fini della formazione continua dei giornalisti) sarà “Giornalismo di Pace - La verità oltre le sbarre”. Sono previsti gli interventi di Mons. Giovanni D’Ercole, Vescovo di Ascoli Piceno, di Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, di Andrea Domaschio, di InBlu Radio, di Franco Elisei, presidente dell’Ordine dei giornalisti delle Marche, di Lucia Feliciantonio, direttrice del Carcere di Marino del Tronto. In programma anche una testimonianza di alcuni detenuti del Carcere di Marino del Tronto. Modererà l’incontro Giovanni Tridente, docente di giornalismo presso la Pontificia Università della Santa Croce. La tappa successiva del V “Meeting nazionale giornalisti cattolici e non” si terrà il giorno successivo 20 ottobre a Bergamo, sul tema “Chiesa 3.0: comunicazione e identità digitali” organizzata dal Settimanale santalessandro.org. Roma: l’Arte arriva in carcere, Michelangelo narrato ai detenuti di Rebibbia di Barbara Carbone Il Messaggero, 19 ottobre 2018 L’arte e la cultura oltrepassano i confini ed entrano per la prima volta negli istituti penitenziari per portare un messaggio di speranza ai detenuti e favorire il loro reinserimento sociale. Ieri, nel carcere femminile di Rebibbia, il primo dei quattro appuntamenti di “Liberi nell’Arte”, un itinerario artistico pensato in occasione del Sinodo dei giovani e promosso dall’Ucsi del Molise in collaborazione con il Ministero della Giustizia, Vatican News e l’Ispettorato Generale dei Cappellani. Un plauso al progetto è arrivato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che ha sottolineato come sia importante “avere attenzione verso la realtà carceraria troppo spesso colpevolmente trascurata e verso quanti vivono l’esperienza della detenzione”. Più di sessanta detenute hanno assistito alla proiezione della pellicola “Michelangelo-Infinito” alla presenza del protagonista Enrico Lo Verso e del direttore artistico Cosetta Lagani. Il film, prodotto da Sky, è dedicato alla vita e alle opere del grande protagonista del Rinascimento, un uomo geniale e irrequieto, schivo e capace di grande contrasti, riconosciuto nel mondo come uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Liberi nell’arte nasce da una richiesta speciale. È stato Papa Francesco a esortare Sky affinché portasse i film nelle carceri per trasmettere un messaggio di speranza a chi è privato della libertà. “Sky - ha spiegato Cosetta Lagani, direttore Cinema d’Arte Sky - ha inteso dare il proprio contributo alla divulgazione della cultura e dei suoi valori attraverso la bellezza”. Il viaggio culturale di “Liberi con l’Arte” coinvolgerà nei prossimi giorni le case circondariali di Casal del Marmo, Regina Coeli e Paliano. “Scrivere altrove”, la nuova edizione del concorso periodicodaily.com, 19 ottobre 2018 Terra di migrazione e di emigranti l’Italia affronta quotidianamente la questione degli spostamenti di gruppi di persone. “Scrivere altrove” è un concorso per opere scritte e visive che trattano gli argomenti della cittadinanza, della convivenza comunitaria e delle migrazioni. Un’iniziativa che premia il talento di chi descrive un fenomeno che crea insicurezza e può portare sviluppo. Non per nulla, fa discutere anche adesso che l’ondata di flussi migratori che dal 2000 ha portato sulle coste della penisola centinaia di migliaia di stranieri. È l’Italia vista con gli occhi dei migranti quella raccontata in molte delle opere che partecipano al concorso “Scrivere altrove”. Un paese in grado di accogliere e offrire opportunità, ma in cui non mancano le contraddizioni. Le storie di stranieri che nel Belpaese hanno trovato solidarietà e integrazione o si sono scontrati coll’intolleranza sono il termometro della società che cambia. Il fenomeno dell’emigrazione interessa ancora l’Italia, tanto che molti giovani si trasferiscono all’estero per lavoro o formazione. Anche le esperienze di chi lascia città e borgate della penisola in cerca di fortuna raccontano i problemi della politica nazionale. La libertà è un altro concetto importante nelle opere di Nuto Revelli, scrittore e partigiano, che ha raccontato ne “Il mondo dei vinti” gli effetti della guerra sul territorio dell’alta Langa. Per questo motivo una sezione del concorso dà voce ai detenuti italiani e stranieri che possono trovare sfogo e conforto nella creatività e nell’espressione artistica e letteraria. Lo scorso anno hanno partecipato a “Scrivere altrove” più di 300 promettenti scrittori e artisti, le cui opere sono state presentate ed esposte dopo le premiazioni. Le Istituzioni che sostengono l’organizzazione offrono riconoscimenti speciali per le scuole e i soggetti promotori di progetti a sostegno dell’immigrazione. Il 24 ottobre è in programma una serata di presentazione dell’iniziativa aperta a insegnanti e ragazzi. Tutte le informazioni sono disponibili sul sito della Fondazione Nuto Revelli Onlus. Italiani, un popolo di sfiduciati. “Mafia e corruzione? Normali” di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 19 ottobre 2018 Un questionario di Libera distribuito a 10mila persone, da Nord a Sud, svela la scarsa percezione del fenomeno. Il Procuratore nazionale De Raho: anche la politica è distratta. “La corruzione dilaga”. “Esagerato!”, dirà qualcuno. Ma a lanciare l’allarme non è un santone millenarista pazzo per l’apocalisse. È il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. Che rincara e prende di petto la politica: “È distratta, sulla mafia”. Interviste mirate - Parole pesanti come incudini. Fastidiosissime per i “distratti”. E pesate una a una alla presentazione ieri mattina del rapporto “La ricerca sulla percezione e la presenza di mafie e corruzione” voluto da Luigi Ciotti, edito dal Gruppo Abele e curato da Francesca Rispoli con la prefazione di Nando dalla Chiesa. Un dossier costruito attraverso 10.343 questionari raccolti in particolare nel Sud e 100 interviste mirate nel mondo del lavoro: da Confindustria a Confapi, da Coldiretti a Confcommercio da Confagricoltura a Confartigianato... La disaffezione dei giovani - Un campione di varia umanità culturale, professionale, geografica e imprenditoriale dove la politica emerge come “altra rispetto al proprio vissuto quotidiano”. Per capirci: “Soltanto l’11,8% dei rispondenti si ritiene politicamente impegnato, mentre il 53% dice di tenersi informato ma senza partecipare. Il restante 34% si divide tra coloro che dichiarano che la politica va lasciata a chi ne ha le competenze, che la politica non gli interessa o che genera disgusto”. Un dato che tra i giovani schizza al 53%. Il tour di don Ciotti - Obiettivo della ricerca che per mesi sarà portata in duecento tappe in giro per l’Italia fino a un approdo finale a Padova. “Uno stimolo a tenere gli occhi aperti e le coscienze sveglie”, risponde don Luigi Ciotti, “per mettere a fuoco temi centrali: la sottovalutazione della pericolosità mafiosa, l’equazione ormai fuorviante tra mafia e fatti di sangue, la sopravvivenza, entro certi contesti e limiti, del pregiudizio delle mafie come fenomeno tipico del Sud”. Il grande rischio, spiega il prete fondatore di Libera, è quello di “normalizzare la questione mafiosa, di considerare le mafie come un male in parte superato e in parte ineluttabile, come è stato fatto in altre stagioni con la droga, con l’aids e con altri problemi sociali...” Peggio: non capire “l’importanza di politiche che contrastino le disuguaglianze, le povertà, la dispersione scolastica e l’analfabetismo funzionale”. Segnali inquietanti - Risultati del dossier? “Spaventosi”, dice il presidente dell’Anac Raffaele Cantone. A colpirlo di più, racconta seduto tra don Ciotti e Gian Carlo Caselli, è il fatto che “solo il 20% dei cittadini creda che sia importante votare cittadini onesti come candidati politici” per combattere la corruzione: “Un segnale di sfiducia inquietante. C’è un rapporto diretto tra sfiducia e corruzione. Tanto più c’è sfiducia, tanto più le persone provano a trovare vie traverse”. Soprattutto nel Mezzogiorno: “C’è una sfiducia nelle istituzioni meridionali che è paurosa. Basti fare un confronto tra aree geografiche diverse: il massimo della sfiducia passa dal 10% al Nord Est al 40% al Sud”. Fenomeno globale - Sconcertanti, in particolare, alcune tabelle. Certo, il 74,9% degli italiani sentiti dalla ricerca, nonostante il 7,8% pensi che “la mafia è oggi solo letteratura” e che occorra “parlare di tante forme di criminalità” lo sa: la presenza delle mafie ormai è globale. Il 38% ne è perfettamente consapevole: “La mafia dove abito io è un fenomeno preoccupante e la sua presenza è socialmente pericolosa”. Il 22,6, però, dice che dove abita lui “è un fenomeno preoccupante ma non socialmente pericoloso”. Un altro 29,1 sostiene che nel suo territorio sia “un fenomeno marginale”. Boss più abili - Insomma, riassume il dossier, “c’è ancora difficoltà ad assumere le mafie come questione nazionale. Questa resistenza risulta preoccupante perché proviene dalle regioni che determinano l’andamento dell’economia nazionale. Ciò dovrebbe indurre a riflettere su un aspetto più generale che ha favorito il radicamento della criminalità mafiosa nel Nord: dal punto di vista economico le mafie non esistono, o meglio per inesperienza o ancora peggio per convenienza sono accettate come operatori del mercato soprattutto in contesti in cui possono movimentare flussi finanziari e garantire controllo della manodopera a prezzi competitivi. L’assenza di violenza omicida ha consentito alle mafie, perciò, di nascondersi dietro la circolazione del denaro”. Niente sangue, niente allarme: i boss si sono fatti accorti... Mafia? Corruzione? Dove? Contrasto insufficiente - L’opinione di Federico Cafiero De Raho, dicevamo, è radicalmente diversa: “Siamo in un Paese in cui la corruzione dilaga e le mafie esercitano un controllo pesante sull’economia e la politica. Ma non c’è grande attenzione da parte della politica, non sento parlare della necessità di contrastare i due fenomeni”. Anzi, pare quasi che non siano poi temi così importanti. Al punto che “sembra che siano settori di competenza solo dell’Anac, della Dna, delle Dda e di alcune associazioni come appunto Libera. Non sento parlare della necessità di contrastare mafie e corruzione. La politica pospone questi problemi a tanti altri...” E ciò nonostante “anche Bankitalia abbia detto che la zavorra economica del nostro Paese è la mafia”. La logica della mazzetta - Quanto alla mazzetta, si legge nel dossier LiberaIdee, gli italiani che la percepiscono come “molto o abbastanza diffusa” nella loro regione sono oltre il 70% “ma a colpire è soprattutto la diversificazione territoriale: quasi il 90% degli intervistati del Sud ha una visione pessimistica”. Una percentuale disperante. Che conferma, spiega Alberto Vannucci, autore dell’”Atlante della corruzione”, un sondaggio del 2017 di Eurobarometro. Assuefazione - Ancora più nero il quadro delle reazioni alla corruzione: “Chi potrebbe o dovrebbe denunciarla ha paura delle conseguenze”. Nell’80% dei casi “o ritiene corrotti anche gli interlocutori cui dovrebbe presentare la denuncia (36%), o pensa che non succederebbe nulla (32%) o ritiene la corruzione un fatto normale (23%)”. Tutti numeri che Cantone, come dicevamo, giudica amaro “spaventosi”: “Molti pensano che le regole siano un impedimento, una scocciatura e che bisogna lavorare senza lacci e laccioli... Parti da lì e poi...”. Il ruolo dell’informazione - Tra le note di consolazione, i sondaggi sulle fonti di informazione: “Dai risultati emerge che il giornalismo d’inchiesta (20,5%) è il mezzo più adeguato per conoscere i fenomeni mafiosi, seguito dalla televisione (18,3%), dal cinema (16,3%) e dalle lezioni nelle aule scolastiche e universitarie (14,9%). Solo il 6,4% usa Internet per conoscere meglio il fenomeno mafioso, percentuale che scende al 4,3% riferendosi ai social network”. Almeno sulle cose più serie è meglio stare alla larga... “La mafia non è più pericolosa. Ed è solo al Sud”. Ricerca di Libera svela i luoghi comuni di Salvo Palazzolo La Repubblica, 19 ottobre 2018 Allarme di Don Ciotti: “Sottovalutazione preoccupante. Boss evoluti, che operano con la corruzione”. “La mafia non è più fenomeno preoccupante e la sua presenza non è più socialmente pericolosa”. Un questionario di Libera distribuito a 10mila persone, da Nord a Sud, svela quanta distrazione c’è sui temi della lotta ai clan. Solo il 38 per cento degli intervistati ha consapevolezza dell’attuale pericolosità dei padrini. E, addirittura, solo l’8,5 per cento dice che la mafia esiste nel resto d’Italia. Per tutti gli altri, resta un problema delle regioni meridionali. È preoccupato don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera: “Molti sono rimasti alle stragi di Capaci e di via d’Amelio - dice - a quella Cosa nostra, a quel modo di combatterla. E soprattutto alle idee, entrambe fuorvianti, che le mafie siano una questione prevalentemente meridionale e che sono laddove c’è la strage o il fatto di sangue”. Invece, oggi le mafie sono profondamente cambiate. È questo il messaggio che don Ciotti vuole ribadire: “Le mafie si sono rese più invisibili, hanno acquisito le competenze per operare direttamente o indirettamente sul mercato. Sono mafie imprenditrici che con passo felpato, senza destare allarme, hanno penetrato e inquinato molti ambiti della vita pubblica”. La ricerca di “LiberaIdee”, presentata oggi, analizza anche la percezione del fenomeno corruzione. E qui lo scenario cambia radicalmente. Per il 70 per cento degli intervistati, le mazzette sono “molto o abbastanza” diffuse. Il 90 per cento del campione ha una visione “molto pessimistica”. Il 30 per cento dice di essersi trovato di fronte a una richiesta di tangente, piccola o grande. Al Sud, il dato sale al 40 per cento. La sfiducia è soprattutto nei confronti della politica. Don Ciotti invita a un’analisi più attenta: “La corruzione non è solo l’apripista delle mafie - dice - ma ormai il loro metodo prevalente. Nell’epoca dell’economia di mercato, con la sue rete globale e le sue tante zone oscure, le mafie hanno meno necessità di ricorrere alla violenza diretta perché ottengono coi soldi quello che prima ottenevano soprattutto con l’uso delle armi. Ci sono stati progressi, anche a livello legislativo, nella lotta alla corruzione ma le sole leggi non bastano. Questo è un male che bisogna prevenire con l’educazione, con la crescita delle coscienze”. Ed è il “risveglio delle coscienze” l’obiettivo a cui punta Libera con questa ricerca: “Il pericolo mafie è ancora molto alto - commenta don Ciotti - nonostante la diminuzione delle vittime innocenti”. Il Quirinale: “L’ordinanza anti-mendicanti è illegittima” di Massimiliano Rambaldi La Stampa, 19 ottobre 2018 “Un sindaco non può in nessun caso colpire con provvedimenti punitivi chi si limita a chiedere l’elemosina, senza molestare o infastidire nessuno”. È la motivazione espressa dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, accogliendo il ricorso straordinario proposto al Capo dello Stato da due associazioni, “Avvocato di strada” e “Karmadonne”, contro l’ordinanza del sindaco di Carmagnola, comune in provincia di Torino che aveva introdotto nel territorio comunale un divieto generico di accattonaggio. Così il Quirinale, pronunciandosi su questo caso specifico, ha voluto inviare un segnale ai sindaci italiani. Chi ha firmato ordinanze simili dovrà fare marcia indietro. Il provvedimento del sindaco Ivana Gaveglio, a capo di una coalizione di centrodestra, risale al novembre 2016. Oltre a introdurre un elenco di divieti, aveva previsto anche una multa per sanzionare “chi in silenzio e senza disturbare nessuno chiede l’elemosina”. L’ordinanza non era contro l’accattonaggio molesto, già oggi perseguibile, ma contro chiunque chiedesse la carità. Il ricorso al Presidente Mattarella è l’ultimo passo di una battaglia legale contro le disposizioni del Comune. Già nel mese di maggio il Consiglio di Stato aveva dato ragione agli oppositori dell’ordinanza. L’ultima parola spettava al Capo dello Stato, che ha recepito le stesse indicazioni. Aggiungendo che il “primo cittadino non può utilizzare per altri scopi lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente, usato solitamente per situazioni di emergenza”. L’avvocato Alessandra Ballerini, legale dei ricorrenti, spiega: “Siamo soddisfatti che venga stigmatizzato l’atteggiamento di quei sindaci che, anziché preoccuparsi di combattere la povertà nei loro Comuni, puniscono i poveri”. Angela Inglese, di Karmadonne, aggiunge: “Forse sarebbe bastato un maggiore confronto con la cittadinanza e le associazioni. Noi comunque non abbiamo nulla di personale contro questa giunta: avremmo fatto ricorso anche se ci fosse stato un altro sindaco. Quello che non ci piaceva era il principio”. Il sindaco Gaveglio, già in precedenti occasioni, difendendo la sua scelta, aveva spiegato che “con la cancellazione dell’ordinanza, a rimetterci sarebbero stati solo i cittadini”. Migranti, allarme diritti umani: “uno su due riportato in Libia” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 19 ottobre 2018 Nel 2018 la guardia costiera di Tripoli ha riportato nei centri di detenzione 14.500 persone, più di quelli approdati in Italia. Tunisia e Turchia le rotte alternative. Non era mai successo prima. Per la prima volta, nel 2018, il numero dei migranti riportati in Libia ha superato quelli che sono riusciti ad approdare in Italia. Secondo i dati forniti dalla Guardia costiera di Tripoli le persone intercettate dalle motovedette libiche dall’inizio dell’anno sono state 14.500 mentre solo 12.543 sono quelle che, sulla rotta libica, sono sbarcate in Italia, poco più della metà del numero complessivo. Il trend degli ultimi mesi ha ormai definitivamente sancito che le rotte più battute dai migranti per sbarcare sulle nostre coste indisturbati sono quella dalla Tunisia verso Lampedusa e le coste dell’Agrigentino e quella delle barche a vela dalla Turchia fino al Salento, alla Calabria, alla Sicilia orientale. Il dato, che certamente soddisfa il ministro dell’Interno Salvini, viene fornito dall’Unhcr che invece lo analizza con grande preoccupazione. “È un punto di svolta - commenta Carlotta Sami, portavoce Unhcr - riportati in Libia, paese di transito non sicuro. Se c’è un’emergenza è quella lì e nel Mediterraneo con i suoi morti”. Morti che, secondo le ultime cifre diffuse dall’Oim, l’Agenzia delle Nazioni unite per la migrazione, sono saliti a 1839, pari a una media settimanale di 45 vittime. L’Oim ha inoltre riferito che un totale di 88.736 migranti e rifugiati sono entrati in Europa via mare dall’inizio del 2018, di cui 40.598 in Spagna, diventata la principale destinazione dei flussi. Nei giorni scorsi era stato lo stesso ministro degli Esteri Moavero a definire la Libia un porto non sicuro. E dunque i respingimenti di un numero così alto di migranti che finiscono per essere nuovamente reclusi nei centri di detenzione dove le condizioni di vita sono disastrose e dove finiscono per pagare nuovamente i trafficanti per riprovare la traversata verso l’Europa preoccupano molto le Agenzie dell’Onu. Alle quali, ormai da mesi, è sempre più difficile accedere nelle carceri e liberare le persone aventi diritto allo status di rifugiati in condizione di particolare vulnerabilità, le stesse che fino a qualche mese fa venivano evacuate in Niger in attesa dei corridoi umanitari che le avrebbero portate in Europa in modo legale. E in vista del Consiglio europeo con all’ordine del giorno proprio la questione migranti, Unhce e Oim lanciano un appello congiunto ai leader affinché adottino misure urgenti per far fronte alla situazione delle morti nel mar Mediterraneo che quest’anno hanno raggiunto un tasso record. “L’attuale tenore del dibattito politico, che ci dipinge un’Europa sotto assedio, non è solo inutile, ma completamente estraneo alla realtà - ha dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati - Nonostante un calo degli arrivi, i tassi di mortalità sono in aumento. Non possiamo dimenticare che stiamo parlando di vite umane. Va bene il dibattito, ma i rifugiati e migranti non devono diventare il capro espiatorio per fini politici”. Europa. Fallisce l’ennesimo vertice su migranti, stop a proposta di Vienna di Carlo Lania Il Manifesto, 19 ottobre 2018 La solidarietà da “flessibile” diventa “obbligatoria”, ma il risultato non cambia. L’Europa non solo non vuole redistribuire quote di migranti tra gli Stati membri, ma non intende neanche partecipare alle spese sostenute dai Paesi di primo arrivo. I vertici europei sull’immigrazione assomigliano ormai a vecchi copioni già letti e quello dei capi di Stato e di governo che si è chiuso ieri a Bruxelles non fa eccezione. E come accade ormai da mesi anche questa volta l’Italia è rimasta isolata. Certo, ieri più che sulla questione migranti l’attenzione generale era concentrata sulla manovra economica di Roma, ma questo non ha impedito ai leader europei di respingere ogni tentativo, seppure minimo, di venire incontro alle richieste italiane. Anche da parte dei Paesi in teoria vicini alla Lega, a partire dall’Ungheria di Viktor Orbán con cui Matteo Salvini sogna di dar vita a un’onda lunga sovranista che lo porti fino alla guida della Commissione europea (peccato che proprio ieri Orbán per la stessa carica abbia annunciato il sostegno del suo Fidesz al capogruppo del Ppe Manfred Weber). Circostanza che non a caso è stata sottolineata dal premier lussemburghese Xavier Bettel: “Oggi si cerca di farci capire che c’è un unico fronte anti-migranti in Europa, ma Salvini e Orbán sono agli antipodi: il primo vuole solidarietà mentre il secondo non vuole proprio accogliere i migranti”, ha detto Bettel al suo arrivo al vertice. A parlare di solidarietà obbligatoria (archiviando a quanto pare l’idea di aprire campi profughi in Paesi extra Ue), è stato il premier austriaco Sebastian Kurz, al quale fino a dicembre spetta la presidenza di turno. Proposta nata con l’obiettivo di riuscire a rompere lo stallo sul regolamento di Dublino nel quale i 28 si trovano da anni, e che ricalca quella fatta nel 2016 dalla Slovacchia che prevedeva “contributi finanziari ai Paesi sotto pressione” a causa degli sbarchi. Il tutto, su base volontaria. Al contrario Vienna chiede di dar vita a un meccanismo obbligatorio che imponga agli Stati membri di aiutare con risorse finanziarie, logistiche o umane un Paese di primo ingresso in difficoltà, escludendo così definitivamente la distribuzione per quote dei migranti. Stando a quanto riferito da fonti Ue nessuno Stato si sarebbe fatto avanti per sostenere la proposta austriaca, tanto che ieri sera in molti la consideravano come già sorpassata. “Questa non è una proposta europea” ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha bollato l’idea come “un po’ troppo facile” e che soprattutto “non risolve il problema” di assicurare un’equa distribuzione dei migranti. “Potremmo ancora vedere alcuni Stati lasciati soli” a gestire gli sbarchi, ha concluso la cancelliera. Nulla di fatto anche per quanto riguarda la richiesta avanzata dal premier Conte di modificare le regole della missione europea Sophia, che prevedono lo sbarco dei migranti nei porti italiani. Viceversa in molti sono tornati all’attacco sulla questione dei movimenti secondari, vale a dire i migranti che dopo essere sbarcati si sono trasferiti in un altro Paese, in genere del Nord Europa. “Il numero dei migranti che arrivano in Olanda, Belgio, Lussemburgo, Germania e Svezia è più alto di quello di quanti giungono in Italia e Spagna”, ha detto il premier olandese Mark Rutte non nascondendo la tensione registrata al vertice sull’argomento. Migranti. Stati Uniti e America latina, doppia morale di Roberto Livi Il Manifesto, 19 ottobre 2018 I governi progressisti del continente hanno subito da decenni i costanti attacchi dagli Usa basati sulla doppia morale e amplificati dai media “più influenti”. Duemila migranti hanno passato la frontiera con bandiere e inni diretti al Nord. Verso gli Stati uniti, patria della democrazia e paese delle opportunità. Fuggono da un paese nel quale non possono più vivere a causa della povertà, della violenza, della repressione e della mancanza di democrazia. Per affrontare repressione e rischi i migranti si sono organizzati in una carovana. Trecento persone al giorno cercano di raggiungere la carovana. Circa diecimila negli ultimi mesi. Il presidente ha schierato le truppe alla frontiera per impedire l’esodo. Il leader della carovana, giornalista indipendente e ex parlamentare d’opposizione, è stato arrestato e di lui non si sa nulla. Stiamo parlando del Venezuela e della fuga “in massa” dal paese a causa della “crisi umanitaria” e della reazione del “regime dittatoriale chavista” del presidente Maduro? Ci riferiamo al “voto con i piedi” contro una dittatura che il presidente Donald Trump ha elogiato - e provocato con le sue sanzioni? Al contrario, si parla della fuga dall’Honduras dove, dopo il golpe del giugno 2009 sostenuto dall’allora segretaria di Stato Usa Hillary Clinton e finanziato dagli States, non è mai stato restaurato un governo democratico. E infatti questa volta Trump non elogia, ma minaccia in Twitter: “Niente più aiuti economici se non li riportate indietro”. Quelle (poche) migliaia di migranti “minacciano la sicurezza degli Usa”. Il presidente Juan Orlando Hernandez ha prontamente ubbidito e ha fatto arrestare - con la complicità del presidente (di destra) del Guatemala- il leader della carovana Bartolo Fuentes. Leggiamo in un giornale autorevole (El País): “Ogni giorno migliaia di persone fanno la fila alle mense popolari o nelle parrocchie per chiedere cibo. Altri frugano nei contenitori di immondizie…La situazione è peggiorata da quando…la moneta ha iniziato a perdere valore e l’inflazione a galoppare”. Anche in questo caso non si fa riferimento alla “crisi umanitaria” in Venezuela, bensì alla crisi dell’Argentina del presidente di destra e liberista Maurizio Macri. A differenza del Venezuela però non sono state decretate sanzioni punitive. Anzi il Fmi gli ha prestato 57 miliardi di dollari (la prima tranche di 17 miliardi è già sfumata in meno di un mese). La doppia morale “fai quello che io dico, non quello che io faccio” non ha frontiere. La più pericolosa - e disgustosa - è quella praticata dai governi di paesi che affermano di essere - solo loro - i veri difensori della democrazia e della libertà. E dunque il modello da seguire. Più che ipocrita questa affermazione rappresenta in se una forma di disprezzo, e spesso una forma di dominio, dei paesi che li circondano. L’America latina, soprattutto con i suoi governi progressisti, ha subito da decenni i costanti attacchi dagli Usa basati sulla doppia morale e amplificati dai “più influenti” media. Sono iniziati in Nicaragua (1934, assassinio di Sandino, il “generale di uomini liberi”) poi in Guatemala negli anni 50 (per difendere gli interessi della United Fruits) e sono proseguiti contro a Cuba rivoluzionaria. Due decade dopo in Cile (Allende) e poi fino ai nostri anni in Honduras, Brasile, Argentina, Bolivia e di nuovo Nicaragua (Ortega) e negli ultimi anni specialmente contro il Venezuela. E continuano. Dei più di 200 conflitti in America latina relazionati a attività minerarie, il 90% vede implicate imprese del Canada (misionverdad.com), che in combutta con alcuni governi provocano l’espulsione forzata di popolazioni. Almeno 207 leader indigeni e/o ambientalisti sono stati uccisi nel 2017 (Global Witness), di questi 57 nel Brasile di Temer (primo in classifica): quante denunce abbiamo letto (oltre a quelle del manifesto)? Indovinate quale sarà prossima la crisi che avrà maggio copertura televisiva: quella dell’Argentina o quella del Venezuela? Pakistan. Asia Bibi e la vita appesa a un filo nel Paese dove il peccato è reato di Luigi Manconi Corriere della Sera, 19 ottobre 2018 Atteso l’ultimo verdetto sulla donna cristiana accusata di blasfemia. Chi salverà Asia Bibi? Prima del 1986, i codici della repubblica islamica del Pakistan non avevano “leggi per punire un blasfemo” (per citare il testo di Fabrizio de Andrè tratto da Edgar Lee Masters). Ma proprio in quell’anno venne riformulata e integrata la normativa diretta a sanzionare con la pena capitale o il carcere a vita i responsabili di offese contro il Profeta Maometto o contro il Corano. Trovo meschina e un po’ deprimente la tetra competizione tra differenti contabilità di vittime. Di conseguenza, non sono affatto sicuro che, come tanti affermano, “nessuno parli dei cristiani perseguitati e trucidati nel mondo”. Innanzitutto perché di tanti, tantissimi perseguitati e trucidati nel mondo, cristiani e non, si parla poco o punto. E, ancora, perché il trattare un tema o il tacerlo dipendono da una molteplicità di fattori che raramente rispondono non dico a un progetto compiuto, ma nemmeno, necessariamente, a una strategia di censura o di auto censura (che sia imposta da una mentalità dominante o da interdizioni ideologiche o confessionali). Ma c’è una ulteriore motivazione di fatto che rende difficile, e un po’ indecente, la gerarchizzazione delle diverse forme di oppressione. Ovvero il fatto che le vittime non siano riducibili a una sola categoria, a un unico gruppo etnico, a una circoscritta minoranza religiosa. La storia del mondo ci insegna che i diritti umani sono indivisibili, ne consegue che a patire violazioni e sopraffazioni non sia mai esclusivamente un destinatario particolare. Vale sempre e ovunque: anche in Pakistan, dove le politiche di discriminazione hanno come bersaglio oltre che la minoranza cristiana, anche tutti i non musulmani (indù, sikh, parsi, bahai e ahmadi), che vengono esclusi dalle più rilevanti cariche pubbliche e funzioni istituzionali. Così i provvedimenti contro la blasfemia si sono rivelati un micidiale dispositivo di persecuzione delle anime e dei corpi, sono stati applicati in centinaia di casi e hanno portato in tribunale, e frequentemente al patibolo, cristiani, indù, sikh e tanti musulmani. Come dire che il fanatismo, quando si dispiega in tutta la sua ferocia, non guarda in faccia nessuno. Il Pakistan è uno dei trentasei paesi nei quali, tuttora, viene applicata la pena di morte. Tra le prossime esecuzioni, potrebbe esserci quella di Asia Bibi, nata quarant’anni fa, e da nove in isolamento in una cella del carcere di Multan. Nel 2009, la cristiana Asia Bibi lavora come bracciante nel villaggio di Ittanwali. In un giorno come gli altri va a riempire un catino d’acqua per sé e le compagne: la calura è tanta e mentre torna nei campi beve qualche sorso da quel recipiente. Il suo appartenere a un altro credo basta alle donne musulmane che lavorano con lei per accusarla di aver contaminato quell’acqua. Ne nasce un diverbio nel corso del quale, secondo le altre braccianti, Asia avrebbe offeso il Profeta Maometto. Da qui l’arresto e l’inizio del calvario giudiziario. L’anno successivo il tribunale del Punjab la condanna a morte per impiccagione: pena che sarà confermata nel processo d’appello del 2014 per poi essere sospesa nel 2015. Lo scorso 8 ottobre il collegio di giudici della Corte Suprema, dopo una lunga udienza, si è riservato di emettere il verdetto finale, che potrebbe arrivare tra pochi giorni. Quella di Asia Bibi è molto più di una semplice vicenda giudiziaria. E ciò non solo per la gravità del possibile esito, ma anche per la violenza dello scontro contenuto e deformato in questo caso. Com’è stato possibile che il contrasto tra alcune donne, in un campo nella provincia più remota di un paese lontano, sia diventato il simbolo e il centro stesso di un conflitto a livello mondiale, che ha coinvolto opinioni pubbliche e governi, papa Bergoglio e diplomazie internazionali? Forse la risposta si può trovare solo scavando a fondo nelle radici della tensione religiosa, ideologica e culturale che attraversa e lacera Oriente e Occidente. Intanto, in Pakistan il partito degli islamisti radicali, Tehreek e-Labbaik, minaccia “gravi conseguenze” nel caso di sentenza di assoluzione. Quali possano essere tali conseguenze si può immaginare ricordando la sorte delle persone che, negli anni scorsi, si sono espresse a favore della scarcerazione di Asia: come il governatore del Punjab, Salman Taseer, o il ministro per gli Affari delle minoranze, Shahbaz Bhatti, entrambi assassinati. Infine, in questa vicenda atrocemente paradigmatica, il tema del peccato e del reato (meglio: del peccato trasformato in reato) è rappresentato dalla blasfemia. Fattispecie tanto sottile da rischiare l’evanescenza. Eppure da tale vischiosa labilità può derivare la durezza materiale e corposa di una sequenza di esecuzioni capitali: come se un’antica e cruenta disputa teologica continuasse nei secoli a sanguinare. A paradossale conferma di ciò, e sottraendoci tuttavia a qualsiasi suggestione di indebite assimilazioni e di artificiose affinità, si può notare che in tutt’altra parte del mondo e in tutt’altra cultura la richiesta di perseguire la blasfemia e la “diffamazione di Dio” trova i suoi sostenitori. Come quei gruppi del tradizionalismo cattolico che, nel 2012, si appellarono al magistero di Benedetto XVI. L’Afghanistan va alle elezioni, stremato dalla guerra infinita di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 19 ottobre 2018 Stremato da una guerra senza fine il Paese domani torna alle urne Ma la democrazia all’occidentale non ha ridotto violenza e disparità. Ricordate le dita sporche di inchiostro viola? Le code ai seggi elettorali? Le ombre dei burqa che davano il benvenuto alla nuova democrazia afghana? Domani il Paese del Grande Gioco torna a votare, ma nessuno sembra più credere al lieto fine dell’intervento occidentale. A 17 anni dalla fuga degli integralisti con la barba, ancora nel pieno della più lunga guerra americana di sempre, queste elezioni parlamentari appaiono un rito inutile. I problemi del Paese sono altri e, semmai, più che dalla democrazia, la speranza per un futuro di pace passa da un compromesso con il giovane Iaqoub, anche lui prete-soldato, come il padre, quel mullah Omar, fondatore dei talebani morto anni fa. Tanti sono i problemi aperti. Eccone alcuni Il cimitero degli imperi - Quattro anni fa la Nato ha lasciato a esercito e polizia afghani la responsabilità della sicurezza conservando per sé il potere aereo. Da allora i talebani hanno costantemente conquistato terreno. Nel 2013 uccidevano una decina di avversari al giorno. Nel 2016 ne eliminavano 40. Da allora: top secret. Pare che oggi cadano in battaglia 60-70 “governativi” ogni 24 ore. Troppi per ammetterlo. Per questo è arrivato l’ordine di auto protezione. Invece di rischiare per difendere i civili, i soldati devono innanzitutto proteggere se stessi. L’urgenza del cambio di consegne è diventato evidente ieri a Kandahar, culla del movimento talebano. Poliziotti ammutinati hanno sparato sui colleghi durante un summit in vista delle elezioni. Ucciso il potente capo provinciale della polizia, il corrotto Abdul Raziq, il governatore civile e altri ufficiali di primissimo piano. Scampato per un soffio il generale Scott Miller a capo della missione Usa. Il risultato della ritirata governativa è però un 70% di Afghanistan dove lo Stato non esiste. Se non è una sconfitta, ci assomiglia. Garbuglio diplomatico - Ormai il Pentagono è rassegnato all’idea di una spartizione di poteri se non addirittura di territorio tra filo-occidentali e integralisti. Per aiutare le barbe più “dialoganti”, gli Usa hanno assassinato con i droni alcuni leader intransigenti con il risultato di far passare gli altri da traditori. Le speranze ora sono riposte nel figlio del mullah Omar, il mullah Iaqoub, ma il problema sono le altre potenze. L’Iran sciita, nemico naturale degli estremisti sunniti, li finanzia per ostacolare gli americani come questi fanno con gli alleati di Teheran in Yemen, Libano e Siria. La Cina, che ha un enorme problema di estremismo islamico in casa propria, finanzia i talebani per avere una leva in più nella guerra dei dazi scatenata da Donald Trump. La Russia prova ovunque a erodere l’unilateralismo americano e quindi finanzia i talebani anche se ha il terrorismo sunnita in casa. Il mullah Iaqoub e il capo ufficiale degli “studenti” mullah Haibatullah Akhdundzada sanno che con la pace finirebbe quel fiume di denaro. Gli conviene? Ricostruzione fantasma - Sconfitti i talebani e i loro ospiti di Al Qaeda in poche settimane di bombardamenti aerei nel 2001, l’Afghanistan non è riuscito a costruire un’economia alternativa alla guerra e alla droga. Gli aiuti economici non sono andati in investimenti produttivi (fabbriche, dighe, canali, miniere, centrali idroelettriche o solari), ma in aiuti funzionali al controllo militare. Per alimentare la propria macchina bellica e per sorreggere il Paese, Washington ha speso ben più di mille miliardi. La stragrande maggioranza è ritornata in America come stipendi ai soldati o fatture all’industria militare. Il 90% degli aiuti a Kabul è invece finito nell’addestramento ed equipaggiamento delle forze di sicurezza. Per dare un lavoro onesto agli afghani solo briciole. Stato fallito - Il capo della polizia di Kandahar ucciso ieri dai talebani era noto per la sua crudeltà e la sua corruzione. Il fratello dell’ex presidente Karzai, che ha comandato a Kandahar prima di lui per lunghi anni, era un trafficante di droga. Svariati vice presidenti che si sono succeduti a Kabul avrebbero invece meritato di finire sotto inchiesta per strage. L’attuale presidente Ashraf Ghani, ex Banca Mondiale, è percepito come un pupazzo di Washington. E il Parlamento che si rieleggerà domani? Conta poco, pochissimo. Il bilancio statale non dipende dalle scelte dei deputati, ma dalla volontà delle potenze straniere che vogliono impedire la vittoria dei rivali in Afghanistan.