“Più carcere non vuol dire più sicurezza” di Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 18 ottobre 2018 Intervista a Stefania Carnevale, docente di Diritto processuale penale e già Garante dei detenuti di Ferrara. “La sanzione ha l’obiettivo di far uscire persone migliori. Si pensa che le pene alternative non siano efficaci. La realtà è diversa: il reinserimento risponde all’interesse non solo del condannato ma anche della società”. Persone dentro. Persone fuori. Il carcere, percepito sovente nell’immaginario popolare come il luogo geometrico del fare giustizia, divide il dentro dal fuori, ma è un cancello che reclude e che prima o poi - nella stragrande maggioranza dei casi - è destinato a riaprirsi verso l’esterno. Quello che si fa del tempo del “dentro” diventa allora decisivo: potrebbe determinare il come si esce. Lo sa bene Stefania Carnevale, docente di Diritto processuale penale a Ferrara, per tre anni Garante dei diritti dei detenuti, che è stata invitata al Festival Kum, ad Ancona, per tenere, il prossimo 19 ottobre, una lectio magistralis sul tema “Risorgere dal carcere”. Professoressa Carnevale, partiamo da qui: come si risorge dal carcere e, soprattutto, si risorge? “Mi dà da pensare la frase di un ex detenuto con cui ho parlato in vista della lezione: “Non mi piace questo titolo, io sono vivo: ed ero vivo anche in carcere”. Il punto è proprio qui: l’esigenza sociale di giustizia non è soddisfatta quando una persona entra in carcere. Se ci limitiamo a recludere, può trovare soddisfazione forse un sentimento di rivalsa, ma la sicurezza dura per il tempo in cui chi ha commesso un reato resta lì. Mentre per sperare in una sicurezza a lungo termine occorre lavorare su ciò che si fa del tempo in cui si sconta una pena e occorre domandarsi se un sistema con il carcere al centro sia sempre la soluzione ottimale”. Lei ha fatto parte della Commissione Giostra per la riforma del sistema penitenziario. Una parte di quella riforma ha visto approvati alcuni decreti attuativi pochi giorni fa. Se la sente di fare un bilancio? “Da quel che ho capito dai testi ancora ufficiosi, direi che è stata dimezzata: sono state accolte le istanze volte a migliorare la vita detentiva e il lavoro in carcere, cosa positiva; ma è stata tagliata la parte qualificante, che puntava a valorizzare le pene alternative al carcere rendendole più convincenti, effettive, meglio controllate: la libertà personale può essere limitata in molti modi, senza per forza ricorrere alla prigione, che andrebbe applicata solo ai casi più gravi. Anche perché il carcere rende passivi, mentre le misure alternative responsabilizzano”. Il cittadino, spaventato per la criminalità, spesso identifica il carcere con la propria sicurezza. Sbaglia? “Non sono abolizionista, so che il carcere nei casi gravi di pericolosità sociale è un male necessario, ma so che c’è una distanza di visione tra chi conosce il carcere e chi lo immagina soltanto: c’è nei secondi la convinzione che l’urto emotivo della detenzione basti da solo a far uscire persone migliori. Non è così: fin dall’Ottocento sappiamo che il rischio della mera reclusione è il contagio criminale. Se non si fa un serio lavoro di rieducazione, che non può mai essere imposto (né funzionerebbe con la costrizione), il rischio è che si esca peggiorati e più “esperti”. Più che al “miglioramento” si pensa alla deterrenza. Non funziona? “Non avremo mai una statistica che ci dica quante persone sono state distolte dal crimine per timore della detenzione, ma è certo che dove ci sono pene severissime la criminalità non cala. In genere però il cittadino medio pensa che le pene alternative al carcere non siano pene, che con esse lo Stato rinunci a punire. E invece non è così. Non ci si pensa mai, ma il reinserimento sociale non è solo nell’interesse della persona condannata che ha diritto a una pena che non precluda la speranza, è anche nell’interesse della società che chiede di essere rassicurata”. Come lo spiegherebbe a un italiano diffidente? “In questo momento in Italia gli ergastolani, che comunque nella maggior parte dei casi hanno diritto a vedere riesaminata la loro posizione, sono 1.700. La maggioranza degli altri 57.500 detenuti ha una pena residua inferiore ai cinque anni: uscirà a breve. Ma intanto ha perso il lavoro e la casa in affitto e le sue relazioni si sono sfilacciate, socialmente è più a rischio di prima. Per questo si tende a non portare in carcere per pene brevi, tanto più che solo nello 0,6% dei casi (cito un dato del 2017) l’alternativa fallisce perché viene commesso un nuovo reato. A volte basta un ritardo dopo un permesso, dell’alcol o un telefonino che non si dovevano avere. Nel caso di pene lunghe io, da cittadina, mi sento più sicura se una persona esce dopo 10,15 anni, avendo sperimentato una gradazione: un permesso di qualche ora, di qualche giorno, dimostrando di saper rispettare le prescrizioni, e poi la semilibertà con l’uscita solo per il lavoro esterno, rispetto al caso di una persona che venga rimessa in libertà dopo una cattività totale in cui ha perso tutti i contatti con il mondo esterno e senza aver imparato a fare altro che ciò che faceva prima”. Ha almeno qualche ricordo di casi virtuosi? “Qualcuno: ex detenuti che ora si occupano di disabilità, che hanno studiato; uno che, una volta uscito, è stato assunto in un negozio e poi adottato dal proprietario, ma non è mai facile, anche se non bisogna mai smettere di provarci. Lo chiede la Costituzione”. Un dramma recente ha portato d’attualità il caso dei bambini “detenuti” con le madri. Che fare? “La legge stabilisce che, quando a scontare la pena sono mamme con figli sotto i tre anni, il carcere deve essere limitato a casi estremi (ora circa 60): dovrebbe essere scontata negli Icam, strutture a custodia attenuata, meno arcigne di un carcere. Ma ce ne sono poche: solo cinque in Italia. Ne servirebbe almeno una in ogni regione, anche per non sradicare i bambini dagli altri affetti, padri, fratelli, nonni”. Polveriera carceri: pronta a scoppiare di Valter Vecellio lindro.it, 18 ottobre 2018 Lo hanno trovato morto; impiccato, una cintura al collo, appeso alle sbarre della cella del carcere napoletano di Poggioreale, a Napoli. È l’ultimo “evaso” definitivo; l’ultimo carcerato di questa silenziosa, discreta “evasione” che non fa notizia, e di cui, nei “palazzi” del potere nessuno sembra prestare attenzione. Dall’inizio dell’anno sono “evasi” in questo modo almeno in 46. L’associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri ricorda come “negli ultimi giorni sono stati tre i detenuti che si sono tolti la vita in cella”: uno nell’istituto di Carinola (Caserta), dove a uccidersi è stato un detenuto al 41 bis. Uno nel carcere di Lucera (Foggia), dove si è suicidato un uomo a cui avevano tolto la patria potestà il giorno prima. Uno nel carcere di Trieste, Tarzan Selimovic, un homeless che soffriva di problemi psichici. Storia emblematica, quella di Selimovic. È in carcere per rapina, condanna con rito abbreviato a un anno e sei mesi. La “rapina” consiste nell’aver strappato di mano un cellulare ad un uomo ed essere fuggito. Dopo aver trascorso i 18 mesi si aspettava di uscire; invece, no. Resta in carcere perché la procura fa ricorso in Cassazione contro la sentenza del Giudice per l’Udienza Preliminare, e quindi i 18 mesi sono considerati di custodia cautelare. È senza fissa dimora, non c’è dunque modo di dargli i domiciliari. È convinto di aver diritto ad essere scarcerato; non sa spiegarsi bene, fa casino, qualche parola di troppo, aggredisce gli agenti. Per questo finisce in isolamento, e lì si toglie la vita. Ma in questa vicenda, chi davvero è fuori di testa? La parola ora a Rita Bernardini, del coordinamento di presidenza del Partito Radicale. Commenta a caldo le rivolte dei giorni scorsi nelle carceri di Sanremo e Genova. Un vero e proprio atto d’accusa, poco ascoltato, finora: “Se è questo ciò che Governo e Parlamento vogliono (per usare poi il pugno ancora più duro) la risposta sarà, per quel che mi riguarda, rigorosamente nonviolenta. Sia chiaro, è innanzitutto lo Stato ad essere fuorilegge e, con le sue mancate riforme, a dichiarare di voler permanere in questa situazione di totale illegalità nella quale i trattamenti inumani e degradanti (già condannati nel 2013 dalla Corte Edu) sono all’ordine del giorno, a partire da coloro che non sono curati e che muoiono in carcere. Il caso del Professor Armando Verdiglione, 74enne che in pochi giorni di detenzione ha perso oltre 25 chili è uno dei tanti esempi delle migliaia di detenuti che rischiano letteralmente la vita per mancata assistenza sanitaria e mancata possibilità di accesso alle misure alternative al carcere. L’unica ricetta proposta dal Governo è + carcere e + carceri con il preannuncio di un fantomatico piano di costruzione di nuovi istituti che, se va bene, saranno ultimati tra 10/15 anni; piano che, ancora non è dato sapere, con quali risorse verrà finanziato. Inoltre, le cifre ufficiali che fornisce il Ministero non sono veritiere in quanto il carcere di San Remo, secondo i dati diffusi sul sito www.giustizia.it al 30 settembre, non risultava tra gli istituti più sovraffollati, 270 detenuti in 238 posti regolamentari mentre la Uil-Pa ci dice oggi che i posti “legali” sono 190. Vicende istruttive e di indubbio significato. Le rivolte di Sanremo e Genova hanno immediatamente richiamato l’attenzione del ministro della Giustizia Giovanni Bonafede, e se ne è ampiamente riferito sui giornali e gli altri mezzi di comunicazione. Quando nei mesi scorsi oltre diecimila detenuti hanno scelto, quale metodo di lotta, il digiuno e la nonviolenza, chiedendo semplicemente che si rispetti le leggi che si è dato, hanno dovuto patire un’indifferenza colpevole, hanno sbattuto contro un muro del silenzio duro e impenetrabile. Da parte del ministero, e dei mezzi di comunicazione non hanno avuto un decimo dell’attenzione riservata ai “15 facinorosi” subito trasferiti perché protagonisti di disordini rubricati a “rivolta”. Dai “palazzi” della politica non si annuncia nulla di buono. Il governo passato, animato da ottime intenzioni, ci ha poi - di fatto - lastricato l’inferno: l’equilibrata riforma dell’ordinamento penitenziario non si ha avuto il coraggio di approvarla per paura di pagare ulteriore salasso elettorale; la coalizione attuale, è una sorta di gara tra Lega e Movimento 5 Stelle a chi è più “manettaro”: si muove (quando si muove) come se tutto si riducesse a un problema di spazi. E comunque lo sono: 59.275 persone sono stipate in 50.622 posti, che però non sono effettivi: almeno 5.000 risultano inagibili. Ma come dovrebbe essere di evidenza solare, le questioni giustizia e carcere sono assai più complesse e delicate: richiedono insieme doti di coraggio, audacia, prudenza, conoscenza, volontà. Tutte cose che difettano proprio in coloro che per l’incarico che ricoprono, dovrebbero avere. Ogni giorno, poi, ha la sua pena. Pena che, nel caso di Caterina Amaddeo dura da otto mesi. Da otto mesi, infatti, aspetta di sapere le circostanze che hanno portato al decesso del figlio Antonino Saladino, 31enne, avvenuto nella Casa circondariale di Arghillà. Sulla vicenda è stata aperta un’inchiesta ed è intervenuto anche il garante dei detenuti che ha scritto al ministro affinché si faccia luce su quanto accaduto. “Mi aspetto che mi diano un risultato e sapere come è morto mio figlio. Non ho avuto ancora nessuna risposta”. Arrestato per droga nell’operazione antimafia “Eracle”, condotta dai carabinieri nell’aprile dello scorso anno, Saladino era in custodia cautelare e attendeva il processo. Negli ultimi giorni aveva iniziato a stare male con febbre e vomito. “Ultimamente accusava dei disturbi ma non ha avuto nessun aiuto. Aveva dei dolori e nessuno gli ha dato la medicina adatta per potersi curare”. Le carenze nel carcere di Arghillà denunciate da tempo. È un istituto in cui oltre al sovraffollamento dei detenuti e alla carenza di organico della polizia penitenziaria, manca una copertura infermieristica per tutto il giorno, un gabinetto radiologico e il personale medico-sanitario è insufficiente. Parte da Secondigliano il viaggio “a sorpresa” di Bonafede nelle carceri di Valentina Stella Il Dubbio, 18 ottobre 2018 Il ministro visiterà anche i tribunali: “voglio toccare la realtà”. Un viaggio “senza preavviso” nei luoghi della giustizia, con visite a sorpresa nei tribunali, nelle Corti d’appello e nelle carceri: è quanto annunciato ieri dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con un video su Facebook girato durante una sosta in un autogrill, mentre era diretto verso la prima tappa del suo inedito impegno, il carcere napoletano di Secondigliano, rimasta segreta fino al suo arrivo. L’iniziativa, ha spiegato il guardasigilli, fa seguito alla sua volontà di “spalancare” già dai primi mesi di governo “le porte di via Arenula per incontrare gli addetti ai lavori e le associazioni che si occupano ogni giorno della giustizia”. Tuttavia Bonafede, che apprezza molto il fatto di trovare tutto perfettamente in ordine e ricevere un’accoglienza calorosa a ogni sua visita annunciata, ha puntualizzato che “il rispetto istituzionale non gli permetteva di calarsi nella realtà quotidiana”, di rendersi conto effettivamente di cosa accada negli uffici giudiziari e negli istituti penitenziari. “E per questo”, ha dichiarato il ministro, “ho deciso di iniziare un viaggio nella giustizia, e quindi nei luoghi più importanti, ossia Tribunali, Corti di Appello e carceri, senza dare preavviso, per toccare con mano le realtà e parlare con coloro che vi lavorano ogni giorno, per far sentire loro che la nostra attenzione non è formale ma sostanziale. Vogliamo dialogare con gli operatori per comprenderne le esigenze e lavorare tutti i giorni in modo da dare una risposta”, ha aggiunto. Al termine della visita a Secondigliano, il guardasigilli ha espresso soddisfazione per l’accoglienza non preparata: “Nonostante nessuno si aspettasse il mio arrivo, ho ricevuto una bellissima accoglienza. È una realtà complessa, con molti detenuti”, nota il ministro. E in effetti quel penitenziario ospita circa milletrecento reclusi, rispetto ad una capienza regolamentare di 1020. Bonafede ha raccontato di aver visitato la struttura, di aver parlato con la dirigenza, con gli agenti e gli operatori, con una delegazione di detenuti e con i medici: “Tutti insieme sono riusciti a costruire pratiche virtuose, importanti, e un rapporto detenuti-agenti basato su un profondo rispetto reciproco”. Tra le numerose iniziative che si svolgono all’interno del carcere partenopeo, “tutte indispensabili per un corretto percorso di riabilitazione del detenuto”, il ministro della Giustizia ha lodato il progetto che prevede, in accordo con l’università, la creazione di un vero e proprio polo studentesco realizzato in un’ala del penitenziario. L’area, perfettamente idonea allo studio, sarà accessibile anche a detenuti provenienti da altri istituti. “Tutti mi hanno confermato”, ha concluso Bonafede, “l’importanza del lavoro come momento di rieducazione e di reinserimento sociale. Ed è in questo senso che continuerò a investire. Un detenuto rieducato non tornerà a delinquere”. Il viaggio di Bonafede parte a pochi giorni dall’avvio di quello della Corte costituzionale in alcune carceri italiane, concepito per aprire sempre di più l’istituzione alla società, per diffondere e consolidare la cultura costituzionale: proprio domani il giudice Giuliano Amato sarà al minorile di Nisida, dopo l’inaugurazione dell’iniziativa a Rebibbia, seguita dall’incontro della giudice Cartabia con i reclusi di San Vittore. Il rebus delle Rems: da estrema ratio a strutture detentive e non sanitarie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 ottobre 2018 Le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza erano nate per superare gli Opg. Le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) rischiano di non essere più l’extrema ratio come la legge prevede. Troppe sono le ordinanze da parte della magistratura di sorveglianza che ricorrono alla misura di sicurezza presso queste residenze, tanto da creare le lista d’attesa per centinaia di pazienti e, una parte di loro, attendono illegalmente in carcere. Ma non solo. Le Rems, più passa il tempo, e rischiano di non bastare. C’è l’esempio della regione Toscana che l’inverno scorso annunciò un investimento di dieci milioni di euro, per costruire un nuovo edificio accanto alla Rems di Volterra. Oppure c’è il report “Osservatorio sul superamento degli Opg e sulle Rems per la tutela della salute mentale” creato dal Comitato StopOpg “dopo il successo della lunga campagna per la chiusura dei manicomi giudiziari” ed è promosso assieme ad Antigone, la storica associazione che di occupa delle garanzie nel sistema penale. Si legge nella relazione: “L’impressione ricavata nel corso della pur breve visita (anticipata da una riunione con il direttore Luciano Pozzuoli e alcuni operatori, ndr) è che il personale mantenga un buon livello di apertura e flessibilità, soprattutto rispetto all’idea di promuovere dimissioni quanto più possibile rapide, far svolgere attività esterne e considerare la Rems solo una parte del percorso”. Ciononostante “il mandato custodiale rischia di prevalere su quello sanitario” per via delle “caratteristiche strutturali decisamente restrittive (sbarre e regole) previste dalla Regione e per il ruolo svolto dalla magistratura che condiziona le stesse attività sanitarie”. Si raccomanda perciò la modifica del protocollo per la gestione delle Rems sottoscritto l’8 novembre 2017 anche da ministero della Giustizia, Procura generale e Corte d’appello di Roma. C’è infatti “il rischio - spiega l’osservatorio - che la Rems non venga considerata extrema ratio dalla magistratura e, in quanto struttura sanitaria ma detentiva, finisca come il manicomio per internare non solo pazienti psichiatrici ma persone problematiche di difficile gestione in altre strutture. Preoccupante in questo senso - conclude la relazione - la provenienza di ben 11 pazienti su 18 dal carcere”. Il problema è quindi reale. Di questo passo le Rems non sarebbero più sufficienti per tutti, ne andrebbero costruite altre e questo richiederebbe un’operazione immobiliare complicata e costosa, oltre a vanificare lo spirito della legge 81. Eppure la commissione sanità a gennaio scorso ha dedicato una lunga indagine sul superamento degli ex ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) e la realizzazione delle Rems. Il sentore del rischio che quest’ultime si potessero trasformare in mini Opg era già presente, infatti la commissione ha espressamente esortato di “favorire una cultura della residualità, dell’eccezionalità e della transitorietà del ricovero nelle Rems”. Ma è la stessa legge 81, quella che ha superato gli Opg, a considerare le Rems una extrema ratio, l’ultima delle soluzioni da prendere in considerazione e solo dopo aver vagliato misure di sicurezza non detentive. Fortunatamente, almeno il rischio sovraffollamento, per ora, è scongiurato. L’ultimo rapporto di Antigone evidenzia che “Il numero di presenze corrisponde ai posti disponibili e questo permette di sottolineare l’ammirevole “resistenza” da parte dei servizi sanitari nel non eccedere il numero massimo di posti previsto, evitando il sovraffollamento”. Il punto critico però è a monte. Da una parte c’è il maggior ricorso alle Rems da parte dei magistrati di sorveglianza, dall’altra è la mancata connessione tra la Asl e amministrazione territoriale, che comporta la mancata presa in carico del detenuto con disagio psichico. Così come avviene anche all’interno degli istituti penitenziari dove il disagio psichico è allarmante, tanto da creare forti problemi gestionali. La riforma dell’ordinamento penitenziario recentemente approvata ha tagliato fuori proprio il discorso della salute mentale che offriva un ventaglio di interventi che guardano in primo luogo alle esigenze di cura della persona, in quanto si apre alla possibilità di disporre la nuova misura di affidamento in prova a contenuto terapeutico e, qualora questa non sia possibile per mancanza dei presupposti applicativi, la detenzione domiciliare da eseguire in idoneo luogo di cura e assistenza. Nei casi in cui non fosse possibile disporre l’applicazione di una misura alternativa, si prevedeva la soluzione dell’istituto penitenziario con specifiche sezioni a gestione sanitaria. Tutto questo però è stato tagliato fuori. Noi, pastori di anime in pena di Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 18 ottobre 2018 Intervista a don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei Cappellani delle carceri. Da quando, nel 1963, una legge dello Stato ha istituito, presso il ministero, allora detto di Grazia e Giustizia, il ruolo di ispettore dei cappellani impegnati nelle carceri, molte cose sono cambiate. Il mutamento più evidente è nella popolazione carceraria: non più omogenea, nel senso di italiana e cattolica, come era cinquant’anni fa. Anche in vista del convegno nazionale “Chiesa riconciliata in carcere”, dal 22 al 24 ottobre a Montepulciano, abbiamo chiesto a don Raffaele Grimaldi, attualmente ispettore generale, di aiutarci a capire come si è evoluto il ruolo di chi svolge assistenza spirituale negli istituti di pena. Come si diventa cappellani? “Il vescovo nomina un cappellano per il carcere cui deve essere assegnato, ma poi è lo Stato a incaricarlo attraverso una serie di procedure”. E l’ispettore dei cappellani, cioè lei, invece che cosa fa? “È designato dalla Cei ed entra in funzione con decreto del ministero della Giustizia. Coordina i cappellani e le loro attività a livello nazionale, visita le carceri in tutto il Paese, incontra le persone impegnate nella pastorale penitenziaria”. Com’è cambiato il ruolo del cappellano, al mutare della società? “Non significa solo entrare in carcere, celebrare Messa, confessare. Non ci rivolgiamo più soltanto ai cattolici, abbiamo un ruolo di vicinanza. La nostra pastorale è diretta ovviamente soprattutto ai cattolici, ma il nostro impegno di solidarietà non si ritrae davanti agli altri. La maggior parte dei cappellani lavora come ponte con l’esterno: tiene contatti con le famiglie, organizza luoghi di accoglienza per ridurre lo spaesamento di chi esce dal carcere e non ha dove andare. Il nostro primo compito è essere pastori, ma la funzione si allarga in base ai bisogni, la speranza è che non serva solo a coprire i vuoti dello Stato”. Come si modula l’avvicinamento a chi non ha avuto alcuna educazione religiosa o a chi ha un’altra fede? “L’atteggiamento non è un voler convertire, si declina in una vicinanza, umana, che si traduce nell’ascolto di chi non giudica, nell’alleviare attraverso il rispetto della dignità della persona, attraverso la solidarietà morale e materiale alle famiglie, il sentimento di solitudine che chi viene recluso prova. Serve anche prudenza per non essere fraintesi”. Come ci si pone davanti a fenomeni distorsivi del sentimento religioso quali il radicalismo islamico o la religione adoperata come manifestazione di potere, che si riscontra in alcuni ambienti mafiosi? “Nel primo caso, in genere, non si entra anche per non commettere errori, ci limitiamo come con tutte le persone di altre fedi a una vicinanza umana. Per quanto riguarda il secondo esempio, la Chiesa, anche attraverso le Conferenze episcopali, sta facendo molto per arginare il fenomeno”. Che qualità deve avere un buon cappellano? “Una persona di grande umanità e ricca di Dio, di solito non è alle prime armi perché, nelle periferie esistenziali, servono maturità ed equilibrio”. Anche i cappellani hanno bisogno di aiuto in questi ambienti difficili? “Nelle carceri noi siamo ospiti, e lo dobbiamo ricordare, ma anche il cappellano ha bisogno della vicinanza al proprio pastore”. Capita di restare senza parole davanti a certi abissi dell’umano? “Accade davanti al sospetto di avere di fronte un innocente o nel caso di omicidi in famiglia; a volte serve di più una vicinanza silenziosa”. Che cosa vorrebbe dire a un cristiano tentato di invocare una giustizia che “butti via la chiave”? “Quando Francesco parla di misericordia non parla di buonismo: chi ha commesso un reato deve scontare la sua pena, ma come cristiani noi siamo chiamati a tendere la mano all’uomo”. Dove nasce il perdono. La storia di Lucia Di Mauro Montanino di A.B. giustizia.it, 18 ottobre 2018 “Mi aspettavo un mostro, ho incontrato un ragazzo”. Le vittime di reati gravi e i loro parenti invocano più carcere per i loro carnefici, senza sconti di pena o altre scorciatoie. Esiste anche un’altra strada per elaborare il dolore e sentirsi risarciti da una giustizia responsabile. È la strada della riconciliazione che ha nobili precedenti nelle “Commissioni del Sudafrica”, volute da Nelson Mandela, in una fase di superamento del conflitto. Un modello di giustizia che non vuole cancellare il debito con la società ma mettere il colpevole nella condizione di affrontarlo sostenendo lo sguardo della persona alla quale ha fatto del male. Sono ormai molte le vittime che, spontaneamente o attraverso percorsi di mediazione penale, hanno intrapreso un cammino di riconciliazione. Abbiamo incontrato alcune di loro per capire da dove nasce la scelta che può portare al perdono. Se non fosse stato per Lucia, Antonio probabilmente adesso sarebbe in carcere a Poggioreale, con una condanna lunga da scontare. Ma quella donna, che lui chiama il suo “angelo custode”, gli ha aperto la strada per trovare un lavoro in una cooperativa con sede in un’area confiscata alla mafia, che gli ha permesso di avere la libertà vigilata, di veder crescere i suoi bambini cercare di assicurare un’infanzia diversa dalla sua. Non solo, ma Lucia, dopo che Antonio è uscito, l’ha educato e guidato nella strada della legalità - come non ha fatto la sua vera madre, e continua ad aiutarlo a superare i tanti ostacoli che incontra un uomo con il suo passato. Solo che Lucia Di Mauro Montanino, come lei stessa sottolinea, non è una volontaria o una terapeuta: è la moglie della guardia giurata che Antonio e altri tre ragazzi assassinarono il 4 agosto 2009 in piazza Mercato, a Napoli, per rubargli la pistola. Antonio era il più giovane, neanche diciassette anni, rapinatore da tempo e padre da pochi giorni. Condannato a 30 anni, poi ridotti a 22, è “già” fuori dopo otto. Un caso di quelli per cui una parte dell’opinione pubblica potrebbe gridare allo scandalo, per una “libertà” arrivata troppo presto, per troppa poca galera che invece si sarebbe meritata tutta, e che è giunto all’attenzione delle cronache per il motivo opposto. Se Antonio oggi può uscire, lavorare, stare con i figli, lo deve in gran parte alla vedova dell’uomo che ha ucciso. Eppure per Lucia il dolore, la rabbia per l’ingiusta fine del marito sono stati a lungo devastanti. Poi il bisogno di confrontarsi entrando a far parte del “Coordinamento di familiari di vittime innocenti” di Napoli, dove incontra tante persone che hanno perso i loro cari per i motivi più assurdi. Da lì l’urgenza di costruire qualcosa di positivo: “Non dobbiamo abituarci al sangue sull’asfalto, come accade a Napoli - dice oggi - ma far nascere dal sangue alberi, giardini, vita”. Per anni il solo pensiero di incontrare l’assassino di suo marito la faceva star male. Antonio gliel’aveva chiesto tramite il direttore dell’istituto minorile di Nisida. Poi l’incontro è avvenuto quasi per caso, durante una marcia di “Libera” sul lungomare di Napoli cui Antonio aveva avuto il permesso di partecipare. “Rivolsi lo sguardo verso di lui. Cercavo un mostro, vidi un ragazzino - ha raccontato Lucia in un’intervista a repubblica.it di un anno fa - Non ho mai avvertito tanto dolore negli occhi di una persona. Era come un animale ferito dal male che lui stesso aveva provocato”. Antonio ha chiesto perdono e Lucia l’ha aiutato a cambiare vita, arrivando in pratica ad adottare la sua famiglia. Oggi il lavora nel bene confiscato alla mafia intitolato proprio alla sua vittima, Gaetano Montanino e “arrotonda” con qualche turno come cameriere, impiego procuratogli da uno chef che a Nisida aveva tenuto un corso di cucina. “Vorrei che il ragazzo che ha ucciso mio marito fosse l’esempio che un cambiamento è possibile” è solita dire Lucia Di Mauro ai tanti convegni in cui racconta la sua esperienza per far riflettere su un sistema di esecuzione penale che ritiene incompleto. “È vero che a questo ragazzo è stata data la possibilità di uscire dal carcere, ma senza alcun sostegno - dice. Le cooperative non sempre pagano puntualmente e Antonio si è dovuto trovare un altro lavoro saltuario. Chi affitta, poi, una casa a una persona in libertà vigilata, sapendo che potrebbero esserci controlli delle forze dell’ordine a ogni ora? Così un giovane è costretto a tornare a vivere con la famiglia spesso in ambienti ai limiti della legalità. Credo che alla giustizia manchi la concretezza. Lo Stato dovrebbe investire in attività lavorative all’esterno risparmiando costi di lunghe detenzioni e offrendo a giovani in esecuzione pena opportunità reali di reinserimento”. Presto Antonio potrà lasciare la stanza in subaffitto dove vive con la compagna e i due figli e andare a vivere in un appartamento avuto in locazione grazie a un finanziamento di Banca Etica. Una buona notizia per Lucia che si aggiunge a un’altra: la medaglia d’oro della prefettura di Napoli che riceverà tra qualche giorno. “Tutti mi chiedono cosa penserebbe Gaetano del mio impegno a favore di uno dei suoi carnefici - conclude -. Rispondo che ne sarebbe felice perché si è evitata una vittima in più. Una giustizia che pensa solo a punire non fa altro che creare nuove vittime”. Il giudice del futuro sarà l’algoritmo. L’intelligenza artificiale in aula di Francesco Grignetti La Stampa, 18 ottobre 2018 La “giustizia predittiva” consente di interpretare norme e sentenze con modelli matematici. In un libro i pregi e i difetti. Sarà un robot, chiuso in una torre elettronica a sostituire la classica torre d’avorio, il giudice del futuro? È l’intelligenza artificiale che avanza, non fantascienza. Ci sono qua e là nel mondo i primi esempi di “giustizia predittiva” affidata ai computer. E la prospettiva spaventa chi crede nel libero convincimento del giudice applicata al caso concreto. Ma tant’è. Un computer è già in grado di muoversi tra milioni di leggi e sentenze, e il giusto algoritmo è potenzialmente capace di macinare una sentenza in autonomia. Non è materia da futurologi, insomma. Di “interpretazione della legge con modelli matematici” (presentando un libro dell’avvocato Luigi Viola, Diritto Avanzato edizioni) si parlerà oggi a Roma, presso la Treccani, cioè nel tempio dell’enciclopedia italiana, tra importanti magistrati, avvocati e giuristi. Viola è sicuro che un robot salverà la giustizia, quantomeno quella civile, partendo dalle Sezioni Unite della Cassazione, e tenendo a mente l’articolo 12 delle cosiddette “preleggi”. Il discorso non può valere per la giustizia penale, dove le cosiddette clausole valoriali ((buona fede, equità, giustizia, interesse del minore, ecc.) impongono una buona dose di soggettività e di interpretazione della legge. Il diritto oggettivo Muovendosi nel perimetro più oggettivo delle sentenze civili seriali, sostiene Viola: “Se si utilizzano i medesimi dati accompagnati dalle medesime operazioni, il risultato deve essere lo stesso”. E così l’avvocato-matematico ha elaborato un algoritmo che ha già testato. Ad esempio: a chi spettano le spese di un lastrico solare in un condominio dove un condomino ha l’uso esclusivo di detto lastrico? Oppure come va decodificato l’inciso “l’azienda è un complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” nell’articolo 2555 del codice civile? O ancora: la sentenza straniera che condanna al pagamento di somme a titolo di danni punitivi è riconoscibile dall’ordinamento italiano? Erano prove tecniche di elaborazione automatica di sentenza. Ebbene, visti gli esiti del giudizio in Cassazione, l’algoritmo dell’avvocato Viola non ha tradito: i risultati sono uguali. L’algoritmo ha raggiunto le stesse conclusioni dei giudici. Quantomeno per le cause seriali, dunque, il computer potrebbe essere già in grado di elaborare una sentenza. Si consideri che da un paio di anni in Italia esiste il processo civile telematico, ossia che tutte le memorie e gli atti di una causa sono file di testo che gli avvocati postano in un fascicolo elettronico: quanto di più facile da rielaborare per un super-computer. E poi la piena intelligenza artificiale è dietro l’angolo. La prospettiva del giudice-robot atterrisce chi crede nella giustizia come diritto vivente. Stefano Schirò, presidente della Prima sezione civile di Cassazione, sostiene che è comprensibile come il ricorso all’algoritmo possa piacere a chi lamenta i tempi lunghi e l’imprevedibilità della giustizia italiana. Ma c’è un ma: “Se si considera che l’essenza del giudizio sta, da un lato, nel dubbio del giudicante, che viene superato solo attraverso il pieno e libero esplicarsi del contraddittorio tra le parti, e dall’altro nella funzione innovativa, spesso creativa di nuove tutele, della giurisprudenza, ci si può rendere conto di come la decisione della lite si alimenta di valutazioni che non possono essere soltanto il frutto di calcoli matematici”. Ben venga l’informatica, ma a supporto e non sostituendo l’uomo. Anche a Catania, qualche giorno fa, al congresso degli avvocati, si è parlato di giustizia predittiva. Era presente Guido Alpa, il maestro del premier Giuseppe Conte. Molto preoccupato di queste nuove frontiere. “Tremerei - ha detto - all’idea che un software fosse utilizzato nella VI sezione della Cassazione (che decide sulla manifesta inammissibilità dei ricorsi, ndr)”. Gli altri Paesi. I processori alla prova delle leggi Negli Usa - Nel 2013, un cittadino statunitense è stato condannato per ricettazione e resistenza a pubblico ufficiale. La condanna è stata particolarmente severa, in quanto considerato elevato il rischio di recidiva, calcolato tramite un algoritmo. Successivamente, la Corte Suprema del Wisconsin ha affermato la piena legittimità dell’utilizzo di algoritmi, finalizzati al calcolo di recidiva (tale calcolo era basato su numerose domande all’imputato, valutazione e studio del fascicolo processuale). In Francia - Oltralpe è stata lanciata una piattaforma che mira proprio a prevedere l’esito giudiziale, tramite un calcolo delle probabilità della definizione di una causa, l’ammontare dei risarcimenti ottenuti in contenziosi simili e identifica gli argomenti su cui vale la pena di insistere. Un algoritmo elaborato da Google, il SyntaxNet liberalizzato dal maggio 2016, si muove sulla base di informazioni inserite dall’utente e passando in rassegna milioni di documenti, leggi, norme e sentenze. Decreto sicurezza, rischio di crac con la vendita diretta ai privati dei beni confiscati di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2018 Le nuove norme del Dl sicurezza in materia di beni confiscati a mafia e criminalità suscitano le “perplessità” del Pg di Milano, Roberto Alfonso, e fanno dire al procuratore della Repubblica, Francesco Greco, che si è ormai di fronte a “una situazione prefallimentare”, con un sistema da ripensare dalle fondamenta consegnando “a una bad company” le ceneri dell’impianto nato 22 anni fa. L’occasione per fare il tagliando alle procedure di emersione legale dei patrimoni confiscati è stata la sigla, ieri pomeriggio in Tribunale, di un ambizioso protocollo che coinvolge una decina di organizzazioni - dalla Regione Lombardia ad Assolombarda, passando per Abi, Ordini professionali, Legacoop, Unioncamere, Confcommercio, Libera e i sindacati tra gli altri - per implementare la filiera milanese del recupero di immobili e aziende in amministrazione giudiziaria. Numeri importanti, hanno ricordato Riccardo De Corato (Regione Lombardia) - 883 procedure a Milano di cui 198 srl, 380 a Monza, 145 a Varese, 136 a Brescia - e l’assessore comunale Pierfrancesco Maiorino (174 progetti di recupero avviati, a partire dal primo social market di 5 anni fa) ma costellati di enormi problemi operativi. Problemi sottolineati dal procuratore Dda Alessandra Dolci (lavoro nero che viene rivendicato giudizialmente il giorno dopo l’assegnazione all’amministratore giudiziario), con l’ agenzia delle Entrate che chiede arretrati da 36 milioni il giorno dopo l’emersione di un’azienda (ha citato il presidente delle misure di prevenzione, Fabio Roia) e banche che contestualmente revocano il fido (Stefania Chiaruttini, commercialista). In questo panorama che richiederebbe una legislazione autonoma ed emergenziale per gestire il patrimonio faticosamente sottratto a cosche e organizzazioni criminali (talvolta di soli colletti bianchi) il colpo “fallimentare” - per citare il procuratore Greco e il Pg Alfonso - è la nuova norma che prevede la possibilità di vendita diretta a privati dei beni sotto tutela, con il rischio di un veloce ritorno di asset nel sottobosco dell’illegalità. La difesa d’ufficio di un sistema che si racconta allo stremo è venuta da Ennio Sodano, direttore dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, secondo cui “la prima cosa da resettare sono i dati: negli ultimo due anni l’Agenzia ha assegnato 7mila unità (di 30mila totali, ndr), mentre delle 2.700 aziende in carico solo 560 avevano presentato bilanci nei tre anni precedenti la confisca. Ciò significa che le altre erano semplici “cartiere”, o società di copertura o comunque società di fatto inesistenti”. Il problema resta come portare a galleggiamento nell’economia reale bar, ristoranti, discoteche e caseifici sottratti alla mala. Appena fuori dalla cerchia dei Navigli, hanno raccontato Dolci (Dda) e Roia, succede che il noto agriturismo con annesso ristorante perde istantaneamente tutti i clienti. Succede a Milano. Mafie. Gioia Tauro è Cosa Loro di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 18 ottobre 2018 Il porto è sempre stata cosa loro. Da quando si è iniziato a parlarne, a metà anni 70, i moli di Gioia Tauro sono sempre stati considerati un affare dei clan della piana. Un affare da condividere e mettere a disposizione delle cosche amiche. La storia del porto della ‘ndrangheta è intrecciata come fosse un’unica cosa con la storia criminale dei Piromalli, dei Molè, dei Bellocco, dei Pesce, degli Alvaro, che l’anno eletto a cortile di casa per i traffici di droga e di armi, ma anche per le assunzioni, per gli appalti dei servizi interni ed esterni. Solo per dare un numero secondo una relazione del 2006, gli investigatori stimano che l’80% della cocaina in Europa arrivasse dalla Colombia via Gioia Tauro. La Commissione parlamentare antimafia del 2008 ha concluso che la ‘ndrangheta controllava o influenzava “gran parte dell’attività economica intorno al porto e utilizza l’impianto come base per il traffico illegale”. La storia prima, e le inchieste successivamente, scoprirono che, oltre ad avere un ruolo nella copra vendita dei terreni e negli appalti per la sua realizzazione il clan Piromalli, guidato dal patriarca “don Mommo” aveva condizionato la gestione del nuovo terminal container fin da subito. Il porto a metà degli anni 1990, era il più grande terminale del bacino del Mediterraneo dove, nel 1998, si spostano più di 2 milioni di container. Dal 1994, quando Contship Italia affittò l’area portuale per avviare l’attività di trasbordo, arrivarono soldi veri con la creazione del Medcenter Container Terminal, grazie a 138 miliardi di lire del finanziamento statale. I Piromalli non stettero a guardare e obbligarono la società attraverso il suo presidente Enrico Ravano, a pagare un dollaro e mezzo per ogni container trasbordato. Tangenti ma non solo. Con la complicità di pezzi dello stato il porto in breve tempo è diventato uno dei porti di approdo della cocaina che la ‘ndrangheta ha sempre distribuito in mezza Europa. Grazie alla complicità di doganieri, addetti allo scarico, gruisti, comandanti e marinai, sulle banchine del porto sono stati scaricati e trasbordate tonnellate di droga proveniente dal Sud America. La più nota operazione condotta dalle forze dell’ordine italiane risale al 2004, nome in codice “Decollo”, quando i carabinieri del Ros scoprirono che dentro un carico di marmi pregiati i clan erano riusciti a far arrivare a Gioia Tauro migliaia di chili di cocaina purissima. Un trend che non è cambiato nel tempo. Così nascosti in container di legna, frutta esotica, e pesce surgelato ancora oggi continuano a transita quantità di stupefacente impressionanti. Nel 2016 sono stati scoperti e sequestrati 932 chili cocaina. Un quantitativo importante di merce “perduta” che non ha però scoraggiato i broker dei clan. Tanto è vero che l’anno successivo, tra agosto e la fine del 2017, i sequestri sono arrivati a “pesare” 2 tonnellate. Le cosche sembrano insomma inarrestabili, e il tutto sotto gli occhi di sistemi di sicurezza all’avanguardia e gestiti da diverse autorità. Dalla Dogana, alla Polizia, dagli specialisti alla Guardia Di Finanza al Container Security Initiative, degli Stati Uniti che prevede, dal 2001 controlli speciali eseguiti direttamente da personale americano. Tutto inutile, tutto inefficace forse perché come dicono gli stessi boss della piana loro “Sono il passato, il presente e il futuro” di quella zona. “Il traffico di droga è un’impresa”, il Fisco chiede 5 milioni agli spacciatori di Mara Rodella Corriere della Sera, 18 ottobre 2018 La cartella esattoriale recapitata dalla Procura di Trento (proficuo l’ asse con Brescia) a 24 indagati. L’avvocato: “Allora deduciamo i costi”. Una trentina di pagine e una premessa in grassetto: “Nel caso di specie l’attività può essere inquadrata nell’esercizio di attività, organizzate in forma d’impresa, dirette a cessione di beni al dettaglio e, come tale, soggetta all’imposizione ai fini dell’Irpef, dell’Iva e dell’Irap”. Secondo l’assunto - lo dice la legge - che “l’attività criminale organizzata in parola può essere inquadrata quale “società illecita occulta” quindi soggetto autonomo di imposta”. Gli imprenditori sono presunti trafficanti di droga: 24 indagati dalla procura di Trento, in udienza preliminare - dovrebbe concludersi a fine ottobre - per associazione a delinquere finalizzata al traffico di cocaina e hashish. Uno dei “soci”, come li definisce il Fisco, marocchino di 54 anni, vive a Brescia. Gli altri tra Bergamo, Vicenza, Trento, Ravenna, Perugia, Reggio Calabria e Rimini. Due cartelle esattoriali da oltre 5 milioni - A ognuno di loro l’Agenzia delle entrate ha recapitato due cartelle esattoriali da oltre 5 milioni di euro - riferite alla “società” tutta - affinché paghino all’erario i contributi su quanto si stima abbiano guadagnato trafficando stupefacenti nel 2015 e 2016. Nel 2015 la società criminale avrebbe movimentato 147,7 chili di hashish e 3 chili di cocaina. Il calcolo si basa quindi sul prezzo medio delle dosi vendute in base alla percentuale di principio attivo. Quindi: in merito all’hashish, “è stato appurato che il tenore medio del principio attivo è pari al 35% del peso”, che su circa 147 chili fa 51,69 kg. Considerando poi la quantità idonea per “un effetto stupefacente” come da decreto ministeriale, si ricavano 2.067.800 dosi. Il prezzo della droga ceduta ai consumatori, infine, è stato determinato applicando le percentuali di diluizione indicate in tabella dalla magistratura: 1,5 euro a dose. Stesso discorso per la cocaina, venduta (si presume) a 70 euro a dose per 24 mila dosi “consumate in frode”. Sulla base di questi parametri il Fisco calcola, per il 2015, 4.781.700 euro di proventi illeciti (3.101.700 dal traffico di hashish e 1.680.000 dalla coca) nelle casse dell’associazione a delinquere. E chiede, in totale, imposte per 3 milioni 165 mila euro sui redditi d’impresa (stimando anche un imponibile per ogni socio/indagato di quasi 200 mila euro). È andata meglio, per così dire, nel 2016. Stesse premesse e medesimi parametri di calcolo, si stimano 186,7 chili di hashish movimentati, per 2.613.800 dosi sempre da 1,50 euro l’una. Per proventi illeciti “non contabilizzati e non dichiarati” da 3.920.700 euro. Scende il reddito imponibile pro-capite: poco più di 163 mila euro. E alla fine il cumulo imposte (e sanzioni) vale 1.954.013 euro. In tutto, quindi, circa 5 milioni. Parola alla difesa: “Sarà divertente chiedere l’accertamento”. “La riflessione che impongono questo tipo di avvisi di accertamenti deriva dal fatto che nel bilancio del nostro Stato, tra le poste attive, figurano questi crediti di imposta sulle attività illecite”, commenta l’avvocato bresciano Gianbattista Scalvi, che assiste uno degli indagati. “Inviterei a pensare a cosa succederebbe se un’impresa privata introducesse tali criteri di redazione del bilancio”. A questo punto “valuteremo i riscorsi del caso anche se sarà divertente, mi conceda la battuta, chiedere l’accertamento con adesione al fine di rappresentare le ragioni del mio assistito”. E, magari, anche le spese. “Anche perché siamo in attesa dell’esito del giudizio penale. In caso di assoluzione lo faremo presente. In caso di condanna, invece, chiederemo all’Agenzia delle entrate perché non è possibile, a questo punto, dedurre i costi dell’attività”. Dubbi sui rischi per Saviano, probabile taglio alla scorta di Grazia Longo La Stampa, 18 ottobre 2018 Rimpallo tra le prefetture. Il Viminale: per ora tutto fermo. È molto probabile che Roberto Saviano si veda presto ridurre la scorta. La decisione non è ancora stata presa, tant’è che dal Viminale assicurano che “al momento non ci sono novità”. Ma il rimpallo tra una prefettura e l’altra per la “mancanza di elementi sull’esposizione a rischio” dell’autore di Gomorra conferma l’ipotesi avanzata ieri dalla testata online 24.it e rilanciata da Dagospia sull’opportunità di annullare o ridimensionare la scorta. Ai primi di luglio, infatti, il Comitato per l’ordine e la sicurezza di Roma coordinato dalla prefetta Paola Basilone, ha preso in esame la richiesta avanzata dal ministero dell’Interno sul caso Saviano. Non ha però deciso nulla, perché lo scrittore non risiede più nella capitale. E, considerato che le minacce della Camorra arrivano dal territorio di Napoli e Caserta, ha rimbalzato la questione a queste due città. L’orientamento Ma la prefetta di Napoli, Carmela Pagano, alla guida del locale Comitato per l’ordine e la sicurezza, ha restituito la palla al mittente e a Caserta. “A Napoli non esistono riscontri sui rischi per l’incolumità di Saviano” è il senso dell’orientamento che ha spinto la prefetta a destinare la soluzione della questione a Roma e a Caserta. Ma sia a Caserta, con il prefetto Raffaele Ruberto, sia nella capitale hanno soprasseduto nell’esprimere un parere dirimente. Un dato, tuttavia, appare certo: nessuno ha finora sostenuto un pericolo tale per mantenere la scorta di primo livello (la più alta) per Saviano. Anche perché con i risultati ottenuti nella battaglia contro il clan dei Casalesi e l’arresto di tutti i boss, luogotenenti e killer, lo scrittore (scortato dal 13 ottobre 2006), non corre più tanti rischi per la propria incolumità. Senza dimenticare poi che in passato si registra un precedente: già una prima relazione redatta dalla Squadra Mobile di Napoli diretta all’epoca dal vicequestore Vittorio Pisani, non evidenziava alcun allarme sicurezza. E lo scorso giugno il ministro dell’Interno Matteo Salvini dichiarò: “Saranno le istituzioni competenti a valutare se Saviano corra qualche rischio, perché mi pare che passi molto tempo all’estero. Valuteranno come si spendono i soldi degli italiani”. Immediata la replica dello scrittore napoletano: “Credi che io sia felice della mia vita blindata? Non mi fai paura. Buffone”. È dunque probabile che ora si debba restare in attesa della posizione dell’Ucis, l’Ufficio interforze per la sicurezza personale, che ha l’ultima parola in merito. Quattro sono i livelli di allerta: il primo (il più importante) prevede l’assegnazione di tre auto blindate con tre agenti per ogni auto; il secondo due auto blindate con tre agenti ciascuna, il terzo livello di allerta prevede un’auto blindata con due agenti a disposizione. Infine il quarto livello assegna un’auto non blindata e uno o due agenti di scorta. Il caso Cucchi spiegato ai miei studenti di Marco Rovelli Left, 18 ottobre 2018 “Prof, ma lei cosa pensa del caso Cucchi?”. I ragazzi oggi soffrono un vuoto di politica (nel senso più specifico del termine), ma non smettono di avere occhi per vedere quello che accade. E quando si tratta di casi singolari l’attenzione aumenta. è più facile immaginarsi di provare quel che ha provato un altro ragazzo che non proiettarsi in scenari più astratti, dove a lavorare è più la mente del cuore. Così, casi come quello di Cucchi stimolano la curiosità: com’è possibile essere vittima di chi ti dovrebbe proteggere? “Cosa sapete, voi?”, chiedo. “Lo hanno ucciso”, dice uno. È il giorno della deposizione di un carabiniere che finalmente ammette il pestaggio letale. “Cosa avreste fatto voi se aveste assistito a un fatto del genere?”. “Lo avrei detto”. Ecco, perché per anni e anni c’è stata omertà? Perché nessuno ha detto? Il nome di Aldrovandi viene richiamato per associazione, non tutti lo conoscono. Anche in quel caso solo l’ostinazione di un familiare ha avuto ragione di quei silenzi complici. Ma allora è un fatto di responsabilità individuale o ha a che fare con qualcosa di più grande, di strutturale? Racconto delle tante storie che ho ascoltato negli anni, a cominciare da quelle dei centri di detenzione per immigrati irregolari su cui scrissi un libro dodici anni fa. Quel libro aveva in esergo la dichiarazione di un ispettore di polizia, di nome Michele Pellegrino, che aveva lavorato in un centro pugliese: “Nessuno sapeva di aver vinto un concorso per fare il guardiano di un lager”, aveva detto, “Facciamo i guardiani di povera gente”. Ecco, dopo quella dichiarazione ebbe un provvedimento disciplinare. Ma per tutti i numerosi casi di pestaggi ai danni di immigrati di cui raccontavo nel libro nessuno è mai stato punito, e nemmeno perseguito. Come d’altronde nel caso delle violenze di Genova, quando i responsabili sono magari stati allontanati dalla città in cui operavano ma pure promossi. Qualcuno dei ragazzi ha visto il film Diaz, e di fronte a quella ferocia esibita c’è poco da parlare. Racconto che quella notte stavo per andare a dormire lì, e solo per un caso andai altrove. Questo richiama il fatto che in Italia non siamo mai riusciti a far passare una norma di civiltà, di responsabilità personale, come il numero di identificazione sulle divise delle forze di polizia. Quanto tutto questo ha a che fare con la storia della nostra Repubblica? Lo storico Ginsborg ha parlato di “continuità dello Stato” a proposito del passaggio tra fascismo e Repubblica, in ordine alla continuità di leggi, istituzioni e personale dell’amministrazione, compresi prefetti, questori e uomini della polizia. è un elemento utile per capire che ciò di cui stiamo parlando va inscritto in una prospettiva di lungo periodo? Stavo facendo politica, direbbe Salvini. Sì, e lo rivendico. Ma non politica in senso partitico. Faccio politica nel senso più vero del termine, nel senso aristotelico, perché nessuno vive rinchiuso nel suo orticello ma è parte di una comunità e ha precise responsabilità etiche nei confronti degli altri esseri umani. Si tratta, semplicemente, di garantire i diritti sanciti dalla Costituzione. Articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Articolo 3: “Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione (…) di condizioni personali e sociali”. Articolo 13: “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Ripartire dalla Costituzione come patto fondativo della Repubblica oggi appare più che mai necessario. Meditare insieme su quegli articoli legandoli non solo ai fatti di cronaca e di attualità, ma anche agli stessi eventi della storia passata. Riconoscere in quella carta fondativa della Repubblica dei valori e dei principi di giustizia universali, e riconoscere quanto si discostino da essi tutta una serie di pratiche politiche e sociali del presente. E poi capire, magari, che trascendono la legge stessa, in quanto frutto della volontà comune di uomini e donne che nella storia hanno agito in quanto forza collettiva per affermarli. Napoli: il ministro Bonafede effettua una visita “a sorpresa” a Secondigliano di Nico Falco Il Mattino, 18 ottobre 2018 “Qui rispetto reciproco tra agenti e detenuti”. Prima tappa, Napoli. Comincia da Secondigliano il giro del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che ieri mattina si è presentato, a sorpresa, nella casa circondariale a nord di Napoli. Il Guardasigilli ha incontrato il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, che lo ha accompagnato tra i padiglioni. E, in serata, tramite Facebook Bonafede ha annunciato che nella “Manovra del Popolo” è previsto un investimento di “500 milioni circa nella Giustizia, che permetterà assunzioni di magistrati, agenti di custodia e personale amministrativo”. Il ministro è arrivato a Secondigliano in tarda mattinata. Nel carcere napoletano, che ospita circa 1300 detenuti, si è intrattenuto con la dirigenza, gli agenti, gli operatori e i medici e ha incontrato una delegazione di 20 detenuti, che gli hanno rivolto 10 domande sulle problematiche della vita carceraria, tra rieducazione, sanità, pene alternative, sovraffollamento e impiego del tempo libero. “Nonostante nessuno si aspettasse il mio arrivo ho ricevuto una bellissima accoglienza - ha detto Bonafede - qui tutti insieme sono riusciti a costruire pratiche virtuose importanti e un rapporto detenuti- agenti basato su un profondo rispetto reciproco”. Tra le diverse attività rieducative presenti nel carcere, il ministro ha apprezzato particolarmente il progetto che porterà, in collaborazione con l’università, alla creazione di un polo studentesco che sarà alloggiato in un’ala della struttura che sarà accessibile anche a detenuti provenienti da altri penitenziari. “Tutti mi hanno confermato - ha concluso - l’importanza del lavoro come momento di rieducazione e di reinserimento sociale. Ed è in questo senso che continuerò ad investire”. “Io ero nel carcere per incontrare i detenuti quando mi hanno avvisato della visita - racconta Samuele Ciambriello - nessuno sapeva del suo arrivo. Il ministro, dopo aver parlato con il personale, ha voluto chiacchierare informalmente anche con i detenuti. C’è stato uno scambio alla pari, si sono confrontati sui tempi della Giustizia, sulla sanità, sul sovraffollamento e sulle attività da tenere in carcere. Non avvisando, il ministro ha potuto vedere una ordinaria giornata di lavoro, senza alcun filtro”. E c’è stato anche il tempo di scherzare. “Da quest’anno, in seguito all’aumento dei prezzi, il cardinale Sepe offre ai detenuti di Poggioreale e Secondigliano soltanto la visione delle partite di calcio del Napoli e non più di tutte le squadre. Così, quando un detenuto juventino ha chiesto al ministro come fare, io l’ho rassicurato: per i campani che tifano Juventus faremo una comunità di recupero”. “Nelle carceri si lamenta la penuria di figure sociali - continua Ciambriello - così ho proposto una soluzione che potrebbe funzionare: negli anni la tipologia degli agenti della Polizia Penitenziaria è cambiata, molti di loro sono altamente qualificati e potrebbero ricoprire anche il ruolo di educatori. Si potrebbe pensare a un interpello interno con quelli già assunti per avere subito a disposizione un maggiore numero di queste figure che sono essenziali per la rieducazione del detenuto. Inoltre i giudici chiedono alla Dia e alle forze dell’ordine una relazione prima di scarcerare una persona. Sarebbe più opportuno che questo parere venisse chiesto anche agli educatori presenti nell’istituto penitenziario”. Il sindacato Uspp ha rimarcato “la grave carenza di organico” sottolineando che “nelle carceri campane mancano almeno 600 agenti”. Napoli: il racconto di un detenuto “sono stato picchiato in carcere” di Matilde Andolfo Il Mattino, 18 ottobre 2018 Dopo i recenti risvolti sul caso Cucchi, in seguito alla confessione del carabiniere Francesco Tedesco che ha accusato i suoi colleghi del pestaggio del giovane geometra, una detenuto per il momento rimasto anonimo ha trovato il coraggio di raccontare una storia terribilmente analoga. La testimonianza è stata raccolta dalla giornalista Matilde Andolfo, che l’ha pubblicata sul suo profilo Facebook facendola diventare virale in poco tempo. Ecco il testo integrale, tratto da una storia vera. “È buio e fa freddo. Ma non è il gelo a farmi tremare. Aspetto, insieme a tanti altri, il mio turno appoggiato alla parete di un lungo corridoio. La porta si apre e dalla stanza esce un ragazzo. Ci avviciniamo, mettendoci intorno a lui fino a fare un capannello. Ognuno gli chiede come comportarsi una volta dentro. No, non stiamo a scuola. Siamo nel carcere di Poggioreale a Napoli, nella casa circondariale intitolata a Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere barbaramente assassinato dalla Nco di Cutolo nel 1981. È la mia prima volta. E aspetto che mi vengano assegnati padiglione e cella. Ho sbagliato e sono pronto a pagare, mai come adesso mi sento un coglione. Mi manca mia moglie, mi manca mia figlia. Il ragazzo ci fa le sue raccomandazioni: “Bussate prima e poi con garbo chiedete di entrare. Ah, un’ultima cosa guagliù. Non vi mettete dietro alla scrivania. State lontano qualche metro e con le mani dietro la schiena”. Mi tremano le mani, le nocche sono quasi sulla porta. “È permesso, posso entrare?”. Dall’interno una voce mi dice di venire avanti. Sono in una stanza enorme e anonima. Ripasso nella mente quello che mi ha detto il ragazzo. Mi metto lontano dalla scrivania, con le mani dietro la schiena. Le pareti sono bianche e liscissime, le luci al neon quasi mi accecano. In un lato della stanza tre, forse quatto guardie carcerarie in divisa chiacchierano tra di loro. Sembra che nessuno mi abbia visto. Sono invisibile. Uno, due, tre... cinque minuti. Continuano a ignorarmi. È allora che timidamente faccio un passo in avanti e quasi sussurrando, dico: “scusi...”. Dall’altro lato uno degli agenti mi dà l’ordine: “Spuogliete!”. Resto sorpreso. Forse ho capito male: “Cosa devo fare?”- chiedo. E quello più corpulento ribadisce: “T’agg’ ditt’ spuogliete”. Poi si volta di spalle e continua a parlare con gli altri come se nulla fosse. Io allora comincio a spogliarmi. Via la maglia. Via i pantaloni. Tremo come una foglia. Resto in mutande per non so quanti minuti. Mi sembrano passate ore. Ad un tratto dico ad alta voce che mi sono spogliato. È sempre la stessa guardia carceraria a rispondermi: “allora nun’ hai capit? Ti à levà tutt’ cos’. Pur’ a mutand’”. Poi ricomincia a parlare con gli altri. Adesso sono completamente nudo. Provo una vergogna tremenda, mi dico che ho sbagliato e che quindi così vanno trattati i detenuti. Ma perché continuano a ignorarmi? Per la terza volta cerco la loro attenzione: “brigadiè c’aggia fa?”. Non finisco neanche di completare la frase che quello che mi aveva ordinato di spogliarmi nudo si gira di scatto. Mi guarda come inorridito e comincia a urlare: “Ma c’hai fatt’? Chi t’ha ditt’ è t’e spuglià?”. Adesso mi sembra incazzato. Si rivolge alle altre guardie carcerarie: “colleghi avite vist’ a chist’? C’ha mis’ o’ pesc’ n’ faccia”. Faccio per replicare : “Brigadié ma voi me lo avete detto!”. Era meglio se fossi stato zitto. La sua rabbia è diventata odio. È tutto rosso in viso, mi guarda con una ferocia mai vista in vita mia: “Io? Ma quann maje t’agg’ ditt’ e te spuglià? Ma comm’ te venut’ ‘n cap’?”. Si avvicina e mi sferra un pugno in pieno viso. È l’incipit di un rito di iniziazione. Al primo pugno seguono schiaffi, calci e botte. Botte da orbi che mi fanno rimpiangere di essere ancora vivo. Un’ora di violenze, sevizie e torture: sono stordito e non c’è punto del corpo che non mi faccia male. Capisco che nessuna regola di comportamento sarebbe valsa a trattenerli. Il battesimo del carcere è uguale per tutti. Quando entro in cella ho il volto tumefatto e sono completamente ricoperto di sangue. Il mio compagno di cella quando mi vede ha un conato di vomito. Io, io faccio appena in tempo a stendermi sulla branda. Un respiro e poi svengo. “Ti conviene stare zitto”- mi dicono le guardie prima di abbandonarmi. Capisco allora che dentro quel carcere lo Stato italiano non esiste più. Non sgarrare, non parlare, non fare commenti su nulla, non ridere, non piangere. E soprattutto, non guardare mai dritto negli occhi una guardia carceraria. È un segno di sfida intollerabile per il codice carcerario. Lascio nel “pacchetto” degli effetti personali la corona del rosario, il portafogli, documenti, santini e portafortuna. Cuore e sentimenti. La mia identità. La paura delle botte mi ha fatto ritornare bambino. Passano le settimane, i Mesi. Lunghi, lunghissimi. La prima volta che varchi l’ingresso di Poggioreale non te la scordi più. Il rumore delle chiavi, quel cigolio insopportabile del ferro e delle mandate date con sapienza dalla guardia carceraria. Sbam! Sbam! Sbam! Sbam! Le chiavi aprono una prima porta ferrata. Attraversiamo un corridoio che sembra un tunnel. In fondo ad aspettarci c’è un’altra guardia. Altre chiavi chiudono la seconda porta. Altro corridoio e altra porta. Ormai non le conto più. Ma la sensazione è quella di un viaggio di non ritorno, in un luogo che assomiglia sempre più alle tenebre. Cerco di non commettere errori, di non cadere. Ho sempre freddo. Mi piace avere freddo perché così maschero la paura e il terrore che mi accompagna da mattina a sera. Il rumore insopportabile e continuo dei passi delle guardie, l’occhio della sentinella che occupa tutto lo spioncino che dà sulla cella. Siamo controllati 24 ore al giorno. Temono che qualcuno decida di farla finita, magari impiccandosi. La mia cella non ha nulla di ospitale. Ma ormai è la mia casa e con alcuni detenuti ho instaurato un buon rapporto. Ci capiamo. C’è solidarietà. Certo continuano a mancarmi mia moglie, mia figlia. È la mia vita. L’ho scelta io. È giusto che sia così. È giusto che paghi. È giusto sapere che chi sbaglia paga. Così ci si pensa due volte prima di commettere reati. Ed è giusto che mi manchi mia moglie. Più mi manca e più comprendo che non ne vale la pena. Che quella cazzata non era poi una cazzata perché mi ha condannato e privato della libertà. Sembra di stare in un obitorio. E certo la vita l’ho lasciata fuori di qui. I padiglioni di Poggioreale assomigliano ai gironi danteschi: “se non fai il bravo, ti mettiamo nella cella con gli immigrati assassini” - mi dicono le guardie carcerarie, i miei aguzzini. Una sera che il profumo di casa mi entrava fin dentro le narici e la nostalgia mi era insopportabile volli cucinarmi degli spaghetti alla puveriello. Mi mancavano le uova però. Chiesi allora al detenuto della cella accanto se le avesse. Non l’avessi mai fatto. Nascosto nello spazio tra due celle, c’era la guardia carceraria. “Che stai facenn ?”- mi urlò sguaiatamente. Provai a difendermi, ma già avevo capito come sarebbe proseguita la serata. L’agente apri la gabbia e mi trascinò fuori. Gridava, sbraitava. Come avevo osato chiedere qualcosa a un altro detenuto? Non deve esserci alcuna amicizia tra detenuti. Mi disse che mi avrebbe dato una lezione che mai più avrei dimenticato. Fui trascinato giù per le scale e scaraventato in una stanza buia. Sono a terra. Sento sotto il mio corpo il gelo del pavimento. È un attimo e realizzo che sì, la famigerata “cella zero” esiste davvero. Adesso la vista si è abituata al buio. Nella stanza c’è qualcun altro. La guardia ha chiamato i rinforzi. Uno, due... non ricordo. Ricordo però benissimo, nella penombra della cella rischiarata dalla luna il profilo di una mazza di legno chiaro. Il cuore batte all’impazzata. Non ho neanche il tempo di emettere un suono che già mi sono addosso. I primi colpi sono terribili e mi procurano un dolore lancinante. Poi la mia mente anestetizza il dolore. Fino a quando uno dei due non mi picchia così forte che quella mazza si spezza in due sulla mia schiena. Ecco, immaginate il dolore di una mazza di legno che si spezza sulla schiena di uno che pesa appena 55 chili. Ho paura, ho una paura folle. Stanno per prendere un’altra mazza. Oddio penso, non hanno smesso. Chissà se ce la farò a sopportare? Forse vogliono uccidermi. Penso a mia moglie, alla mia piccola che non conoscerà mai suo padre. Si stanno per avventare quando improvvisamente arretrano. Non riesco a spiegarmelo. Sento uno dei due che dice: “Ferniscela, o guaglion’ s’ è cacat’ sott”. Adesso la sento anche io, una puzza tremenda che invade la stanza. Mi sollevano di peso e mi riportano nella mia cella. Sono sulla branda. Sono una piaga umana. Ma per fortuna sono ancora vivo. Con la mano destra riesco a toccarmi dietro. Mi guardo le mani. Non puzzano e non sono sporche. Abbozzo un sorriso. Un peto, mi ha salvato un peto. Sorrido, nonostante tutto, perché mi rendo conto di essere stato fortunato. Perché quella sera, se avessero continuato, sarei sicuramente morto. L’ho imparata, l’ho imparata la mia lezione. Alla fine il bilancio è tutto in negativo per me. In quella cella ho lasciato tante cose. I miei capelli ad esempio. Ne cadevano a migliaia. Ogni mattina me li ritrovavo sparpagliati sul cuscino. La dignità, quella l’ho recuperata un po’ per volta anche se ancora oggi mi sembra sempre di dover chiedere scusa a chiunque. Mi sento come se portassi addosso il marchio che si imprime alle bestie. Ma quello che più mi fa male è aver perso per sempre, insieme ai miei sogni di ragazzo, la mia libertà. La libertà di sentirmi libero e felice. Lasciata in quel “pacchetto” di cose che si mettono da parte prima di varcare quella soglia nera”. Sala Consilina (Sa): il Dap non decide sulla riapertura del carcere di Antonietta Nicodemo 105tv.it, 18 ottobre 2018 Si è tenuto a Roma la conferenza dei servizi sul progetto di ampliamento e ristrutturazione del carcere di Sala Consilina, richiesto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nell’ambito dell’ampia discussione in corso tra governo nazionale e locale per una eventuale riapertura della casa circondariale chiusa dal 2015 con un decreto dell’allora Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il progetto presentato prevede l’ampliamento dell’edificio fino ad accogliere 51 detenuti, un numero inferiore rispetto ai 100 che insistono a chiedere i rappresentanti del Dap sulla base di linee guida nazionali. Della delegazione salese che ha preso parte ai lavori facevano parte tra gli altri il Sindaco Cavallone, il senatore del Movimento cinque Stelle Franco Castiello e il presidente dell’ordine degli avvocati di Sala Consilina-Lagonegro Gherardo Cappelli. I loro interventi sono serviti a chiarire l’utilità della struttura per l’intero territorio che si estende a Sud di Salerno ed anche le illegittimità commesse per chiuderlo. Il progetto di ampliamento proposto alla conferenza dei servizi pare non abbia ottenuto per il momento il via libera e comunque dovrà passare al vaglio del Ministro della Giustizia. L’obiettivo è di far revocare il decreto di soppressione del carcere ed farne emettere uno nuovo per la sua riapertura. Il Sindaco Cavallone e il senatore Castiello si sono riservati di rilasciare dichiarazioni, in merito alla riunione a Roma, in una conferenza stampa che è stata indetta per venerdì prossimo alle 12 nell’aula consiliare del Comune di Sala Consilina. Fino ad allora, è facile immaginare che si cercherà di trattare con il guardasigilli per convincerlo a riaprire il penitenziario. È evidente che si tratta di una pratica puramente politica. Quella del 2015 decise di sopprimerlo e la stessa oggi deve decidere se riaprirlo. “Il Ministro del nuovo governo deve dirci cosa vuole fare del nostro penitenziario - afferma il presidente dell’Unione dei giuristi cattolici italiani Angelo Paladino - oggi ci aspettavamo il decreto per la sua riapertura così come garantito dal movimento cinque stelle in campagna elettorale e invece ci tocca ancora attendere. E non si sa cosa”. La sensazione è che il penitenziario continuerà a rimanere chiuso. Venerdì il verdetto. Roma: l’arte entra in carcere per restituire speranza di Valentina Stella Il Dubbio, 18 ottobre 2018 Parte oggi da Rebibbia “Liberi nell’arte” che si concluderà il 25 ottobre a Paliano. Entra nel vivo il progetto “Liberi nell’arte” - gocce di prossimità e arte nel carcere, promosso da Ucsi - Unione Cattolica Stampa Italiana del Molise, in collaborazione con Vatican News, ministero della Giustizia e Ispettorato Generale dei Cappellani, che ha come obiettivo quello di favorire la cultura del reinserimento. “Un itinerario artistico e culturale - scrivono gli organizzatori - pensato in occasione del Sinodo dei giovani, per far conoscere loro la realtà periferica del disagio”. Si parte il 18 ottobre con la proiezione di “Michelangelo Infinito” al carcere femminile di Rebibbia, a cura di Sky e che vedrà la partecipazione dell’attore Enrico Lo Verso che interpreta la figura di Michelangelo, nonché quella del direttore artistico Cosetta Lagani. A introdurre i lavori il giornalista di Vatican News, Davide Dionisi. Il 19 ottobre, invece, una delle “esperienze artistiche” più visitate di Roma, con le voci di Pierfrancesco Favino e le musiche di Sting, andrà in scena nel carcere minorile di Casal del Marmo, dove si terrà l’incontro-spettacolo con la compagnia “Giudizio universale - Michelangelo and Secrets of the Sistine Chapel”. Evento centrale del progetto sarà poi il concerto musicale a Regina Coeli il prossimo 20 ottobre, nello spazio panottico, dove si terrà uno spettacolo di musica vocale live. Infine, il 25 ottobre la proiezione del film “Caravaggio” alla casa di reclusione di Paliano (Frosinone), con la partecipazione dell’interprete del film Emanuele Marigliano, del direttore artistico Cosetta Lagani e del regista Jesus Garces Lambert. “Il percorso d’arte proposto - continuano gli organizzatori - coinvolge la persona, fa vivere emozioni, le umanizza, la reinserisce, non la giudica, ma l’accoglie come nell’esperienza del Buon Samaritano perché, in sintonia con il monito lanciato più volte da Papa Francesco, “nessuna pena sia senza speranza”. Quella stessa speranza che, grazie a “Liberi nell’Arte” si concretizza nelle cosiddette Opere Segno: 3 borse lavoro e 2 borse di studio, finalizzate al reinserimento sociale e culturale dei detenuti, messe a disposizione dai prestigiosi partner del progetto”. Durante i primi due incontri saranno, infatti, presentate la borsa lavoro in favore di una detenuta del carcere di Rebibbia istituita da La Molisana, nonché le due borse di studio, per detenuti minorenni, messe a disposizione dallo studio legale Di Pardo insieme con la rivista Monitor Ecclesiasticus. Rovigo: il Centro francescano di ascolto celebra 30 anni di aiuto agli altri di Francesco Campi Il Gazzettino, 18 ottobre 2018 Oggi il convegno con don Luigi Ciotti e Gherardo Colombo. Oggi pomeriggio il Centro francescano di ascolto festeggia il suo trentesimo compleanno con un convegno celebrativo dal titolo Trent’anni controcorrente, nel Salone del grano della Camera di commercio, a partire dalle 17.30, al quale parteciperanno, a fianco dal fondatore dell’associazione, Livio Ferrari, quelli che definisce “due compagni di viaggio significativi”, ossia don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera, e l’ex magistrato e divulgatore di legalità Gherardo Colombo. Difficile condensare tutta l’attività: incontri nei luoghi della sofferenza, carceri, ospedali, comunità, scuole e strada, con servizi di ascolto, in carcere e per i senza dimora, laboratori di studio e sportelli per le vittime della tratta, per i minori autori di reato, senza contare ricerche, convegni, corsi di formazione e tavoli di confronto. Il fondatore parla di “trent’anni a tenere aperta una porta, non lasciando alcunché di intentato nei confronti di vite che hanno già avuto troppi fallimenti e delusioni. Trent’anni con tante domande, perché è un tempo importante, una fetta della vita trascorsa nell’incontro con il dolore e la fatica delle persone. Diventa naturale, a questo punto, chiedersi se ha avuto senso e soprattutto se è servito. Abbiamo iniziato alla fine degli anni 80 in un’Italia dove stavano sempre più nascendo realtà di impegno sociale e volontario, con un riconoscimento anche da parte dello Stato, nel 1991, con la legge 266. Alziamo gli occhi ora su un Paese devastato dai conflitti, dentro a contrapposizioni alimentate dalla peggior politica, dove sono state azzerate molte conquiste sociali, compresa la legge sul volontariato, e vengono quotidianamente calpestati i diritti dei più fragili”. La critica non è solo verso l’esterno. “Non possiamo nascondere anche i nostri fallimenti - nota Ferrari - che ci sono stati, però ci sono serviti a mantenere il nostro spirito francescano, che è quello dell’umiltà e della povertà”. Tuttavia il cruccio, vista la situazione attuale, sembra un altro. “Viene il dubbio di non aver coltivato e promosso abbastanza una cultura dell’abbraccio, del rispetto, della legalità, della giustizia, della condivisione. Ci interroghiamo per capire se il nostro operare non abbia, in parte, prestato il fianco a una costante deresponsabilizzazione, sia pubblica che privata, e perciò, inconsapevolmente, non abbiamo tenuto abbastanza alta la guardia nei confronti delle idee separatiste che si sono sedimentate nei nostri territori, e del ritorno a ideologie nefaste e disumane del passato che trovano proseliti nella frange più giovani e cresciute online, con quella cultura da strapazzo che un tempo aveva vita facile nei bar di paese e adesso spopola sui social”. Lo spirito, quindi, è battagliero: il Centro francescano d’ascolto è pronto ad affrontare altri anni di sfide a fianco degli ultimi. Sondrio: maglia di Totti “all’asta”, al triangolare di beneficenza anche i detenuti di D. Luc. La Provincia di Sondrio, 18 ottobre 2018 Calcio e raccolta fondi: sabato l’iniziativa sportiva che vedrà coinvolti studenti, forze dell’ordine, detenuti e amministratori. Raccogliere fondi da devolvere ad Anffas Sondrio attraverso lo sport che diventa strumento di inclusione. In sintesi questo il fine del “Triangolare di beneficenza”, che vedrà sabato 20 ottobre alle 14 scendere sulla superficie di gioco di via Gramsci alcuni studenti, rappresentanti dell’Ufficio scolastico territoriale (Ust - ex-provveditorato), delle forze dell’ordine, alcuni ospiti della casa circondariale di via Caimi, giocatori della Nazionale italiana sindaci e diverse autorità. Per contribuire alla raccolta fondi sarà messa all’asta anche una maglietta di capitan Totti con una sua foto autografata. Scaturita dal tavolo di lavoro “Sport e inclusione” istituito dall’Ust, di cui è referente Lorenzo Costa, l’iniziativa è stata presentata dal dirigente Fabio Molinari che ha ringraziato tutti quelli che hanno contribuito. “Un evento, che nei nostri auspici vuole essere un momento di festa, dove l’importante non è chi vince, ma chi dona un po’ del proprio tempo alla causa” ha sottolineato Molinari, rimarcando il ruolo fondamentale di Anffas, al fianco di persone con disabilità e delle loro famiglie, “persone che hanno tutto il diritto di essere pienamente integrate nella società. Prendersi cura dell’altro è importante: ci fa sentire meglio”. “La manifestazione ha una duplice finalità: oltre alla raccolta fondi per Anffas, intende rappresentare lo sport come simbolo di inclusione, rispetto delle regole e spirito di sacrificio, a cui l’Arma dei carabinieri ha sempre dato il proprio sostegno - le parole del tenente colonnello Emanuele De Ciuceis, comandante provinciale dei carabinieri. Contiamo su un pubblico numeroso”. “Unire lo sport alla solidarietà è sempre un binomio vincente”, la sottolineatura di Michele Rigamonti, imprenditore che siede al tavolo di lavoro, mentre Carlo De Bortoli, luogotenente dei carabinieri nonché rappresentante Anffas, ha ricordato quanto sia importante “raccogliere risorse sempre utili ed importanti per i nostri bambini” e per per il centro per l’autismo, che Anffas ha a Mossini. “Credo molto nel valore educativo dello sport ed è certo, solo se si ricorda che il mio primo interesse per l’istituto fu, tre anni fa, il rifacimento della palestra, luogo di incontro e di formazione - il messaggio inviato da Stefania Mussio, direttore del carcere. Tante attività abbiamo svolto da allora e oggi anche il Coni è presente con i suoi operatori. Preziosa è questa iniziativa, a cui prenderanno parte 13 persone, anche imputati, che hanno ottenuto “il permesso” di partecipare”. “Un torneo che nasce con questo spirito è piuttosto emblematico della potenza, che ha lo sport come strumento di socializzazione attraverso il quale educare” ha concluso Michele Diasio, assessore comunale allo Sport. Sulla mia pelle. Il film sul caso Cucchi di Davide Galliani* Ristretti Orizzonti, 18 ottobre 2018 1. Sulla mia pelle - di Alessio Cremonini, con Alessandro Borghi nei panni di Stefano Cucchi, Jasmine Trinca in quelli della sorella Ilaria, Max Tortora in quelli del padre e Milvia Marigliano in quelli della madre - non è la storia di Stefano Cucchi. La bellezza del film sta nella capacità di veicolare diversi messaggi, che riguardano differenti questioni. Ancora di più, il film è straordinario poiché, ai miei occhi, impone di riflettere su cosa siamo diventati. 2. Quando Stefano Cucchi viene picchiato, la porta si chiude. Allo spettatore non rimane altro che immaginare. Certo, vediamo i lividi sulla faccia, gli ematomi sulla schiena. Ma il film non vuole raccontare la violenza in sé. Vuole fare comprendere come sia stato possibile che dopo quella violenza un ragazzo sia stato lasciato solo. Il problema sono sicuramente i pestaggi, ma la grandezza del film è quella di farci riflettere su quanti avrebbero potuto evitarne la morte e non hanno fatto nulla. Stefano è sicuramente morto per via del pestaggio (se nessuno l’avesse picchiato, sarebbe ancora vivo), tuttavia l’ingranaggio nel quale è stato inserito dopo l’arresto e il pestaggio ha il sapore della banalità del male. Anzi, della violenza della indifferenza. È come se tutto fosse già scritto. È come se non ci potevano essere altri finali. Tutto scorre, inesorabile, senza che nessuno abbia fatto quello che andava fatto. 3. Il giudice, che celere convalida l’arresto, disponendo la custodia in carcere, quasi nemmeno guardando in faccia Stefano. Il pubblico ministero, che non ha alcuna domanda da fare. Anche l’avvocato d’ufficio non sembra più di tanto insistere. E poi gli altri carabinieri, la polizia penitenziaria, i medici, gli infermieri, gli educatori. Sarebbe bastato un piccolo gesto, piccolo ma doveroso, per cambiare le sorti della vita di Stefano. Nessuno di chi ha visto Stefano dopo il pestaggio ha mai veramente creduto alla caduta dalle scale. Eppure nessuno ha fatto niente. E Stefano è morto solo come un cane. Questo mi sembra il primo segnale che il film vuole inviare. Vero che lancia altri e diversi messaggi: la madre pensava che in fondo una notte di galera poteva fare bene al figlio, il padre inizialmente pensa che siano stati altri detenuti a fare del male al figlio, i problemi che Stefano aveva con i servizi sociali; e poi ancora la spietata procedura per (non) far vedere ai genitori il figlio ricoverato, la insistente e giusta sottolineatura della differenza tra il consumo personale (colpevole!) e lo spaccio (innocente!), fino al diritto di poter conferire con il proprio avvocato di fiducia. Non di meno, dal mio punto di vista, la somma di tutti questi temi è la seguente: se Stefano Cucchi è morto la colpa è anche del nostro modo di vivere, dove alla passione per i nostri mestieri si è sostituita la monotonia e la ripetitività. Facciamo quello che facciamo come faremmo mille altre cose. Dobbiamo uscire da questo meccanismo. Lo dobbiamo fare prendendo come esempio i moltissimi, anzi la stragrande maggioranza, che continuano a credere nel mestiere che svolgono, nel quale ci mettono impegno, passione, professionalità, dedizione. I giudici, i pubblici ministeri, gli avvocati, i carabinieri, la polizia penitenziaria, i medici, gli infermieri, gli educatori: nella stragrande maggioranza dei casi, possiamo invidiarne e copiarne la passione che mettono nel loro mestiere. Però, quando ci troviamo di fronte a qualcosa che non torna, che non riteniamo umano, ecco non dobbiamo stare in silenzio. Questo insegna il film: basterebbe poco, non girarsi dall’altra parte. 4. Anche il titolo scelto Sulla mia pelle è particolarmente azzeccato. Di primo istinto, rimanda al corpo, al fisico, alla pelle di Stefano. Se però ci riflettiamo, quello che il titolo significa e quello che il film vuole comunicare è che quanto successo a Stefano potrebbe accadere a qualsiasi di noi, sulla nostra pelle. Chi scrive conosce bene la realtà del carcere. Una delle cose che ho imparato è questa: quando vai in carcere e discuti con i detenuti, rimani sbalordito dal fatto che al posto loro ci potevi essere tu. Ovvio, non al posto di ognuno, ma la mia sensazione è che in carcere trovi persone normalissime, che non sono efferati e crudeli criminali, ma persone che hanno violato delle leggi senza senso. Persone che le nostre leggi sbattono in carcere, vogliono in carcere punto e basta. Se questo è il carcere e se queste sono le persone che popolano i penitenziari italiani, allora significa che la probabilità che ciascuno di noi finisca in carcere è molto alta. A questo punto, l’ingranaggio che si mette in moto è esattamente quello che ha condotto Stefano a morire. Si susseguono operazioni e comportamenti uno dietro l’altro, come se fossero una catena che va avanti così da tempo, un susseguirsi di interventi meccanici, burocratici. Ci sono certamente oasi di umanità. Ma tali rimangono. Tutto procede secondo un copione immutabile, predefinito. Una dimostrazione? Sono oramai decenni che nelle carceri italiane si suicida un detenuto alla settimana. Quasi sempre si tratta di persone che sono proprio all’inizio della detenzione. Sono persone che accusano talmente l’assenza di umanità che percorrono l’estremo gesto, farla finita. E quante volte nel film si sente dire a Stefano di lasciarlo stare, di lasciarlo dormire. Ogni tanto la voce di un compagno di ricovero lo conforta, ma non lo vede, lo può solo sentire. Ogni tanto Stefano sembra prendere coraggio, vuole dire cosa gli è successo. Ma è solo, tremendamente isolato dal mondo, raggomitolato in quel letto del Pertini. Più che incapace di farsi sentire, incapaci noi tutti di vederlo per quello che era. Un ragazzo che stava morendo. 5. È quello che ci sta succedendo. Stiamo costruendo una società nella quale ci sono gli amici e ci sono i nemici. Che poi i nemici siano i tossici, gli sbirri, i neri, gli zingari non fa alcuna differenza. Esiste un noi ed esiste un loro. E Stefano Cucchi era uno di loro. Sulla mia pelle sta proprio lì a ricordarci che non esiste un noi e un loro. 6. La politica, infine. Dico infine consapevole che in realtà non è l’ultimo argomento, semmai il primo. Nessun politico ha personalmente ucciso Stefano Cucchi. Ma se vogliamo davvero vivere in una democrazia compiuta, la prima cosa da fare è essere consapevoli delle responsabilità individuali che abbiamo. Le leggi sbattono in carcere le persone perché sono approvate da politici che noi tutti eleggiamo. Il carcere è quello che è perché abbiamo abbandonato progetti davvero rivoluzionari, abbiamo smesso di sperare, di avere coraggio. Non è una questione di questo o di quell’altro partito politico. Il buttare via le chiavi delle celle non ha colore politico. Ma siamo prima di tutto noi che non ci crediamo più: la politica traduce tutto quanto, certamente ci mette del suo, ma se noi riuscissimo a cambiare veramente, anche la politica ne dovrebbe prendere atto. Non possiamo lasciare sola Ilaria Cucchi. La sua battaglia è quella di tutti noi. Chiede giustizia e speriamo possa averla. Ma la sua richiesta ha anche un altro fine. Evitare che tutto possa accadere di nuovo. I silenzi in questa storia pesano moltissimo. E pesano moltissimo perché fanno male a coloro che ogni giorno continuano, imperterriti, con dedizione e professionalità, a fare i loro mestieri nel migliore dei modi. I silenzi ci fanno sprofondare in un abisso. Come sempre, insieme alle responsabilità giuridiche, contano parecchio quelle politiche, che poi sono quelle di tutti noi. Sulla mia pelle proprio per questo è giusto farlo vedere in luoghi aperti al pubblico, iniziando dalle Università, luoghi di formazione e di conoscenza per eccellenza. Luoghi nati per comprendere, per ripartire. 7. Per ripartire, ma da dove? I tassi di carcerizzazione italiani facevano del nostro paese un esempio da seguire in tutta Europa e nel mondo. Nel 1947 avevamo 65.000 detenuti, scesi a 21.000 nel 1970. Dagli anni novanta le nostre carceri sono tornate ad esplodere. Siamo stati migliori di quello che siamo oggi. Ripartiamo da quello che eravamo, senza attendere che siano altri a dircelo. *Università degli Studi di Milano (17 ottobre 2018) Un esercito di poveri in cerca di risposte strumentalizzato dai politici di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 18 ottobre 2018 Workfare all’italiana. Nel rapporto 2018 la Caritas attesta un aumento del 182% dei poveri assoluti (oltre 5 milioni di persone) avvenuto negli anni della crisi e chiede al governo di tenere conto dell’esperienza del “reddito di inclusione” nel sussidio di povertà chiamato “reddito di cittadinanza”. Di Maio: “Le nostre misure sono grandi passi per sconfiggere questa piaga, Cinque milioni di poveri contano più di Juncker e Moscovici”. Ad un’analisi meno propagandistica, le differenze tuttavia sfumano. In entrambe le misure prevale un approccio disciplinare alla povertà, mentre incerti restano gli effetti sociali prodotti. Un “esercito di poveri” che “non sembra trovare risposte e le cui storie si connotano per un’allarmante cronicizzazione”. Questa è l’immagine usata dalla Caritas nel Rapporto 2018 sulla povertà e sulle politiche di contrasto presentato ieri a Roma in occasione della giornata mondiale di lotta contro la povertà. Nel nostro paese il numero dei “poveri assoluti” - gli individui che non possono spendere più di 554 euro in un piccolo comune del Sud, 817 in una grande città del Nord - “continua ad aumentare” e ha raggiunto il record di 5 milioni e 58 mila individui poveri, 1 milione 208 mila minorenni, 1 milione 112 mila tra i 18 e i 34 anni. La povertà aumenta con il diminuire dell’età e colpisce i più giovani, oltre che i nuclei dove i “capofamiglia” hanno un basso tasso di istruzione. “Dagli anni pre-crisi ad oggi il numero è aumentato del 182%”. Un dato che dà il senso dello stravolgimento prodotto dalla crisi e che ha spinto anche la politica italiana, storicamente sorda alle urgenze sociali, ad occuparsene mescolando, un’ispirazione familista e pauperista con un’altra ispirata al controllo della vita morale delle persone, dei loro consumi, la formazione e l’istruzione, imponendo con il sussidio di povertà detto “di cittadinanza” proposto dall’attuale governo anche un obbligo al lavoro gratuito per otto ore per lo Stato. La distinzione tra la protezione e l’autonomia sociale delle persone vulnerabili e una visione neoliberale che distingue oggi solo tra poveri meritevoli e immeritevoli, “morali” e “immorali” è politicamente decisiva, ma quasi mai seriamente interrogata nel conflitto in atto tra maggioranza Lega-Cinque Stelle e l’opposizione del Pd. Il conflitto, apparente, vede oggi contrapposti il “reddito di inclusione” (“ReI”) e il cosiddetto “reddito di cittadinanza”. Il primo è stato istituito dai governi del Pd nella scorsa legislatura e risulta essere una versione minore del “Reis” sostenuto dalla Caritas e dall’”Alleanza contro le povertà”, un cartello di associazioni che comprende i sindacati confederali. Ieri sono tornati a chiedere l’estensione di una misura che ha raggiunto solo una parte dei poveri assoluti, con risultati non soddisfacenti. L’importo medio è 206 euro. Il secondo è, com’è ormai noto, lo strumento cardine della legge di bilancio che il presidente del Consiglio Conte si è impegnato al vertice europeo in corso. Il direttore della Caritas don Francesco Soddu ha chiesto che la nuova misura “tenga conto dell’esperienza maturata nell’attuazione del ReI”. A suo avviso, “non basta dare un contributo economico per uscire dalla povertà, ma una considerazione maggiore degli attori in campo. Non è un problema delegabile a coloro che si interessano di poveri. Il rischio è la cronicizzazione del fenomeno”. La critica sembra essere duplice: la prima è rivolta all’approccio restrittivo alla povertà, comune al “ReI” del Pd e al sussidio dei Cinque Stelle: considerare il povero perché privo di un lavoro standard, in base all’appartenenza alla famiglia e non anche un individuo che ha bisogni, desideri, aspettative. La seconda è rivolta alla gestione della povertà. Il “reddito” dell’attuale governo considera i Centri per l’impiego unici interlocutori dei beneficiari e non sembra contemplare la collaborazione con i comuni e il “welfare locale”. Tale collaborazione si è rivelata carente al punto da avere vanificato l’impatto sull’inclusione sociale del “ReI”. Non è escluso che questo possa accadere quando saranno resi noti i particolari del nuovo sussidio di povertà fortemente vincolato all’obbligo al lavoro e alla formazione. In ogni caso, tanto nel “ReI”, quanto nel “reddito di cittadinanza” prevale una logica lavorista e l’atteggiamento inquisitorio e disciplinare. La polemica del segretario Pd Maurizio Martina, secondo il quale l’abolizione del “ReI” sarebbe un “colpo fatale”, non è molto cogente. Il “ReI” incuba il “reddito di cittadinanza” ed è la sua estensione colossale. Così come è improprio, per non dire politicamente discutibile, l’uso che Di Maio si è proposto di fare dei poveri italiani (ma non di quelli stranieri che risiedono, e lavorano o hanno lavorato, nel nostro paese da meno di 5 anni: saranno esclusi dal sussidio). Ieri il vicepresidente del Consiglio ha sostenuto che “Cinque milioni di poveri contano più dei vari Juncker, Moscovici, Bankitalia, Fmi, Pd e Forza Italia”. Bocciando la legge di bilancio, come da più parti si annuncia, la Commissione Ue sarebbe responsabile anche di un attacco a queste persone. Le responsabilità politiche, ed economiche, anche di questa istituzione sono indiscutibili nell’austerità. Ma è difficile ignorare come la flessibilità di bilancio concessa ai governi precedenti sia stata usata per sgravi alle imprese (i 18 miliardi del Jobs Act), per bonus Irpef elettorali (gli 80 euro di Renzi) e altri bonus cosmetici. Con questi stessi soldi è stato istituito il ReI - che risponde formalmente, ma non materialmente, al “pilastro sociale” dell’Unione Europea. Questo sussidio oggi costituisce l’anticamera del nuovo sussidio di povertà che ha gli stessi scopi: cercare di reintegrare i “poveri” in un mercato del lavoro sempre più feroce, mantenendo le loro povertà. La propaganda, da parte di tutti, non dà tregua. E continuerà, sulle spalle dei poveri. Nell’incertezza che lo circonda ancora, ieri Di Maio ha sostenuto che il “reddito” è la soluzione contro la povertà perché considera la persona globalmente, non solo economicamente. E ha assicurato che “la funzione di realtà come la Caritas non verrà mai meno e lo Stato deve facilitarne il compito”. Ai centri per l’impiego, e al “welfare locale” sembra essere stato attribuito il compito di governare le povertà. Il reddito di cittadinanza e l’inefficace salto della rana di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 18 ottobre 2018 Così come attualmente progettato (per quanto si riesce a capire) il reddito di cittadinanza aggira tutti i problemi da cui dipende il fenomeno povertà nel nostro Paese e punta solo sull’ultimo passo: il sussidio. L’idea che i poveri vadano aiutati in quanto privi di reddito ha sempre incontrato forti resistenze culturali nel nostro Paese. Eppure la mancanza di risorse economiche non è volontaria, dipende da dinamiche più grandi di individui e singole famiglie, proprio come nel caso della disoccupazione. Risente inoltre di pesanti condizionamenti sociali. Nell’Italia di oggi vivono in povertà assoluta più di dieci minori ogni cento. Come si potrebbe anche solo lontanamente pensare che sia “colpa loro”, che non siano anche “fatti nostri”? Del resto il contrasto agli svantaggi sociali arreca benefici, non solo ai singoli individui ma a tutta la società, sotto forma di maggiore coesione, a sua volta fattore di sviluppo. Letto su questo sfondo, il reddito di cittadinanza non suscita perplessità. Del resto, misure simili esistono in tutti i Paesi Ue. Ma la riforma non convince. Per chi conosce il dibattito internazionale e abbia familiarità con le esperienze straniere e italiane su questo terreno, l’impostazione di base non è condivisibile. Così come attualmente progettato (per quanto si riesce a capire) il reddito di cittadinanza aggira infatti tutti i problemi da cui dipende il fenomeno povertà nel nostro Paese e punta solo sull’ultimo passo: il sussidio. Un azzardato “salto della rana”, che rischia di condurre a un serio fallimento. Per combattere la povertà occorre un ventaglio di politiche preventive, riparative e compensative. I Paesi con minor tasso di povertà hanno buoni sistemi educativi (preparazione), robuste politiche attive per il lavoro, la formazione e l’inclusione (riparazione) e una vasta gamma di prestazioni monetarie (compensazione): per i figli, la disoccupazione, il sostegno agli affitti e così via. Sono sempre più diffusi anche i sussidi alle basse retribuzioni, responsabili della forte crescita dei cosiddetti working poor, lavoratori che, pur occupati, restano sotto la soglia di povertà. Solo al fondo di questo articolato sistema, per chi non ha trovato appoggi di altra natura è disponibile un’estrema rete di sicurezza: la garanzia di un reddito minimo, appunto. Tipicamente accompagnato da misure di assistenza sociale mirata. A causa di molteplici distorsioni evolutive, nel nostro sistema di welfare questi tasselli sono a tutt’oggi inadeguati o addirittura mancanti. Per esempio, esistono iniziative solo sporadiche contro la povertà educativa dei minori (deficit di prevenzione) o per la formazione, non solo dei giovani, ma anche di chi ha perso il lavoro (deficit di “riparazione”). In Francia o Germania una famiglia senza reddito con due figli riceve fra i 400 e i 500 euro al mese, in Italia non ha invece diritto ad alcun assegno (deficit di compensazione per carichi di famiglia). Non abbiamo un sistema di sussidi alle basse retribuzioni, le detrazioni fiscali non vengono neppure riconosciute agli incapienti. Pochissime le borse di studio: in Italia le ricevono meno dell’8% degli studenti, contro il 35% della Francia e il 65% della Svezia. Si dirà: che c’entra tutto questo con il reddito di cittadinanza? C’entra. È proprio grazie a questi punti d’appoggio che la quota di poveri è molto più bassa negli altri Paesi. La mancanza di reddito è combattuta a monte, prima che si verifichi: un vantaggio per tutti. Il progetto governativo scarica invece tutte le tensioni su un’unica prestazione, il reddito di cittadinanza. In molti contesti del Sud questa prestazione diventerà non l’ultima, ma l’unica spiaggia su cui approdare. E poi? E qui arriviamo al secondo grave sbaglio di impostazione. Il reddito di cittadinanza viene essenzialmente presentato come strumento di inserimento lavorativo. Ciò presuppone che esista una domanda di occupazione inevasa nei contesti dove vivono i richiedenti. In qualche area territoriale può essere almeno parzialmente così. Ma, soprattutto al Sud, ciò è tutt’altro che scontato. Il mercato occupazionale italiano sconta un cronico e massiccio deficit di posti di lavoro, che ci portiamo dietro da decenni. Un deficit che non riguarda l’industria ma i servizi, in particolare il cosiddetto terziario sociale (sanità, assistenza, servizi di prossimità) a cui si aggiungono turismo, ricreazione, cultura. È quasi superfluo sottolineare che per stimolare la domanda di lavoro in questi settori occorrono misure e incentivi mirati. Che costano, certo. Ma che potrebbero generare volani occupazionali tali da rendere moltissimi poveri, in moltissime aree, economicamente auto-sufficienti. Senza questi volani, i beneficiari del reddito di cittadinanza avranno invece un’altissima probabilità di restare confinati nell’unica spiaggia disponibile, peraltro sottoposti ad un regime di disciplina su scelte di vita e consumi. Perché il governo insiste su questa strada, buttando all’aria l’esperienza maturata con il reddito d’inclusione (Rei) e con le tante altre misure sperimentate a livello locale? Perché si avventura su un piano inclinato da cui non sarà facile tornare indietro? La risposta è: l’abbiamo promesso agli elettori. Non è così. Non hanno promesso affatto questa specifica impostazione e queste specifiche modalità di attuazione. Dicendo “faremo il reddito di cittadinanza” i Cinque Stelle hanno preso l’impegno a contrastare seriamente la povertà, non a improvvisare una riforma senza capo né coda. Peraltro ora Di Maio è il vice presidente di un esecutivo che rappresenta la nazione e che deve rispondere a tutti gli elettori. La democrazia funziona così. Chi governa deve dar conto anche ai tanti cittadini, commentatori ed esperti che sul reddito di cittadinanza chiedono una pausa di riflessione, uno sforzo progettuale più serio e approfondito. Nel frattempo si può rafforzare il Rei. La posta in gioco è troppo importante per ridurla a una questione di consenso in vista delle elezioni europee del prossimo maggio. Suicidio assistito, ora parla la Consulta di Marcello Palmieri Avvenire, 18 ottobre 2018 Suicidarsi: è sempre e comunque un disvalore, oppure in determinate circostanze può essere un diritto? Dunque: ha ragione di continuare a esistere l’articolo 580 del Codice penale, che punisce chiunque induca o aiuti una persona a togliersi la vita, oppure tale norma deve essere dichiarata incostituzionale? È l’interrogativo - giuridico e umano - che scioglierà la Corte Costituzionale dopo l’udienza pubblica di martedì prossimo e le camere di consiglio che ne seguiranno, decidendo sul “caso Marco Cappato” devolutole dalla Corte d’Assise di Milano. Ricordiamo i fatti da cui scaturisce il procedimento: il 27 febbraio 2017 Fabiano Antoniani - “dj Fabo”, milanese, muore in Svizzera in una “clinica” che offre il servizio di suicidio assistito. A fianco del paziente - cieco e tetraplegico, tuttavia non terminale - c’è (anche) Cappato il tesoriere dell’associazione radicale Luca Coscioni. È lui ad aver organizzato il viaggio, assecondando la volontà del paziente. Ed è sempre lui ad autodenunciarsi ai Carabinieri di Milano per aver violato il 580 (istigazione o aiuto al suicidio). La Procura chiede l’archiviazione, ma il Gip ordina la formulazione coatta del capo d’imputazione. Si apre il dibattimento in Corte d’Assise. Vengono sentiti i parenti più prossimi di Fabiano. Emerge che Cappato non ha istigato ma pur sempre aiutato Antoniani a morire. Allora la Corte, anziché condannare l’imputato, sospende il procedimento e lo invia alla Consulta. Secondo i giudici milanesi, infatti, non sarebbe conforme alla Costituzione che una persona debba scontare una pena per il semplice fatto di aver aiutato un altro a morire. Eppure, il reato disposto dall’articolo 580 non solo è conforme alla Carta fondamentale ma farlo venir meno mina le basi del nostro ordinamento. È il pensiero, tra gli altri, dei giuristi che hanno collaborato a un numero monografico di Elus, la rivista del Centro Studi Giovanni Livatino. Due le evidenze che balzano all’occhio. La prima la ricorda Claudio Galoppi, consigliere uscente del Csm: “A livello europeo”, scrive, esiste “un divieto generalizzato, anche penalmente sanzionato, di aiuto al suicidio”. La seconda è portata in luce da Mauro Ronco, ordinario di Diritto penale all’Università di Padova: “La Corte suprema americana nella decisione 26 giugno 1997 si è espressa all’unanimità nel senso della conformità alla Costituzione della proibizione del suicidio assistito”. Due riferimenti che aiutano a comprendere come il divieto italiano sia tutt’altro che peregrino. Ronco formula profondi spunti di riflessione. Su una premessa: che questo discorso non attiene la morale o la religione, ma il valore della vita. E laddove la Corte d’Assise, a sostegno dell’incostituzionalità del divieto, tende ad assolutizzare il “diritto all’autodeterminazione”, Ronco osserva che “la decisione umana è sempre il frutto di una serie di condizioni, ciascuna delle quali possiede una peculiare efficacia a seconda dei momenti e dei luoghi in cui è assunta”. Dunque “il significato dell’azione è impoverito se non si tiene conto della complessità e dell’interferenza dei vari fattori che concorrono nelle scelte personali”. Ecco l’ulteriore conseguenza: “Invece di esprimere l’autodeterminazione libera della persona, spesso la richiesta di suicidio esprime piuttosto l’esito di una sconfitta esistenziale”. Che non è solo del singolo ma di tutta la collettività. Senza contare che “se l’autodeterminazione venisse prima della dignità, la misura di quest’ultima varierebbe da uomo a uomo e condurrebbe allo smarrimento della stessa dignità” come requisito oggettivo di ogni cittadino. E il togliersi la vita, osserva il professore, è la negazione di questa dignità costituzionalmente protetta. Senza contare le ricadute che questa possibilità genererebbe sul rapporto del paziente con i medici, i familiari e la società tutta. Non solo. Il suicidio è un atto irrazionale, quindi non tutelabile dal diritto. E anche la giurisprudenza più “aperturista” - per esempio quella del “caso Englaro”, che ha ammesso alcune forme di eutanasia passiva - mai si è spinta a teorizzare un diritto all’assistenza nel suicidio. È ancora Galoppi a sottolineare quest’ultima evidenza, dubitando che sia possibile una “sentenza additiva”, vale a dire che aggiunga qualcosa alla legge (per esempio, una depenalizzazione dell’aiuto al suicidio solo in determinate condizioni): ciò, infatti, sarebbe permesso solo “quando dal dato costituzionale” emergesse “un’indicazione chiara e univoca circa il contenuto della legge mancante”, situazione non certo presente in questo caso. Da qui l’interrogativo di Giovanna Rizzano, aggregato di Diritto pubblico alla Sapienza di Roma, sempre su LitIS: “Possono le costituzioni e le convenzioni essere interpretate in maniera tale da ricomprendere possibilità - considerate da taluni diritti - che certamente non risultano dalla lettera delle carte e che erano anzi considerate contrarie ai diritti proclamati da coloro che le scrissero?”. Meno militari in Afghanistan e Iraq e la Difesa taglia le spese per gli F-35 di Gianandrea Gaiani Il Messaggero, 18 ottobre 2018 Fondi dirottati sui Centri per l’impiego. Riduzioni minime negli ultimi mesi dell’anno, più marcate nel 2019 per le missioni militari italiane all’estero, secondo un piano che rafforzerebbe quanto già delineato dal governo Gentiloni. La sconfitta dello Stato Islamico cambia gli scenari. La sconfitta dello Stato Islamico rende superflua la presenza di gran parte dei1.400 militari italiani schierati in Iraq, dei quali resterà un numero imprecisato di istruttori all’interno della nuova missione Nato a guida canadese. Dall’Afghanistan è previsto il ritiro di almeno 200 dei 900 militari schierati a Herat e Kabul che potrebbe avviarsi già in dicembre quando la brigata aeromobile “Friuli” avvicenderà la “Pinerolo”. Riti che non dovrebbero turbare gli ottimi rapporti tra il governo Conte e l’Amministrazione Trump: anche gli Usa stanno ridimensionando l’impegno in Iraq e cercano una exit strategy credibile dall’Afghanistan, dove l’avvicendamento tra poche centinaia di italiani e truppe alleate non peggiorerà una situazione già precaria. Del resto “l’indulgenza” di Washington nei confronti dell’attuale governo di Roma è dimostrato anche nell’assenza di pressioni per l’incremento della spesa militare, che gli Usa vorrebbero portare al 2 per cento del Pil mentre l’Italia si trova ad appena 1’1,1% e destinata a scendere sotto l’1% con i tagli annunciati. Superiori esigenze strategiche sembrano guidare i rapporti bilaterali, con gli Usa cercano di compensare l’uscita di Londra dalla Ue puntando sull’Italia per ostacolare l’egemonia franco-tedesca. Un’intesa rafforzata dal sostegno di Trump a Roma sul dossier libico e dal possibile aiuto americano sul fronte finanziario, qualora la “battaglia dello spread” diventasse più aspra. Non va dimenticata l’ostilità con cui Washington, con Obama come con Trump, guarda alla politica del rigore imposta da Berlino ai partner europei e giudicata oltre Atlantico un freno alla crescit economica globale. Il rischio di tensioni con gli Usa +si potrebbe semmai registrare sul fronte dei tagli alle acquisizioni di armamenti. Il premier Giuseppe Conte e il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, hanno più volte parlato di revisione del programma F-35 annunciandone la riduzione rispetto ai 90 esemplari previsti. Obiettivo caro al M5S e che oggi potrebbe venire rivendicato con ancora più forza dopo la decisione del Pentagono di affidare a Boeing la realizzazione della flotta di nuovi aerei da addestramento, benché il T-346 di Leonardo fosse senza dubbio il miglior aereo in gara e persino il preferito dai piloti americani. È vero che il mese scorso Leonardo si è aggiudicata una gara da 2,4 miliardi di dollari per 84 elicotteri AW-139 destinati all’aeronautica Usa (che verranno realizzati negli stabilimenti Boeing), così come Fincantieri potrebbe vendere alla US Navy 20 fregate Fremm (sempre comunque da costruire in cantieri ubicati negli states) ma il mercato militare americano resta dominato dai colossi industriali domestici nel nome prima del “buy american” obamiano e poi del trumpiano “America first”. Per l’Italia l’F-35 resta un pessimo affare: poche ricadute tecnologiche e occupazionali per un aereo che, anche se mantenesse tutte le sue promesse hi-tech e operative, resterebbe troppo costoso da gestire per i sempre più magri bilanci della Difesa. Ciò nonostante, proprio in virtù della necessità del governo Conte di mantenere salda l’intesa con gli Usa, è possibile che il programma F-35 venga solo diluito nel tempo per ridurne l’impatto sui prossimi esercizi finanziari. Della necessità che Roma rispetti l’impegno assunto pare abbia parlato, nell’incontro con Conte alla Casa Bianca, lo stesso Trump che considera l’export militare elemento prioritario per ripianare la bilancia commerciale degli Usa. Il rischio è quindi che, tra il rispetto di un “asse di ferro” con gli Usa e la necessità di M5S di “fare cassa” tagliando le spese militari, a farne le spese siano gli equipaggiamenti made in Italy e frutto di programmi europei quali i nuovi missili da difesa aerea Camm Mbda e gli elicotteri NI-1-90 di Leonardo, già indicati come vittime di tagli per oltre 500 milioni. Una scelta paradossale che metterebbe a rischio molti posti di lavoro nelle aziende italiane, comprometterebbe le capacità di difesa e minerebbe la fiducia dei partner industriali europei coinvolti nei programmi indicati, che potrebbero non essere i soli a venire sospesi. Non mancano infatti voci di tagli alla Difesa più consistenti, fino a1,3 miliardi di euro, da reperire con la riduzione delle spese per le missioni all’estero. Migrazioni, i veri rischi per quest’Europa di Maurizio Ambrosini* Avvenire, 18 ottobre 2018 Siamo ormai in vista delle elezioni europee e le questioni dell’immigrazione e dell’asilo occupano un posto centrale sia nell’agenda di Bruxelles sia all’interno dei Paesi membri. Un tema, un tempo abbastanza marginale, è diventato prioritario nei pronunciamenti governativi, nei programmi dei partiti e nelle preferenze degli elettori. Una nuova “domanda di confini” e di più rigida regolazione degli accessi è il tratto saliente del dibattito. Partiti politici sempre più forti e alcuni governi, tra cui il nostro, si sono impadroniti di questo vessillo, marcando in molti modi le differenze tra “noi” e “loro”. Le istituzioni dell’Unione Europea e i governi meno inclini alla deriva sovranista affrontano la materia con difficoltà crescenti. In democrazia hanno bisogno degli elettori, ma devono anche osservare le regole fissate dalle proprie Costituzioni, dalle convenzioni internazionali e dagli stessi accordi sottoscritti nell’ambito della Ue. Vorrebbero tenere il grosso degli immigrati e tutti i rifugiati lontani dalle loro frontiere, ma nello stesso tempo si sono impegnati a difendere i diritti umani. Nella gestione di questa tensione l’impressione prevalente vede una mancanza di visione e di strategia, ma in realtà alcune decisive scelte politiche sono ben individuabili. Riguardo a quelle che vengono definite “migrazioni economiche”, la scelta è quella della selezione dei candidati secondo tre criteri, che potremmo definire “le tre P”: i passaporti, i portafogli, le professioni. Riguardo ai passaporti, si è proceduto anzitutto con l’allargamento dell’Ue verso Est: una politica migratoria non dichiarata, che ha concesso a milioni di persone la libertà di circolare e di cercare lavoro nei Paesi più prosperi e bisognosi di manodopera, Italia compresa. Con la politica dei visti inoltre si tollera l’ingresso dei cittadini di un numero crescente di Paesi europei non comunitari: nel 2010 sotto un Governo di centrodestra, con Maroni ministro dell’Interno, l’Italia ha eliminato l’obbligo del visto per tutti i Paesi dell’area balcanica. Il governo Gentiloni l’anno scorso l’ha eliminato per l’Ucraina. Più in generale si autorizza facilmente l’ingresso dei cittadini di Paesi sviluppati o presunti tali. Il Brasile per esempio. A proposito dei portafogli, i governi autorizzano con favore crescente l’insediamento degli stranieri che si presentano come investitori, e in certi Paesi anche della Ue (Cipro, Malta) si accorda loro la cittadinanza. Mentre discutiamo di ius soli e ius sanguinis, è stato introdotto lo ius pecuniae: la facoltà di acquistare la cittadinanza grazie al denaro. Infine, le professioni: con uno specifico permesso, la Carta Blu, la Ue ammette l’ingresso di professionisti di diversi settori. Non solo scienziati ed esperti di tecnologie di punta: la circolazione di migranti qualificati, nella Ue come in tutto il Nord del mondo, riguarda soprattutto il personale sanitario. Per quanto riguarda i rifugiati, la politica principale consiste nell’esternalizzazione dei confini. Incapaci di accordarsi sulla riforma delle convenzioni di Dublino, governi e istituzioni della Ue si sono facilmente accordati sull’ingaggio come guardie di frontiera di Paesi terzi, come la Turchia, la Tunisia, il Niger e infine la Libia: a loro è stato demandato il compito di fermare i richiedenti asilo in transito prima del loro ingresso sul territorio dell’Unione, dove potrebbero domandare la protezione internazionale. Poco importa come sono trattati e in quali condizioni trattenuti. Nel medesimo tempo l’accoglienza umanitaria diventa sempre più volontaria e quindi facoltativa. La Ue è rigidissima sulle regole applicate alla produzione di latte o di olio di oliva, ma assai flessibile sulla protezione dei diritti umani. Su questo tema il “gruppo di Visegrad” di fatto ha vinto la partita, e gran parte degli altri giocatori sono stati contenti di perderla. Ciò che rischia di rimanere sul terreno però non è soltanto la solidarietà con i rifugiati, bensì il senso e lo spirito del progetto europeo. *Università di Milano e Cnel Migranti. Gambiano di 22 anni si suicida dopo diniego a richiesta di asilo Il Manifesto, 18 ottobre 2018 Un ragazzo di 22 anni originario del Gambia si è tolto la vita lunedì dopo che si è visto respingere la richiesta di asilo. L’uomo, A. J., si è impiccato al cornicione della casa di Castellaneta Marina, in provincia di Taranto, dove viveva con dei connazionali. Si trovava da due anni in Italia e si sarebbe vergognato all’idea di dover tornare nel proprio Paese dove temeva di essere considerato un fallito. A dare notizia della morte è stata ieri l’associazione “Babele” che sta organizzando una raccolta di fondi per rimandare la salma del giovane in Gambia. “Servono - circa 5mila euro per pagare l’agenzia funebre che si occupa dello spostamento”, ha spiegato l’associazione. Il 22enne era stato prima in una struttura di accoglienza nel leccese e poi si era trasferito a Castellaneta Marina. Alcuni giorni fa gli era scaduto il permesso di soggiorno. Proseguono intanto al Senato le audizioni sul decreto Sicurezza del ministro degli Interni Matteo Salvini. Critiche al provvedimento sono arrivate da sindaci, organizzazioni e funzionari dello Stato che si occupano di migranti. Se il testo dovesse essere approvato senza modifiche, hanno sostenuto, ci saranno più irregolari e centinaia di persone rischiano di finire in mano alla criminalità organizzata. Dai magistrati sono invece arrivate critiche alla parte del decreto che riguarda la sicurezza. “Si rischia di vanificare lo spirito della legge 109/06 che prevede la restituzione del maltolto alla collettività e l’uso sociale dei beni” ha sottolineato il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso, “preoccupato” dalla norma che stabilisce la possibilità di vendere gli immobili confiscati alla mafie ai privati miglior offerenti. “L’auspicio - ha aggiunto il capo della procura di Milano Francesco Greco - è che vengano stralciate e ripensate le norme in tema di confisca di beni alle mafie e non solo”. A preoccupare sono anche le nuove disposizioni previste all’articolo 17 del decreto e che introducono per le agenzie di noleggio auto l’obbligo di comunicare in tempo reale al Viminale i dati di chi noleggia. Norme che valgono anche per il car sharing. “Tutti controllati, tutti infilati in un bello schedario informatico”, ha detto Riccardo Nencini, segretario del Psi, intervenendo durante in commissione Lavori pubblici al Senato. “Una norma liberticida come non se ne vedevano dai tempi di Benito”. Russia. Diciottenne fa una strage in una scuola in Crimea, poi si suicida di Yurii Colombo Il Manifesto, 18 ottobre 2018 Come alla Columbine nel 1999, anzi peggio. Ieri all’ora di pranzo Vladislav Rosljakov, 18 anni, è entrato nella mensa del politecnico di Kerch dove i suoi compagni di studi stavano mangiando e ha aperto il fuoco con un fucile. Il suo raid, che sembra sia stato accompagnato dal lancio di alcune bombe rudimentali contenenti pallini d’acciaio per produrre un effetto ancora più devastante, ha lasciato senza vita sul pavimento 19 suoi coetanei. Abbandonata la sala Vladislav si è poi tolto la vita sparandosi con una pistola. Purtroppo il bilancio del massacro potrebbe aumentare nelle prossime ore perché dei 50 feriti,17 si trovano in gravissime condizioni. Gli inquirenti in serata sembrano propendere per l’azione sconsiderata di un individuo disturbato psichicamente, escludendo la pista dell’attentato terroristico. Ipotesi terroristica che invece era circolata a lungo nel pomeriggio visto che Kerch è una città della Crimea annessa/unificata alla Russia nel 2014 e che i servizi di sicurezza russi da tempo denunciano azioni di diversione di gruppi paramilitari ucraini nella regione. Per questo motivo erano state subito rafforzati i contingenti militari russi al confine con l’Ucraina e introdotto lo stato di allerta in tutta la penisola. Tuttavia mancano ancora parecchi pezzi del puzzle per giungere a conclusioni definitive. Per esempio, mentre andiamo in stampa, la Tass informa che è stata ritrovata un’altra bomba inesplosa in un piano dell’istituto mentre la polizia sta effettuando la perquisizione dell’appartamento dove viveva il giovane da cui potrebbero venir fuori elementi nuovi. E continua a circolare la voce, confermata da alcuni testimoni oculari, secondo cui all’azione avrebbe preso parte almeno un’altra persona. Del resto la stessa ricostruzione degli avvenimenti resta a molte ore dall’accaduto ancora frammentaria. Il giovane sembra non avesse mai dato segni di essere disturbato. “Vlad era in regola con gli studi. Era silenzioso, buono e obbediente. Ma questa settimana non era venuto al college, aveva detto di essere malato”, ha affermato al canale tv Rossja 1 una sua compagna di studi. Impressione confermata anche dal suo insegnante Petr Kosenko. Per gli inquirenti che dirigono le indagini Rosljakov non era neppure schedato dalla polizia come “estremista”. Sull’attentatore però restano alcuni misteri. Finora è stato possibile vedere solo una foto del ragazzo, capelli biondi a spazzola e jeans neri, che scende le scale della scuola imbracciando un fucile, pubblicata da un anonimo su Telegram. Intanto esplode il dibattito sui social-network e nei talk-show del paese. L’America sembra arrivata in Russia: com’è possibile che in una tranquilla città di provincia un adolescente della classe media, senza grilli per la testa, progetti e metta in atto una strage di suoi coetanei? Che cosa bolle nel lato oscuro dell’ordinato universo della società putiniana? E come mai un diciottenne poteva disporre di un vero e proprio arsenale, si è chiesta Irina Klyueva commissario per la protezione dei diritti dell’infanzia in Crimea, la quale ha anche denunciato come l’autore della strage avesse ottenuto qualche giorno prima il permesso di usare armi da caccia. L’unico che sembra per ora avere le idee chiare su come affrontare il problema è il ministro degli interni Rashid Nurgaliev il quale ha annunciato che in tutte le scuole della Federazione verranno introdotti tornelli, metal detector e tessere magnetiche per gli studenti. Carovana di migranti in marcia dall’Honduras agli Stati Uniti di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 18 ottobre 2018 Il presidente Trump minaccia i Paesi che li fanno passare. Hanno tentato di dissuaderli arrestando il loro leader, comunicando loro le parole implacabili di Donald Trump: voi negli Stati Uniti non entrerete mai! Ma la carovana di migranti che dall’Honduras sta marciando da giorni verso nord ha deciso di proseguire, sfidando minacce varie e anche il meteo avverso. Passato il confine con il Guatemala, ora puntano a quello con il Messico, dove pure verranno lasciati passare. Poi verrà la parte più difficile, con l’attraversamento di migliaia di chilometri tra pericoli di ogni genere, fino alle porte del sogno americano, se mai ci arriveranno. Non sono rare le marce di avvicinamento collettivo verso nord di disperati che lasciano i Paesi centroamericani sprofondati nella miseria e nella violenza, come Honduras, El Salvador, Guatemala e Nicaragua. Stavolta la vicenda ha destato attenzione per i numeri e la caparbietà: sono partiti in 160 venerdì scorso dalla città honduregna di San Pedro Sula e ora potrebbero essere addirittura 3.000, secondo alcune stime. L’ultima notte l’hanno trascorsa riposandosi nella città di Chiquimula, già in Guatemala, dove grazie alla catena di solidarietà hanno ricevuto acqua e cibo in alloggi di fortuna. Martedì, non appena passata la frontiera, la polizia di questo Paese ha arrestato Bartolo Fuentes, attivista per i diritti umani ed ex deputato in Honduras, rispendendolo nel proprio Paese. Lo ritiene l’organizzatore della marcia, anche se l’uomo si è difeso dicendo che stava solo accompagnando i migranti. La buona notizia per la carovana è invece il via libera del governatore del Chiapas, il primo Stato messicano sul loro cammino. Potranno passare, ha detto Manuel Velasco, “per ragioni umanitarie, le stesse che noi messicani chiediamo sempre agli Stati Uniti”. Sette alloggi sono già stati organizzati per il gruppo nella regione di frontiera di Soconusco. Dal Chiapas, di norma, i viaggi verso nord proseguono con il treno, il famigerato La Bestia. Chi non ha nemmeno gli spiccioli per pagare il biglietto lo cavalca gratis sul tetto, sottoponendosi a rischi mortali. E questo è solo uno dei pericoli. I gruppi dei centroamericani in fuga non arrivano mai compatti al passaggio decisivo, dove verrebbero facilmente identificati dalla polizia di frontiera Usa, ma passano nelle mani di organizzazioni criminali messicane che promettono l’arrivo a destinazione. E ce la fa soltanto chi nel frattempo non viene truffato, violentato, ucciso. Il presidente Donald Trump ha assicurato arresti e deportazioni all’arrivo e minacciato i Paesi della regione con il taglio degli aiuti se non smetteranno di lasciar passare i migranti. Svolta in Canada, fumare la marijuana diventa legale di Francesco Semprini La Stampa, 18 ottobre 2018 Il Canada diventa il principale mercato potenziale al mondo per la marijuana legale. Da ieri infatti nel Paese nordamericano è entrata in vigore la legge che consente di vendere e consumare erba a scopo ricreativo, grazie alla legge approvata la scorso giugno dal Parlamento. Il Canada è divenuto così il secondo Paese delle Americhe, dopo l’Uruguay, dove il possesso e l’uso di cannabis è legale. In Europa è stata l’Olanda il pioniere della tolleranza seguita molto dopo da alcuni cantoni della Svizzera. Negli Stati Uniti nove Stati hanno approvato la legalizzazione a scopo ricreativo e 30 a scopo terapeutico. Il Canada ha inoltre varato una sorta di amnistia per i reati pregressi derivanti dalla vendita e il consumo di cannabis entro 30 grammi. Il governo guidato da Justin Trudeau ha dedicato gli ultimi due anni per varare una normativa in materia, partendo da quella del 2001 che legalizzava la marijuana a scopo terapeutico. Il pusher convertito - L’obiettivo è quello di rafforzare la legalità facendo emergere gli operatori in nero contrastare i grandi trafficanti e il pericoloso fenomeno della diffusione delle droghe di sintesi a basso costo. Tom Clarke, per trent’anni “pusher” illegale, è stato tra i primi a chiedere la licenza per la vendita legale aprendo un suo negozio a Portugal Cove, in Newfoundland. “È incredibile, abbiamo atteso questo momento da una vita, sono contento di vivere in Canada e non negli Stati Uniti”, ha dichiarato Tom alla Nbc raccontando di aver avuto suo padre come primo cliente. Ma la marijuana libera è anche un mercato che sta registrando un vero boom. Nel 2017 il commercio mondiale è cresciuto del 37% raggiungendo un valore di 9,5 miliardi di dollari, dove gli Stati Uniti pesavano per il 90%, secondo la sesta edizione del rapporto “The State of Legal Marijuana Markets”. Per il 2022 il mercato Usa raggiungerà i 23,4 miliardi di dollari diminuendo la sua quota di mercato al 73% a favore del Canada che salirà al 17% con 5,5 miliardi di dollari. Secondo le stime più ottimistiche come quelle di Grand View Research, il volume di affari globali entro il 2025 è destinato a toccare quota 146,4 miliardi di dollari. Tutto ciò davanti al proliferare di operatori che si contendono il mercato, solo per dirne alcuni Canopy Growth Corporation, Aurora Cannabis, Maricann Group, Tilray, The Cronos Group. Alcuni titoli sono quotati nelle Borse canadesi, americane e londinese, altri sono scambiati “over the counter” ovvero su mercati secondari. Quanto si guadagna Gli analisti attendono un boom anche se potrebbe trattarsi di fiammate non prive di rischi, il primo del quale è il margine di guadagno limitato per i rivenditori. Brenda Tobin e suo fratello Trevor vogliono aprire il loro punto vendita a Labrador City, in Newfoundland, ma già sanno che non c’è molto guadagno: “Vendi 250 mila dollari di erba per intascarne 20 mila”. Così sperano di arrotondare in altro modo. “Con gli accessori: cartine, pipe cilum, bong e gadget a volontà”.