Altri due detenuti suicidi in pochi giorni, sono 48 dall’inizio dell’anno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 ottobre 2018 Ieri mattina un 35 enne si è impiccato, nel carcere di Poggioreale, a Napoli. Si chiamava Diego Cinque e avrebbe dovuto finire di scontare la pena del 2023. Con questa ennesima tragedia siamo giunti - incrociando i dati di ristretti orizzonti con gli ultimi sviluppi - a 48 suicidi dall’inizio dell’anno, su un totale di 110 morti. Solo a Poggioreale, con la morte di ieri, siamo arrivati a cinque suicidi durante questo 2018 che ancora si deve concludere. Sempre in Campania, spunta un altro suicidio che non è stato diffuso da nessuna agenzia stampa o dai comunicati - di solito sempre attenti - dei sindacati di polizia. Parliamo di un 30enne che si è impiccato, tre giorni fa, in isolamento al carcere di Carinola (Caserta). Per una rissa, avvenuta a Poggioreale, il ragazzo è stato raggiunto dal provvedimento disciplinare, il 14 bis, ed è stato trasferito al penitenziario di Carinola. Raggiunto telefonicamente da Il Dubbio, il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello spiega che “per certi versi, il 14 bis è peggiore del 41 bis, perché durante la detenzione non possiedi nulla, nemmeno un televisore per poterti distrarre”. A proposito dei suicidi, il Garante, spiega che le cause sono molteplici: “Il carcere è un luogo che deprime l’animo umano, questa compressione dei loro diritti come la limitazione della libertà di movimento, gli spazi minimi, i disagi psichici, il personale insufficiente, anche i ritardi della magistratura di sorveglianza comportano queste scelte drammatiche”. A proposito di Poggioreale, dove c’è il triste primato dei suicidi, Ciambriello spiega che la causa è soprattutto il sovraffollamento: “Ci sono spazi minimi e si vive anche in cinque dentro una cella”. E aggiunge: “C’è anche il problema della chiusura totale delle celle con la sorveglianza dinamica quasi inesistente”. Il Garante, a fronte di questa escalation di suicidi, sta pensando, assieme al suo staff, di costituirsi come parte offesa per tutti le indagini relative ai suicidi che avvengono nella sua regione, così come sta facendo il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. “Ma - spiega Ciambriello - bisogna trovare delle risposte culturali, formative e a carattere legislativo come l’implementazione delle pene alternative. Cosa non avvenuta con l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario”. Il Garante campano sottolinea anche l’importanza del personale della polizia penitenziaria che negli anni ha sventato migliaia di tentativi di suicidio. “Solo in Campania - spiega, l’anno scorso gli agenti hanno sventato 77 tentativi di suicidio, quest’anno già più di 50”. I numeri, se non ci fosse stato l’intervento della polizia, sarebbero diventati altissimi. Una vera e propria strage: nel 2017 il totale è stato di 52 detenuti che si sono uccisi, mentre il trend di quest’anno ancora non concluso è decisamente in aumento. Sì, perché al 3 ottobre dell’anno scorso, i suicidi risultavano 45. Quest’anno, invece, siamo già a 48. Legittima difesa. Avanti col testo della Lega, il M5S ritira gli emendamenti di Errico Novi Il Dubbio, 17 ottobre 2018 La maggioranza trova l’accordo si va in aula il 23. Non è un passo indietro. Il Movimento Cinque Stelle ritira i suoi emendamenti sulla legittima difesa. Sul testo di cui è primo firmatario il leghista Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia del Senato, la condivisione tra i due partiti di maggioranza è solida. Tanto che le limature ipotizzate dai pentastellati, fanno notare fonti parlamentari, non avrebbero comunque alterato l’impianto della legge. Costruita sul tentativo di sottrarre al calvario giudiziario chi si difende da aggressioni in casa. I fatti dicono comunque che il vertice di ieri si risolve con la blindatura del testo base proposto dalla Lega. Lo hanno deciso il guardasigilli Alfonso Bonafede, il sottosegretario Jacopo Morrone e i rappresentanti di Carroccio ed M5S in commissione. Si va avanti così. Considerato che l’emiciclo di Palazzo Madama dovrà esaminare la nuova legittima difesa già da martedì’ prossimo, la maggioranza ha convenuto sull’impossibilità di prolungare ancora il confronto in commissione. Nell’organismo presieduto da Ostellari, oggi non dovrebbe verificarsi alcuna particolare sorpresa. La maggioranza voterà no alle proposte di modifica presentate dall’opposizione, che sono parecchie: 68 in tutto, con 7 emendamenti di Fratelli d’Italia, 14 del Pd e 12 di Forza Italia. Resta dunque la previsione inserita nel testo base all’articolo 1, secondo cui “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi”. La parola chiave qui è “violenza”. Il Movimento Cinque Stelle avrebbe voluto precisarla con l’inciso “alla persona”. Con la formulazione attuale si era temuto di poter legittimare anche reazioni contro intrusori privi di armi, condotte con destrezza e una “violenza” rivolta solo alle cose. Ma è sull’articolo 2 che le preoccupazioni dei pentastellati erano più forti. Gli altri due loro emendamenti avrebbero lasciato al giudice un’assai più ampia discrezionalità nel valutare eventuali eccessi di chi si difende. Con la formulazione di Ostellari, il magistrato dovrebbe riconoscere in modo quasi automatico, già nella fase preliminare del procedimento, il sussistere della proporzionalità tra aggressione e reazione. L’emendamento M5S, messo ieri da parte, cancellava la causa di non punibilità relativa allo “stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. E soprattutto, prevedeva una “non punibilità” più o meno automatica solo per “eccesso di colpa lieve”. Nei casi più gravi, per esempio di uccisione dell’aggressore, l’esclusione della colpa per la persona aggredita sarebbe arrivata probabilmente al termine di un procedimento più lungo. Ma qui il partito di Luigi Di Maio ha evidentemente recuperato un approccio già seguito nella scorsa legislatura: durante l’esame della legittima difesa alla Camera, era stato proprio il Movimento Cinque Stelle a proporre emendamenti in cui si escludeva l’eccesso colposo di legittima difesa se “chi ha commesso il fatto ha agito in preda alla paura o ad un grave turbamento, determinati dalla situazione di pericolo”. D’altra parte la formulazione su cui si è deciso di andare avanti contiene un’altra sfumatura che all’epoca i pentastellati avevano proposto di introdurre: l’esclusione della colpa per chi, recitava un loro emendamento, “sia stato determinato, volontariamente o colposamente, dalla persona contro cui è commesso il fatto”. Pur senza mettere per esteso tale dizione, l’articolo 2 del testo Ostellari richiama le “condizioni di cui all’articolo 61, primo comma, n. 5”, cioè un comportamento dell’aggressore che abbia “profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”. Il testo resta così, anche se l’esame è ancora lungo. La forza dello Stato non è mai nella tortura di Angelo Picariello Avvenire, 17 ottobre 2018 La svolta clamorosa e tardiva del caso Cucchi riporta alla ribalta il dibattito sull’introduzione del reato di tortura, che ancora fa storcere il naso ad ampi settori del nuovo Parlamento. In base alla legge 110 dello scorso anno “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Anche se, nel tragico caso del ragazzo romano, a ben vedere, si è trattato di qualcosa di persino peggiore della tortura: in base alla confessione del carabiniere Francesco Tedesco i comportamenti “inumani e degradanti” sarebbero ricollegabili a un caso di pestaggio fine a sé stesso, senza neanche la finalità perversa (che la tortura evoca) di estorcere attraverso la violenza una qualche collaborazione investigativa. Ma più ancora delle gravissime responsabilità, che emergerebbero a carico degli autori materiali, sconcerta il clima di copertura, i verbali sbianchettati, le solenni dichiarazioni di totale estraneità dell’Arma via via smentite dalla realtà venuta alla luce. Realtà assunta a partire dal 2015 nella sua amara evidenza, con crescente fermezza, dai vertici dei Carabinieri. La violenza è sempre violenza e va contrastata. Ma quando a farne uso è un tutore della legge in divisa, dovrebbe scattare immediatamente la tendenza a un’intransigenza anche maggiore. Perché quando uno Stato democratico si degrada a usare le stesse armi del nemico (ossia la violenza e l’illegalità) compie un’operazione pericolosissima, in grado di ridare forza a una retorica anti-Stato dura a morire e che cova sempre sotto la cenere. Avrebbe dovuto insegnarlo la lezione venuta dalla lotta a un terrorismo duro a morire dopo gli armi di piombo, quando un manipolo di eversori, fuori contesto, nel pieno del “riflusso” e del cosiddetto edonismo reaganiano, continuò a coltivare il suo folle disegno alimentando odio contro lo Stato proprio nel racconto delle violenze (poi accertate) poste in essere, soprattutto durante il rapimento del generale americano Dozier. Violenze tollerate anche in ragione del grave attacco portato al bene supremo della sicurezza dello Stato. Ma l’esperienza dimostra che il fenomeno è stato debellato, in realtà, con gli strumenti costituzionali e la legislazione varata a metà degli armi 80 del Novecento. Quella pietas - cristiana e laica al tempo stesso - dimostrata da Giovarmi Bachelet nel celebre intervento di “perdono” per i carnefici al funerale del padre Vittorio, ucciso dalle Br. Semi di riconciliazione che hanno dato frutto nel tempo. Ma gli errori, specie quelli non condannati come tali, possono ripetersi. E così a Genova nel 2001, al G8, abbiamo assistito increduli a una “macelleria messicana” che non avremmo mai pensato possibile. Ma, ancora una volta, abbiamo potuto riscontrare quanto il rispetto dei valori della Costituzione, e dei princìpi di umanità in essa inseriti, si siano rivelati “arma” poderosa per combattere i violenti e i loro attacchi alle istituzioni. La “lezione” di Genova ha portato negli ultimi 15 anni - puntando tutto sulla prevenzione e, fin quando possibile, sul dialogo - a una gestione eccellente dell’ordine pubblico in eventi di grande rilevanza internazionale (come, di recente, il G7 di Taormina, e i 60 armi dei Trattati di Roma) senza nemmeno un incidente. Un modello che ha certo aiutato anche a far sì che il nostro Paese sia stato al riparo, unico dei grandi Paesi occidentali, da episodi di terrorismo. Tuttavia la minaccia dell’anti-Stato non è mai battuta per sempre, capace com’è di autoalimentarsi con sempre nuove parole d’ordine. A quasi 30 armi dalla caduta del Muro tornano incredibilmente a manifestarsi segnali che sembrano ricacciarci indietro di quasi mezzo secolo: stelle a 5 punte nei pressi di abitazioni delle vittime del terrorismo rosso a Milano, lapidi deturpate a Bari, come era avvenuto qualche mese fa in via Fani, a ridosso del quarantennale. E ancora, volantini inneggianti ai brigatisti in carcere a Sesto, la Stalingrado d’Italia di un tempo, e poi anche a viale Monza, a Milano. Ma basta andare su Facebook sulla pagina “aperta” di qualche ex brigatista che ha approfittato dei 40 armi dal caso Moro per ironizzare incredibilmente sulle vittime, per accorgerci che c’è come una voglia di “combattenti e reduci” di ritrovarsi, come in attesa che tornino le condizioni per “agire”. E all’estrema destra i segnali non sono meno inquietanti. Di fronte a tutto ciò lo Stato non ha che da continuare sulla strada intrapresa. Una strada fatta di prevenzione, fermezza e tolleranza insieme, facendo uso del giusto discernimento. Fermezza anche in casa propria. Per evitare che la violenza perpetrata anche da uomini in divisa alimenti con un certo tipo di narrazione interessata, la nostalgia dura a morire, e un po’ patologica, dei “cattivi maestri”. Pronti a soffiare sul fuoco di un Paese in grande difficoltà. Il calvario di Cucchi e lo stigma sulla droga di Franco Corleone Il Manifesto, 17 ottobre 2018 La morte di Stefano Cucchi sgomenta ancora più dopo la confessione di uno dei cinque carabinieri imputati per il pestaggio avvenuto la notte del fermo, letta dal Pm l’11 ottobre in una udienza del processo conseguente all’inchiesta-bis disposta dalla Procura della Repubblica di Roma. Dalle parole del militare, traspare infatti il carico di inaudita violenza esercitata verso una persona fragile dal punto di vista psicologico e esile dal punto di vista fisico: Stefano Cucchi aveva la passione per la boxe ma pesava solo 43 chili (al momento del decesso si era ridotto a 37 chili). Colpisce il cumulo di omissioni, di reticenze e di menzogne che si sono sviluppate in questi anni e la cortina di omertà che ha accompagnato un calvario di sette giorni, dalla notte del fermo al giorno della autopsia. Solo ora l’omertà si è parzialmente rotta. Questo squarcio di verità dopo dieci anni, con il racconto raccapricciante dei calci e pugni inferti da due carabinieri, svela una rete di coperture dello Stato, purtroppo non inedita. Rivediamo gli spezzoni di questo film dell’orrore: Stefano Cucchi viene fermato da una pattuglia dei carabinieri e trovato in possesso di 21 grammi di hashish; i carabinieri procedono a una perquisizione nell’abitazione della famiglia Cucchi, quindi lo riportano in caserma dove si procede al pestaggio e infine lo trasportano in custodia cautelare a Regina Coeli. La mattina all’udienza di convalida si presenta con un avvocato d’ufficio e nessuno si accorge delle condizioni fisiche compromesse (difficoltà a camminare, a parlare e gli ematomi agli occhi). Il giudice distrattamente conferma l’arresto e rinvia il processo a nuova seduta che si sarebbe tenuta un mese dopo. Viene ricondotto in carcere e a causa del peggioramento dello stato di salute viene visitato all’Ospedale Fatebenefratelli dove il ricovero non si concretizza per il mancato consenso del paziente. Dopo il ritorno in carcere e una breve permanenza lì, viene disposto il ricovero nel repartino bunker dell’Ospedale Sandro Pertini. È una vicenda che condensa in sé, in modo esasperato, tutti i malanni e le contraddizioni del funzionamento della giustizia, del carcere non trasparente, della mancata tutela della salute in carcere (da un anno la sanità era passata nella competenza del servizio sanitario pubblico), di una legislazione repressiva sulla droga. Nel dibattito anche di questi giorni, poco si sottolinea quanto abbia contribuito a quell’esplosione di cieca violenza lo stigma del consumatore di droga, del tossicodipendente, del piccolo spacciatore di sostanze stupefacenti illegali, soggetti pericolosi per la società, e perciò senza diritti, sui quali ogni abuso di potere è in fondo giustificato. Erano gli anni del trionfo della legge Fini-Giovanardi, della cancellazione della differenza tra droghe pesanti e leggere, delle pene altissime per detenzione di sostanze, del rilancio della war on drugs. In una guerra vi sono vittime, effetti collaterali e impunità per chi pretende di avere una missione salvifica. Il corpo può essere schiacciato se l’anima viene salvata. Così Carlo Giovanardi poteva definire impunemente Stefano Cucchi uno zombie. Ho riletto un mio commento a questa tragedia, pubblicato dal Manifesto il 2 novembre del 2009 in cui individuavo come centrale il tabù della droga. Stefano Cucchi in quegli anni non fu un caso isolato. Molte persone morirono in carcere per morte “naturale” o per suicidio. Marco Ciuffreda, Giuseppe Ales, Alberto Mercuriali, Roberto Pregnolato, Stefano Frapporti, Aldo Bianzino sono state le vittime della violenza e dell’intolleranza di una legge creata dal furore ideologico che produce ancora guasti riempiendo le carceri. L’indignazione dovrebbe pretendere la riforma della legge criminogena sulle droghe. Caso Cucchi, “chi sa parli”. Nistri lancia un appello a tutti i carabinieri di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 ottobre 2018 L’appello lanciato ieri dal comandante generale dell’Arma. Minacce di morte all’avvocato difensore del “pentito” Francesco Tedesco. “Questa è l’occasione. Chi sa parli, perché un carabiniere deve rispettare il proprio giuramento. Chi esce da questa regola e viene ritenuto responsabile di gravi fatti non è degno di indossare la divisa. Un carabiniere ha il dovere morale, prima ancora di giuridico, di dire la verità e di dirla subito”. È senza precedenti l’appello lanciato ieri dal comandante generale dell’Arma, il generale Giovanni Nistri, intervistato da Bruno Vespa, perché emerga finalmente la verità sulla morte di Stefano Cucchi. Nistri, che oggi pomeriggio incontrerà la famiglia Cucchi insieme alla ministra della Difesa Elisabetta Trenta, si è detto “lieto” per la denuncia presentata dal vicebrigadiere Francesco Tedesco contro i suoi due colleghi e co-imputati accusati di aver pestato, il 15 ottobre 2009, il giovane geometra romano morto una settimana dopo in ospedale, e contro ignoti per la scomparsa dei verbali di servizio che aveva depositato nella caserma Appia. “Ha detto la sua verità - ha precisato Nistri. Questo vuol dire che questa verità adesso potrà entrare a pieno titolo nel processo insieme con tutte le altre evenienze che sono state accertate nel frattempo dall’autorità giudiziaria, e dunque questo sarà un passo in più verso una definizione della vicenda”. “L’Arma andrà fino in fondo per la parte di sua competenza - ha aggiunto poi il Comandante dell’Arma - Siamo lieti che l’autorità giudiziaria stia procedendo perché infine si avrà una perimetrazione completa delle responsabilità. Che si tratti di responsabilità commissive piuttosto che di responsabilità omissiva nei controlli, eventualmente, piuttosto che in altre ipotesi anche diciamo di disattenzione o di agevolazione”. Un appello tanto più importante perché arriva in un momento molto delicato. Ieri l’avvocato difensore del maresciallo Mandolini (imputato, allora comandante della caserma Appia) ha accusato in una lettera i legali di Tedesco di aver stipulato “inconfessabili accordi” tra il loro assistito e il pm. E sempre ieri l’avvocato Eugenio Pini, uno dei difensori di Tedesco, ha denunciato in Procura di aver ricevuto minacce di morte. “Lei sa chi mi ricorda? Rosario Livatino” (il giudice ucciso dalla mafia, ndr), avrebbe detto un uomo dall’accento siciliano durante una telefonata che potrebbe essere state registrata, e che si è conclusa con un “la seguirò, non solo spiritualmente”. “Su Cucchi patto inconfessabile col pm”. Un avvocato accusa il collega: sei un traditore di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 17 ottobre 2018 Le rivelazioni del carabiniere che ha riaperto il “caso Cucchi” degenerano nello scontro tra avvocati. O meglio, nell’invettiva di “traditore” lanciata dal difensore di uno dei militari imputati nel processo-bis contro il difensore del “pentito” che dopo nove anni di silenzi e bugie ha deciso di accusare i suoi colleghi. Con l’insinuazione velenosa, messa nero su bianco in una lettera diffusa ai componenti della Camera penale, di aver siglato “inconfessabili accordi” con il pubblico ministero. Protagonista della inedita e clamorosa iniziativa è Giosuè Bruno Naso, 71 anni, uno dei più combattivi e irruenti penalisti romani, legale di Massimo Carminati nelle sue lunghe peripezie giudiziarie fino a “Mafia capitale”. Nel processo contro i carabinieri accusati della morte di Stefano Cucchi e dei successivi depistaggi assiste il maresciallo Roberto Mandolini, imputato di falso e calunnia, chiamato in causa (fra gli altri) dalle confessioni di Francesco Tedesco. Che a dibattimento in corso ha deciso, con il suo avvocato Francesco Petrelli, di presentarsi al pubblico ministero per denunciare - nel segreto di una nuova indagine - di aver assistito alle percosse inflitte a Cucchi da due colleghi e la scomparsa dagli archivi dell’Arma di una sua relazione in cui raccontava la verità. Una mossa che ha una sola ragione “inconfessabile ma assolutamente chiara”, ha scritto Naso a Petrelli, di cui è (anzi era, a giudicare dalla lettera) amico di vecchia data: “La promessa derubricazione dell’imputazione nei confronti del tuo cliente in favoreggiamento, reato già prescritto, anche a costo di aggravare la posizione di tutti gli altri imputati”. Un patto occulto col pm, insomma, siglato sulla pelle degli altri carabinieri alla sbarra. Con una aggravante: “Non hai avvertito il bisogno, la necessità, la opportunità di informare i colleghi, tutti i colleghi e me in particolare!”. Quello che potrebbero pensare (e probabilmente pensano) di Tedesco i carabinieri con i quali aveva stretto il patto di omertà sul caso Cucchi, viene ora trasferito nei rapporti fra avvocati. Una pericolosa confusione di ruoli secondo l’avvocato Petrelli, segretario uscente dell’Unione camere penali, che prima in una lettera privata e poi in una dichiarazione pubblica definisce “gravissime e infondate” le illazioni di Naso, e ribatte: “È inaccettabile sovrapporre indebitamente la figura del difensore a quella dell’assistito, e confondere i rapporti personali e professionali fra colleghi con le scelte processuali degli imputati. Tedesco ha fatto una scelta difficile e coraggiosa e non vi è nulla di “inconfessabile” nei motivi che lo hanno indotto a denunciare i fatti e le responsabilità altrui, né nei modi in cui tale contributo di verità è stato fornito all’autorità giudiziaria”. Nel processo, Naso ha accusato di “metodi stalinisti” il pm Giovanni Musarò, come aveva fatto con quelli di “Mafia capitale”, dove non aveva risparmiato insulti a qualche collega. Ma stavolta l’iniziativa ha creato scompiglio e anche un po’ di sconcerto nelle aule e nei corridoi del palazzo di giustizia, dove molti avvocati reputano assurdo contestare a un collega il mancato avvertimento sulle mosse di un cliente; per le conseguenze che una simile pretesa potrebbe avere sull’indagine e sulle persone coinvolte, e perché potrebbe perfino trasformarsi in un reato. La lettera di Naso contribuisce ad avvelenare un clima già turbato dalle accuse di “infamità” contro Tedesco affisse sui muri di Brindisi, sua città natale, dagli ultras locali, e da una minacciosa telefonata ricevuta dall’altro difensore del carabiniere “pentito”, Eugenio Pini: una voce con accento siciliano lo ha assimilato al giudice Rosario Livatino, assassinato dalla mafia. Mentre il comandante generale dei carabinieri Giovanni Nistri, che oggi incontrerà Ilaria Cucchi insieme al ministro della Difesa Elisabetta Trenta, chiede verità: “Chi sa parli”. Verdiglione, malato e in galera. La colpa? Essere antipatico di Valter Vecellio Il Dubbio, 17 ottobre 2018 Si è chiesto (e ci ha chiesto), questo giornale: volete proprio che Armando Verdiglione muoia in carcere? È da qui, che occorre partire. Come si spiega, come si “giustifica” tanto pervicace accanimento. Che cosa paga e deve pagare realmente. Della sua vicenda giudiziaria, poco o nulla, importa ora. Non c’è alcuna necessità di leggere le carte processuali per intervenire a suo favore. Basta quello che hanno scritto Il Dubbio e L’Opinione; quello che dichiara la radicale Rita Bernardini che lo ha visto nel corso di una sua visita ispettiva nel carcere di Opera. Si parla di una persona che al di là di quello che gli viene addebitato, accetta socraticamente la pena che i giudici gli hanno inflitto. Una persona che spontaneamente si presenta in carcere; la cui salute, per questa detenzione, è gravemente compromessa. Vale per Verdiglione e per tutti i detenuti: nel momento in cui lo Stato priva della libertà un cittadino, automaticamente si fa garante della sua incolumità fisica e psichica. È un diritto del cittadino detenuto, è un dovere dello Stato. È un qualcosa che corrisponde alle elementari regole del vivere in una collettività; è quello che prescrive la Costituzione. Senza “se” o “ma”. Per questo Verdiglione (i tanti Verdiglione ristretti nelle carceri italiane), va difeso, sostenuto; la sua “causa” sollevata. È qualcosa di così elementare che imbarazza perfino doverla ribadire, spiegare. Tuttavia si contano nelle dita delle mani le voci che si sono levate. Conviene chiedersi come mai. Una risposta possibile: Verdiglione è “antipatico”; e paga questo suo essere “antipatico”. Non è socio di “circoli” politicamente corretti. Non ha buona fama, non più almeno; sconta invidie passate, molti lo ritengono una via di mezzo tra il cialtrone e l’imbroglione. Diamo per concesso che sia tutto vero. E dunque? Fosse dieci, cento volte di più quello di cui lo si accusa di essere, per questo lo si deve lasciar agonizzare in una struttura carceraria? Che problema di ordine pubblico costituisce il lasciargli scontare la pena ai “domiciliari”? Cosa ci impedisce di insorgere, e si è in pochi a farlo? Non è una novità, questo “garantismo” a corrente alternata. È un malcostume diffuso: ci si mobilita quando a essere colpita è la nostra “parte”, qualcuno della “comunità” a cui si appartiene. Se si tratta di un appartenente a una fazione avversaria, si volta la testa, si tace. Erano gli anni 80 quando per la prima volta mi sono trovato a fare i conti con questo modo di fare. Un ragazzo di destra languiva malato nel carcere romano di Rebibbia, in attesa di un processo che mai arrivava. Ci volle del buono, per riuscire a fargli dare almeno i domiciliari; al processo venne poi assolto con formula piena. Nessuno dei miei amici della sinistra di allora volle fiatare. Poco o nulla è cambiato. Quando il leader della Lega sente l’esigenza di riformare la giustizia? Quando la Lega viene condannata per la storia dei 49 milioni di euro. Quand’è che il M5S sente l’esigenza di occuparsi di giustizia e di Consiglio Superiore della Magistratura? Quando al Csm viene eletto come vice- presidente un candidato diverso da quello da loro designato. Il “caso” Verdiglione: ci dice che si deve partire dai fondamentali; dalla Costituzione, che obbliga lo Stato a garantire salute fisica e psichica a quei cittadini a cui, per qualsivoglia ragione, priva la libertà. Il ministro della Giustizia (ma vale, il discorso, per tutti i componenti del Governo) dovrebbe trovare il tempo per visitare un qualsiasi istituto di pena (naturalmente visite senza preavviso, non concordati caroselli a beneficio telecamera). Cosa si può fare? Una cosa, concreta, che può fare chiunque ha a cuore le questioni della giustizia giusta, ed è garantista nel senso autentico e preciso del termine: vada a firmare le otto proposte di legge di iniziativa popolare promosse dal Partito Radicale. Perché non ci sia, un giorno, la necessità di scrivere articoli come quello che Il Dubbio ha pubblicato per il caso di Verdiglione. Campania: in ospedale non c’è posto per i detenuti di Angelo Agrippa Corriere del Mezzogiorno, 17 ottobre 2018 Ciambriello: “Soltanto 32 letti su 7.400 carcerati”. Nuovo suicidio in cella a Poggioreale. “Negli ospedali i posti letto da destinare alla popolazione ristretta devono aumentare. In Campania sono solo 32 per una popolazione di 7400 detenuti”. Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, ha illustrato la complicata situazione nel corso del focus sulla sanità penitenziaria presso la sede del consiglio regionale della Campania. Sembra davvero un mondo a parte quello degli istituti di pena napoletani. Ieri un nuovo caso di suicidio: un detenuto di 35 anni del carcere di Poggioreale è stato ritrovato impiccato nella sua cella. “Sovraffollamento e carenza di organico sono i mali del sistema carcerario - ha denunciato Ciro Auricchio dell’Unione sindacale di Polizia penitenziaria: occorre decongestionare il sistema con il nuovo carcere che dovrebbe sorgere a Nola e nuove assunzioni di polizia penitenziaria. Solo tra Secondigliano e Poggioreale - ha sottolineato - mancano 300 agenti”. Ciambriello ha quindi elencato i suoi dati: “L’anno scorso in Campania si sono registrati 5 suicidi e 77 tentativi di suicidio che non sono andati in porto grazie all’attenzione degli agenti di polizia penitenziaria e a qualche compagno di cella. Sono stati, inoltre, accertati più di 700 gesti di autolesionismo”. Il garante dei detenuti ha segnalato gli aspetti più drammatici che compongono il quadro complessivo della sanità penitenziaria: un’altra criticità “riguarda il trasferimento per le visite specialistiche che avvengono in tempi lentissimi, sia a causa delle lunghe attese ospedaliere, sia per la carenza di personale. A Poggioreale c’è un buon reparto di radiologia, ma manca la Tac: mettiamola a Secondigliano per consentire meno spostamenti, con un risparmio economico e di personale, perché ogni volta che un detenuto esce per una visita specialistica deve essere accompagnato per sicurezza da tre agenti”. Per non dire delle condizioni organizzative della salute mentale che restano particolarmente allarmanti. Ciambriello ha fatto notare che “in Campania sono stati definitivamente chiusi gli Opg di Napoli e di Aversa e sono state attivate 6 articolazioni per la tutela della salute mentale nelle carceri di Sant’Angelo dei Lombardi, Benevento, Santa Maria Capua Vetere, Secondigliano, Pozzuoli e Salerno per un totale di 70 posti. Basta per garantire che la detenzione di una persona con sofferenza psichica avvenga nel rispetto della dignità umana e dei principi generali in materia di trattamento penitenziario? Secondo la mia esperienza - ha sottolineato - si ha la percezione che alcuni di questi reparti vengano usati come “valvole di sfogo” per ospitare e contenere detenuti problematici, ma senza patologie psichiatriche conclamate, con problemi di convivenza nelle sezioni ordinarie”. Il Governo nazionale stanzia 40 milioni l’anno per il sistema campano, ma i fondi vengono assorbiti soprattutto dal pagamento degli stipendi degli operatori. “La Regione può fare molto, perché le Asl a partire dei detenuti e dei tossicodipendenti fa dei programmi veri e bisogna incrementare personale, risorse e attrezzature - ha concluso il garante. Bisogna fare anche un tipo di formazione particolare per queste persone e portare la stabilizzazione degli operatori sanitari dentro le carceri”. Campania: Beneduce “urgente miglioramento dell’assistenza sanitaria ai detenuti” di Francesca Pinfildi ilmeridianonews.it, 17 ottobre 2018 “La lungaggine delle procedure di traduzione dei detenuti presso i luoghi di cura e le liste d’attesa rendono l’assistenza nulla e molto costosa”. Sanità penitenziaria, F. Beneduce: urgente miglioramento dell’assistenza ai detenuti. “A distanza di 10 anni dal passaggio di competenza della medicina penitenziaria dallo Stato alle Regioni, siamo ancora lontani dal garantire il diritto di salute delle persone detenute. La riforma ha pesato sulle spalle già fragili della sanità regionale e dei suoi bilanci. Ma a pesare ancora di più c’è stata una programmazione a macchia di leopardo che pone molti interrogativi sull’effettivo utilizzo dei fondi destinati dal Fondo Sanitario Nazionale alla sanità penitenziaria - è quanto dichiarato stamane da Flora Beneduce, consigliere segretario dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale della Campania, tra gli organizzatori del Focus sulla sanità penitenziaria. “I tempi di risposta ai bisogni di salute dei detenuti sono lunghi e gestiti con aggravi di spesa che il sistema sanitario regionale non può sopportare” - ha sottolineato nel suo intervento la Beneduce. “La lungaggine delle procedure di traduzione dei detenuti presso i luoghi di cura e le liste d’attesa rendono l’assistenza pressoché nulla ma molto costosa”. “I detenuti vanno curati in carcere - ha aggiunto la consigliera - utilizzando strumenti idonei a garantire la continuità terapeutica e la rapidità degli interventi. Tra questi, priorità assoluta va data all’istituzione del Fascicolo Sanitario Elettronico, all’utilizzo di tac mobili, e alla somministrazione di vaccinazioni per le patologie più a rischio”. “In chiusura del suo intervento la Beneduce ha rimarcato che il tema centrale è la corretta programmazione della spesa sanitaria per evitare gli sprechi. Le risorse finanziarie, se mal gestite, compromettono un sistema molto complesso e delicato: su questo punto mi riservo un approfondimento con le strutture competenti - ha affermato”. Calabria: verso la prima Conferenza regionale sulla violenza alle donne di Francesco Scopelliti calabriaonweb.com, 17 ottobre 2018 Il coordinatore dell’Osservatorio Mario Nasone: “Istituiremo un centro di documentazione e ricerca per studiare i casi di donne vittima di violenza in Calabria”. Mercoledì 17 ottobre ci sarà la conferenza stampa per illustrare i tratti salienti della prima “Conferenza regionale sulla violenza alle donne” in programma per il 26 ottobre in Consiglio regionale. Il coordinatore dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere Mario Nasone traccia in quest’intervista le linee guida lungo le quali l’Osservatorio dovrà muoversi e operare. Nasone, cinquant’anni di esperienza sociale, di militanza, iniziata al fianco del compianto don Italo Calabrò con il quale intraprese un percorso di associazionismo già nel 1968 - un cammino di scoperta e di presa di coscienza di quelle che erano le spinte di cambiamento e di giustizia. L’esperienza di Nasone, lo ha portato a toccare con mano tutte le “zone calde” della società. Un lavoro che, in trent’anni di assistenza sociale nelle carceri, lo ha messo a stretto contatto con la sofferenza e il disagio delle fasce più deboli. Un impegno che è continuato con la sua associazione Agape, attraverso la quale si è occupato del problema delle donne in difficoltà, vittima di violenze o casi di ragazze madri abbandonate alla solitudine. Istituito con la legge regionale 38/2016, l’Osservatorio regionale sulla violenza di genere, cosa rappresenta e di cosa si occuperà? “L’Osservatorio è stato fortemente voluto dal Consiglio regionale, e dal suo presidente Nicola Irto, per dotarsi di uno strumento che possa leggere il fenomeno. E per la prima volta la Regione Calabria, con la Conferenza di ottobre, inizierà ad interrogarsi su questa realtà, dando vita ad un momento conoscitivo e di approfondimento per associazioni e istituzioni. E per la prima volta, tutte le parti in causa rispetto ad un tema importante come la violenza di genere, sono riuscite a fare rete”. Da chi o da quali soggetti è costituito l’Osservatorio e con quali funzioni svolgerà le sue attività? “L’Osservatorio è composto, oltre che da tre membri di diritto (presidente della Crpo, consigliera di parità e rappresentante del dipartimento regionale Tutela della Salute), da cinque esperti e dieci rappresentanti di associazioni attive nella materia del contrasto alla violenza di genere, che sono stati individuati attraverso un avviso pubblico. Oltre al sottoscritto, sono stati chiamati quattro esperti di comprovata esperienza nel settore: Antonietta Accoti, Catiuscia Mazza, Clelia Bruzzì e Giuseppe Callà. Per conto delle associazioni di settore, sono stati designati: Jessica Tassone (associazione DoMino), Roberta Attanasio (Centro ‘Roberta Lanzino’), Laura Amodeo (Laboratorio da Sud-Per il cambiamento), Pasqualina Federico (Noemi - Soc. cooperativa sociale srl), Isolina Mantelli (Centro calabrese di solidarietà), Maria Stella Ciarletta (Associazione WWW - WhatWomenWant), Concetta Grosso (Cif Cosenza), Monica Riccio (Fondazione Città solidale Onlus), Paola Cammareri (Associazione Filo Rosa), Giovanna Cusumano (Camera nazionale avvocati per la Famiglia e i Minorenni). Le sue attività principali saranno quelle di creare un costante collegamento con il mondo della scuola e dell’università calabrese per cercare soprattutto di diffondere una cultura del rispetto di genere e della denuncia”. Il suo impegno in prima fila, da coordinatore e senza indennità - così come tutti gli altri componenti - che obiettivi si pone nel breve periodo? “Il monitoraggio è la prima finalità che l’osservatorio deve conseguire. Nel breve tempo dobbiamo mettere in pratica il piano di lavoro che ci siamo dati e che ha inizio con la Prima conferenza che si terrà il 26 ottobre, e con la quale il nostro organismo vuole parlare alla regione e alle sue varie componenti, istituzionali e civili. Subito dopo coinvolgeremo Save the Children per iniziare un percorso comune sulla violenza assistita; abbiamo in programma di creare un centro di documentazione e ricerca per studiare i casi di donne vittima di violenza in Calabria; creeremo iniziative di sensibilizzazione su tutte le province coinvolgendo scuole ed università, e istituti penitenziari. Insomma un programma ricco ed impegnativo che per essere completamente realizzato necessita dell’aiuto dell’amministrazione regionale. Perché alcune iniziative possono essere organizzate a costo zero, ma altre hanno bisogno di risorse”. La Calabria si dota di uno strumento operativo e di supporto fondamentale, riuscirà ad allinearsi agli standard di altre esperienze attive nel resto d’Italia? “C’è un gap da colmare con le altre regioni. Siamo almeno un decennio in ritardo. I primi piani regionali, grazie a fondi comunitari, regioni come la Puglia li hanno avviati negli anni duemila. O la Toscana che quest’anno pubblicherà l’Ottavo rapporto sulla violenza di genere, ci fa capire quanto siamo indietro rispetto ad altre realtà. Ma con questo Osservatorio, per la prima volta tutte le agenzie sociali ed istituzionali si sono messe assieme per un agire comune. E la capacità di saper fare rete, certamente, sarà un punto di partenza efficace. Non dimentichiamo che la Calabria ha il dato che fotografa una situazione allarmante per quanto riguarda la violenza di genere. In questa rete associazioni, istituzioni e forze dell’ordine sono seduti allo stesso tavolo istituzionale e questo mi lascia ben sperare”. Napoli: suicidio in carcere, identificato il detenuto che si è ammazzato a Poggioreale di Alessio Esposito internapoli.it, 17 ottobre 2018 Un detenuto si è suicidato nel carcere di Poggioreale a Napoli. A divulgare la tragica notizia è Ciro Auricchio, dell’Uspp, l’Unione sindacali di Polizia Penitenziaria. L’uomo aveva 35 anni ed è stato trovato impiccato nella sua cella. Si chiamava Diego Cinque. “Sovraffollamento e carenza di organico sono i mali del sistema carcerario - ha dichiarato Auricchio. Il rimedio è decongestionare il sistema con il nuovo carcere che dovrebbe sorgere a Nola e nuove assunzioni di polizia penitenziaria”. Poi continua, sottolineando il periodo buio che si sta vivendo all’interno della Casa circondariale: “Solo tra Secondigliano e Poggioreale - ha sottolineato - mancano 300 agenti di polizia penitenziaria”. I dati purtroppo sono sconcertanti: Dall’inizio del 2018, solo in Italia, si registrano 47 casi di detenuti suicidati. Palermo: suicidio al Pagliarelli, detenuto si toglie la vita dopo un trasferimento di reparto palermotoday.it, 17 ottobre 2018 A dare notizia della morte di un 37enne è Pino Apprendi, presidente dell’associazione Antigone Sicilia: “Mi chiedo se sono sufficienti le ore dedicate al supporto psicologico”. Ancora un suicidio in carcere. Un detenuto di 37 anni si è tolto la vita ieri all’interno dell’istituto penitenziario Pagliarelli ad appena un giorno dal trasferimento in un altro reparto. A darne notizia il presidente dell’associazione Antigone Sicilia, che si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale: “Non può essere un caso che gli ultimi tre suicidi, nel carcere palermitano, avvengono dopo il trasferimento da un reparto all’altro”. “È possibile - afferma l’ex deputato regionale - che ci sia un buco nel sistema penitenziario anche rispetto ai trasferimenti interni? Possibile che debbano rivedersi le procedure? Dobbiamo pensare ad un carcere che può riabilitare o ad una discarica sociale? La parola Costituzione vale anche oltre il cancello di un carcere o la facciamo diventare zona franca? Mi chiedo - conclude - se sono sufficienti le ore che sono dedicate al supporto psicologico, agli educatori, agli assistenti sociali. A queste domande dovrebbe rispondere il ministro della Giustizia”. Terni: detenuto di 55 anni ritrovato morto, si presume ucciso da un infarto umbriaon.it, 17 ottobre 2018 Giacomo Zeno è stato stroncato da un infarto all’interno della Casa circondariale di vocabolo Sabbione. Il boss della camorra Giacomo Zeno, 55 anni di Ercolano (Napoli), è morto nel carcere di Terni dove era detenuto. Il decesso sarebbe stato causato da un infarto che non gli ha lasciato scampo. Uomo di punta del clan Birra-Iacomino e - secondo la Dda - artefice del patto mafioso tra il suo clan, i Gionta e i Lorusso, Giacomo Zeno era balzato agli onori delle cronache per i fatti di sangue e le condanne ma anche per le dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia, secondo il quale, nel suo periodo di detenzione a Poggioreale, il boss poteva disporre di un telefono cellulare per impartire ordini agli uomini del clan. Milano: detenuto morì a San Vittore. I periti: “l’hanno ucciso, nel silenzio di tutti” di Mirella Molinaro La Notizia, 17 ottobre 2018 Non è un nuovo caso Cucchi, ma il silenzio delle istituzioni anche in questa vicenda è assordante. Almeno a sentire cosa sostengono i legali di Alessandro Gallelli, un detenuto morto nel carcere milanese di San Vittore il 18 febbraio 2012. Una nuova perizia sulla tragedia afferma infatti che l’uomo è stato ucciso. Il suo corpo senza vita venne trovato ricurvo a terra con una felpa stretta intorno al collo e le maniche inserite nei piccoli buchi della grata che copre la finestra della cella. La vicenda fu subito archiviata come suicidio per impiccagione. Ma i genitori della vittima non si sono mai arresi e hanno ottenuto la riapertura dell’inchiesta. Un pool di esperti, nominato dalla famiglia, dopo numerose indagini è giunto a conclusioni finora inedite: Alessandro non si è suicidato ma è morto per strozzamento. I lividi rinvenuti sul collo non sono compatibili con quelli da soffocamento ma ci sono segni di dita. Ne sono certi il criminologo Luca Chianelli, il biologo forense Salvatore Spitaieri e i medici legali Berardo Silvio Cavalcanti e Vannio Vercillo. Un altro caso che fa riflettere e che diventa emblema dell’opacità che avvolge il mondo delle carceri. In questi giorni la svolta nella vicenda Cucchi ha riportato l’attenzione sulla mancanza di protezione di chi finisce nelle mani dello Stato. Il carcere non è poi così sicuro e ora spetterà al Tribunale di Milano fare luce su questa morte. Sulla base della consulenza di parte, i legali della famiglia sperano che il giudice accolga la loro opposizione alla richiesta di archiviazione, e che venga effettuata una super perizia che stabilisca la verità. Perché per loro non ci sono dubbi che il giovane sia stato ucciso. In particolare, il lavoro dei consulenti si è concentrato sul segno lasciato dalla felpa stretta attorno al collo. Per i medici legali è un’impronta post mortem, cioè il giovane non è stato impiccato ma il maglione è stato attaccato al cadavere per simulare un suicidio. Se venisse accertata questa ipotesi, bisognerà chiarire chi è entrato nella sua cella dal momento che Alessandro stava da solo e le chiavi sono custodite esclusivamente dalle guardie penitenziarie. Se fosse stato davvero ammazzato, chi ha avuto quelle chiavi? Al momento si tratta di analisi tecniche che potrebbero però essere importanti per le indagini. Già nel 2016 è arrivata la sentenza di primo grado nella causa civile che ha condannato il ministero della Giustizia perché Alessandro non fu sorvegliato a vista come prescritto. Ma in quel fascicolo c’era anche una perizia che sollevava diversi dubbi sull’ipotesi del suicidio. Il giovane milanese venne arrestato nell’ottobre 2011 per molestie sessuali e stalking e inizialmente rinchiuso a San Vittore in attesa del processo nel reparto dei cosiddetti sex offender, i detenuti accusati di reati sessuali. Poi fu trasferito nel Conp, il Centro di Osservazione Neuropsichiatrica, un luogo difficile dove si trovano i reclusi con gravi problemi di salute mentale. Su Alessandro pendevano accuse pesanti, di quelle che considerate infamanti e spesso punite da altri detenuti. Napoli: detenuto malato di tumore ottiene i domiciliari, ma ormai è in coma irreversibile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 ottobre 2018 A Ciro Rigotti, affetto da un carcinoma, il 3 ottobre era stata respinta la richiesta, accolta ieri. È in coma, ma nonostante ciò, fino a ieri pomeriggio, era agli arresti ospedalieri al padiglione Palermo dell’ospedale Cardarelli di Napoli. I familiari, da tempo, hanno chiesto la concessione degli arresti domiciliari per riportarlo a casa e accompagnarlo, circondato dall’affetto dei suoi cari, in quest’ultima fase della sua vita visto che è un malato terminale. Ma non solo, Ciro Rigotti, questo è il suo nome, non è un condannato definitivo, ma in custodia cautelare per associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti. L’appello ce l’ha tra qualche settimana, tant’è vero che ieri mattina è passato l’ufficiale giudiziario per la notifica. Ma se n’è andato senza ovviamente portare una firma con se. E come poteva, visto che è in coma? Dopo i tentavi scorsi, quando era stata accertata la sua grave malattia, finalmente il magistrato ha concesso i domiciliari. Il 3 ottobre scorso, la corte d’appello di Napoli ha respinto la richiesta, nonostante abbia accertato che Ciro è in gravissime condizioni di salute. Nella relazione medica c’è scritto che è affetto di “adenocarcinoma laringeo in fase metastatica, insufficienza respiratoria, stato cachettico (32 Kg), condizioni cliniche attuali estremamente gravi, il paziente è in imminente pericolo di vita”. Per la corte Ciro doveva rimanere in custodia presso l’ospedale e in regime detentivo per esigenze di sicurezza, quindi con il divieto di contatti con persone diverse dal personale sanitario e dai familiari conviventi. Ma come può essere pericolosa una persona in fin di vita? Pietro Ioia, attivista per i diritti dei detenuti, sempre in prima fila per denunciare gli abusi che avvengono nelle carceri napoletane, ha portato agli onori della cronaca vari casi simili. Così come quello di Rigotti. Ioia racconta di come nel carcere di Poggioreale “quando qualche detenuto perde sangue” viene curato con “antidolorifici o la cosiddetta pillola di Padre Pio”. Ioia denuncia di come l’assistenza sanitaria è un dramma, soprattutto nel carcere di Poggioreale. Sì, perché Ciro Rigotti ha avuto i primi sintomi della sua malattia mesi fa durante la reclusione in questo carcere. Ha avvertito i primi dolori all’orecchio, con conseguenti perdite di sangue dal naso. Nunzia, sua figlia, non ha dubbi. “Non lo hanno curato - spiega a Il Dubbio. Abbiamo denunciato la struttura e siamo pronti a dare battaglia. Mi ha raccontato che gli avevano somministrato antidolorifici e tamponato la perdita con dell’ovatta”. Ma il dimagrimento sempre più forte del padre ha portato la famiglia a chiedere una visita specialistica, che ha riscontrato un polipo nel naso a metà luglio. Purtroppo, però, la tac richiesta, è stata fatta poco tempo fa, con la scoperta del tumore in stato terminale. Ciro viene ricoverato in ospedale, ma, in seguito, nonostante il parere contrario dei medici del Cardarelli, rimandato in carcere. I familiari sono poi riusciti ad ottenere gli arresti domiciliari in ospedale, anche se, in realtà, hanno chiesto di riportarlo a casa. In coma, fino al primo pomeriggio di ieri in ospedale e in custodia cautelare. Ma uno che è malato terminale come poteva reiterare la condotta? Oltre l’aspetto umanitario, si profila un discorso di legittimità costituzionale: non solo il mancato rispetto dell’articolo 27, ma soprattutto dell’ articolo 3 perché la tutela della dignità umana imporrebbe di consentirgli di andare a casa a morire. Ora è a casa e potrà emanare l’ultimo respiro vicino l’affetto dei familiari. Ma, un innocente fino a prova contraria, per di più morente, ha dovuto aspettare il coma per evitare la misura carceraria? Milano: persone, non casi in cella di Isabella Bossi Fedrigotti Corriere della Sera, 17 ottobre 2018 “Qui dentro non ci sono numeri, non ci sono casi, bensì persone”, ha detto la professoressa Marta Cartabia, vicepresidente della Consulta, durante la sua visita a San Vittore. Parole nobili, parole giuste, parole sacrosante, ma come saranno suonate alle orecchie dei carcerati che ha incontrato, uno dei quali le ha fatto presente che tra le lenzuola dei loro letti non è raro trovare degli insetti? “C’è ancora grande distanza tra le parole e i fatti - ha dovuto riconoscere la magistrata - ma ciò non toglie che siano comunque vere”. Suonano alte e importanti anche fuori dalla prigione queste parole, che, pronunciate da un membro della Corte Costituzionale, assumono in un certo senso il tono di una promessa: quella di avvicinare sempre più le belle frasi alate alla realtà del nostro carcere milanese, uno dei pochi, non soltanto in Italia ma anche all’estero, a sorgere nel pieno centro cittadino e perciò sotto gli occhi di tutti noi e, indubbiamente, inevitabilmente, parte della nostra vita. Quel che più conta, però, è che siano state pronunciate dentro la struttura carceraria e poi spiegate nel corso dell’intera giornata che la professoressa Cartabia vi ha trascorso a tu per tu con i detenuti. Sul continuo divenire ha, infatti, messo l’accento, sul divenire delle vite, degli affetti, delle aspettative, delle intenzioni come sul divenire della realtà, anche di quella dentro San Vittore: sul suo modificarsi, lentoma sicuro, verso condizioni migliori, più degne, più umane. Sanremo (Im): “rivolta” detenuti, Rita Bernardini riprende lo sciopero della fame agenziaradicale.com, 17 ottobre 2018 “Se è questo ciò che Governo e Parlamento vogliono (per usare poi il pugno ancora più duro) la risposta sarà, per quel che mi riguarda, rigorosamente nonviolenta - ha dichiarato Rita Bernardini del coordinamento di presidenza del Partito Radicale, e sarà annunciata martedì prossimo a Radio Radicale nella puntata di Radio Carcere. Sia chiaro, è innanzitutto lo Stato ad essere fuorilegge e, con le sue mancate riforme, a dichiarare di voler permanere in questa situazione di totale illegalità nella quale i trattamenti inumani e degradanti (già condannati nel 2013 dalla Corte Edu) sono all’ordine del giorno, a partire da coloro che non sono curati e che muoiono in carcere. Il caso del Prof. Armando Verdiglione, 74enne che in pochi giorni di detenzione ha perso oltre 25 chili è uno dei tanti esempi delle migliaia di detenuti che rischiano letteralmente la vita per mancata assistenza sanitaria e mancata possibilità di accesso alle misure alternative al carcere. L’unica ricetta proposta dal Governo è + carcere e + carceri con il preannuncio di un fantomatico piano di costruzione di nuovi istituti che, se va bene, saranno ultimati tra 10/15 anni; piano che, ancora non è dato sapere, con quali risorse verrà finanziato. Inoltre, le cifre ufficiali che fornisce il Ministero non sono veritiere in quanto il carcere di San Remo, secondo i dati diffusi sul sito www.giustizia.it al 30 settembre, non risultava tra gli istituti più sovraffollati, 270 detenuti in 238 posti regolamentari mentre la Uil-Pa ci dice oggi che i posti legali sono 190”. Forlì: nuovo carcere, iniziata la gara di affidamento dei lavori romagnanoi.it, 17 ottobre 2018 Al via la gara di affidamento dei lavori di realizzazione del nuovo istituto penitenziario di Forlì. Ne dà notizia il deputato forlivese della Lega Nord Jacopo Morrone, sottosegretario alla Giustizia, che si è attivato per sbloccare un progetto in stand by da circa 15 anni. “Sono molto soddisfatto dell’esito della vicenda che vedrà la ripresa dei lavori della nuova struttura, indispensabile per il territorio. Siamo riusciti ad individuare risorse che superano i 34 milioni e 600.000 euro, che se non fossero stati destinati, almeno in parte, prima del 31 dicembre si sarebbero persi tra le pieghe del bilancio dello Stato”. Il Governo del cambiamento - dice il sottosegretario - “passa anche dalla concretezza con cui si affrontano i problemi dei territori e si dà seguito, nonostante le tante complicazioni, alle richieste della comunità. Questo intervento completa la struttura carceraria che, una volta ultimata, potrà accogliere 255 detenuti. Voglio, infine, ringraziare per la preziosa collaborazione in questa circostanza Francesco Basentini, Capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Barbara Casagrande, Direttore generale Edilizia statale del Ministero delle Infrastrutture e trasporti, e Pietro Baratono, Provveditore Opere pubbliche di Bologna”. Busto Arsizio: il Garante dei detenuti “manca l’ascolto da parte delle istituzioni” di Orlando Mastrillo varesenews.it, 17 ottobre 2018 Matteo Tosi lancia l’allarme sulla bomba sociale nella struttura di via per Cassano: “Non c’è più l’area trattamentale e le istituzioni ignorano ogni proposta e richiesta”. “Il carcere è una bomba sociale e il garante comunale dei detenuti è un’arma spuntata che non viene supportata né dalle istituzioni interne alla struttura, né da quelle esterne”. È qualcosa di più di un atto d’accusa quello di Matteo Tosi, ex-consigliere comunale dimessosi proprio per svolgere al meglio il ruolo che gli è stato assegnato dal sindaco Antonelli, schiacciato tra la sostanziale indifferenza dei decisori della casa circondariale e la mancanza di supporto minimo da parte del Comune di Busto. Il suo operato, ultimamente, è stato messo in dubbio da qualcuno e lui ha deciso di spiegare perché ultimamente non sta più facendo colloqui con i carcerati: “Semplicemente perché non posso fare nulla di quello che mi chiedono e perché non so più con chi posso rapportarmi”. La realtà fotografata da Tosi è impietosa: “A Busto Arsizio è scomparsa l’area trattamentale - spiega - che si è lentamente svuotata di forza dopo il pensionamento della dirigente Rita Gaeta, mai sostituita, e con un continuo andirivieni di educatori. Questo significa ritardi sostanziosi nella redazione delle sintesi personali dei detenuti e una limitazione all’accesso ai benefici di cui molti hanno diritto che siano permessi, scarcerazioni, messe alla prova”. In un carcere con 433 detenuti, dato di ieri, su 280 di capienza, di cui due terzi stranieri e la metà extra-comunitari (non c’è nemmeno un mediatore culturale), la tensione si avverte ad ogni apertura celle, ad ogni (pessimo) pasto, ogni notte: “È di poche settimane fa la rivolta con i fornelletti lanciati contro la Polizia Penitenziaria, sott’organico ma comunque abbastanza tollerante nei confronti dei carcerati - ricorda Tosi - eppure se cerco di proporre proposte culturali non vengo nemmeno preso in considerazione”. Diversi i progetti proposti: corsi per realizzare magliette stampate, cineforum in collaborazione col Baff, incontri con gli autori del territorio. Il garante sta anche lavorando ad un pool di tre avvocati in collaborazione con l’Unione delle Camere Penali di Busto Arsizio per coadiuvare lo sportello amico presente in carcere che fa da tramite tra le richieste di informazioni dei detenuti. Tosi sostiene che anche il Comune non agevola il suo compito a dovere: “Il consigliere Paolo Efrem ha protocollato in questi giorni la richiesta che facciamo per la terza volta, lanciata dal mio predecessore Luca Cirigliano, in cui chiediamo la disponibilità di un ufficio, anche uno sgabuzzino, la pubblicazione della mail sul sito del comune di Busto Arsizio per contattarmi, un rimborso spese per eventuali spostamenti a Milano” - elenca il garante che spiega anche il perché di questa richiesta sottolineando “che il ruolo va legittimato e che l’impegno non indifferente necessario a svolgere bene questo ruolo richiede almeno un sostegno fattivo minimo dell’amministrazione”. Al fianco di Tosi c’è anche Luca Cirigliano che conferma tutti i problemi elencati dal suo successore e non nega che vi siano grosse difficoltà anche in carcere, realtà certamente complessa per definizione ma a Busto con qualche pecca in più: “L’unico modo per ottenere una risposta è passare tramite l’ufficio protocollo - sostiene Cirigliano - solo così sono obbligati a risponderti entro un termine preciso. Questo è l’unico consiglio che posso dargli oltre a quello di tornare a parlare coi detenuti. So cosa si prova a non sentirsi considerato nonostante l’impegno”. “Il male dell’ergastolano”, di Annino Mele di Gavino Dettori Il Manifesto, 17 ottobre 2018 Una società senza carceri. Questo è stato l’auspicio che è emerso nel convegno del 7 settembre nella presentazione del libro all’interno della rassegna Storie in Trasformazione “Il male dell’ergastolano” di Annino Mele, lui presente, in carcere dal 1987, è attualmente in libertà condizionale. Non sono mancate le riserve, se partecipare, o no, per dare visibilità ad un ergastolano, mai pentito, coerente nella sua giustizia, con la presentazione di un suo libro. Ma la considerazione che la cultura e la nostra Costituzione affida alle carceri, quale detenzione rieducativa, e anche aver assunto, personalmente, la cultura della abolizione della pena di morte, ha sciolto ogni mio dubbio. D’altronde lo spirito di vendetta di un crimine già consumato, non porta ragionevolmente alcun beneficio sociale e non evita la ripetizione sociale del crimine o reato. Questo si rileva dal permanere del comportamento antisociale di persone deviate o escluse socialmente, o dello spirito criminale nelle società dove ancora permane la pene di morte, pur attuata nei modi più crudeli, dove si corre spesso il rischio di condanne ingiuste, in specie se motivate da consuetudini illiberali o ideologie politiche-religiose. Lo spirito di vendetta alberga in noi verso chi ci ha offeso. Socialmente, nella generalità, viene soddisfatto, storicamente, con la reclusione, che prevede anche l’ergastolo o la pena di morte per crimini efferati. Ma la società civile avanzata, prevede la rieducazione e il reinserimento (almeno lavorativo) nella società, del criminale, che d’altronde sarebbe più oneroso continuare a tenerlo in carcere o sbandato, senza alcun beneficio sociale. La detenzione a vita, è vista dal carcerato come una condanna più crudele della pena di morte, perché tutta vissuta, e quand’anche vissuta con pentimento, lo stesso abilitandosi socialmente a vivere una vita più degna e coerente con la società, considerando quindi la detenzione inutile. Ma un reinserimento sociale si è verificato improbabile in una società dove manca il lavoro per i cittadini onesti, che rivendicano la precedenza, creando un conflitto insanabile. Ma socialmente è più facile condonare la pena di morte, che fa cessare ogni motivazione sociale, piuttosto che pensare di abolire l’istituzione carceraria, che con l’espiazione, ne motiva lo spirito di vendetta ed ha la funzione di scongiurare i crimini nella collettività, assumendo una valvola di sicurezza per le persone “oneste”. L’onestà è un eufemismo per mascherare i vari livelli di garanzia sociale chiesta da coloro che si trovano in condizioni di squilibrio privilegiato. Questo credo sia il motivo per cui è stata istituita la carcerazione in tutte le epoche storiche, in società create per proteggere coloro che si sono e si imporranno nella società con la forza: difendere lo “status” di coloro che hanno raggiunto il sufficiente livello di benessere, che permette loro di non effettuare crimini per soddisfare i bisogni materiali di sussistenza in vita, ed anche con la velata motivazione politica di auspicare l’equilibrio sociale. Anche se la ingordigia e la malvagità umana è tale che, che anche parte dei privilegiati cadono nella rete. Ecco che nella “legge uguale per tutti”, viene mascherata l’incongruenza sociale della diversità e della ingiustizia. Le carceri infatti sono state, sempre, riempite di povera gente, che ai crimini commessi dai pur garantiti, sommano quei crimini connessi alla loro condizione di disagiati, e penalizzati dalle ingiustizie. Le ingiustizie che nascono dalle strutture sociali create sulla prevalenza individuale del più forte. Oggi, maggiormente, si parla di “forza economica”, che si attua nel libero mercato, attraverso la “semi-colonizzazione economica “, riconosciuta dalle leggi internazionali, quindi non soggetta a criminalizzazioni; ma anche come forza fisica e come minaccia di vita, operata da gruppi criminali organizzati che si impongono rozzamente e temibilmente nel territorio. Ma in questo sistema economico, come imposto dal mercato, tutti abbiamo accumulato qualcosa da difendere, e per questo ci sembra logico accettare l’attuale giustizia e la carcerazione, consci, ma inconsciamente, che la “legge è uguale per tutti”, sebbene siamo, per natura tutti disuguali, ma peggio ancora, creati disuguali per costituzione e composizione sociale. Eliminare o rendere più umane le carceri, significa riconoscere, e annullare le disparità sociali, ma questo proposito non potrà verificarsi se una società non si pone l’obbiettivo di perseguire l’equità sociale, nella garanzia della libertà. Eurostat. L’Italia è il Paese europeo con il più alto numero di persone a rischio povertà di Emanuele Bonini La Stampa, 17 ottobre 2018 Sono almeno 2,4 milioni gli italiani ad essere finiti a rischio esclusione sociale a causa della recessione. Italiani sempre più in difficoltà. La crisi economica ha mietuto vittime a livello sociale, e non poche. Secondo Eurostat sono almeno 2,4 milioni gli italiani ad essere finiti a rischio povertà o esclusione sociale a causa della recessione. Dal 2008 al 2017 il numero dei cittadini dello Stivale in questa condizione è passato da 15 milioni a 17,4 milioni. Praticamente più di un quarto della popolazione vive attualmente nell’incubo dell’indigenza. In termini assoluti nessuno è messo peggio dell’Italia, in controtendenza rispetto ad una media generale che vede in Europa una timida situazione di ripresa, anche se non con in maniera uniforme ed omogenea. È vero che complessivamente nel territorio dell’Ue nel 2017 si contano tre milioni di europei in meno a rischio esclusione rispetto ai valori del 2008 (si è scesi da 116 milioni a 112,9 milioni di persone) e che nelle principali economie dell’Eurozona il numero di cittadini in difficoltà si è ridotto (-830mila in Germania, -380mila in Francia), ma in dieci Stati membri dell’Ue il tasso di rischio povertà o esclusione sociale è aumentato. Il primo di questi Paesi è la Grecia, stato oggetto di tre programmi di assistenza, il secondo è l’Italia. Nelle scorse settimana il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker aveva accostato la situazione economica italiana a quella ellenica. “Non vorrei che dopo aver gestito la difficile crisi della Grecia ci trovassimo in un’altra crisi della Grecia, questa volta in Italia”, aveva detto il lussemburghese parlando a Friburgo. Si parlava in quel frangente di manovra. Certo i numeri sulle persone in difficoltà in Italia mettono in risalto le difficoltà di un Paese che resta indietro, se si guardano le tendenze più generali, e che indubbiamente ha un calo nella domanda interna. I dati rischiano ora però di riproporre il braccio di ferro tra Roma e Bruxelles proprio sui conti pubblici, visto che il Movimento 5 Stelle ha fatto del reddito di cittadinanza e delle misure a favore dei più in difficoltà uno dei suoi cavalli di battaglia. Queste cifre potrebbero dare forza a chi ritiene necessario una manovra espansiva. Quegli italiani affamati che valicavano le Alpi di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 17 ottobre 2018 Una volta erano i nostri connazionali a fuggire all’estero: il reportage di Egisto Corradi per il Corriere d’Informazione del 1947 racconta la storia di un viaggio verso la Francia. “Quando usciamo si è levato un vento furioso. Viene di fronte, rade sibilando la neve, solleva veli di minutissimi aghi ghiacciati, è orribilmente freddo e tagliente. La guida accende una torcia elettrica e noi due andiamo dietro, quasi sordi, nel breve alone lattescente. (...) Questa, mi dico, l’Italia: questi i tristi giorni degli italiani, braccati dalla fame a valicare le frontiere”. Mette i brividi rileggere oggi, dopo l’insana decisione dei gendarmi francesi di scaricare come rifiuti al di qua del confine italiano due immigrati respinti, il reportage di Egisto Corradi pubblicato sul Corriere d’Informazione ai primi di febbraio del 1947. Reportage che racconta il tentativo di entrare in Francia del cronista e di “Sarino” Caruso, un siciliano che sognava di fare il barbiere e si tirava dietro una valigia di fichi secchi. Non solo perché Cesana Torinese (dove la pattuglia di poliziotti italiani ha visto e fotografato la camionetta della Gendarmerie che si liberava dei due migranti spingendoli nel bosco) è la contrada dei nonni di Paul Cézanne, che col suo stesso nome francesizzato ricorda quanto antica e radicata sia l’emigrazione italiana in Francia. Ma anche perché chi ricorda quel reportage del grande inviato sa quanto pesò sulla vita dei nostri nonni l’attraversamento delle Alpi verso la Francia con l’incubo di incontrare prima i carabinieri, poi le guardie della Gendarmerie. Durissime con gli italiani che tentavano di passare di là. “Ho il respiro affannoso, i tonfi del cuore si ripercuotono profondi alle tempie. Ci prendiamo un minuto di riposo, ritti e conficcati fino al ginocchio, la valigia buttata sulla neve. Sarino ha ragione, questa è una muraglia, non una montagna, va guadagnata di cento metri in cento metri, inframmezzati da soste decongestionanti. Quando i battiti del cuore sembrano placarsi, si riprende e su, su come dannati ad una impossibile pena. Finalmente, verso l’alto, una macchia scura. “Prima cantoniera”, dice la guida. In mezz’ora ci siamo. In un’ora, infatti, arriviamo a ridosso del fabbricato. “Aspettate qui, vedo se c’è nessuno”. Sarino e io aspettiamo lì, buttati sulla neve, sotto il vento gelato che ci penetra nelle ossa”. Fu costretto ad arruolarsi nella Legione Straniera, il povero Sarino fermato dai gendarmi: “Se accetti firmi qui e fra cinque anni sei cittadino francese. Così l’altro giorno han fatto insieme 15 veneti, piuttosto che tornare in Italia”. Dove nasce il “delitto di solidarietà”? di Francesca Cancellaro* e Stefano Zirulia** Il Manifesto, 17 ottobre 2018 Le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina rivolte al Sindaco di Riace, così come quelle rivolte alle Ong che prestano soccorso in mare, hanno sollevato in Italia il drammatico tema del “delitto di solidarietà”: come è possibile che coloro che salvano le vite dei naufraghi vengano equiparati a trafficanti di esseri umani? Cosa hanno in comune lo scafista che intasca fino a 2.500 dollari per ogni migrante (dati Onu 2018), e un sindaco che, secondo quanto emerge dall’ordinanza del Gip di Locri, avrebbe organizzato un matrimonio fittizio allo scopo di agevolare l’ingresso in Italia di un giovane somalo, senza alcun tornaconto economico? Per rispondere occorre fare un passo indietro. Il contrasto al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina faceva parte degli Accordi di Schengen del 1985, che hanno rimosso le frontiere tra gli Stati appartenenti alla (allora) Comunità Economica Europea. Si voleva infatti controbilanciare la libera circolazione all’interno dello spazio europeo con un irrigidimento dei controlli alle frontiere esterne. A tal fine gli Stati membri si impegnavano a sanzionare “chiunque aiuti, a scopo di lucro, uno straniero ad entrare nel territorio in violazione della legislazione”. L’obiettivo era evidentemente quello di contrastare l’azione degli smugglers, cioè di coloro che, dietro pagamento di somme di denaro (“a scopo di lucro”, appunto), avessero in qualsiasi modo agevolato l’elusione dei controlli alle frontiere esterne. Con l’avvento dell’Unione Europea, l’obbligo per gli Stati membri di sanzionare il favoreggiamento venne rafforzato attraverso il suo inserimento all’interno di una direttiva (n. 90 del 2002) e di una decisione quadro (n. 946 del 2002); con una significativa differenza rispetto al passato: non era più richiesta, come elemento dell’illecito, la finalità di profitto. La novità si giustificava, secondo quanto recentemente ribadito dalla Commissione europea nel Working document on smuggling (2017), per esigenze di carattere investigativo: gli scambi di denaro tra migranti e scafisti, infatti, sono difficilmente tracciabili, sicché in molti casi risulta impossibile per le Procure dimostrarne l’esistenza. Tale disciplina, tuttavia, presenta un evidente effetto collaterale, ossia la creazione di una rete capace di intrappolare non più solo gli smugglers, ma anche coloro che, pur senza ricavarne un guadagno, abbiano comunque facilitato l’ingresso irregolare. In questo senso dispone, in Italia, l’articolo 12 del Testo Unico Immigrazione, che incrimina il favoreggiamento con pene assai severe: laddove siano coinvolti cinque o più migranti (si pensi ai salvataggi in mare), la sanzione può arrivare fino a quindici anni di reclusione, paragonabile per severità a quanto previsto per la rapina, l’associazione mafiosa, la violenza sessuale nei confronti di un bambino. È anzitutto il buon senso, prima ancora del principio costituzionale di proporzionalità della pena, a ribellarsi ad un simile assetto normativo. Fortunatamente non mancano gli strumenti giuridici per evitare che i procedimenti penali, comunque attivati, portino ad esiti manifestamente ingiusti. Nel caso della nave Open Arms, ad esempio, il Gip di Ragusa ha disposto il dissequestro dell’imbarcazione rilevando che l’equipaggio aveva agito in stato di necessità, stante il rischio che i naufraghi fossero raccolti dalla guardia costiera libica e riportati nei campi di detenzione dove avrebbero subito violenze di ogni genere. Eventuali future sentenze di assoluzione, tuttavia, non impediranno che le indagini e i processi continuino a svolgersi, con conseguenze prevedibili in termini di riduzione delle attività di solidarietà. Eppure basterebbe poco per porre fine a questi procedimenti inutili e dannosi. Se le parole d’ordine dell’agenda sull’immigrazione sono davvero “guerra agli scafisti” e “tutela della vita umana”, sarebbe sufficiente tornare a prevedere che lo scopo di profitto sia un requisito indefettibile del reato di favoreggiamento dell’ingresso irregolare. L’attuale legislazione, al contrario, sembra rispondere alla volontà di predisporre un vero e proprio muro legislativo per ridurre i flussi migratori e impedire che vengano a crearsi corridoi umanitari di ingresso in Europa. Poco importa se lo strumento è a dire poco sproporzionato al risultato e ha un costo enorme in termini di vite umane; nelle attuali scelte politiche, la logica del “fine che giustifica i mezzi” sembra infatti avere ormai soppiantato quella dell’equilibrio, del buon senso, della solidarietà. *Francesca Cancellaro, avvocata del Foro di Bologna **Stefano Zirulia, docente di Diritto penale dell’Unione europea presso l’Università degli Studi di Milano Libia, quanti migranti sono pronti a partire per l’Europa di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 17 ottobre 2018 Prima di tutto la domanda centrale: quanti sono i migranti in Libia e quanti cercano di arrivare in Italia? La risposta non può essere che approssimativa, vista la situazione di caos violento in cui versa il Paese. Ma, dopo avere consultato gli inviati dell’Onu in loco oltre ai funzionari del ministero dell’interno a Tripoli, è possibile stimare circa 700.000, in maggioranza giovani uomini di età compresa tra i 18 e 30 anni provenienti dall’Africa sub-sahariana. Di questi oltre 200.000 sperano di potersi imbarcare illegalmente alla volta dell’Italia, o comunque delle coste europee, nel prossimo futuro. La grande maggioranza non vorrebbe insediarsi nel nostro Paese, ma cerca di raggiungere Francia, Germania e i Paesi del nord Europa. Non mancano quelli che chiedono asilo politico, specie dal Sudan, Somalia e dall’Eritrea, questi ultimi spesso ammettono di essere partiti per evitare il servizio militare. La legislazione italiana si sta facendo molto più rigida nei confronti delle domande di asilo politico e per ragioni umanitarie, quest’estate secondo i dati forniti dal Viminale era accettato tra il 5 e 7 per cento delle richieste. Ma occorre anche registrare la presenza storica di lavoratori stranieri in Libia non necessariamente orientati a partire per l’Europa. Ai tempi di Gheddafi e del benessere generato dell’export energetico superavano i tre milioni (su meno di sei milioni di cittadini libici), con una forte componente di egiziani. Oggi i funzionari governativi del ministero della Sanità a Tripoli stimano siano sul mezzo milione, quasi tutti africani, disposti ad adattarsi al precariato dei lavoretti temporanei e pronti a fare la spola con i loro Paesi d’origine lungo le strade del deserto. In Niger le agenzie Onu segnalano che molti di loro hanno accettato i programmi di rimpatrio coordinati da Niamey. Ma i viaggi di ritorno alle loro case sono lunghi e complessi, anche a causa delle difficoltà di coordinamento con i diplomatici dei Paesi africani di origine dei migranti. Il crollo delle partenze - Dal luglio dell’anno scorso, specie dopo gli sforzi dell’ex ministro degli Interni Marco Minniti per accordarsi con le tribù locali, con le loro milizie che cooperano con i trafficanti di esseri umani e soprattutto a seguito dell’impegno italiano per rafforzare la guardia costiera libica, i numeri degli sbarchi sono diminuiti. Secondo le statistiche fornite dal ministero degli Interni a Roma, nel 2017 erano stati 109.684, nel 2016 la cifra era 145.172. Quest’anno, dopo le chiusure volute dal ministro Matteo Salvini, compreso il blocco dei porti e le difficoltà poste alle navi delle organizzazioni non governative, gli sbarchi sono crollati: da gennaio all’ultima data monitorata il 15 ottobre i migranti sbarcati in Italia sono 21.712, di cui 12.465 partiti dalla Libia. Un calo del 87,50 per cento rispetto al 2017 e del 91,41 rispetto al 2016. Ancora quest’anno (sempre a data 15 ottobre) sono i tunisini a costituire la maggioranza degli arrivati con 4.753 persone, seguiti da 3.077 eritrei, 1.596 sudanesi, 1.487 iracheni e 1.353 pakistani. Il 71 per cento delle persone arrivate alle nostre coste è di sesso maschile, le donne sono il 9 per cento, il 20 per cento sarebbero minori non accompagnati (ma non sempre sono verificabili i dati anagrafici dichiarati). Le nuove rotte - Le chiusure italiane hanno inevitabilmente dirottato le partenze verso altri approdi, specie in Spagna (43.000 al 30 settembre 2018) e Grecia (23.000). Anche la rotta balcanica sembra in ripresa. Quest’anno già 6.500 persone sarebbero entrate in Bosnia contro le 700 dell’intero 2017. C’è da aggiungere che, dopo aver visto con i nostro occhi alcuni dei luoghi di partenza sulla costa libica compresa tra Tripoli e Misurata, non è detto che le statistiche italiane siano complete. È infatti possibile che un certo numero di migranti arrivi alle nostre coste senza essere intercettato e quindi monitorato dalle nostre autorità. Quanti siano questi “clandestini totali” in arrivo via mare da Libia, Marocco e Tunisia non è al momento possibile verificare. Il caos libico - La situazione libica resta comunque talmente grave e destabilizzata che continua ad interessarci molto da vicino. Il blocco delle rotte verso l’Italia e la mancanza di ben organizzati sistemi di salvataggio in mare sta per esempio comportando la crescita degli annegati e riportando il conteggio delle vittime a forse superare le stragi nei naufragi del 2013-2015. I responsabili dei guardia costa libici a Tripoli, Khoms e Misurata ammettono apertamente di non avere il carburante e i pezzi di ricambio che garantiscono i regolari pattugliamenti delle loro barche, incluse le quattro donate dall’Italia agli inizi estate 2017. Risultato? “Oggi la media dei decessi oscilla attorno al 8-10 percento delle partenze”, spiegano. A loro dire, comunque la presenza delle navi delle organizzazioni non governative internazionali di fronte alle acque territoriali libiche in passato ha costituito senza ombra di dubbio uno stimolo fondamentale per i flussi migratori. Gli scontri tra milizie nella regione della capitale iniziati a fine agosto hanno come conseguenza diretta che dai primi di settembre larga parte dei mari della Tripolitania non sono più pattugliati dai guardia costa locali. I morti in mare - “Dal primo Sos lanciato per esempio da un tratto di mare a 30 o 40 chilometri dalla terraferma può avvenire che trascorrano anche 8 ore prima che un nostro battello riesca a raggiungere il luogo dell’allarme”, dice in particolare il responsabile del porto di Khoms. Dal gennaio 2018 circa 13.200 sono stati “salvati” dai libici in mare. I morti accertati superano quota 1.150. E il dato è in continua lievitazione. Va aggiunto che tanti decessi avvengono sulle rotte della disperazione in pieno deserto, dove anche le violenze sessuali da parte dei trafficanti locali siano all’ordine del giorno. I migranti a Tripoli ci hanno raccontato di aver visto diversi cadaveri durante le loro infinite giornate di marcia sulla sabbia. Un fenomeno nuovo è la crescita della presenza di civili libici anche benestanti disposti a pagare oltre 10.000 dollari a testa pur di scappare dal caos locale a bordo di veloci barche in vetroresina e percorrere in meno di 24 ore i 450 chilometri di Mediterraneo che conducono alla Sicilia. I rimpatri - Comunque, per i migranti riportati a terra è l’inizio di un nuovo calvario, e soltanto una parte di essi viene ospitata dai centri di detenzione ufficiali. Questi sono una decina e contengono a seconda dei momenti tra le 4.000 e 6.000 persone. Tra loro operano in modo costante gli ufficiali dell’Unhcr, che è l’agenzia Onu per i profughi, e lo Iom, che è l’ente che si occupa di assistere le migrazioni e specialmente i rimpatri. A Tripoli gli ufficiali internazionali dello Iom specificano che dal gennaio 2017 i rimpatri di volontari ai Paesi di origine con voli organizzati dall’Onu sono stati quasi 32.000. Nel solo 2018 la cifra supera quota 12.000 per profughi arrivati da 32 Paesi, con una presenza massiccia di persone giunte da Nigeria, Niger, Ciad, Costa D’Avorio, Sudan e Mali. I centri dell’orrore - Ma il vero dramma riguarda le decine di migliaia tenuti prigionieri nei campi delle milizie libiche che operano in combutta con i trafficanti di esseri umani. Tra loro si trovano banditi dei Paesi d’origine dei migranti, ma anche gruppi delle tribù Tuareg e Tebu libiche. Uno dei luoghi più terrificanti è Bani Walid, una cittadina posta un centinaio di chilometri a sud della capitale e abitata da tribù legate al vecchio regime di Gheddafi, dove almeno 7 milizie armate si fanno guerra aperta per il controllo dei traffici. “I signorotti libici utilizzano manovalanza e mercenari africani per farsi la guerra. Il nostro ospedale registra una media di almeno 30 morti violente al giorno. Il fatto grave è che i nostri giovani ormai sono abituati al denaro facile ricavato cooperando con i trafficanti e non vogliono assolutamente rinunciarvi”, ci racconta il sindaco Ali Ambark Astew. Anche alla periferia di Tripoli, specie dove oggi si sta combattendo, sono situate diverse prigioni di milizie grandi e piccole. Molte sono poste nelle vecchie fattorie e ville di lusso circondate da mura massicce del clan Gheddafi, dove sono chiusi con la forza e obbligati a lavorare come schiavi migliaia di migranti le cui sorti sono sconosciute. È qui che imperano torture, violenze sessuali contro donne e minori. “In questi luoghi dell’orrore l’Onu e le agenzie umanitarie locali o internazionali non hanno mai messo piede. Abbiamo calcolato che ogni 100 dollari stanziati al quartier generale Onu di New York per le sue agenzie in Libia mediamente solo 11 dollari raggiungono realmente i migranti”, dice Adel el Taguri, alto responsabile del ministero della Sanità a Tripoli. Che fare? Non ci sono soluzioni facili, e quelle davvero significative necessitano di una strategia europea. Ma sino ad ora proprio la mancanza di una condivisa e coerente politica nei confronti delle migrazioni sta creando danni immensi all’Europa, tanto da minarne la stessa unità interna. L’inazione e la passività degli organismi europei sono state tra le origini della Brexit e dei nuovi movimenti xenofobi in tutto il continente. Una prima soluzione potrebbe essere la creazione di rappresentanze Ue in tutti i Paesi interessati alla partenza e al transito dei migranti, dove questi possano presentare le loro domande di visto senza alimentare il business oggi monopolio delle bande di trafficanti d’esseri umani. Ma occorre prima che Bruxelles si accordi sui criteri comuni dell’accoglienza e sulle quote da distribuire tra i 28 Paesi Ue. Una visione di più lungo periodo mirata ad affrontare di petto il fenomeno è quella di “aiutare l’Africa ad aiutarsi da sola” finanziando dove possibile iniziative economiche che creino posti di lavoro e per conseguenza rallentino il flusso dei migranti economici. In questo senso si muove anche il progetto di un “piano Marshall” europeo per l’Africa annunciato dal presidente del parlamento europeo, Antonio Tajani, durante la sua ultima visita il 17 luglio 2018 in Niger. Il progetto è che l’Europa stanzi 44 miliardi di Euro per i prossimi anni. Però da allora l’iniziativa langue in attesa di eventuali conferme dopo le prossime elezioni europee. Dopo l’Uruguay anche il Canada liberalizza la cannabis per uso ricreativo di Marta Serafini Corriere della Sera, 17 ottobre 2018 Dalla mezzanotte di mercoledì è possibile possedere fino a 30 grammi di marjuana e crescere fino a quattro piante in casa. Si prevedono entrate per 1,1 miliardi. Ma restano i dubbi su salute e sicurezza. “Non stiamo legalizzando la cannabis perché pensiamo che faccia bene alla nostra salute. Lo stiamo facendo perché sappiamo che non è un bene per i nostri figli”. Il Canada legalizza l’uso ricreativo della cannabis diventando così il secondo paese al mondo dopo l’Uruguay ad aver scelto questa politica di liberalizzazione. Il mercato è stato aperto ufficialmente mercoledì a mezzanotte ed è stato accolto con entusiasmo da coloro che hanno scelto di investire nel settore. “Sappiamo che dobbiamo fare un lavoro migliore per proteggere i nostri figli e per eliminare o ridurre in modo massiccio i profitti che vanno alla criminalità organizzata.”, aveva affermato il primo ministro Justin Trudeau alla vigilia della riforma. Il Cannabis Act, che adempie a una promessa fatta da Trudeau nella campagna elettorale del 2015, rende il Canada solo la seconda nazione dopo l’Uruguay a legalizzare la droga. Trudeau stesso ha ammesso nel 2013 di aver fumato erba cinque o sei volte nella sua vita, anche a una cena con amici dopo essere stato eletto in parlamento. Ha anche dichiarato che il suo defunto fratello Michel era accusato di possesso di un piccolo quantitativo di marijuana prima della sua morte in una valanga nel 1998, e che questo ha influenzato la sua decisione di proporre la legalizzazione della cannabis. Rimangono tuttavia preoccupazioni sugli effetti per la salute, la legge, la sicurezza pubblica e quella stradale. In ogni caso sono state avviate una serie di misure da parte di province e comuni. Il commercio e il rispetto delle norme sarà infatti regolato a livello locale. Secondo i nuovi regolamenti, i canadesi di almeno 18 o 19 anni (che presto saranno 21 in Quebec) potranno acquistare fino a 30 grammi di cannabis e crescere fino a quattro piante in casa. Il governo prevede l’apertura di oltre 300 negozi entro la fine dell’anno. Intanto la nuova industria ha attratto miliardi di finanziamenti, oltre all’interesse da parte di produttori di alcool e bevande analcoliche come Constellation Brands e Coca-Cola, che hanno espresso interesse a sviluppare bevande a base di cannabis. Si prevede che le vendite di cannabis aumenteranno la crescita economica fino a $ 1,1 miliardi e forniranno un guadagno di $ 400 milioni di entrate fiscali per il governo, secondo Statistics Canada. Non è ancora chiaro se il nuovo quadro riuscirà a indebolire il mercato nero, poiché i prezzi del pot illegale sono crollati nell’ultimo anno a una media di $ 6,79 per grammo, e la maggior parte dei venditori aveva pianificato di far pagare di più. Bill Blair, un ex capo della polizia di Toronto che è il punto di riferimento di Trudeau per la legalizzazione del vaso, rimane ottimista. “Per quasi un secolo, le imprese criminali hanno avuto il controllo completo di questo mercato, il 100% della sua produzione e distribuzione e hanno beneficiato di miliardi di dollari ogni anno. Sospetto che sarà un duro colpo per loro”, ha dichiarato all’Afp. Secondo un recente sondaggio Abacus Data pubblicato il lunedì, il 70% dei canadesi accetta o supporta la legalizzazione. Spagna. Leader dei movimenti catalani in carcere da un anno senza processo di Francesco Olivo La Stampa, 17 ottobre 2018 Amnesty accusa: “Liberateli subito”. Detenuti da un anno. Il 16 ottobre 2017 venivano arrestati Jordi Cuixart e Jordi Sànchez con l’accusa di ribellione violenta. Un anno di carcere senza ancora un processo. Jordi Cuixart e Jordi Sànchez, per tutti semplicemente “i Jordi”, gli attivisti delle associazioni indipendentiste catalane, festeggiano in cella un triste compleanno, accusati dal Tribunale supremo spagnolo di aver guidato una ribellione violenta. I due leader sono i primi ad essere stati arrestati nelle inchieste sul secessionismo catalano, che hanno portato in prigione successivamente anche gran parte dei componenti del governo della Generalitat guidato da Carles Puigdemont. Una condizione, quella dei Jordi, che viene criticata aspramente da Amnesty International: “Devono essere rilasciati immediatamente - dichiara il direttore per l’Europa, Fotis Filippou - non c’è nessuna giustificazione per la detenzione preventiva, che rappresenta una sproporzionata limitazione ai loro diritti di parola e di manifestazione pacifica”. Cosa è successo - Il riferimento alle manifestazioni è decisivo, i Jordi sono stati arrestati infatti proprio a seguito di un sit-in di protesta organizzato i 20 settembre del 2017, dopo il blitz della Guardia civil spagnola nelle sedi del governo catalano con l’intenzione di impedire l’organizzazione del referendum, giudicato illegale dalle autorità di Madrid. In quella occasione decine di migliaia di persone si radunarono intorno alla sede dell’assessorato all’economia di Barcellona, alle spalle di piazza Catalunya. La manifestazione si svolse in un clima pacifico e persino festoso (si improvvisarono concerti) per molte ore. Ma c’era un problema: all’interno della sede della Generalitat era in corso una lunga perquisizione e il palazzo di fatto era ormai circondato. Solo a tarda notte, con l’aiuto della polizia catalana, gli agenti spagnoli riuscirono a uscire dall’edificio. Cosa successe in quelle ore? I leader della protesta, i due Jordi, per tutto il giorno furono garanti del carattere pacifico della manifestazione (non affatto scontato) e salendo sul tetto della macchina della Guardia Civil parcheggiata fuori dalla sede perquisita, invitarono i più esagitati a tornare a casa. L’incolumità a rischio - Questa è la cronaca, ma per la Procura generale e per il giudice istruttore i Jordi hanno messo in pericolo l’incolumità dei poliziotti. C’è di più: quelle mobilitazioni costituiscono, è la tesi, un vero atto di ribellione violenta alla legalità. Accuse gravissime, le pene per questi reati arrivano fino ai 30 anni di carcere, che saranno dibattute in un processo che dovrebbe cominciare nella prossima primavera. Nel frattempo il volto dei Jordi riempie le strade della Catalogna. Malta. Un anno fa l’uccisione di Dafne, il figlio: Paese peggiorato dopo la sua morte di Francesco Battistini Corriere della Sera, 17 ottobre 2018 Andrew, il figlio maggiore della reporter, pure lui cronista investigativo: “Il suo lavoro ha fatto scoprire una corruzione ad alto livello e questo s’è tradotto in misure contro i giornalisti e chiunque lotti contro la corruzione”. È cambiato qualcosa? “No. Dopo la morte di mia madre, la situazione a Malta è peggiorata”. Andrew è abituato a parlare chiaro, come faceva sua mamma Daphne. Oggi fa ancora più male dirlo, perché è passato un anno da quella esplosione. Andrew fu il primo a correre e a capire, il 16 ottobre 2017, quando la Peugeot della giornalista Daphne Caruana Galizia saltò in aria sulla strada vicino a casa, a Mosta, e a Malta si scoperchiò un verminaio d’affari e di malaffari, di mafie e di politici, di corrotti e di corruttori su cui Daphne indagava, e che nessuno sa se verrà mai ripulito. “Il suo lavoro ha fatto scoprire una corruzione ad alto livello - dice Andrew, il più grande dei tre figli, cronista investigativo pure lui - e questo s’è tradotto in misure contro i giornalisti, ma anche contro gli accademici e le istituzioni che lottano contro la corruzione”. Da un anno, il 16 d’ogni mese, i colleghi di Daphne si ritrovano nella campagna di Mosta. Depongono un mazzo di fiori, leggono ad alta voce qualche sua inchiesta. La memoria e la sete di giustizia. Oggi, a Malta sono sbarcati giornalisti da tutto il mondo per ricordare che nell’ultimo anno sono stati ammazzati altri due colleghi scomodi per i governi dei loro Paesi, la Slovacchia e la Bulgaria, e questo non nella Turchia che imprigiona o nell’Arabia Saudita che uccide chi dà fastidio, ma nell’Unione europea che si fonda sulle libertà, compresa quella d’informazione. Questo, oggi. Ma domani? “Dopo i Panama Papers su cui lavorava mia madre - dice Andrew -, le forze dell’ordine di alcuni Paesi hanno agito tempestivamente, mentre altri no. In questi ultimi, i giornalisti si trovano soli fra la difesa dello stato di diritto e i potenti corrotti. Quando la corruzione diventa così profonda da toccare le forze dell’ordine, il giornalismo diventa molto pericoloso”. Gli articoli di Daphne sul suo blog Running Commentary, 400mila lettori in un’isola che ha meno di mezzo milione d’abitanti, non risparmiavano nessuno. In un anno, le indagini hanno seguito più di quaranta piste, ma nessuna s’è rivelata decisiva per capire il perché di quell’autobomba telecomandata, preparata con tecniche da grande malavita internazionale. I Panama Papers? La mafia italiana? I trafficanti di migranti? Il mercato nero del petrolio dalla Libia? I soldi ripuliti nelle 60mila società off-shore del più meridionale degli Stati europei? O magari le compravendite di passaporti a ricchi arabi e russi, rivelate da un consorzio di 18 giornali europei nato dopo l’omicidio? Aprire il laptop della cronista non ha aiutato e il figlio Andrew, anzi, una volta ha detto che casomai bisognerebbe aprire i pc di chi sta al governo. La sorella di Daphne, Corinne, continua a chiedere un’indagine internazionale e indipendente, perché dubita che a Malta cercheranno mai la verità. A dicembre, sono finiti in carcere una decina di presunti esecutori dell’attentato, fra loro due fratelli maltesi e un loro possibile complice che sono ben conosciuti dagli schedari criminali e che, non si sa ancora quando, verranno processati. Ma nessuno è ancora riuscito a risalire ai mandanti. A spiegare gli incontri che i sospetti avevano nei bar di Malta addirittura con un ministro. A dire se c’entri davvero la Pilatus, la piccola e misteriosa banca d’affari iraniana che riciclava denaro dall’Azerbaigian, gli sportelli fantasma che Daphne aveva scoperto e che - diceva - portavano ai più alti livelli della nomenklatura politica maltese. “La situazione è disperata - scrisse la blogger pochi giorni prima di morire - e credo che oggi la situazione sia ancora più disperata”. La situazione è anche peggiorata, dice ora Andrew Caruana Galizia. E fare il giornalista a Malta è sempre meno sicuro: “Mi minacciano per strada - racconta Manuel Delia, che fu collega di Daphne -, m’insultano perché secondo loro rovinerei la reputazione del Paese. Le istituzioni continuano a funzionare per cooptazione e sono proprietà della maggioranza di governo. Il governo è in mano a gente che pensa solo al profitto personale e al potere. Più passa il tempo, più capiamo che la democrazia qui non funziona. E lo Stato, nemmeno”. L’altarino sul passeggio centrale della Valletta, foto e candele per la giornalista assassinata, viene allestito dagli amici di Daphne e regolarmente smontato dalla polizia. Il governo s’è limitato, domenica, a un breve comunicato di ricordo: “Il delitto è stato un attacco inaccettabile alla nostra libertà d’espressione”. Oggi, è prevista qualche commemorazione ufficiale (ma nemmeno troppo). Arrivato al Consiglio Ue in Lussemburgo, il ministro degli Esteri maltese ha detto che “dobbiamo mantenere la fiducia”, che “la legge va rispettata”, che “è il momento d’impegnarsi sempre di più”. Ma non parlava di Daphne: si riferiva alla Brexit. Stati Uniti. La prigione di Guantánamo resterà aperta per altri 25 anni La Repubblica, 17 ottobre 2018 L’annuncio dell’ammiraglio Ring che comanda la prigione a Cuba dove sono custoditi alcuni accusati dell’attentato alle Torri gemelle. Resterà aperta “almeno per altri 25 anni” la prigione Usa di Guantánamo, a Cuba, che il presidente Barack Obama nel 2009 aveva promesso di chiudere. Lo ha detto l’ammiraglio John Ring, responsabile della struttura dove vengono detenuti terroristi e dove si trovavo gli accusati per l’attentato alle Torri Gemelle. Lo scorso gennaio, il presidente Donald Trump, con un ordine esecutivo ha annullato la promessa di Obama. Ring, durante la visita periodica organizzata per i giornalisti dall’esercito Usa ha detto di aver ricevuto l’ordine del Pentagono sul fatto che Guantánamo deve restare aperta. Lo scorso dicembre un esperto dell’Onu, Nils Melzer, ha detto che le torture a Guantánamo sono continuate, almeno nei confronti di un detenuto, Ammar al-Baluchi, sospettato per gli attentati dell’11 settembre.