Carcere Due Palazzi. “Il direttore non tagli le visite degli studenti” di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 16 ottobre 2018 Il deputato Zan ieri a Ristretti Orizzonti al carcere Due Palazzi. Un carcere sperimentale, la casa di pena di Padova, votato alla riabilitazione, con anni di evoluzione in questo senso alle spalle. Anche grazie all’attività di Ristretti Orizzonti che produce cultura, dentro con i detenuti e fuori nel far conoscere la complicata realtà del Due Palazzi, nel discutere delle tematiche che riguardano i detenuti, dalla campagna contro l’ergastolo ostativo alla divulgazione delle testimonianze di chi, dietro le sbarre, ha cambiato vita. Visite stoppate - Una parte dell’apertura all’esterno del carcere, da una quindicina d’anni, sono le visite di numerosi gruppi di studenti delle superiori da Padova e provincia, con i loro insegnanti. Fino a giugno, i numeri sono sempre stati altissimi: ogni lunedì 80 ragazzi, ogni martedì altrettanti. Una presenza che è stata stoppata. Adesso il progetto è di portarne dentro un terzo. Per parlare di questo, e del servizio di scannerizzazione della posta (arriva rapida a destinazione, così la risposta) fatto da volontari in vigore da tempo e ora sospeso, ieri Alessandro Zan, deputato del Pd e attivista per i diritti civili, è andato al Due Palazzi ad incontrare Ristretti Orizzonti, e le cooperative che in carcere danno lavoro come Altra Città e la Cooperativa Giotto. E Claudio Mazzeo, il direttore. “È fondamentale dare lavoro e formazione ai detenuti, Padova in questo senso è un carcere modello”, spiega. “Tra i detenuti che in carcere non hanno lavorato, la recidiva è del 68%, cala al 15% tra quelli che hanno lavorato: vuol dire una nuova vita per loro e meno reati nella società”. Zan giusto l’anno scorso è stato tra i fautori della legge Smuraglia che ha finanziato con 10 milioni il lavoro in carcere. Aumento degli organici - Tornando al Due Palazzi e alla richiesta del deputato padovano di continuare a investire sulle visite degli studenti: “Ho sollecitato il direttore Claudio Mazzeo a non tagliarle: la possibilità per i giovani di scivolare dalla legalità all’illegalità è alta. Se il carcere lo vedi, se ascolti le storie dei detenuti che magari da ragazzini hanno iniziato facendo sciocchezze poi diventate un’esistenza di reati, capisci molte cose. Il direttore è d’accordo sul valore dell’esperienza, ci tiene però che sia portata avanti anche dall’istituzione carceraria oltre che da Ristretti”. Ovvio che il carcere fa già fatica a mettere assieme il personale per l’ordinaria amministrazione, figurarsi per la straordinaria: Zan si impegna a portare avanti un progetto per l’aumento degli organici negli istituti di pena. “L’esperienza di Ristretti e delle cooperative al Due Palazzi è fondamentale: capisco i motivi del direttore, ma spero che queste attività non subiscano rallentamenti”. I mille morti di carcere di Diana Cavalcoli Corriere della Sera, 16 ottobre 2018 Di solito avviene di notte. Nessuno si accorge di nulla per ore finché non si alza una voce a dare l’allarme. Chi si suicida in carcere non fa rumore, se ne va nel silenzio di una cella, all’improvviso. Dal Duemila sono 2.830 le morti avvenute nelle strutture penitenziarie italiane, tra queste 1.030 sono suicidi. Quasi la metà. Soltanto nei primi nove mesi di quest’anno siamo a 44 detenuti che hanno scelto di togliersi la vita secondo il registro del Centro Studi Ristretti Orizzonti. Il suicidio di un detenuto è un evento traumatico che non coinvolge solo la persona che sceglie di compiere l’estremo gesto. È una tragedia per tutto il carcere. E ha un effetto domino. “L’evento - spiega Claudio Paterniti Martello, sociologo della scuola di alti studi di Parigi e membro dell’osservatorio nazionale di Antigone - è traumatico sotto più aspetti. È un fallimento per la struttura penitenziaria incapace di prevenire l’azione, è un trauma per l’agente che trova il detenuto e sconvolge la vita dei compagni di cella. Oltre al dramma di una vita umana persa”. Anche perché, al netto dei protocolli di sicurezza, è difficile prevedere un suicidio. “In genere i detenuti che scelgono di suicidarsi sono uomini e le modalità sono tre: per impiccagione, inalando gas o tagliandosi con le lame da barba. Servirebbe un controllo 24 ore su 24”, aggiunge. Ma il problema è che spesso nelle strutture manca il personale. “La situazione varia da carcere a carcere ma quando gli agenti o i medici sono troppo pochi rispetto alla popolazione carceraria il disastro è annunciato”. A rischiare sono i detenuti più fragili. Ogni gesto estremo ha una storia a sé ma è innegabile che sia legato alla drammaticità della reclusione, all’esisto delle condanne, alla speranza che se ne va e alla perdita degli affetti. “Le ragioni - prosegue Martello - che spingono al suicidio in cella sono innumerevoli ma sono spesso riconducibili alle condizioni di detenzione e al disagio che ne deriva. Tanto che nelle strutture modello come Bollate simili episodi sono rari”. I rischi aumentano quando entrano in cella i detenuti cosiddetti “fragili”. “Mi riferisco in particolare a persone con disturbi mentali, sono più del 70 per cento in carcere, o agli stranieri che, non avendo legami o affetti sul territorio, vivono la reclusione come una condizione doppiamente alienante. In questi casi il rischio di suicidio è particolarmente elevato ancor più se si tratta della prima volta in carcere”. Lo shock dell’ingresso in cella è infatti tra i più difficili da superare. “Molti detenuti non riescono a tollerare la compressione dei loro diritti e specialmente la limitazione della libertà di movimento”. In genere, spiegano da Antigone, nelle carceri dove il sovraffollamento si unisce e combina con altri fattori, come il mancato rispetto della regola dei tre metri quadrati per ogni soggetto, la chiusura totale delle celle ad esclusione delle ore d’aria e la mancanza di attività formative e lavorative, è più facile che si verifichino gesti estremi. La sentenza Torreggiani Guardando ai numeri dei suicidi in cella emerge come siano diminuiti rispetto a dieci anni fa. Uno dei motivi è la sentenza Torreggiani. La Corte europea dei diritti umani nel 2013 ha infatti condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) criticando aspramente le condizioni di detenzione. “In precedenza - dice Martello - la situazione era disumana. Oggi che, a fatica, si cerca di proporre un modello di struttura penitenziaria più aperto le condizioni sono leggermente migliorate. Anche se la questione è lontana dall’essere risolta, il carcere resta un posto che deprime l’animo e dove i più fragili rischiano di essere schiacciati”. L’allerta rimane quindi alta. Soprattutto perché, se è vero che i numeri dei suicidi sono rimasti costanti - attestandosi attorno ai 50 all’anno - negli ultimi anni sono aumentati invece gli atti di autolesionismo. E a compierli sono nel 70 per cento dei casi gli stranieri, un terzo dei detenuti. C’è chi si taglia, chi si ustiona, chi si procura fratture. I gesti autolesivi Secondo il Sappe, il sindacato autonomo polizia penitenziaria, solo nel primo semestre del 2018 ci sono stati nelle carceri italiane 5.157 atti di autolesionismo. E da anni le associazioni che monitorano le condizioni di vita negli istituti sottolineano come non si debba sottovalutare simili atti dato che possono sfociare in tentativi di suicidio. “I gesti autolesivi rappresentano l’esternazione di un disagio utilizzato come strumento di comunicazione di quei soggetti fragili che utilizzano il corpo come mezzo e messaggio”, spiega Martello. Finché quel disagio resterà inascoltato il suicidio rimarrà un rischio concreto. “Dobbiamo ricordarci che ogni morte in cella è una sconfitta dello Stato e dell’intera comunità. Soprattutto se si crede nella funzione rieducativa della pena”. Un primo passo? pulizia e decoro: un posto sporco fa già male di suo di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 16 ottobre 2018 È una media numerica che dall’inizio del secolo è rimasta invariata. Implacabile. Inutile lanciare allarmismi estemporanei cercando sponde in fattori contingenti. È un numero rimasto costante, da quello che ci dicono le statistiche, almeno dal primo anno del Duemila: nelle carceri italiani ogni settimana un uomo si toglie la vita. Per uccidersi i detenuti non usano sistemi dissimili dagli uomini liberi - lamette da barba, lenzuola da attaccare dove possono per impiccarsi, il gas da inalare - ma a differenza degli uomini liberi loro non dovrebbero poter avere la libertà di agire per togliersi la vita. Non è un dettaglio da poco. La percentuale dei suicidi nelle carceri rispetto al totale delle morti è un numero che fa venire i brividi. Anche questo costante, vola oltre il 30 per cento. La detenzione acuisce qualsiasi forma depressiva, quando non la genera proprio. Ma questa è una considerazione fin troppo ovvia per meritare qualsiasi analisi. Un’analisi spietata la merita invece la forma di controllo nelle carceri del nostro Paese. Certo, non si può immaginare che le guardie penitenziarie mettano in atto un controllo ventiquattro ore su ventiquattro, perennemente. Ma si può invece cominciare a pensare metodi alternativi. Limitare le occasioni e i mezzi con cui i detenuti si provocano volutamente la morte, ad esempio. Oppure inibire l’uso del gas la notte e razionalizzare le lamette distribuendole soltanto al momento del taglio della barba E poi: perché non immaginare di poter stimolare un controllo sociale? Ci si lamenta in continuazione del sovraffollamento delle nostre carceri, e quindi ovvio che di conseguenza molti dei detenuti che si tolgono la vita la fanno dentro celle non certo solitarie. Si suicidano in mezzo ad altri detenuti che dormono, o più semplicemente non hanno nessuna voglia di vedere quello che sta succedendo davanti ai loro occhi. Inutile provare a convincerli di non chiudergli quegli occhi con pressioni psicologiche. Più probabile che sia bene usare con i detenuti - a turno - le promesse di sconti di pena per riuscire convincerli a vegliare sui loro compagni di cella, a controllare che non commettano gesti inconsulti, di giorno e anche di notte. Chissà, forse potrebbe funzionare. Le persone detenute sono considerate le più fragili psichicamente in una società che già di suo mostra non poche fragilità. Ma nelle nostre carceri non sembra che si voglia avere troppo cura di questo aspetto. Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, Mauro Palma, l’estate dello scorso anno si è costituito parte offesa nelle indagini relativi a tutti i casi di suicidi dell’anno. Voleva mettere a disposizione degli inquirenti la sua profonda conoscenza del carcere, una conoscenza che negli anni gli ha fatto toccare con mano condizioni assolutamente precarie nelle strutture delle carceri, nella sporcizia, nella precarietà sanitaria. Non ci risulta che in questi mesi le condizioni igienico - sanitarie abbiano avuto un miglioramento consistente. Siamo invece certi che su una persona in stato depressivo un ambiente insano influisce in maniera particolarmente negativa. Forse cominciare a tenere in maniera decorosa e pulita le nostri carceri potrebbe essere un primo passo. Carceri affollate: la “rivolta” che fa notizia e le proteste (serie) ignorate di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 16 ottobre 2018 Diecimila detenuti - che nei mesi scorsi avevano scelto il metodo della non violenza attraverso lo sciopero della fame per chiedere allo Stato di cessare di essere esso stesso fuorilegge nel sovraffollamento, nella inadeguatezza delle cure sanitarie e nella carenza di percorsi di avviamento al lavoro - non hanno mai avuto un decimo dell’attenzione accordata invece dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dai mezzi di informazione ai “15 facinorosi” subito trasferiti dal carcere di Sanremo perché protagonisti di disordini rubricati a “rivolta” man mano che la dimensione dei fatti, sabato notte, lievitava di comunicato in comunicato nella rappresentazione di organizzazioni sindacali non sempre davvero rappresentative della polizia penitenziaria. Materassi incendiati e sedie scaraventate assicurano dunque più ascolto (agli occhi delle tv e delle istituzioni) di un impegno serio? Fortuna che gran parte della comunità carceraria - come dimostrano le ore di domande e risposte ieri a San Vittore tra un centinaio di detenuti e la vicepresidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, sul frammento di Carta che promuove “il pieno sviluppo della persona” - non impara la pessima “lezione” neppure dopo che la politica ha dato, a proposito di lezioni, un’altra manifestazione della strumentalità con la quale tratta le persone in carcere. Da un lato con il governo precedente che, dopo aver promosso una equilibrata riforma dell’ordinamento penitenziario, sotto elezioni non ha avuto il coraggio di approvarla per paura di pagare ulteriore salasso elettorale; dall’altro lato con il nuovo governo 5 Stelle-Lega che, cementato dall’opzione unicamente carcero-centrica, si muove come se, al più, fosse tutto e solo un problema di spazi. Ma se 59.275 persone in 50.622 teorici posti (meno altri 5.000 inagibili) sono un problema, molto di più lo è che 7 su io a fine pena (di questo modo immobile e sterile di intendere la pena) tornino a delinquere. Il sovraffollamento crea tensioni: da Sanremo al Marassi di Genova di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 ottobre 2018 Due episodi a distanza di pochi giorni evidenziano la situazione difficile dei penitenziari italiani. Momenti di tensione l’altra notte nel carcere di Sanremo. Un caos durato più di due ore, poi rientrato dopo l’intervento degli agenti penitenziari. Due sono le versioni molto differenti dell’accaduto. Secondo il sindacato Uil-pa e il Sappe sembrerebbe che ci sia stata una vera e propria rivolta avente come protagonisti 46 detenuti che avrebbero lanciato televisioni in corridoio e lenzuola imbevute di olio che avrebbero causato un incendio. Secondo la direzione del carcere, invece, si parla di una lite tra 5 persone, chiuse in celle fronteggianti. Due agenti penitenziari, secondo i sindacati, però sono rimasti lievemente intossicati dai fumi degli oggetti incendiati, anche se nessuno è ricorso alle cure del pronto soccorso. Resta però il dato oggettivo che il carcere in questione risulta sovraffollato con 270 detenuti su una capienza regolamentare di 238 posti. Parliamo di un sovraffollamento ampliato dai problemi alla viabilità causati dal crollo del ponte Morandi che rendeva impossibili i trasferimenti dal Ponente a Genova ma che da un paio di giorni sono ricominciati. Provvedimenti saranno presi per i carcerati coinvolti con le denunce già pronte. E la direzione del carcere di Sanremo ha già annunciato che è pronta a rivedere molti dei “privilegi” concessi agli ospiti. “Troppi per consentire agli agenti di lavorare in sicurezza - secondo il Sappe visto che i detenuti possono telefonare quasi senza limiti, senza contare che le celle sono spesso lasciate aperte”. Sarà rivista pure la possibilità di detenere le bombolette a gas per cucinare. Pronta comunque l’applicazione di una circolare, datata il 9 ottobre scorso, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che permette più fruibile il ricorso all’articolo 14 bis dell’ordinamento penitenziario, ovvero la misura disciplinare attraverso un regime di sorveglianza particolare. Dopo l’episodio nel carcere di Sanremo, due giorni dopo, al Marassi di Genova, al Marassi, e precisamente al teatro dell’Arca, situato all’interno dell’edificio, durante uno spettacolo alcuni detenuti si sono azzuffati. In quel caso, il Sappe ha espresso il disagio dell’utilizzo di solo sei agenti penitenziari per vigilare i 140 detenuti presenti durante lo spettacolo. Il sovraffollamento è un problema sempre più crescente e i numeri statistici offerti dal ministero della Giustizia risulterebbero non veritieri. A denunciarlo è l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini che, nella puntata odierna di Radio Carcere, annuncerà l’inizio dello sciopero della fame. “Se è questo ciò che governo e Parlamento vogliono (per usare poi il pugno ancora più duro) la risposta sarà, per quel che mi riguarda, rigorosamente nonviolenta e sarà annunciata martedì a Radio Radicale nella puntata di Radio Carcere. Sia chiaro - sottolinea Rita Bernardini -, è innanzitutto lo Stato a essere fuorilegge e, con le sue mancate riforme, a dichiarare di voler permanere in questa situazione di totale illegalità nella quale i trattamenti inumani e degradanti (già condannati nel 2013 dalla Cedu) sono all’ordine del giorno, a partire da coloro che non sono curati e che muoiono in carcere. Il caso del professor Armando Verdiglione - denuncia l’esponente del Partito Radicale, 74enne che in pochi giorni di detenzione ha perso oltre 25 chili è uno dei tanti esempi delle migliaia di detenuti che rischiano letteralmente la vita per mancata assistenza sanitaria e mancata possibilità di accesso alle misure alternative al carcere. L’unica ricetta proposta dal governo è + carcere e + carceri con il preannuncio di un fantomatico piano di costruzione di nuovi istituti che, se va bene, saranno ultimati tra 10/15 anni; piano che, ancora non è dato sapere, con quali risorse verrà finanziato. Inoltre - conclude Bernardini, le cifre ufficiali che fornisce il ministero non sono veritiere in quanto il carcere di Sanremo, secondo i dati diffusi sul sito giustizia.it al 30 settembre, non risultava tra gli istituti più sovraffollati, 270 detenuti in 238 posti regolamentari mentre la Uil-pa ci dice oggi che i posti legali sono 190”. Perché senza riforme rischiano di tornare le rivolte nelle carceri di Massimo Bordin Il Foglio, 16 ottobre 2018 Un fenomeno ormai dimenticato, che risale agli anni 80. Ma che potrebbe tornare di attualità. Le rivolte carcerarie sono un brutto ricordo. Storie del secolo scorso, si potrebbe dire. Bisogna risalire ai primi anni 80 per ricordare disordini nelle carceri, certo molto più gravi di quelli di cui hanno parlato i giornali di ieri a proposito del carcere di Sanremo. Siamo molto lontani per fortuna da quel passato ma è forse utile riflettere su come una situazione di effettiva ingovernabilità del settore penitenziario venne superata. Nelle carceri all’epoca camorristi e mafiosi la facevano da padroni, venivano eseguiti omicidi fra bande rivali che giunsero nel carcere napoletano di Poggioreale perfino ad affrontarsi in uno scontro a fuoco, con armi evidentemente sfuggite, diciamo così, alla vigilanza. Tutto ciò era dovuto forse a un sistema troppo tollerante? No. Il sistema di controllo era in teoria rigidissimo, ai limiti dell’inumano. Proprio per questo non funzionava. Non ci vuole un criminologo per capirlo. Basta vedere il caso limite delle carceri di paesi come il Brasile o la Colombia o di qualche altro stato dell’estremo oriente. Si tratta di sistemi carcerari in teoria severissimi che in pratica si riducono a una feroce inefficacia. Il recupero dell’efficienza deve invece andare di pari passo con la possibilità di offrire ai detenuti speranza, per quanto possibile. L’inversione di tendenza, il ripristino di legge e ordine nelle carceri, nel nostro paese è arrivato insieme alla legge Gozzini, che qualche stolto tutt’ora definisce buonista. Tutto è poi rimasto fermo per troppo tempo e non sono mancati passi indietro. Oggi la mancata riforma carceraria rischia di riportarci a un punto che nessuno sembra più ricordare. Circolare Dap: i detenuti violenti trasferiti, anche in carceri lontane Agenpress, 16 ottobre 2018 Saranno immediatamente trasferiti in altri istituti, anche lontani, per gravi motivi di sicurezza i detenuti responsabili di aggressioni, anche solo tentate, agli agenti di Polizia Penitenziaria, al personale sanitario, agli operatori o ad altri detenuti o che abbiano messo in atto qualsiasi evento a carattere violento o danneggiato beni dell’Amministrazione. È quanto prevede la circolare del 9 ottobre scorso del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini, inviata ai Provveditori regionali e ai Direttori degli istituti penitenziari per tentare di porre un argine all’impennata di aggressioni ed eventi critici degli ultimi mesi. “Il provvedimento - scrive Basentini - dovrà essere adottato dai Provveditori Regionali, che disporranno il trasferimento del detenuto presso altro istituto sito all’interno del territorio distrettuale”. Nei casi più gravi, il trasferimento avverrà invece in un altro distretto e sarà la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap ad attivarsi, anche su impulso del Capo Dipartimento. Valorizzando l’applicazione di strumenti normativi già previsti dalla legge 354/1975, viene in tal modo automatizzato un meccanismo di reazione deterrente al sempre più frequente ripetersi di eventi critici e violenze. Da inizio anno sono infatti 485 le sole aggressioni al personale di Polizia Penitenziaria, contro un numero di 587 registrate nell’intero 2017. Da inizio settembre 2018, sono stati 77, fra trasferimenti per motivi di sicurezza e assegnazioni a regime di sorveglianza particolare, i provvedimenti emessi nei confronti di detenuti violenti, compresi quelli che hanno riguardato i tredici detenuti del carcere di Sanremo. A fronte di quasi novanta episodi di varia gravità, 56 sono stati i trasferimenti disposti dai Provveditorati regionali fra istituti dello stesso ambito di competenza territoriale; degli altri 21 provvedimenti disposti dal Dap, 16 hanno riguardato il trasferimento in istituti extra-distretto e 5 l’attivazione, la proroga o l’applicazione del regime di sorveglianza particolare previsto dall’art. 14 bis dell’Ordinamento Penitenziario. “I diritti sono scritti per voi”. La Costituzione a San Vittore dì Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 16 ottobre 2018 La visita della vicepresidente della Consulta. “Qui persone, non casi”. Anticiclico in economia è una variabile che tende a muoversi in direzione opposta ai principali indicatori del ciclo economico: ecco, il viaggio della Corte Costituzionale nelle carceri italiane, che come seconda tappa dopo Roma porta ieri la vicepresidente Marta Cartabia a immergersi per una intera giornata nella realtà di San Vittore, è super anticiclico, in totale controtendenza con l’aria che tira. Tanto che sembra quasi che solo qui, nella “Rotonda” dove si incrociano i sei raggi di San Vittore, nelle ore di domande e risposte “senza filtri” con tanti del centinaio di detenute e detenuti presenti, si possa discutere del frammento di Costituzione che promuove il “pieno sviluppo della persona” proprio con chi - il detenuto Marco, ad esempio - in maniera asciutta domanda alla vicepresidente della Consulta “come si è evoluto il concetto di umanità della pena negli ultimi 70 anni se nel 2018 mi trovo un parassita nel letto durante la detenzione”. Cartabia non si nasconde, non cambia discorso, ascolta (e, a tratti, visibilmente “impara” da) le domande che le squadernano gli ostacoli pratici nelle pieghe delle norme e i pregiudizi perduranti anche dopo l’espiazione della pena: “Il fatto che voi percepiate una distanza tra le parole della Costituzione e la realtà non significa che quelle parole non siano vere, sono gli ideali a cui continuamente aspiriamo anche se la realtà li contraddice, a volte duramente - suggerisce - Come tutte le cose della vita, hanno un’attuazione inesauribile. Uno per esempio non può dire cos’è l’amore per la sua donna, lo impara continuamente. L’ideale è li per richiamare la possibilità del cambiamento. Nelle questioni legate agli alti valori morali non è come nella scienza, nulla può mai essere dato per scontato, si fa un passo avanti e uno indietro”. Con la stessa cura con la quale (in dieci) la sera prima avevano chiesto al direttore Giacinto Siciliano il permesso di trattenersi un po’ di più fuori cella per terminare di tirare a lucido gli spazi dell’incontro con Cartabia, detenute e detenuti tracimano - nella profondità delle domande e nella serietà persino del modo di interpretare senza musica l’inno di Mameli - la propria voglia di far vedere a tutti quanto una persona possa cambiare in carcere se sperimenta (come riassume Cartabia) che “la Costituzione è scritta anche per voi”. Ed è in scia all’originale inversione proposta dalla professoressa che per ore viene sviscerato il frammento di Carta che promuove “il pieno sviluppo della persona”. Persona: “Non numeri, non casi, e nemmeno individui, ma ciascuno con l’intera sua storia nella varietà delle sue condizioni concrete, dei suoi legami, dei suoi bisogni”. Sviluppo: “Parola che introduce la dimensione dinamica, l’idea del tempo che scommette sulla trasformazione di ciascun uomo, che non “è” ma “diviene” sempre e costantemente”. Pieno: “Che è spostare il baricentro dal “sé” al “tu”, da ciò che aveva portato a commettere un reato a una rinnovata relazione invece di fiducia. Perché la storia di Caino, ce lo si dimentica sempre, non finisce con la sua cacciata dall’Eden dopo che ha ucciso Abele. Ma finisce con un incontro: l’incontro con un orizzonte di positività” (la moglie a cui si unisce) “che fa diventare proprio lui, Caino, “costruttore di città”. E quando riceve in dono la maglietta de “La Nave” (da i6 reparto all’avanguardia nel trattamento dei detenuti con dipendenze), la giudice costituzionale assicura: “I vostri problemi mi faranno compagnia nel lavoro e nella vita personale. Mi auguro che gli ideali della Costituzione possano farvi compagnia in questo vostro viaggio”. “Gli ideali della Costituzione traditi dalla realtà, ma sono vivi” di Manuela D’Alessandro La Repubblica, 16 ottobre 2018 Marta Cartabia è una giudice costituzionale con lo sguardo dolce. Non si vede subito perché quando entra nella Rotonda del carcere di San Vittore, una specie di piazza che segna un confine tra il fuori e il dentro, ha l’espressione ‘istituzionalè di chi viene accolta con tutta la solennità del caso. Tutti in piedi e inno nazionale cantato dal coro multietnico dei detenuti per salutare la vicepresidente della Corte Costituzionale nella seconda tappa, dopo quella di Rebibbia, del viaggio intrapreso dai giudici custodi dei nostri valori all’interno degli istituti di pena. “Sono molto emozionata”, confessa, e poi via con la lezione di diritto incentrata sul ‘pieno sviluppo della persona umana’ in questo “che non è un carcere qualunque, mi ha sempre colpito la sua presenza nel cuore della città, da quanto portavo i miei figli a scuola, ci passavo davanti e pensavo a come si viveva qua dentro”. Nell’antichità, “la pena più grave, più della pena di morte, era essere esiliati dalla città, ma voi non lo siete, la Costituzione è scritta anche per voi perché è nata dalla sofferenza dei padri costituenti che sono stati in carcere e hanno voluto con chiarezza indicare nell’articolo 27 la finalità di rieducazione della pena”. Gli uomini e le donne seduti qui, un centinaio, l’aspettavano da mesi dopo avere studiato come matti guidati dal professore della Cattolica Michele Massa e dal direttore Giacinto Siciliano. Sono preparatissimi, ma non tocca a loro essere interrogati. La studentessa è Marta: a volte, con quello sguardo dolce, dice cose dirompenti. “Perché la saggezza della Costituzione fa così fatica ad essere attuata nella vita quotidiana?”, domanda un detenuto straniero. “Il fatto che voi percepiate una distanza tra le parole della Costituzione e la realtà non significa che quelle parole non siano vere. Sono gli ideali a cui continuamente aspiriamo anche se la realtà li contraddice, a volte duramente. Come tutte le cose della vita, hanno un’attuazione inesauribile. Uno per esempio non può dire cos’è l’amore per la sua donna, lo impara continuamente. L’ideale è lì per richiamare la possibilità del cambiamento. Nelle questioni legate agli alti valori morali, nulla può mai essere dato per scontato, si fa un passo avanti e uno indietro, non è come nella scienza”. “È costituzionale - punge Loris - la potenza che hanno gli inquirenti di distruggerti la vita con la carcerazione preventiva e poi magari si scopre che sei innocente?”. “Molti di voi sono qui non per scontare la pena, ma in custodia cautelare - empatizza lei - immagino che essere strappati da una vita normale e trovarsi improvvisamente in una dimensione così diversa possa essere uno choc che richiede un suo tempo di interiorizzazione. La legge prevede delle garanzie per attuare il principio di non colpevolezza, come il fatto che l’autorità giudiziaria debba autorizzare la carcerazione preventiva. Ogni decisione ha la sua possibilità di appello”. Antonio chiede: “È costituzionale la recidiva che ti condanna non per il reato ma per quello che sei?”. “La recidiva tiene una specie di traccia del tuo percorso di vita, ma non riguarda le caratteristiche della persona - ribatte la giudice - la Consulta per esempio ha giudicato incostituzionale l’aggravante della clandestinità perché riguardava la persona. In ogni caso, si possono contemperare le aggravanti con le attenuanti, non bisogna guardare solo alla recidiva ma anche al resto per non trasformare la pena in un tratto identitario”. Marco provoca “Come si è evoluto il concetto di umanità della pena negli ultimi 70 anni se nel 2018 mi trovo un parassita nel letto durante la detenzione?”. La vicepresidente tentenna: “Spesso chi gestisce questi luoghi deve fare i conti con la ristrettezza di mezzi e personale”. “Perché i giudici prendono decisioni diverse su casi simili?”, è l’affondo di Davide. “Capisco possa sembrare ingiusto, ma in realtà ogni decisione tiene conto della specificità del caso, ma con dei limiti in modo che la discrezionalità non diventi disparità. La Costituzione guarda con sospetto agli automatismi”. L’idea di giustizia spunta da tutte le domande, l’idea che la promessa della Costituzione nei fatti venga tradita e Cartabia fa capire che sì, a volte è proprio così, ma si può cambiare approfittando della vitalità di quella vecchia carta. Massimo: “Non sono ingiuste le pene pecuniarie nei confronti di chi non è in grado di pagarle?”. “Si possono creare, come in altri ordinamenti, meccanismi in modo che la pena possa adeguarsi sia al reati che alle condizioni economiche della persona. Quella che qualcuno è una pena enorme, per altri è la mancia a una cameriera”. “Nel centro clinico - racconta un detenuto - vedo ultra - ottantenni con malattie incurabili. Come si concilia con la Costituzione?”. “Nessuno deve morire in carcere, le condizioni dei detenuti non devono mai diventare tali da toccare la soglia del trattamento disumano, bisogna sempre vigilare con attenzione che ciò non accada. Spesso si sente dire che il tasso di civiltà di un Paese si misura su come vengono trattate le persone più vulnerabili e quando si è privati della libertà personale si è in una condizione di fragilità. Su come trattiamo i detenuti si misura il tasso di civiltà della nostra Repubblica”. Applausi, abbracci coi detenuti che le regalano una felpa del reparto “La Nave”, simbolo del loro viaggio, e ovazione riservata alle rock star per Marta Cartabia, che è venuta qui ad ammettere con dolcezza quanto la Costituzione sia ancora una bellissima incompiuta. “I vostri problemi mi faranno compagnia nel lavoro e nella vita personale - promette - mi auguro che gli ideali della Costituzione possano farvi compagnia in questo vostro viaggio”. Cartabia (Consulta): “basta morti di carcere!”, ma le celle scoppiano di Mario Consani Il Giorno, 16 ottobre 2018 Carceri a pezzi e sovraffollate da detenuti “in attesa di processo”. “Nessuno deve morire in carcere, non deve accadere”, scandisce Marta Cartabia, vicepresidente della Corte costituzionale. Ieri il “Viaggio in Italia” che sta portando i giudici della Consulta nelle scuole e nei penitenziari ha fatto tappa nel carcere milanese di San Vittore. Un detenuto del centro clinico riferisce di ultraottantenni con malattie incurabili presenti nel suo reparto. “La salute deve essere al centro della attenzioni - ripete Cartabia - le condizioni della detenzione non devono diventare tali da toccare la soglia del trattamento disumano. Spesso si ripete che il grado di civiltà di un Paese si misura nel trattamento delle persone più fragili e vulnerabili: e quando si è privati della libertà si è in condizioni di fragilità. Su come trattiamo i detenuti misuriamo il tasso di civiltà della nostra Repubblica italiana”. Applausi per lei, ma le carceri scoppiano, anche quelle lombarde. I dati più recenti messi a disposizione dal ministero della Giustizia fotografano la situazione dei 18 istituti lombardi al 30 settembre, due settimane fa. Sono in totale 8.439 gli ospiti di cui 462 donne (appena il 5%) e 3.648 gli stranieri, pari al 43 per cento del totale. Questo è l’unico dato in diminuzione: gli stranieri erano il 45,7% solo un anno fa. Le maggiori presenze sono di marocchini, albanesi, romeni e tunisini. Sempre rispetto ad un anno fa, le persone rinchiuse in Lombardia sono aumentate nel complesso di un 1,5% e addirittura del 6,5% rispetto al 2016, quando si fermavano sotto la soglia degli 8mila (erano 7.927). Considerando il totale di coloro che si trovano dietro le sbarre, quasi uno su sei è in attesa del primo processo e quasi uno su tre non ha una condanna definitiva sulle spalle. Più detenuti, dunque, e maggior affollamento. Rispetto alla capienza regolamentare dei penitenziari lombardi (6.226 posti) siamo in media a un abbondante 35% di presenze in più: dove dovrebbero stare in due, stanno almeno in tre. Andava leggermente meglio un anno fa, quando il sovraffollamento era “solo” del 33% e ancora nel 2016, quando si fermava sotto il 30 per cento. La tendenza, in ogni caso, è chiara, tanto più se si considera che a livello nazionale il tasso di sovraffollamento medio si ferma al 16%: meno della metà di quello regionale. E c’è da ricordare che la realtà delle varie situazioni è ancora peggiore. Stando ai numeri di fine agosto, la maglia nera spetta al carcere di Como, che ospitava 454 detenuti in soli 231 posti regolamentari: il 96% in più. Appena meglio si deve vivere a Lodi, dove a numeri più bassi (86 detenuti per 45 posti) corrispondeva comunque un “surplus” del 91 per cento. Molto male anche i due penitenziari bresciani: a Canton Mombello +82% con 345 detenuti per 189 posti; a Verziano solo 131 ma dove c’è posto per 72 (+81%). Nei peggiori cinque finiva anche il carcere di Busto Arsizio con 423 ospiti per 240 posti (+76%). L’intero panorama delle carceri lombarde resta comunque sopra la media nazionale di sovraffollamento salvo le eccezioni di Sondrio (+11%), Cremona (+ 14%) e come sempre Bollate (dove c’era addirittura qualche posto libero). Le altre due strutture di Milano erano a metà strada, con un 18% in più a San Vittore e Opera (+46%) il più affollato con i suoi 1.347 ospiti per 918 posti. Il giudice penale ignora i fatti che deve giudicare di Bruno Tinti Italia Oggi, 16 ottobre 2018 Chi ha condotto le indagini è diverso da chi li deve discutere in aula con gli avvocati. E non c’è verso di organizzare le udienze in modo più efficiente, perché gli stessi magistrati si oppongono. Gli amari ricordi di battaglie perdute (il sorteggio per l’elezione dei componenti del Csm) mi hanno riportato a un’altra guerra, ancora più lunga (cominciò nel 1990). Anche questa segnata da sconfitte sanguinose e dall’ostilità perenne dei colleghi. La racconto perché si sappia che non tutto il male che si può dire della Giustizia è attribuibile alle dissennate o interessate leggi della politica. I magistrati hanno fatto e fanno la loro parte. Allora. Nel 1990 entrò in vigore un nuovo codice di procedura penale. Cosa buona e giusta o pessima e dissennata, non sto a discuterne. Certo, le regole del processo furono radicalmente cambiate. Prima, il pm e il giudice istruttore facevano le indagini, interrogavano i testimoni, disponevano perizie e accertamenti vari, verbalizzavano tutto, e poi trasmettevano al Tribunale il fascicolo del processo; il giudice se lo studiava, cercava di capire quello che era successo, approfondiva nel dibattimento e poi emetteva sentenza. Oggi, il giudice istruttore è scomparso, resta il pm che fa le indagini (tutto quello detto più sopra) e che, alla fine, trasmette il fascicolo al gip; questo stabilisce se si deve rinviare a giudizio l’indagato (solo dopo che è stato rinviato a giudizio lo si può chiamare imputato, su questa sottigliezza semantica si sono celebrate centinaia di cause per diffamazione). Se sì, il giudice del Tribunale riceve un foglietto su cui ci sono le generalità dell’imputato e il capo di imputazione, una sintesi strettissima di quello che è successo (“ha ucciso pinco pallino il giorno tale nel posto tale colpendolo con x coltellate”). Il fascicolo del pm non gli arriva. Tutto si rifà in dibattimento, avanti a lui: si interrogano i testimoni, si fanno le perizie, insomma si ripete tutto quello che è già stato fatto e che il giudice non può e non deve conoscere prima. La differenza fondamentale tra i due sistemi sta dunque in questo: prima, il giudice conosceva i fatti su cui doveva pronunciarsi; oggi, non li conosce affatto, deve compiere una nuova indagine. Pm e avvocati stanno lì, in aula; intervengono, fanno domande, si interrompono, contestano, precisano. Quello che ne esce è il risultato di questa attività congiunta che viene integralmente registrata e verbalizzata. Diciamo che capire lo svolgimento dei fatti è piuttosto complicato. In questa situazione è ovvio che il pm che sta in aula deve, proprio deve, essere lo stesso che ha fatto le indagini. Almeno lui sa quello che è successo e può interloquire con la difesa che, ovviamente, conosce benissimo gli atti (di cui ha fatto diligentemente copia). Insomma, se il giudice (che non conosce gli atti) deve capire attraverso la “collaborazione/confronto” di accusa e difesa, che l’accusa li conosca. Invece non è così. In udienza ci va un pm qualsiasi. Spesso un vice procuratore onorario (e qui c’è tutta la questione dell’idoneità di un non magistrato a fare il lavoro di un magistrato); comunque il pm togato, che però non è quello che trattò “quel” processo, è uno qualsiasi, quello che un “calendario” destina in udienza per quel giorno. I risultati sono quelli che ognuno può immaginare. Sono ancora più gravi, in realtà, perché quasi nessun processo si definisce in una sola udienza. La norma sono i rinvii: oggi, fra tre mesi, poi fra sei, poi fra altri tre… E credete che nelle udienze successive ci vada almeno il pm che era presente alla prima? Nemmeno per sogno, ci va chi capita; che non solo non conosce il processo ma nemmeno quello che è avvenuto nelle udienze precedenti. L’avvocato, naturalmente, sempre lo stesso è. Io provai a risolvere il problema. Nel 1990. E poi nel 1995. E poi nel 2000; e poi ogni maledetto giorno fino a quando me ne andai disgustato. Il concetto era semplice. Ogni pm doveva seguire i suoi processi. D’altra parte il Tribunale aveva il diritto di “fissare” le sue udienze quando voleva, compatibilmente con le sue possibilità (e comodità, questa cosa va tenuta presente, sia per i giudici di tribunale che per i pm). Come si fa? Semplice. Il Tribunale fissa la prima udienza il giorno X. Questo giorno viene comunicato al pm almeno 12 mesi prima, spesso anche dopo. Sicché il pm, che non ha certo impegni presi da lì a 12 mesi, se lo può segnare in agenda: il giorno X sono in udienza. Bene. Il Tribunale ha un solo obbligo: quell’udienza deve essere riservata solo a processi di quel pm; quindi, quando ne arrivano altri, li deve fissare nella stesso giorno X. E se sono più di 5 o 6 (il che è la norma) fisserà un’altra udienza nel giorno Y (sempre a distanza di almeno 12 mesi), dove si seguiranno le stesse regole. I processi rinviati devono essere fissati anche loro nelle udienze “targate” per il pm che li ha fatti. Costruii un “calendario” informatico (diventò una parolaccia, un dileggio che mi accompagnò per più di 25 anni), comune al Tribunale e alla Procura, su cui finiva tutto. Ognuno sapeva quando si sarebbero celebrati i “suoi” processi, doveva solo consultarlo online. Perché la guerra e le sconfitte fino alla disfatta? L’obiezione era questa: ma, se io quel giorno (fra un anno!) ho qualcosa da fare? Beh, te la sposti il giorno prima o il giorno dopo, hai un anno di tempo. Sì, ma se il Tribunale me la mette in una settimana di febbraio quando io voglio fare la settimana bianca? Oppure (dal lato del Tribunale) se l’udienza di quel pm, dove devo allocare obbligatoriamente un suo processo, capita in un giorno in cui voglio fare io la settimana bianca? Naturalmente, non era solo una questione di sci: ferie non godute (ma c’è l’obbligo di goderle fra luglio, agosto e settembre) ponti, convegni, impegni privati vari. Insomma, il problema era che una predeterminazione del calendario fatta con criteri che assicurassero la massima efficienza per il processo confliggeva con gli interessi personali dei giudici. Saltò tutto. E tutto continuò (e continua), con i fascicoli dell’udienza del giorno dopo che arrivano sulla scrivania di un pm (o, peggio, di un vice procuratore onorario) uno o due giorni prima. Nessuno sa niente, ma certo se lo può studiare. L’avvocato sa tutto; e maramaldeggia. Sapete quando smisi di provarci? Quando cercai di convincere il capo degli ingegneri informatici che mi avevano costruito (gratis, anni di lavoro e spirito civico) il software per realizzare il calendario: “Mi servono delle modifiche; spero di renderlo più friendly” Mi rispose: “Basta. Voi non sapete darvi delle regole. E, se ve le date, non le sapete rispettare” Anti-corruttori, ma già condannati di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 16 ottobre 2018 “Diversamente corrotti”. Ci ha definito così Raffaele Cantone, il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, l’organismo istituito nel 2012 per vigilare e prevenire i fenomeni corruttivi nella Pubblica Amministrazione. Dati alla mano: una media di oltre 1.500 casi di corruzione ogni anno, 818 sentenze definitive di condanna nel solo 2016 per peculato, indebita percezione di erogazioni pubbliche a danno dello Stato, corruzione in atti giudiziari, d’ufficio, concussione. Eppure 3 enti su 4, non hanno mai stato segnalato alcun caso di corruzione. Ma chi avrebbe dovuto segnalarlo? Proprio i Responsabili Anticorruzione preposti al controllo nei singoli enti pubblici in un sistema che l’Europa ci invidia, come ha spiegato il presidente Cantone: “Oggi siamo invitati all’estero per spiegare come funziona l’anticorruzione”. Bene, spieghiamolo. Enti locali: requisiti per l’incarico - Negli enti locali italiani, i Responsabili dell’Anac, salvo eccezioni, sono i segretari generali: circa 7.000 in tutto, nominati dal sindaco, o dal Presidente della Provincia. Dirigenti, dunque, di investitura politica, e che dalla politica dipendono, ed è forse per questo che l’Anac, con una circolare raccomanda di “evitare di designare, quale responsabile della prevenzione della corruzione, un dirigente nei confronti del quale siano pendenti procedimenti giudiziari”, o che non abbia dato “dimostrazione nel tempo di comportamento integerrimo”. Si è sentita la necessità di precisarlo, ma non di verificarlo. Lo abbiamo fatto noi, scoprendo che sono almeno 20 gli enti che non hanno sentito la necessità di adempiere alle raccomandazioni. Integerrimi? Non proprio - Antonella Petrocelli è sotto processo per turbativa d’asta in concorso con altri amministratori pubblici, per fatti commessi fra il 2012 e il 2015, quando era segretaria generale al comune di Como. Qualche giorno dopo la richiesta di rinvio a giudizio il Presidente della Provincia l’ha voluta in segreteria e così oggi, da imputata, è Responsabile Anticorruzione e Trasparenza della Provincia di Como. “Intollerabile e inescusabile negligenza, dispregio delle norme”, sono le parole che il procuratore regionale della Corte dei Conti Emila Romagna ha speso per Danilo Fricano, segretario comunale a Molinella e Bellaria-Igea Marina, in provincia di Bologna, condannato nel 2014 per danno erariale. Al Comune deve restituire 70.353,99 euro, anche se nel frattempo è il Comune che paga lui, essendone ancora segretario generale e Responsabile Anticorruzione e Trasparenza. 125.000 euro è invece la cifra che l’ex segretario generale della Camera di Commercio di Prato, Catia Baroncelli, insieme all’ex Presidente, sono stati condannati a sborsare a fronte di un’operazione finanziaria dannosa per la camera di Commercio di Prato a vantaggio di quella di Firenze. La Baroncelli ha proposto appello, ma intanto la Camera di Commercio deve averle già perdonato il danno subito, considerato che è lei a rivestirne la carica di Direttore generale nonché di Responsabile Anac. Condannati per danno erariale - La lista dei condannati per danno erariale è lunga. A Sesto San Giovanni c’è Mario Giammarrusti. A Corato, in provincia di Bari, c’è Luigi D’Introno, condannato a gennaio dello scorso anno a restituire 60.975,80 euro alle casse comunali. È ancora alla segreteria del Comune e Responsabile Anticorruzione. A Castelgomberto, provincia di Vicenza, nel 2017 il segretario generale Maria Grazia Salamino, insieme al sindaco sono stati condannati a 5 mesi di reclusione per abuso d’ufficio. Oggi la Salamino si è spostata di 10 chilometri, a Sovizzo e Marano Vicentino, dov’è segretario e Responsabile Anticorruzione. A Camugnano, provincia di Bologna, il segretario Giorgio Cigna era stato condannato tre anni fa a rimborsare 31.565 euro, perché si era fatto indebitamente rimborsare le spese di viaggio dalla propria abitazione. La sua reputazione tuttavia non ne ha risentito tanto che oggi, Cigna, è Responsabile Anticorruzione per ben quattro Comuni: Santa Sofia, Premilcuore, Galeata e Civitella. Tutti in provincia di Forlì. Falso, abuso d’ufficio, bancarotta - Domenico Scuglia, sta al Comune di Locri, provincia di Reggio Calabria; oggi è sotto processo per bancarotta fraudolenta. Per Giuseppina Ferrucci, che ricopre l’incarico nei comuni di Squillace, Davoli e Nocera Terinese, la Procura di Lamezia Terme ha chiesto il rinvio a giudizio per abuso d’ufficio. Giampiero Bella, Responsabile a Modica, (Ragusa) è a processo per falsità ideologica, abuso d’ufficio continuato e aggravato. Già condannato per falso Luigi Salvato, che a Vico Equense, provincia di Napoli, tenta di difendere dalla corruzione l’ente per cui è segretario. Il suo avvocato, che oggi lo assiste per un altro processo in cui sarebbe coinvolto, ci ha garantito che in appello, quella condanna andrà in fumo grazie alla prescrizione. Questa storia a Vico Equense non l’hanno digerita, e un anno fa, è partita la segnalazione direttamente a Cantone, ma al momento tutto tace. La “raccomandazione” non basta - Naturalmente ci auguriamo che i dirigenti con procedimenti in corso, alla fine vengano tutti assolti, ma qui il punto è un altro: su chi deve sorvegliare fenomeni corruttivi non possono gravare ombre, motivo per cui Cantone ha inviato la raccomandazione. Punto. Speriamo invece che l’elenco degli amministratori costretti a vedersela con la giustizia si fermi qui, anche se sappiamo che meno della metà degli enti pubblici ha mai verificato situazioni di potenziale inconferibilità di incarichi ai dirigenti pubblici o di eventuale incompatibilità per particolari posizioni dirigenziali. Sarebbe d’aiuto sapere in quanti i casi, questi segretari-responsabili si siano opposti anche ad una sola illegalità. Al momento, non abbiamo trovato dati, anzi abbiamo faticato persino a trovare i Responsabili, poiché neanche a farlo apposta, l’albo che dovrebbe garantire la trasparenza massima sui titolari di questa posizione, disponibile online sulla stessa piattaforma dell’Anac, è in stato di aggiornamento da un pezzo. Bossetti, troppi dubbi per un ergastolo di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 16 ottobre 2018 Hanno gridato a lungo, con tutto il loro fiato, i detenuti del carcere di Bergamo, dopo la sentenza che ha seppellito con un ergastolo definitivo Massimo Bossetti. Nelle voci che si dispiegavano nella notte si udiva il nome, Massimo, Massimo, e si invocava giustizia. Quasi come quell’urlo collettivo e disperato che aveva accompagnato, in una notte di tanti anni fa, nel carcere milanese di San Vittore, il suicidio di Gabriele Cagliari. Chi sta in carcere - colpevoli e innocenti, definitivi o in attesa di processo - sa ben distinguere tra giustizia e ingiustizia, e conosce bene l’odore della pena di morte, quel “fine pena mai” di un paese democratico dell’occidente che non solo non ha mai saputo abolire l’ergastolo con una legge che ne dichiari l’estinzione sul piano formale, ma che ha addirittura inventato l’” ergastolo ostativo”, vera degenerazione dello Stato di diritto. Bossetti ha pianto l’altra sera e con lui hanno pianto e gridato i suoi compagni soprattutto perché i magistrati di tre gradi di giudizio non hanno accolto la sua accorata richiesta di poter ripetere quell’esame del Dna che sta alla base della sua condanna. Un rifiuto incomprensibile sia ai tanti che credono all’estraneità del muratore bergamasco alla morte di Yara Gambirasio, ma anche a coloro che dalla ripetizione di quell’esame sulla cui attendibilità esistono tanti dubbi, aspettavano quella riconferma che avrebbe inchiodato Bossetti per sempre. Un accanimento nel diniego che pare quasi una mossa difensiva, quasi come si fosse al cospetto dell’ineluttabile: è stata lasciata morire con crudeltà in un campo gelato dall’inverno una bambina innocente, noi abbiamo trovato l’assassino, ci sono le sue tracce sugli indumenti di lei e questo ci basta. Purtroppo quel delitto resterà nella storia come un mistero insolubile sia per i colpevolisti che per gli innocentisti. E alzi la mano chi ritiene di averci capito qualcosa. La storia. Un pomeriggio piovoso di otto anni fa una bambina di tredici anni che ama la ginnastica artistica esce dalla casa del suo paese per portare alla palestra della sua scuola un registratore che servirà per uno spettacolino in programma per il giorno dopo. Si chiama Yara e da quel momento sparisce. Cominciano le indagini e le ricerche. I cani molecolari frugano con grande eccitazione nel cantiere di un paese vicino. Una pista che, dopo lo scenografico arresto in mezzo al mare di una persona estranea al rapimento, viene inspiegabilmente abbandonata. Oggi al posto del cantiere c’è un supermercato. La ragazzina viene ritrovata morta in un campo tre mesi dopo. Morta di freddo, si dice. Sul corpo ha strani tagliuzzamenti superficiali che non risultano in corrispondenza della felpa né del giubbotto. Si suppone quindi che sia stata spogliata e poi rivestita. Non ci sono segni di violenza sessuale né di colluttazione sul suo corpo. Il che ci porta a cercare di capire il movente. Per quale motivo una tredicenne viene rapita, poi (quando?) portata in un campo, tramortita e lasciata morire al freddo? Se il movente non è di tipo sessuale (Yara non è stata violentata né da viva né da morente), si può pensare a qualche forma di ricatto da esercitare sulla famiglia. Non economico, sicuramente, ma di che tipo? Altra pista lasciata cadere. Massimo Bossetti viene arrestato quattro anni dopo la sparizione di Yara Gambirasio. La piccola scenografia che era stata utilizzata per l’arresto in mezzo al mare del giovane marocchino lascia il posto alla grande scenografia della ricerche sul Dna, il più grande investimento di forze e denaro mai realizzato in Italia. 18.000 Dna esaminati, 3.600 persone interrogate. Una volta individuato il famoso “Ignoto uno”, non senza un bel po’ di errori e confusione tra i geni della ragazzina e quelli del muratore, i magistrati ritengono il caso chiuso con l’arresto di Bossetti e iniziano a costruire il “tipo d’autore”. Come deve essere l’assassino di un delitto come questo? Bossetti non è un pedofilo, però guarda i siti porno insieme alla moglie, come fa mezzo mondo. Molto sospetto. È sempre abbronzato e gli piacciono le donne. Molto sospetto. Eccetera. Si arriva così alla dinamica dei fatti, un altro colossale buco delle indagini. Yara era descritta da tutti come una ragazzina riservata, che mai avrebbe accettato un passaggio da uno sconosciuto, neanche in un giorno di pioggia. L’ipotesi è che sia invece salita sul furgone di Massimo Bossetti in quanto i due si conoscevano. Ma questo non risulta, nessuno li ha mai visti insieme, non ci sono tracce di messaggi né telefonate che denotino una amicizia tra i due. Quindi sarebbe stata presa con la forza? Possibile che nessuno abbia visto o sentito niente? Ma anche la questione stessa del furgone presenta buchi. È stato lo stesso comandante dei carabinieri ad ammettere in aula, durante il primo processo, che quelle famose immagini (che tutti abbiamo visto in Tv) di un furgone bianco che girava e rigirava intorno alla palestra era stato costruito ad hoc “per problemi di comunicazione”. Insomma, non si sa niente, non si capisce niente. Non c’è il movente, non c’è una seria ricostruzione dei fatti, non si sa come e perché sia morta Yara Gambirasio. Ma c’è la “prova regina”, il Dna sui leggins e sugli slip della ragazza. E la condanna a morte di Massimo Bossetti. E se fosse innocente? La clamorosa solidarietà dei detenuti nei confronti di Bossetti di Claudia Osmetti Libero, 16 ottobre 2018 Prima un singhiozzo, trattenuto a stento. Poi un altro e le lacrime che proprio non riesce a ricacciare indietro. Scoppia a piangere Massimo Bossetti, il muratore di 48 anni di Mapello condannato in via definitiva per l’ omicidio di Yara Gambirasio. La sentenza della Cassazione, appellabile ora solo davanti alle corti europee, arriva di notte: sono circa le 22.30. Bossetti è in carcere, a Bergamo. Che di lì non uscirà mai più glielo dice la televisione. Dalle celle del penitenziario lombardo iniziano a levarsi delle voci, si fanno sempre più forti. Sono quelle dei suoi compagni, detenuti come lui, che gridano appena due parole: fuori, oltre quel cortile della Casa circondariale, si sentono nitidamente. “Giustizia”, urlano, “Libertà”. Bossetti è disperato, un carcerato lo abbraccia, un altro lo conforta. I più fischiano e imprecano contro i giudici che hanno deciso il “fine pena mai” senza concedergli la super-perizia che chiedeva da anni. Che gli hanno negato tutti. I detenuti si stringono attorno a Bossetti, e già questo ha dell’incredibile. Perché in genere le regole non scritte del carcere raccontano una storia differente. Chi entra per reati così gravi, specie se legati ai minori, viene preso di mira: tanto che, succede, deve essere trasferito in qualche sezione speciale, per scampare al massacro dei compagni di gattabuia. “Je suis Bossetti” - Bossetti no. Per Bossetti la protesta è un fiume di solidarietà. Loro, i detenuti con cui ha condiviso gli ultimi quattro anni, lo credono innocente. Come innocente lo credono i tantissimi commenti che affollano i social network in questi giorni. Su Facebook pagine che si chiamano “Je suis Bossetti” o “Massimo Bossetti innocente” macinano indignazione, incredulità, scetticismo. Non vuol dire nulla, ovvio. La Giustizia si fa altrove. Non certo davanti a un computer. Però la decisione della magistratura di non prendere in considerazione un nuovo test del Dna, tanto sollecitato dai legali di Bossetti, scontenta parecchi. Lui non riesce a dormire. Passa la giornata di ieri tra un incontro e l’altro: vede la moglie Marita, il fratello Fabio, il cappellano Don Fausto. È un uomo provato: “Vorrei essere trasferito in un penitenziario dove posso lavorare. Per non impazzire chiedo di poter essere utile”, dice. Lo riportano i giornalisti di Quarto Grado che lo seguono da sempre: “Oggi non ho più nulla, mi resta il pensiero dei miei figli e della mia famiglia”. Una vicenda umana che non toglie niente al dolore per la morte di Yara, la ragazzina di 13 anni di Brembate di Sopra (Bergamo) scomparsa da casa il 26 novembre del 2010 e ritrovata cadavere esattamente tre mesi dopo in un Comune poco distante. “Ha vinto il sistema” - Yara ha diritto ad avere Giustizia. Ma la Giustizia, per funzionare, deve essere sgombra da dubbi. “Ancora una volta ha perso il diritto. Abbiamo osato andare contro il sistema e il sistema ha vinto”, sono laconici anche gli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini. La famiglia Gambirasio non parla. La solidarietà, pure nei loro confronti, deve essere totale: hanno perso una figlia e nel peggiore dei modi. Per colpa di Bossetti, dicono i tribunali. La verità processuale è bollata, resta l’ amaro in bocca per quell’ analisi ripetuta del Dna che non è stata ripetuta affatto. Che una procedura garantista avrebbe dovuto rifare senza opporsi prima di girare, definitivamente, le chiavi nella toppa di una cella a vita. Misure di prevenzione: interdizione dall’accesso a manifestazioni sportive Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2018 Sicurezza ed ordine pubblico - Misure di prevenzione - Manifestazioni sportive - Daspo - Visione della partita da casa privata vicina allo stadio - Violazione misura - Esclusione - Mancanza di una concreta possibilità di contatti umani pericolosi. In considerazione della natura di prevenzione atipica dei divieti di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive, nonché a quelli interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni medesime, deve essere accertato in concreto il pericolo di reali contatti personali con gli spettatori, in entrata ed in uscita dallo stadio, non essendo sufficiente accertare la visione della partita da una casa privata, sita vicino allo stadio. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 2 ottobre 2018 n. 43575. Misure di prevenzione - Daspo - Giudizio di convalida - Diritto di difesa - Termine - Esercizio. Nel giudizio di convalida del provvedimento applicativo della misura di prevenzione di cui all’art. 6 della legge n. 401 del 1989 deve essere riconosciuto all’interessato un termine non inferiore a 48 ore per l’esercizio del diritto di difesa, decorrente dalla notifica del provvedimento del Questore, fino all’ora del deposito del provvedimento di convalida; l’eventuale fissazione di un’udienza partecipata, facoltativa, prima della scadenza delle 48 ore non comporta la violazione del termine delle 48 ore, poiché è possibile depositare memorie al giudice fino all’emissione del provvedimento di convalida. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 2 ottobre 2018 n. 43575. Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Divieto di partecipazione a manifestazioni sportive - Obblighi di presentazione alla P.G. ai sensi della L. n. 401 del 1989, art. 6 co. 7, ultima parte - Non è assimilabile a una misura cautelare - È una misura di prevenzione atipica - Non segue la sospensione condizionale della pena principale. Poiché la prescrizione di presentarsi all’ufficio o comando di polizia, in corrispondenza delle manifestazioni sportive, prevista dalla L. n. 401 del 1989, articolo 6, comma 2, non è assimilabile a una misura cautelare, bensì a una misura di prevenzione atipica, essa non segue la sospensione condizionale della pena principale, ma autonomamente deve eseguirsi anche con la sospensione condizionale della pena ed è applicabile anche ai minorenni in quanto non soffre le eccezioni alla generale applicazione delle misure cautelari delle misure cautelari previste dal D.P.R. n. 448/1988, art. 19. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 10 ottobre 2017 n. 46457. Misure di prevenzione - Daspo - Convalida - Obbligo di presentazione presso l’ufficio del Pg in occasione delle partite di calcio della squadra locale - Termine per il deposito di memorie - Illegittimità della convalida intervenuta prima della scadenza delle 48 ore dalla notifica del provvedimento - Fondamento. In tema di provvedimenti di interdizione dell’accesso a manifestazioni sportive, è da ritenere illegittima la convalida del G.i.p. intervenuta prima della scadenza del termine di quarantotto ore dalla notifica del provvedimento del questore all’interessato, in quanto, in un’ipotesi del genere, è reso impossibile l’esercizio del diritto di difesa ai fini della presentazione di memorie o deduzioni al giudice. È inoltre necessario un termine congruo, per la preparazione di memorie ed atti defensionali, da identificarsi in quello concesso dalla legge al P.M. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 8 giugno 2015 n. 24360 Reggio Calabria: “mio figlio aveva 31 anni, come è morto in carcere?” di Angela Panzera lacnews24.it, 16 ottobre 2018 Da otto mesi Caterina Amaddeo aspetta di sapere le circostanze che hanno portato al decesso del figlio Antonino Saladino, 31enne reggino, avvenuto nella Casa circondariale di Arghillà. Sulla vicenda è stata aperta un’inchiesta ed è intervenuto anche il garante dei detenuti che ha scritto al ministro affinché si faccia luce su quanto accaduto. “Mi aspetto che mi diano un risultato e sapere come è morto mio figlio. Non ho avuto ancora nessuna risposta”. C’è una madre a Reggio Calabria, Caterina Amaddeo, che da otto mesi aspetta di conoscere le circostanze che hanno portato al decesso del proprio figlio. Si tratta di Antonino Saladino, il 31enne, deceduto la sera del 18 marzo scorso al carcere reggino di “Arghillà”. Sulla morte indaga la Procura dello Stretto e il pm Diego Capece Minutolo, titolare dell’indagine, ha disposto l’autopsia sul corpo ma, al momento, non sono state rese note le valutazioni del medico legale. Arrestato per droga nell’operazione antimafia “Eracle”, condotta dai carabinieri nell’aprile dello scorso anno, Saladino era in custodia cautelare e attendeva il processo. Negli ultimi giorni aveva iniziato a stare male con febbre e vomito. La famiglia vuole risposte e pretende di sapere non solo perché il loro caro è morto ma, se eventualmente ci siano state delle inefficienze da parte della struttura penitenziaria. “Ultimamente accusava dei disturbi- ci dice la madre- ma non ha avuto nessun aiuto. Aveva dei dolori e nessuno gli ha dato la medicina adatta per potersi curare”. La vicenda di Antonio Saladino - Sono poche le informazioni pubbliche sul decesso del giovane 31enne. Da quanto è stato reso pubblico quella sera del 18 marzo scorso le sue condizioni si sono aggravate tanto da indurre il medico di guardia, all’interno del carcere, a richiedere l’intervento di un’ambulanza. Quando i sanitari giungeranno all’interno dell’istituto penitenziario non potranno fare più nulla ma, solo constatarne il decesso. Ci sono tanti aspetti da chiarire quindi sulla vicenda. La signora Ammadeo confida nella giustizia e sia appella alle Istituzioni non solo per far luce sulla morte del figlio ma, anche affinché lo Stato si prenda cura dei tanti detenuti. “Mi auguro - ci dice - che in carcere i detenuti vengano trattati come persone normali e non abbandonati a se stessi quando stanno poco bene”. Le carenze nel carcere di Arghillà - La morte di Saladino è attenzionata dal garante comunale delle persone private della libertà personali, Agostino Siviglia, che già pochi giorni dopo la scomparsa del ragazzo aveva inviato una missiva al ministro della Giustizia, ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, al commissario regionale alla sanità ed alla direzione generale dell’Asp di Reggio Calabria, per denunciare le carenze sanitarie in cui versano le carceri reggine, soprattutto quello di “Arghillà”. Un istituto in cui oltre al sovraffollamento dei detenuti e alla carenza di organico della polizia penitenziaria, manca una copertura infermieristica per tutto il giorno, un gabinetto radiologico e il personale medico-sanitario è insufficiente. “Le problematiche rimangono-dice Siviglia alla nostra testata- a seguito delle mie denunce però l’Asp è intervenuta per nominare un referente sanitario esclusivo per Arghillà ed è stato molto importante considerato che in precedenza il referente aveva in carico entrambi gli istituti penitenziari reggini con evidenti disfunzioni per l’enorme sovraccarico di lavoro”. Il garante: “Lo Stato deve dare risposte” - Anche il garante Siviglia si appella agli inquirenti per stabilire le precise cause della morte del detenuto. “Bisogna fare chiarezza- continua Siviglia- è un sacrosanto diritto per i suoi familiari, quantomeno, sapere di cosa è il morto il loro caro. Ed è un dovere per lo Stato fornire questa risposta. Si deve stabilire- ha aggiunto- se è morto per cause naturali o se invece un ricovero immediato al pronto soccorso avrebbe potuto stabilire l’insorgenza di una qualche patologia non diagnostica e quindi potesse essere salvato. C’è un’indagine in corso ed io non posso non avere fiducia nel lavoro che sta svolgendo la Procura. Attendiamo i risultati dell’autopsia per avere maggiore chiarezza”. Al momento l’inchiesta è condotta contro ignoti. Le valutazioni del medico legale serviranno agli inquirenti per eventuali iscrizioni nel registro degli indagati oppure constatare che non ci siano state negligenze e sottovalutazioni. “Non mi sento in alcun modo- ha concluso il garante- di attribuire responsabilità particolari ma, se queste dovessero emergere è evidente che la magistratura dovrà intervenire”. Pavia: emergenza sanitaria in carcere, ci sono 5 detenuti disabili e 2 sole carrozzine di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 ottobre 2018 Disabili con solo due carrozzine che devono usarle a rotazioni, malati di patologie senza una adeguata assistenza sanitari, casi di persone salvate in extremis da un detenuto infermiere, ma che ora non c’è più. Questo è il quadro generale del carcere di Pavia riscontrato dalla delegazione del Partito Radicale composto da Rita Bernardini, Simona Giannetti, Mauro Toffetti, Enrica Civelli, Francesco Condò e Filippo Cattaneo. La delegazione radicale, ha avuto problemi per l’ingresso. Nonostante le rassicurazioni fornite il giorno prima a Mauro Toffetti, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non aveva recapitato l’autorizzazione alla direzione del carcere. Fortunatamente la situazione si era sbloccata grazie all’intervento di Luigi Pagano, il provveditore regionale della Lombardia. Il giorno della visita - il 22 settembre - erano presenti 680 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 580 posti. La sezione “protetti” (quella che ospita i detenuti per reati sessuali) ospitava 329 persone. Lì la delegazione del Partito Radicale ha potuto constatare che è stata aggiunta la quarta branda: pertanto nelle celle ci sono due letti singoli e un letto a castello a due piani. Le prime problematiche riscontrate, secondo le lamentele dei detenuti, è che la magistratura di sorveglianza non risponderebbe per tempo alle istanze di liberazione anticipata, il che limita l’accesso ai benefici e alle misure alternative quando non ritarda addirittura la scarcerazione agli aventi diritto. Nella sezione “protetti” la delegazione ha incontrato almeno 5 persone detenute disabili che hanno bisogno della carrozzina, ma ce ne sono solo due e per gli spostamenti e la vita quotidiana se le devono far bastare. Anche i piantoni non ci sono per tutti e i detenuti disabili devono contare sulla benevolenza di altri detenuti che si prestano gratuitamente ad aiutarli per le esigenze fisiologiche o per lavarsi. Eppure è compito della Asl fornire gli strumenti ortopedici per chi ha gravi difficoltà di deambulazione. L’assistenza sanitaria, infatti, risulta carente. Tant’è vero che tutti i detenuti si lamentano dell’assenza del dirigente sanitario. Ma non finisce qui. Fra i casi di detenuti con gravi patologie e non adeguatamente seguiti, la delegazione radicale incontrato un detenuto con 22 patologie fra le quali un grave diabete e il morbo di Crohn: ha bisogno di una carrozzina a suo uso esclusivo, ma ne dispone solo di una a prestito; non dispone di un piantone e si fa aiutare dai suoi compagni di cella. Oppure un altro detenuto, anche lui diabetico e con tante altre patologie (pancreatite acuta, cirrosi epatica, infarto, problemi circolatori e un’ischemia durante la detenzione): ha denunciato alla delegazione che il diabetologo lo ha visto solo una volta in tre anni. Ancora un altro detenuto, invalido al 100% con il diabete mellito 2, artrosi cronica bilaterale, dice di attendere da 19 mesi per poter fare una risonanza magnetica. Ha un calcolo a un rene e per i dolori viene trattato esclusivamente con antiinfiammatori. Poi c’è la preoccupazione di un altro recluso che, affetto da un tumore alla vescica, era stato recentemente operato e gli hanno riscontrato delle macchie ai polmoni di cui non si conosce la natura. Come se non bastasse, sempre nella sezione “protetti”, i detenuti hanno segnalato alla delegazione del Partito Radicale il pericolo di mancata o ritardata assistenza sanitaria che può verificarsi di notte quando il presidio sanitario è privo di medico e gli infermieri sono - se va bene - un paio e molto lontani dalla sezione. Se si verifica un grave malore come un infarto, il rischio - come è capitato in passato, è altissimo. In alcuni casi, solo grazie alla presenza di un detenuto-infermiere (che però ora non c’è più) è stato possibile effettuare massaggi cardiaci che hanno salvato la vita a più di un recluso. E sempre lì i detenuti hanno segnalato un caso di un recluso morto due anni fa. Si chiamava Pier Paolo Albanesi, era gravemente malato, e da mesi si lamentava di forti dolori trattati però con degli psicofarmaci. Quando si sono decisi a mandarlo in ospedale, è morto nel giro di due giorni in quanto il cancro di cui era affetto si era ormai propagato in modo irreparabile. Reggio Calabria: “una Casa protetta per far uscire dal carcere le detenute-madri” Corriere della Calabria, 16 ottobre 2018 “Nelle 190 carceri italiane le donne sono la minoranza penitenziaria più nota: su 60mila e rotti detenuti sono solo il 4,12 per cento, di cui 904 straniere. I penitenziari per sole donne sono solo sei, le altre sono recluse in sezioni di carceri maschili”. È il dato emerso a Reggio in occasione dell’iniziativa sul tema “Carcere e donne madri. Carcere e bambini dentro” organizzato dall’associazione Biesse presieduta da Bruna Siviglia e animato dagli avvocati Gianpaolo Catanzariti (Osservatorio sulle carceri della Camera penale), Emiliano Genovese (Camera penale), Giuseppe Crucitta (Tribunale dei minori di Reggio), dal giornalista Romano Pitaro e dal Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Reggio Agostino Siviglia. “Se le criticità non mancano nelle carceri per sole donne - è stato sottolineato nel corso dei lavori - lo stesso dipartimento dell’amministrazione penitenziaria rileva che nelle sezioni degli istituti maschili “le donne vivono una realtà che è pensata e realizzata nelle strutture e nelle regole per gli uomini mentre i loro bisogni specifici, in buona parte correlati ai loro figli, sono spesso disattesi”. “Durante il dibattito è emersa una proposta, formulata dalla presidente dell’associazione Biesse e dal giornalista Romano Pitaro: visto che di istituti per la custodia attenuata per le madri in Italia (previsti da una legge del 2011) ce ne sono solo quattro e che quello della Sardegna neppure funziona (ha rimarcato l’avv. Catanzariti), se ne faccia uno a Reggio Calabria. O, meglio ancora, si pensi ad una Casa protetta - sulla falsariga della Casa di Leda di Roma - che, grazie alla presenza di educatori e operatori professionalizzati, possa offrire alle detenute il necessario sostegno emotivo con la possibilità di un reinserimento sociale (in linea con l’articolo 27 della Costituzione), e al bambino la possibilità di continuare il rapporto privilegiato con il genitore fondamentale per la sua crescita”. La proposta, soprattutto l’idea della Casa Protetta, è stata condivisa dal Garante Agostino Siviglia che si è detto pronto “a rappresentarla al Garante nazionale per i detenuti Mauro Palma”. “L’iniziativa di Biesse nasce dopo la tragedia di Alice Sebesta, la trentenne di origine tedesca che, a settembre, ha lanciato per disperazione, uccidendoli, i suoi due figli dalle scale del Nido del carcere i Rebibbia. Alice Sebasta si trovava in carcere coi suoi piccoli ed era in attesa di essere mandata (forse) agli arresti domiciliari”. Latina: al via nella Casa circondariale un corso per pizzaiolo destinato ai detenuti agensir.it, 16 ottobre 2018 I detenuti della casa circondariale di Latina su base volontaria potranno seguire un corso base per pizzaiolo all’interno della stessa struttura. Un’opportunità resa possibile grazie al progetto promosso dal cappellano del carcere, il salesiano don Nicola Cupaiolo, il quale conosce bene il valore pedagogico di un “mestiere” da imparare per dare dignità a se stessi come persona e anche per stare lontano dai guai. “Grazie alla disponibilità di un pizzaiolo di Latina Scalo - spiega don Cupaiolo, siamo riusciti ad avviare questo corso base che prevede circa cinque incontri cui partecipano 5-6 detenuti alla volta anche per ragioni di sicurezza e di disponibilità di attrezzature”. Inoltre, aggiunge il sacerdote, “il giorno del corso c’è anche una sorta di prova pratica davvero impegnativa: viene offerta la pizza a tutti i detenuti e parliamo di circa 130 persone. Noi siamo veramente contenti di preparare queste persone su un aspetto così pratico della vita con il solo scopo di poter dare un’occasione, una possibilità che li possa aiutare per il futuro”. Poiché si tratta di un’attività impegnativa anche dal punto di vista logistico, “devo ringraziare il vescovo Mariano Crociata, il quale - prosegue il cappellano - ha assicurato il pieno sostegno della diocesi che tra l’altro si fa carico degli oneri economici. Ovviamente, un altro grande ringraziamento va alla direttrice del carcere, Nadia Fontana, per aver accolto con molto favore la nostra iniziativa concedendoci i permessi e soprattutto l’uso della cucina del carcere”. Don Cupaiolo lancia anche un appello: “Abbiamo bisogno degli ingredienti per preparare le pizze (farina, olio e pomodoro, i formaggi), chiunque volesse donarli sappia che compie un vero gesto di carità”. Alba (Cn): si è conclusa la raccolta in carcere, uva di alta qualità per il Valelapena di Corrado Olocco Gazzetta di Alba, 16 ottobre 2018 Sono giorni di vendemmia anche nel vigneto della casa di reclusione Giuseppe Montalto di Alba. La scorsa settimana le uve raccolte in carcere (Barbera e Dolcetto) sono state portate alla Scuola enologica, che da anni esegue le operazioni di vinificazione per produrre l’ormai celebre vino rosso da tavola Valelapena. “La quantità è leggermente inferiore rispetto al 2017, ma la qualità è ottima, grazie soprattutto al clima dell’ultimo mese, che ha favorito la maturazione”, sottolinea il tecnico agrario Giovanni Bertello, che col collega Emanuele Fenocchio segue il progetto di viticoltura avviato nella struttura albese. Quest’anno l’attività viticola in carcere ha coinvolto una quindicina di detenuti, che in alcune operazioni sono stati supportati dagli studenti dell’Enologica, a conferma di una collaborazione che procede da anni con notevole successo. Facendo il punto sulla vendemmia, Bertello ringrazia anche la direzione della casa di reclusione, il comandante e gli agenti della Polizia penitenziaria per la collaborazione e la ditta Syngenta per l’indispensabile supporto tecnico e agronomico. Oltre al vigneto e all’orto, che ormai da anni caratterizzano le aree interne del carcere albese, quest’anno è entrato in produzione anche il noccioleto. Il primo raccolto è stato di circa due quintali. Viterbo: “Musica senza confini” al Teatro del Carcere circondariale lafune.eu, 16 ottobre 2018 Nell’ambito del festival di musica classica “ I bemolli sono blu”, in programma da giovedì 18 ottobre a domenica 4 novembre, il Consolato Touring Club di Viterbo e l’Associazione “Muzio Clementi” hanno organizzato per venerdì 9 novembre alle ore 15,30 una conferenza-concerto su Beethoven dal titolo “Musica senza confini” tenuta dal maestro Sandro De Palma presso il teatro del carcere circondariale di Viterbo (strada Mammagialla). Chi è interessato a partecipare può inviare al console Vincenzo Ceniti (cenitivince@gmail.com, cell. 334.7579879) la propria adesione con nome, cognome, data e luogo di nascita e residenza entro mercoledì 31 ottobre. “Beethoven - ha detto il maestro De Palma” - è sembrato l’autore più adatto in quanto simbolo di libertà e progresso e genio assoluto della forma e delle relazioni tra elementi musicali”. La funzione profonda della musica - ha aggiunto - è quella di incrementare la qualità dell’esperienza individuale e delle relazioni umane all’interno della comunità: le strutture musicali riflettono modi e moti dell’esperienza umana. “Ringrazio la direzione del Carcere - ha detto il console Ceniti - e la dott.ssa Natalina Fanti per la collaborazione e la cortese disponibilità ad aderire ad una iniziativa che sono certo troverà consenso e apprezzamento tra i detenuti”. Decreto sicurezza. Garante: contrasto con la Carta, per immigrati rischio arbitrii e abusi Avvenire, 16 ottobre 2018 “Contrarietà”, “perplessità” e “forte preoccupazione” per disposizioni che si prestano al rischio di “arbitrii” e “abusi” ai danni dei migranti, e che sembrano in “contrasto” con la Costituzione e la Convenzione europea sui diritti umani. Con un parere espresso alla commissione Affari costituzionali del Senato, il Garante nazionale dei detenuti o privati della libertà personale, Mauro Palma, boccia diverse delle norme contenute nel decreto legge su migranti e sicurezza. Il provvedimento, voluto dal vice premier Matteo Salvini, era stato firmato dieci giorni fa dal capo dello Stato, che però lo aveva accompagnato con una lettera al governo contenente un secco richiamo alla Costituzione e ai trattati internazionali. Ed ha tra le sue misure chiave l’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, l’allungamento dai 90 ai 180 giorni della durata del trattenimento nei Centri di permanenza per i rimpatri e la possibilità di trattenere gli stranieri da espellere anche in luoghi diversi dai Cpr, come strutture della pubblica sicurezza. Norme sulle quali si appuntano i rilievi del Garante. I dubbi, messi nero su bianco anche in una relazione di 18 pagine, riguardano innanzitutto il “significativo prolungamento” della durata del trattenimento presso i Cpr, che “incide fortemente sulla libertà personale”. Un’estensione che non ha “giustificazione”, “né sembra idonea allo scopo che si prefigge”. Esplicita la “contrarietà” alla nuova ipotesi di trattenimento del richiedente asilo per la determinazione o la verifica della sua identità e cittadinanza, i cui termini possono arrivare fino a 210 giorni di detenzione: la norma, scrive il Garante, appare “critica sotto il profilo della mancanza di protezione del diritto alla libertà da ogni arbitrarietà”. “Forte preoccupazione” suscitano, poi, le ipotesi di trattenimento dei richiedenti asilo in luoghi diversi dai Cpr: il riferimento generico a strutture idonee della pubblica sicurezza o locali degli uffici di frontiera “si presta a un’applicazione del tutto arbitraria, senza la fissazione di standard minimi di detenzione da rispettare”. Migranti “scaricati” in Italia, Salvini ri-attacca Macron di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 16 ottobre 2018 La scena non è insolita, e anzi lungo la “rotta alpina” assistere al via vai di camionette della gendarmeria francese che scaricano come pacchi i migranti provenienti dall’Italia è prassi quotidiana o quasi. Di solito avviene a Bardonecchia - vengono portati alla stazione ferroviaria, poco distante ma separata dalla caserma della polizia - data la presenze del vicino tunnel autostradale che rende più comodo il trasferimento dei migranti irregolari pescati oltre confine. La scena è questa: arriva una camionetta bianca o blu, i miliari scendono, aprono la porta all’ospite indesiderato che esce dall’auto con un foglio in mano. Fine. Ieri si è appreso che venerdì scorso lo scarico è avvenuto a Claviere, secondo una testimonianza rilasciata da alcuni funzionari della Polizia, “pochi metri al di qua del confine”. Un furgone della gendarmeria, uno di quelli che di solito va a Bardonecchia, è stato avvistato mentre faceva scendere un paio di uomini “di origine africana in una zona boscosa”: ovvero lungo il campo da golf che Claviere e Montgenévre, primo paese oltre confine, condividono: a pochi metri di distanza del posto di frontiera francese. Una seconda versione sostiene che i due uomini sarebbero stati scaricati “presso la galleria di Cesana”, ma in questo caso si tratterebbe di almeno quattro chilometri all’interno del territorio italiano, ben al di là di Claviere e in un punto decisamente isolato e pericoloso. Funzionari della Digos presenti - la zona in questi giorni è fortemente presidiata a causa della presenza degli anarchici dispersi dopo lo sgombero di Chez Jesus - hanno fotografato la scena. La Francia infatti, a differenza dell’Italia che non presidia la frontiera - il vecchio posto di guardia un tempo tenuto dai Carabinieri è stato recentemente raso al suolo dopo un abbandono decennale, mentre la dogana è chiusa da tempo - in questi giorni sta intercettando i migranti che non hanno più il punto di appoggio di Claviere, Chez Jesus, recentemente sgomberato. Giunti a Claviere, accompagnati da passeurs, oppure con l’autobus di linea, i migranti camminano verso la Francia, dove i gendarmi praticano una sorta di tonnara. Prima, passavano di notte lungo i sentieri, ma ora che il rifugio della piccolo rifugio Chez Jesus è venuto meno è crollata anche la rete di solidarietà che li aiutava nel passaggio verso la Francia. La gendarmeria francese secondo il “regolamento di Dublino” ha il dovere di avvertire il commissariato di polizia o la stazione dei carabinieri in caso di “restituzione”: nel caso di venerdì scorso denunciato dalla Polizia italiana questo non è avvenuto. Il ministro dell’interno Matteo Salvini ha fatto la voce grossa anti francese: “Sono in attesa di sviluppi. Non voglio credere che la Francia di Macron utilizzi la propria polizia per scaricare di nascosto gli immigrati in Italia. Ma se qualcuno pensa di usarci come il campo profughi d’Europa, violando leggi, confini e accordi, si sbaglia di grosso. Siamo pronti a difendere l’onore e la dignità del nostro Paese in ogni sede e a tutti i livelli. Pretendiamo chiarezza, soprattutto da chi ci fa la predica ogni giorno, e non guarderemo in faccia a nessuno”. Salvini conclude: “Invito il collega Moavero a chiedere chiarimenti all’ambasciatore”. Il ministro quindi adombra l’ipotesi che Macron in persona stia spedendo in Italia i migranti che non vuole in Francia. Al confine italo-francese ogni giorno si gioca un grottesco rimpallo di uomini, donne e bambini che nessuno vuole. La procura di Torino ha aperto un’inchiesta: la seconda, dopo la violenta perquisizione di un giovane nigeriano, da parte della polizia di frontiera francese, all’interno della stazione ferroviaria di Bardonecchia la scorsa primavera. Dopo molti mesi di indagini dalla gendarmeria francese non sono ancora giunti elementi sufficienti per procedere con l’indagine. Motovedette regalate dall’Italia alla Libia usate per sequestrare i nostri pescatori polisblog.it, 16 ottobre 2018 La Libia sequestra i pescatori di Mazara del Vallo utilizzando le motovedette regalate loro dall’Italia per la gestione dei flussi migratori. È la denuncia di un servizio della trasmissione Tv “Le Iene” tramite un servizio a firma di Silvio Schembri andato in onda nella puntata del 14 ottobre. L’inviato di Mediaset si è messo in contatto con i pescatori sequestrati dalle motovedette libiche nei giorni scorsi: gli equipaggi sono stati fermati dalla guardia costiera libica, che utilizza mezzi forniti dall’Italia, mentre effettuavano delle battute di pesca. Non è la prima volta che ciò accade e la spiegazione è “purtroppo” semplice: le acque libiche raggiungono le 12 miglia a largo del Paese, dopodiché si entra in acque internazionali. La Libia, però, ha esteso arbitrariamente e illegalmente il confine fino a 74 miglia. Intervistato da Le Iene, il senatore del Movimento 5 Stelle, Gregorio De Falco, noto anche per la vicenda relativa al naufragio della Costa Concordia, ha dichiarato: “È illecito proclamare unilateralmente, senza un accordo precedente, una zona economica esclusiva”. Sembra un paradosso, ma tramite i mezzi regalati dall’Italia, secondo l’accusa dei pescatori siciliani, la Libia sequestra gli equipaggi, li porta nelle sue carceri e sottrae loro tutto il pescato tramite l’utilizzo di celle frigorifere. Ungheria. Guerra di Orban ai senza tetto: vietato dormire per strada, previsto il carcere di Sara Volandri Il Dubbio, 16 ottobre 2018 Non solo i migranti, non solo gli oppositori politici, il padrepadrone dell’Ungheria Viktor Orban estende il suo canone di ordine e disciplina su un’altra debole minoranza: i senza tetto. Da ieri chi non ha una casa non potrà più dormire per strada: nessuna panchina nei parchi pubblici, nessun cantuccio in una stazione, nessun riparo di fortuna sotto i ponti. La drastica misura è prevista La drastica misura contro il vagabondaggio è stata bollata come “crudele” dalle principali associazioni e ong per i diritti umani. Il provvedimento, che fa parte del criticato emendamento costituzionale di giugno scorso contro migranti e le stesse ong, dà la possibilità alla polizia di arrestare i senzatetto che vengono scoperti tre volte in 90 giorni a dormire all’aperto. Inoltre, ad aggiungere un tocco di sfregio supplementare, si potranno distruggere i loro averi, considerati come “roba di nessuno”. Coloro i quali, fra i senza fissa dimora e in generale fra i carcerati, indosseranno in futuro la divisa a scacchi, potranno anche essere assegnati a lavori socialmente utili. E non dovranno comunicare con la stampa o rilasciare interviste a pagamento. L’obiettivo è “assicurare che i senzatetto non siano nelle strade di notte e che i cittadini possano fare uso dello spazio pubblico senza impedimenti”, ha dichiarato ai giornalisti Attila Fulop, segretario di Stato per gli affari sociali. In Ungheria vivono attualmente circa 50mila senzatetto, un terzo dei quali dimora in strada, mentre il rimanente in alloggi provvisori messi a disposizione da organizzazioni non governative o dal governo stesso. La ragione principale per cui sussiste il problema dell’uso abitativo degli spazi pubblici è rappresentata dalla carenza di alloggi per tutti i richiedenti, parte dei quali soffre di malattie mentali, o appartiene alle fasce più deboli della società, come i migranti, i rifugiati e la popolazione Rom. Il governo dal canto suo sostiene che sta aumentando i finanziamenti per l’accoglienza di homeless in strutture apposite, ma le organizzazioni internazionali e i gruppi per i diritti alla casa che hanno condannato la nuova legge, denunciano la totale mancanza di infrastrutture per l’accoglienza delle fasce più povere della popolazione. Già a giugno quando Orban annunciò la sua legge, l’esperta di housing dell’Onu, Leilani Farha, l’aveva definita “crudele e incompatibile con le norme internazionali per i diritti umani”. Ieri in piazza a Budapest migliaia di persone, tra cui molti senza tetto, hanno manifestato contro il governo. Il mese scorso il Parlamento europeo ha approvato un’azione disciplinare contro l’esecutivo di Budapest per “il rischio evidente di minaccia” per i valori fondanti dell’Unione europea. Il braccio di ferro tra Orban e l’Ue va avanti. Svizzera. Vittoria contro l’eroina, il superamento del proibizionismo andato a buon fine di Cédric Gouverneur* Il Manifesto, 16 ottobre 2018 Il fallimento della proibizione sta spingendo un numero crescente di paesi - come il Canada, a partire da ottobre, per la cannabis - a legalizzare l’uso, e perfino la commercializzazione, delle droghe. A partire dagli anni 1990, la Confederazione elvetica ha affrontato con determinazione il problema sociale posto dal consumo di eroina, preferendo la regolamentazione al divieto. Questo approccio è ormai sostenuto dai tossicodipendenti, dai medici, dalla popolazione e... dalle forze dell’ordine. “Ho preso l’eroina per affrontare i miei problemi psichici, spiega David, un cinquantenne con venticinque anni di dipendenza alle spalle. Mi ha fatto toccare il fondo. Ho perso il mio lavoro di orologiaio, ho “preso in prestito” del denaro dalla mia ragazza e dai miei amici. Sono finito per la strada. Per pagare le mie dosi, mi sono anche messo a spacciare.” Da un anno e mezzo, David si reca ogni giorno al centro del programma sperimentale di prescrizione degli stupefacenti (Peps), che dipende dall’Ospedale universitario di Ginevra. “Grazie a questo programma, ho ritrovato una vita sociale e ho potuto rimborsare i miei amici”. L’uomo lancia uno sguardo all’orologio: “Devo lasciarla, è l’ora della cura.” Un’infermiera gli consegnerà una siringa di diacetilmorfina, dell’eroina prodotta in piena legalità da un laboratorio elvetico. I circa 1.500 pazienti dei 22 centri Peps della Svizzera hanno tutti tentato, invano, di “smettere” con l’aiuto di trattamenti sostitutivi: “Il metadone con me non ha funzionato, racconta Marco, 44 anni. Gli effetti collaterali sono violenti e non risolvono l’ansia. Così finivo per consumare altri stupefacenti. Sono iscritto qui da sei mesi; sono aumentato di peso e ora il mio consumo di eroina è cinque volte inferiore. Col tempo voglio smettere”. “Il trattamento mi dà una regolarità, osserva Chantal, 54 anni, di cui trenta di dipendenza. È finito il tempo in cui correvo dietro agli spacciatori.” Jeff, 54 anni, ha le pupille ristrette e parla a voce alta. Si è appena iniettato il suo trattamento: “La qualità della mia vita è innegabilmente migliorata. Le mie giornate si sono stabilizzate. Prima ero diventato uno spacciatore. Ero astuto, mi arrangiavo per procurarmi i soldi”. “La dipendenza sopravviene quando l’assunzione di un prodotto diventa la sola strategia per affrontare le situazioni difficili, ci ricorda Yves Saget, infermiere specializzato in tossicologia. Qui non si parla più di “dose”, ma di “trattamento”. Il cervello è dipendente e ha bisogno di eroina per trovare un equilibrio. In questo centro riceviamo sessantatré pazienti sotto diacetilmorfina. Questa eroina terapeutica è pura, contrariamente a quella acquistata per strada che è tagliata con caffeina, paracetamolo, ecc. L’eroina di strada è poco soddisfacente e il tossicomane spesso vi associa altri stupefacenti, alcol, farmaci psicotropi come le benzodiazepine. La nostra posologia, adattata a livello individuale, permette a ciascuno di vivere nel modo più normale possibile. Valorizziamo anche il senso civico dei pazienti: devono rispettare il personale e il prossimo in generale. È il loro centro di cura: sta a loro proteggerlo”. Ciascun paziente è seguito da un infermiere, da un interno in medicina e da uno psichiatra. “La prescrizione medica li fa uscire dalla spirale del comportamento di strada, afferma il dottor Pedro Ferreira, psichiatra. Non hanno più bisogno di procurarsi da soli la sostanza e quindi di trovare il denaro con ogni mezzo, compreso il furto o la prostituzione. Questo cambiamento consente loro di avere le risorse psichiche per ricentrarsi sulla propria vita, fissarsi degli obiettivi e riprendere contatto con la famiglia e gli amici. E inoltre sono seguiti sul piano psichiatrico”. Attuata in quasi tutti i cantoni (il Vaud l’ha adottata questa estate) e sperimentata timidamente in Canada e in qualche paese europeo (Germania, Regno unito, Paesi Bassi...), la prescrizione medica dell’eroina è nata da una grave crisi: quella delle scene aperte dalla droga. Negli anni 80, in Svizzera, il consumo di eroina è esploso. “La maggior parte dei consumatori erano giovani in rotta con la famiglia”, ricorda lo psichiatra di Zurigo Ambros Uchtenhagen. Il paese era diventato un polo di attrazione europeo: alcuni tossicodipendenti venivano dall’Italia, dalla Germania, dalla Francia. La polizia, sopraffatta, cercava di limitare i fattori di disturbo nello spazio pubblico - furti, violenze, abbandono di siringhe usate... - relegando i consumatori in alcuni luoghi, che presto furono soprannominati “parchi delle siringhe”. A Berna, una scena aperta era poco distante dal palazzo federale, il centro del potere: “I parlamentari vedevano la gente che si bucava sotto le loro finestre”, racconta il dottor Daniele Zullino. “Sembrava uno dei gironi dell’inferno”, rammenta Ruth Dreifuss, all’epoca consigliere federale responsabile della sanità. Ex presidente socialista della Confederazione (1999), la Dreifuss dal 2016 è a capo della Commissione globale per le politiche sulle droghe, che riunisce ex responsabili politici di tutto il mondo con lo scopo di ottenere una regolamentazione del mercato delle droghe da parte degli Stati. “Si era creata un’economia della miseria, fatta di prostituzione e piccoli traffici. Era terribile; il personale curante sul posto praticava una medicina di guerra”. Le iniezioni ripetute, con del materiale sporco, provocavano ascessi che necessitavano cure d’urgenza. “C’erano morti per overdose ogni settimana, ricorda, a Berna, lo psichiatra Robert Hàrnmig. L’Aids imperversava e la triterapia ancora non esisteva”. Per limitare il propagarsi dell’Hiv, “nel 1986 la fondazione Contact ha aperto a Berna la prima sala delle iniezioni al mondo”, spiega Jakob Huber, suo ex direttore. Ma l’esistenza di queste sale non aveva alcun effetto sulla delinquenza legata all’acquisto di stupefacenti. Quanto ai trattamenti sostitutivi, “alcuni non li sopportavano”, precisa il dottor Thilo Beck, psichiatra presso la Comunità di lavoro per medie tossicodipendenze (Arud), una clinica di Zurigo specializzata in addictologia. Espulsi da Platzspitz, un parco zurighese, centinaia di eroinomani avevano subito invaso la stazione dismessa di Letten. A Berna, si erano trasferiti dal parco Kleine Schanze al parco Kocher... “Ci trovavamo in un’impasse”, riassume Huber. Gli Svizzeri non ne potevano più. “Il cambiamento arriva quando la sofferenza è forte, visibile. A quel punto noi, gli operatori attivi sul campo, abbiamo proposto una soluzione.” E una soluzione radicale: prescrivere l’eroina a chi non traeva alcun beneficio dai trattamenti sostitutivi. Nel 1995, in Svizzera il 65% degli intervistati considerava la droga come un problema importante; oggi è ritenuto tale solo dal 15%. “Abbiamo creato una piattaforma in cui lo Stato federale, i cantoni e i municipi potevano incontrarsi, racconta la Dreifuss, per far comunicare meglio i diversi livelli di intervento. Le scene aperte non potevano più andare avanti, ma per chiuderle bisognava trovare altre soluzioni. Ogni tentativo attuato in precedenza era fallito. I medici che prescrivevano il metadone hanno allora proposto di consentire la prescrizione dell’eroina”. La nozione di trattamento sostitutivo non era nuova: “Il metadone si prescrive dagli anni 1960, precisa la Dreifuss. La gente quindi si era già abituata all’idea.” In Svizzera la sanità è gestita a livello cantonale, ma le epidemie e gli stupefacenti sono di competenza del Consiglio federale. Il 13 maggio 1992, quest’ultimo ha dato il via libera a una sperimentazione su cinque anni: “Abbiamo adottato un provvedimento di emergenza, temporaneo, che non può essere modificato con una votazione. È il pragmatismo svizzero: sperimentare una politica prima ancora di modificare la legge. Il nostro è un piccolo paese, in cui la politica si basa in gran parte sul consenso”. “Esiste anche una differenza di cultura medica e filosofica con la Francia, analizza Jean-Félix Savary, segretario generale del Raggruppamento romando di studi sulle dipendenze (Grea). La Svizzera è caratterizzata dalla cultura calvinista; i paesi cattolici hanno palesemente più difficoltà ad affrontare temi come le droghe o il fine vita”. Così è nata la cosiddetta politica dei “quattro pilastri”: prevenzione, terapia, riduzione dei rischi e repressione. Nel 1994 aprono i primi centri di iniezioni medicalmente assistite, per la maggior parte nella Svizzera tedesca. Ormai se ne contano ventidue - di cui uno all’interno di un carcere, gestiti da ospedali pubblici e da cliniche private con il sostegno dello Stato. Malgrado l’opposizione dell’Unione. democratica di centro (estrema destra) e di alcuni rappresentanti del Partito liberale radicale e del Partito popolare democratico (destra), i cittadini svizzeri hanno approvato questa politica con tre votazioni distinte: nel 1997 (rifiuto al 70% di una proposta repressiva), nel 1999 (approvazione al 54% dell’ordinanza federale che ratificava i Peps) e soprattutto nel 2008 (68% di “sì” al sistema dei quattro pilastri). Gli effetti positivi di questa politica sono evidenti. Smantellate, le scene aperte sono scomparse una volta per tutte. Secondo uno studio dell’Istituto di polizia scientifica e di criminologia dell’università di Losanna, la criminalità legata agli stupefacenti ha conosciuto una “riduzione eccezionale”. Sebbene formino una “popolazione estremamente intrecciata con la delinquenza”, il numero di tossicodipendenti che ha a che fare con la polizia si è ridotto di due terzi. “Di criminalità legata all’eroina praticamente non ce n’è più, perché ormai la sostanza è gratuita”, riassume Regula Wien responsabile degli affari sociali del comune di Berna. “La polizia ha iniziato a sostenerci da quando ha constato che la delinquenza e i disturbi negli spazi pubblici diminuivano”, aggiunge Huber. La squadra antidroga di Berna ha accettato di riceverci. Il suo comandante, Reto Schumacher, ci mostra un ritaglio di giornale preso dalla Bemer Zeitung datato 20 maggio 2014: “Ormai tre siringhe ritrovate sotto un portico fanno notizia. AI tempo delle scene aperte, ogni settimana se ne raccoglievano a centinaia, a migliaia! Guardate”. A sostegno della sua affermazione, il poliziotto apre sul suo computer delle fotografie del parco Kocher risalenti al 1991. “La repressione da sola non è la soluzione. lo ho dei buoni rapporti con gli assistenti sociali; non abbiamo lo stesso punto di vista, ma abbiamo lo stesso scopo: sgravare la collettività dall’impatto della tossicodipendenza e migliorare la situazione dei tossicodipendenti stessi.” Il timore maggiore dei proibizionisti, vale a dire l’aumento del consumo di eroina, non si è concretizzato. Non è una droga che attira i giovani: l’età media dei pazienti del Peps è di 45 anni. “La prescrizione medica ha frantumato l’immagine dell’eroina, constata il dottor Uchtenhagen. È diventata una droga per sbandati; chi ne fa uso è visto come un malato cronico. Non c’è niente di “eroico” a consumarla.” “Il Peps ha sottratto agli spacciatori alcuni dei loro clienti migliori, spiega a Losanna Frank Zobel, vicedirettore della fondazione Addiction Suisse. La clientela invecchia e non aumenta, il prezzo di vendita è basso: il mercato non è più molto interessante per i trafficanti”. Allo stesso tempo, l’aspettativa di vita dei consumatori è in aumento: “Il tasso di sieropositività è ormai inferiore al 10 %, precisa il dottor Zullino. Negli anni 90 era del 50 %. I nostri pazienti hanno accesso a un’eroina non tagliata. Non muoiono più a causa dell’eroina, ma spesso a causa del tabacco”. Tra i minori di 35 anni, il numero di morti legati alla droga è passato da 305 nel 1995 a 25 nel 2015. “È l’illegalità che distrugge l’eroinomane”. Forti di tali costatazioni, gli autori di questa politica invitano a mettere fine alla proibizione e a osare la via della regolamentazione. Lo stato legale o illegale di una sostanza psicotropa risponde in effetti a considerazioni culturali e politiche: negli anni 20, “la proibizione dell’alcol negli Stati Uniti aveva come obiettivo aumentare la produttività dei lavoratori”, ricorda il dottor Uchtenhagen. E lo Stato mise fine alla proibizione perché il fisco perdeva delle entrate a vantaggio di Al Capone”. Quanto alla “guerra alla droga” cara a Ronald Reagan, “ha fornito una comoda spiegazione dello strappo del tessuto sociale nei quartieri di colore: i loro abitanti non erano più vittime delle politiche liberiste e dei tagli ai bilanci sociali, ma semplicemente della droga”, osserva Savary. Lo stesso è accaduto nei quartieri operai britannici, annientati dal thatcherismo. “La proibizione non risolve i problemi: ne è la causa, afferma il dottor Beck. Qui noi abbiamo a che fare con le conseguenze di questa proibizione”. Malattie, overdose, prostituzione, delinquenza, esclusione: “È l’illegalità della sostanza che distrugge l’eroinomane, più che la sostanza stessa. Le nostre società non si limitano a vietare uno stupefacente, ma stigmatizzano anche le vittime di questo divieto. È evidente che i tossicodipendenti non avrebbero dovuto cominciare a fare uso di eroina. Ma devono essere aiutati, non criminalizzati. Ormai, gli spacciatori tagliano la cocaina con il levamisolo, un farmaco utilizzato a uso veterinario per i cavalli. Una regolamentazione di questo mercato sarebbe quindi il male minore”. “Non esiste un mercato più sregolato, più aggressivo e più nocivo per la salute umana del mercato nero degli stupefacenti, afferma Huber. La migliore prevenzione, per tutte le droghe, risiede nella regolamentazione legale del mercato, come per il tabacco e per l’alcol.” Con la regolamentazione, conclude il dottor Zullino, “non si eliminano i problemi. Ma li si gestisce”. *Traduzione di Federico Lopiparo La Cina difende la scelta di istituire campi di internamento per gli uiguri Askanews, 16 ottobre 2018 Presidente del Xinjiang: sono centri “vocazionali”, imparano lingua. La Cina ha diffuso oggi una difesa strenua del presunto internamento di massa degli uiguri musulmani del Xinjiang e delle altre minoranze, sostenendo per bocca di un ufficio regionale che si tratta di centri di “educazione vocazionale” per prevenire il terrorismo. Fino a un milione di uiguri e altre minoranze turcofone e musulmane si ritiene siano detenute in questi centri, secondo una stima citata da una commissione dell’Onu. Ex detenuti dicono di essere stati incarcerati per trasgressioni come il fatto di avere la barba lunga o di portar e il velo islamico. All’inizio le autorità cinesi hanno cercato di negare l’esistenza delle strutture. Ma hanno cambiato il loro tono, quando immagini satellitari e documenti emessi dallo stesso governo hanno reso impossibile mantenere questa posizione. Oggi Pechino ammette l’esistenza dei campi, ma respinge le accuse di abusi dei diritti umani. In una rara intervista con l’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua, pubblicata oggi, il presidente del governo del Xinjiang, Shohrat Zakir, ha difeso l’uso dei centri, dicendo che ora la regione “sicura e stabile”. Il funzionario non ha chiarito quante persone siano internate nelle strutture. Zakir ha detto che lo scopo delle strutture è quello di migliorare gli skill lavorativi e linguistici delle minoranze, fornendo una conoscenza di base della “comune lingua, del senso comune e della legge”. Questo perché “spesso (i detenuti) hanno difficoltà a trovare lavoro a causa delle limitate competenze vocazionali” e “ questo ha portato a una base materiale bassa per i residenti nella vita e nel lavoro qui, rendendoli vulnerabili all’istigazione e alla coercizione al terrorismo e all’estremismo”.