Riforma penitenziaria. Nuove regole nei tribunali di sorveglianza di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2018 Rafforzamento delle forme di pubblicità dell’udienza di sorveglianza ossia dell’udienza in cui vengono trattate le posizioni dei condannati (sia detenuti che a piede libero) anche grazie all’utilizzo di videoconferenze, Ma anche razionalizzazione delle procedure e modifica delle competenze in tema di ricoveri ospedalieri, permessi e colloqui e misure alternative alla detenzione. Il Consiglio dei ministri il 27 settembre scorso ha dato il via libera definitivo a cinque decreti legislativi di attuazione della legge delega sulla riforma del Codice penale e dell’ordinamento penitenziario (la 103/2017). Due riguardano l’ordinamento penitenziario (da cui sono state stralciate le norme che allargavano il ricorso alle misure alternative alla detenzione messe a punto dal precedente Governo), mentre gli altri tre riguardano l’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, il casellario giudiziale e le spese di giustizia per operazioni di intercettazione. Pubblicità delle udienze - Nella parte relativa alla pubblicità dell’udienza di sorveglianza viene trattata un’ampia gamma di materie che va dai benefici penitenziari alle misure di sicurezza e alle domande di risarcimento per le condizioni carcerarie. Il nuovo comma 3.1. dell’articolo 678 del Codice di procedura penale stabilisce innanzitutto la regole secondo la quale, se l’interessato lo richiede, l’udienza si svolge in forma pubblica (fatta eccezione per i casi in cui il giudice dispone l’udienza a porte chiuse). Il nuovo comma 3.2. dell’articolo 678 rafforza infatti la possibilità per i detenuti di partecipare alle udienze, tanto che l’avviso di fissazione dovrà contenere espressamente, a pena di nullità, l’avvertimento relativo alla facoltà di partecipazione. Se l’interessato, detenuto nella circoscrizione del giudice, questi ne dispone la presenza. La partecipazione avviene, invece, a distanza mediante il collegamento audiovisivo quando la persona, detenuta o internata, ne fa richiesta ovvero nel caso di detenzione o internamento in un luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice. Si applicano in ogni caso le forme e le modalità di partecipazione a distanza nei procedimenti in camera di consiglio previste dalla legge. La nuova disciplina segue il criterio della collocazione fisica del detenuto, distinguendo l’ipotesi in cui la persona è ubicata in una struttura penitenziaria situata all’interno ovvero all’esterno della circoscrizione del giudice che procede. Per la materia della sorveglianza viene quindi superata la previsione vigente (articolo 666,comma 4 del Codice di procedura penale). Ricoveri ospedalieri - La riforma razionalizza le procedure e modifica la competenza su alcune specifiche materie (ricoveri dei detenuti in luoghi esterni di cura, controlli sulla corrispondenza, permessi di necessità). La nuova regola generale è che ora la competenza spetta solo al giudice penale che procede nel caso degli imputati in custodia cautelare, mentre il magistrato di sorveglianza decide per i condannati a titolo definitivo e agli internati. Per i ricoveri in luoghi di cura (articolo 11 dell’ordinamento penitenziario), la competenza è invece del Pm nel caso di soggetto arrestato, nel periodo intercorrente tra l’arresto e l’udienza della “direttissima” e la contestuale convalida. Domande di risarcimento - In tema di reclami giurisdizionali a tutela dei diritti dei detenuti e di risarcimenti per l’inumana detenzione, il nuovo Dlgs introduce la possibilità che l’amministrazione convenuta compaia con un proprio dipendente, che potrà interloquire direttamente con il giudice e le altre parti. Benefici penitenziari - Le nuove regole, recependo una prassi già diffusa, inseriscono l’avvocato difensore tra i soggetti legittimati alla proposizione dell’istanza per la concessione dei benefici penitenziari (come ad esempio, le misure alternative al carcere, i permessi o le licenze). Vengono inoltre chiarite le competenze del Pm in caso di sopravvenienza di una nuova sentenza (o anche di un altro titolo esecutivo) e si precisa che il magistrato di sorveglianza dispone direttamente l’accompagnamento del soggetto in istituto quando dichiara cessata la misura, senza la necessità di un intervento del pubblico ministero. Se si verificano comportamenti negativi suscettibili di determinare la revoca della misura alternativa, il magistrato di sorveglianza deve dare immediata comunicazione al tribunale di sorveglianza ma non è più obbligato a sospendere provvisoriamente il beneficio. Spetterà quindi all’organo collegiale decidere in ordine alla prosecuzione, sostituzione o revoca della misura (articolo 51-ter dell’ordinamento penitenziario). Oggi invece era consentita soltanto l’alternativa tra revoca o prosecuzione del beneficio, senza possibilità intermedie. Riforma penitenziaria. Misure alternative e pene accessorie si scontano insieme di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2018 Corsia preferenziale per le condanne inferiori a 18 mesi Procedure semplificate per le istanze relative alle misure alternative alla detenzione avanzate da condannate liberi in relazione a pene non superiori a 18 mesi (anche come pena residua) ed esecuzione contestuale per le pene accessorie. Per quanto riguarda le misure alternative alla detenzione, il Dlgs introduce una procedura semplificata che costituisce una sorta di “corsia preferenziale” per la trattazione di quei procedimenti sui quali si sia formata una prima decisione favorevole del magistrato designato quale relatore all’udienza camerale. Lo snellimento riguardale istanze avanzate dai condannati liberi in relazione a pene che non superino, anche da residuo, i 18 mesi. La nuova disciplina prevede che il presidente del tribunale di sorveglianza, disposta la necessaria istruttoria, designi il relatore per la camera di consiglio e fissi un termine affinché quest’ultimo, sulla base degli atti, possa applicare, con ordinanza adottata senza formalità e invia provvisoria una delle misure alternative indicate nell’articolo 656, comma 5 del Codice di procedura penale, come ad esempio l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare. L’ordinanza emessa dal relatore, comunicata al procuratore generale e notificata all’interessato e al difensore, non è immediatamente esecutiva fino alla scadenza del termine entro cui è possibile presentare opposizione al tribunale di sorveglianza. Se vi è opposizione o se il relatore non si è pronunciato nel termine assegnato, il tribunale di sorveglianza definisce il procedimento con procedura ordinaria; in caso contrario, la decisione adottata dal relatore diviene, invece, esecutiva: la pratica, a questo punto, è definita dal collegio in camera di consiglio senza formalità e viene rimessa in udienza partecipata solo se il collegio non ritiene di confermare la decisione provvisoria. Pene accessorie - Importanti novità anche interna di esecuzione delle pene accessorie. Il nuovo articolo 5i-quater dell’ordinamento penitenziario prevede che misure alternative alla detenzione e pene accessorie siano eseguite contestualmente, ameno che il giudice, tenuto conto delle esigenze di reinserimento sociale del condannato, non disponga la sospensione della pena accessoria. Fino ad oggi invece la pena principale veniva, di regola, scontata prima di quella accessoria. Nel caso di revoca della misura alternativa, qualora siano state eseguite anche le eventuali pene accessorie, ne viene sospesa l’esecuzione, ma il periodo già espiato è computato ai fini della loro durata. Tale disciplina di favore, pur riferendosi testualmente alle sole ipotesi di revoca del beneficio alternativo, dovrebbe trovare applicazione anche ai casi di cessazione del medesimo in assenza di comportamenti censurabili da parte dell’interessato (ad esempio, nel caso di sopravvenienza di altri titoli esecutivi che aumentano la pena oltre i limiti consentiti o per i detenuti domiciliari se non è più disponibile il domicilio esterno al carcere). Riforma penitenziaria. Sorveglianza dinamica: vita in cella conforme a quella all’esterno di Marzia Paolucci Italia Oggi, 15 ottobre 2018 Quattro articoli suddivisi in due capi dedicati rispettivamente alla vita e al lavoro penitenziario. È il contenuto dello schema di decreto legislativo che attua una parte della delega contenuta nella legge 23 giugno 2017, n. 103, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, nella parte relativa alle modifiche all’ordinamento penitenziario. Un ordinamento con oltre 40 anni sulle spalle che necessita di essere adeguato agli innovativi orientamenti giurisprudenziali della Corte costituzionale, della Cassazione e delle Corti europee. Il decreto definitivamente approvato dal Consiglio dei ministri proviene dalle proposte elaborate dalle Commissioni ministeriali costituite dal ministro della Giustizia il 19 luglio 2017 coordinate dal prof. Glauco Giostra. In particolare, per le parti relative alla vita e al lavoro penitenziario, si è utilizzato il contributo della Commissione presieduta dallo stesso professore Giostra, secondo le indicazioni conclusive degli Stati generali sull’esecuzione penale, avviati dal ministro della Giustizia il 19 maggio 2015. I temi affrontati nell’articolo 1, commi 82, 83 e 85 della legge di delega, vanno dall’incremento delle opportunità di lavoro retribuito, sia intramurario sia esterno, di attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale dei condannati anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna alla maggiore valorizzazione del volontariato, sia all’interno del carcere sia in collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna. Una parte importante riguarda anche il miglioramento della vita carceraria attraverso la previsione di norme volte al rispetto della dignità umana mediante la responsabilizzazione dei detenuti e la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna. Nel nuovo testo, l’articolo 1 modifica alcune norme dell’ordinamento penitenziario. Si introducono i concetti di responsabilizzazione del detenuto, massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna e sorveglianza dinamica. In quest’ultimo caso si tratta dell’apertura delle celle per i soggetti detenuti in media e bassa sicurezza da un minimo di otto ore al giorno fino a un massimo di quattordici potendo così muoversi liberamente nella propria sezione ma anche fuori. Cita infatti la relazione illustrativa: “Il detenuto perde solo quella parte di libertà che è strettamente connessa alla sua condizione detentiva, mantenendo intatte le altre sue libertà. Il detenuto”, spiega, “deve essere invitato, anche attraverso una plurale e variegata offerta trattamentale, a condividere con gli altri gli spazi di socialità, le attività comuni, lo studio, il lavoro e anche lo svago, e deve poter organizzare la propria vita quotidiana in istituto con il massimo di autonomia consentita dal mantenimento della sicurezza, così da assicurare una vera integrazione sociale e culturale e, quindi, un effettivo recupero”. Il decreto riscrive gli articoli dal 20 al 25 bis dell’ordinamento penitenziario: spazio al lavoro interno ed esterno all’istituto, a lavorazioni organizzate e gestite direttamente da enti pubblici o privati e a corsi di formazione professionale organizzati e svolti da enti pubblici o privati. Con un’unica consapevolezza: “Il lavoro non ha carattere afflittivo ed è remunerato”. L’organizzazione e i metodi devono riflettere quelli del lavoro nella società libera, viene istituita in ogni istituto una commissione composta dal direttore dell’istituto e più fi gure di diverso ambito che formi due elenchi, uno generico e l’altro per qualifica, per l’assegnazione al lavoro dei detenuti, individui le attività lavorative o i posti di lavoro ai quali, per motivi di sicurezza, sono assegnati e stabilisca criteri per l’avvicendamento nei posti di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Spazio anche al lavoro di produzione di beni destinati all’autoconsumo da parte dell’istituto, ad attività di volontariato e a lavori di pubblica utilità il cui concetto viene ora rimodulato. Qui la sfida è trasformare un lavoro finora relegato all’ambito delle sanzioni accessorie in strumento di risocializzazione. Dietro le sbarre si vive in tre metri quadri: novemila carcerati in eccesso e celle vecchie di Michele Sasso La Stampa, 15 ottobre 2018 Nei 190 istituti di pena vivono quasi 60mila persone. Cresce la forbice tra i posti disponibili e gli occupanti effettivi. Non c’è solo la rivolta del carcere di Sanremo a causa del sovraffollamento. Gli istituti italiani sono strapieni e il divario tra presenze e posti disponibili si allarga. Dopo quattro anni di crescita ininterrotta, il numero di detenuti ha ormai sfiorato il tetto di 60mila, secondo i dati ministero della Giustizia aggiornati al 30 settembre scorso. La quota di 59.275 - equivalente alla cittadina siciliana di Agrigento - è una quota simbolica perché non è stata più superata dal 2013, anno della sentenza Torreggiani con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) condannò l’Italia per i “trattamenti inumani e degradanti” causati proprio da una vita quotidiana in celle piccole, vecchie e troppo affollate. Ad allargarsi è anche la forbice tra la capienza regolamentare (50.622 posti, contando 9 metri quadrati a persona) e gli occupanti effettivi. Solo nel 2015 lo scarto era intorno a 2.500. Il carcere non cambia L’associazione Antigone che da vent’anni visitai 190 istituti di pena italiani ha intitolato il suo ultimo report “Il carcere che non cambia”. Nelle case circondariali e di reclusione i detenuti hanno spesso a disposizione tre metri quadrati calpestabili, in cinquanta mancano le docce in cella e in quattro il wc non era in un ambiente separato dal resto. Nelle 86 carceri visitate da Antigone in media esiste un educatore ogni 76 detenuti e un agente ogni 1,7 detenuti, ma in molti istituti questi numeri sono decisamente più alti, come nel caso di Bergamo. Sono i grandi penitenziari che soffrono i problemi maggiori come mostra il grafico a lato: Poggioreale è una città nella città di Napoli con 2.286 detenuti rispetto a 1.659 posti (tasso affollamento al 138%), a Roma Rebibbia il tasso arriva a 125% (1.473 invece di 1.178), mentre Regina Coeli supera il 156% con più 346 persone rispetto alla capienza standard. Anche Bologna scoppia: ha una capienza di 500 ma ne ospita 806 (affollamento al 161%). In Lombardia Como ha un tasso di affollamento record del 191%, alle porte di Milano c’è Opera con il 147% e il centralissimo carcere di San Vittore che ha 1013 detenuti rispetto ai 828 previsti. Anche a Torino “Le Vallette” ha 321 persone in detenzione in più. In Puglia Lecce invece di 610 ne ospita 1061 (174%), in compagnia di Taranto (194%). Meno spazio significa meno benessere detentivo, e l’indicatore di questa privazione è il numero di suicidi: in 10 anni il tasso (ogni 10.000 persone) è salito dall’8,3 del 2008 al 9,1 del 2017. In numeri assoluti significa arrivare fino a 52 morti nel 2017. E dietro ad ogni numero, ci sono persone: 46 dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita mentre erano dietro le sbarre. Nell’ultima settimana sono stati tre i detenuti trovati senza vita. Uno nell’istituto di Carinola (Caserta), dove a uccidersi è stato un condannato al 41 bis. Uno nel carcere di Lucera (Foggia), dove si è suicidato un uomo a cui avevano tolto la patria potestà il giorno prima. Un uomo con problemi psichici a Trieste. La riforma mancata - Per ovviare a questo dramma di numeri e spazi nel 2017 era atteso un nuovo ordinamento penitenziario, una riforma voluta dall’ex ministro della Giustizia Orlando che allargava i benefici per i detenuti con la possibilità di accedere alle misure alternative anche a chi ha un residuo di pena fino a quattro anni, ma sempre dopo la valutazione del magistrato di sorveglianza. E in ogni caso non estende questa possibilità ai detenuti a141 bis per reati di mafia e quelli per reati di terrorismo. La riforma ha avuto tempi troppo lunghi, la versione definitiva del testo legislativo è arrivata a marzo a esecutivo in scadenza e puntualmente ad agosto il governo gialloverde ha stoppato ogni riforma. Una battaglia condotta da uno schieramento di associazioni e esperti del settore guidato dalla radicale Rita Bernardini che ha fatto più di uno sciopero della fame a cui hanno partecipato fino a 10 mila detenuti. Boom di reclusi nel Nord, il 34% in attesa di sentenza di Sara Menafra Il Messaggero, 15 ottobre 2018 Il governo ha promesso un piano di edilizia penitenziaria e l’assunzione di nuovi agenti. I grafici aggiornati lasciano poco spazio all’interpretazione: nell’ultimo anno le presenze nelle carceri italiane sono in costante crescita e attualmente sfiorano le 60mila unità, a fronte di una capienza massima di 50.622 posti. Ad essere sovraffollati sono soprattutto gli istituti del nord Italia. Sanremo ha un affollamento del 113%, a Como si arriva al 192%, a Brescia al 180%, nel Lazio la situazione peggiore è a Latina con il 180%, nel Sud Italia Taranto:198%. Tra le cause della crescita anche l’aumento dei detenuti stranieri, in media circa il 40%, soprattutto perché quasi nessuno ha i requisiti per ottenere anche solo i domiciliari: “Per loro - spiega Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio detenzione di Antigone - è più difficile accedere alle pene alternative, inclusi i domiciliari. Sebbene annunciata più volte, l’espulsione nel corso della detenzione è molto complicata, ma a fronte di questo si fa molto poco in termini di educazione o semplice mediazione culturale, i mediatori sono in media uno ogni 75 detenuti e spesso diventa difficile persino tradurre le indicazioni dei dirigenti del carcere”. La proporzione tra stranieri e italiani scende col crescere delle pene da scontare (tra gli ergastolani i “non italiani” sono lo 0,8% tra i condannati a pene sotto l’anno il 7,1%) ma, appunto, restano tutti all’interno degli istituti. Stesso meccanismo per chi è in attesa di giudizio. Qui le cifre sono alte per tutti, visto che si parla del 34% del totale, ma per gli stranieri si arriva al 39%. Proprio sulle misure alternative, oltre che su molti altri aspetti che avrebbero potuto ridurre la tensione all’interno delle carceri come l’affettività e i colloqui, avrebbe dovuto intervenire la riforma dell’Ordinamento penitenziario, bloccata dopo le elezioni. Il nuovo governo ha scelto un orientamento opposto e il contratto giallo-verde annuncia per il futuro un “piano per l’edilizia penitenziaria che preveda la realizzazione di nuove strutture e l’ampliamento ed ammodernamento delle attuali”. Salute mentale nelle carceri? Una bomba ad orologeria di Valentina Stella vvox.it, 15 ottobre 2018 Sono molti i cambiamenti che hanno investito il sistema carcerario italiano e che impongono una riflessione giuridica e sanitaria sulla salute mentale all’interno degli istituti penitenziari. Tra questi la recente approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario: non quella formulata durante il precedente Governo Gentiloni bensì quella riscritta dal nuovo Parlamento sotto la guida del ministro pentastellato Bonafede. Tra i punti salienti del dispositivo c’è la mancata equiparazione tra detenuti affetti da patologie fisiche con quelle psichiatriche: si conservano così delle preclusioni ai benefici per quest’ultimi, nonostante la schizofrenia e i disturbi della personalità abbiano una frequenza di quattro e di due volte maggiore in carcere rispetto alla popolazione generale. Novità meno recenti, ma che comunque ancora hanno un impatto sul presente, sono la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, sostituiti dalle Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) e il passaggio di competenze nella gestione della salute dei detenuti dal Ministero della Giustizia a quello della Salute. Per approfondire queste tematiche si è tenuto la scorsa settimana a Roma il primo meeting internazionale dal titolo “Il sistema penitenziario italiano e spagnolo a confronto. Focus sulla salute mentale”, che - promosso dalla Società Italiana di Medicina Penitenziaria e dalla Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze con il contributo di Otsuka - ha permesso un dialogo tra il modello italiano e quello iberico. Presente all’incontro Giulia Grillo, Ministro della Salute: “i contenuti presentati rappresentano uno spunto utile per intraprendere una riflessione più ampia sulla gestione della salute negli istituti penitenziari del nostro Paese. Come ministero della Salute puntiamo a dimostrare in concreto che è possibile fare di più per perseguire una gestione più efficiente delle politiche sanitarie dietro le sbarre. Nelle prossime settimane avvieremo una valutazione sul territorio delle diverse realtà italiane”. Una prima stima della situazione la si può fare attraverso alcuni dati pubblicati nell’ultimo rapporto di Antigone, associazione non governativa con sede centrale a Roma che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. Secondo l’analisi condotta dall’Osservatorio “si calcola che il numero settimanale medio di ore di presenza dello psichiatra nelle sezione comuni per 100 detenuti è di 8,6 ore per settimana su base nazionale (poco più di un’ora al giorno), con però parecchie differenze da istituto a istituto”. “A discostarsi in maniera significativa dalla media nazionale sono gli istituti più grandi, come Napoli Poggioreale dove la presenza media scende a 0,9 ore per settimana e Torino dove si attesta a 1,5 ore per settimana”. Va un po’ meglio con gli psicologi: “il numero medio di ore di presenza degli psicologi per 100 detenuti è di 11,3 ore per settimana. Dunque superiore alla presenza degli psichiatri, ma anche qui non mancano le eccezioni negative (alla casa circondariale di Benevento si scende a 1,4 ore per settimana e a Salerno a 1)”. Come ci ha spiegato Daniela De Robert, Componente del Collegio Garante Nazionale Detenuti, intervenuta al meeting internazionale, “la salute mentale in carcere è un tema centrale in quanto quantitativamente e qualitativamente rilevante. Da una parte ci sono le persone non imputabili che sono nelle Rems in cui c’è una lunga lista d’attesa legata anche - noi pensiamo - ad una gestione forse non proprio corretta di queste strutture; e dall’altra parte c’è il problema di chi sta scontando una pena e ha sviluppato una patologia psichiatrica. L’ordinamento prevede che siano costituiti in ogni regione delle sezioni per la tutela della salute mentale che sulla carta sono un numero elevato ma di fatto sono poche quelle operative. Il risultato è che queste persone non vengono prese in carico e non vengono curate. Dei 41 suicidi che quest’anno hanno riguardato i detenuti, 5 riguardavano sicuramente pazienti psichiatrici”. A proposito di Rems è bene ricordare che con la legge 81 del 2014 la riabilitazione dei malati psichiatrici autori di reato deve avvenire all’interno di strutture sanitarie, come le Rems appunto e non più presso istituti penitenziari (quali erano gli Opg). Secondo i dati del Ministero della Giustizia aggiornati ad aprile di quest’anno, quelle funzionanti sono 30. In esse sono ricoverate 599 persone, di cui 54 donne (il 9%, percentualmente quasi il doppio delle donne detenute in carcere). A tal proposito, il dibattito tenutosi a Roma ha coinvolto i rappresentanti di tutte le istituzioni che hanno un ruolo nel sistema penitenziario italiano, come le procure della Repubblica e le Aziende Sanitarie Locali. Francesco Menditto, procuratore della Repubblica di Tivoli, ha sottolineato l’attenzione delle procure del Lazio verso la gestione della salute mentale nelle carceri: “negli anni, l’Italia ha cercato di mettere in atto diverse iniziative per tutelare le persone con fragilità psichiatrica che si trovano nelle carceri. La chiusura gli ospedali psichiatrici giudiziari e il conseguente passaggio di competenze tra il Ministero della Giustizia e quello della Salute nella gestione della salute mentale degli internati - ha commentato Menditto - rappresenta un esempio concreto di questo impegno. Anche nel Lazio sono state attuate iniziative importanti in questo senso. La Procura Generale di Roma ha infatti promosso un protocollo unitario che ha garantito il migliore funzionamento della nuova normativa e delle Rems (tre delle quali sono nel circondario di Tivoli), favorendo la collaborazione tra la magistratura, i Dipartimenti di Salute Mentale e il personale penitenziario”. A portare il punto di vista delle Aziende Sanitarie Territoriali è Giuseppe Quintavalle, Direttore Generale Azienda Sanitaria Territoriale Roma 4 e Commissario Straordinario Azienda Sanitaria Territoriale Roma 5: “nella gestione dei detenuti con problemi psichiatrici non sono mancate iniziative volte a migliorare l’organizzazione dei sistemi di salute mentale negli istituti penitenziari italiani. È stato elaborato un percorso innovativo e sono state attuate numerose procedure, anche legislative. Nonostante le attività messe in atto siano numerose - ha affermato Quintavalle - è importante continuare a favorire momenti di confronto multidisciplinare sui possibili nuovi modi per migliorare sempre di più sia la sicurezza degli operatori sanitari e penitenziari che lavorano nelle carceri italiane, sia la presa in carico e l’assistenza dei detenuti con fragilità mentale”. In particolare nel Lazio sono cinque le Rems attive: di queste, due sono ubicate a Palombara Sabina, e le altre tre si trovano a Subiaco, Pontecorvo e Ceccano. Ilaria Cucchi: “Non accuso l’Arma, ma singole persone” huffingtonpost.it, 15 ottobre 2018 “Carabinieri dissero il falso, loro responsabili della perdita di tempo”. E ribadisce la richiesta di scuse a Matteo Salvini. “Ci sono persone che sentono l’esigenza di difendere l’Arma dei carabinieri ma qui nessuno ha messo sotto accusa l’Arma ma singole persone”. Ilaria Cucchi, in una lunga intervista a Mara Venier a Domenica In, chiarisce la sua posizione sui carabinieri a processo per la morte di suo fratello Stefano, dopo la svolta fornita da uno di loro, Francesco Tedesco, che ha accusato gli altri due colleghi imputati come lui per omicidio preterintenzionale, di essere gli autori del pestaggio. “So perfettamente che la maggioranza di chi indossa la divisa sono persone perbene che compiono il loro dovere e lo fanno per noi. Però - osserva Cucchi- abbiamo un problema serio quando i carabinieri che vengono a testimoniare hanno paura a dire la verità, anche perché vediamo il trattamento riservato a Riccardo Casamassima”, il carabiniere che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura delle indagini e il nuovo processo. Capisco chi ha paura a parlare: è un problema serio. Ciò infanga l’onore della divisa, chi non rispetta la divisa è chi sbaglia”. Ilaria Cucchi è tornata anche sull’invito rivoltole dal Ministro Matteo Salvini, per un incontro al Viminale, ribadendo che “anche se molte dichiarazioni di questi giorni sono significative io credo che la mia famiglia per prima cosa meriti delle scuse perché oggi sappiamo la verità e noi in questi anni siamo stati lasciati soli: noi non abbiamo mai mollato, Stefano era un ultimo ed è morto da ultimo ma i diritti non sono mai sacrificabili”. Nell’intervista ha anche ripercorso la vita del fratello “era bello dentro - ricorda - aveva sempre un sorriso e una battuta, mi ripeteva, ‘Ilà sei felice?’”. Nell’adolescenza arriva il problema della tossicodipendenza, “io ero la più critica con lui, ero l’amica ma anche la sua peggior nemica”, l’entrata in comunità di recupero, la voglia di tornare a vivere e a lavorare. Poi l’arresto per spaccio e l’inizio del calvario. E la sua lotta per avere giustizia. “Nove anni sono tanti, ma per noi la verità era già chiara quel 22 ottobre: davanti al corpo di mio fratello mi venne in mente Federico Aldrovandi e chiamai l’avvocato Anselmo. Lui mi disse scatti le foto all’obitorio, all’autopsia”. Quelle foto con il corpo e il volto martoriato, come evoca anche “Sulla mia pelle”, il film che quel calvario ripercorre, sono state la base per avvicinarsi alla verità. “Oggi sappiamo che quel pestaggio vi fu perché Stefano rifiutò il foto-segnalamento. Nove anni fa - ricorda Ilaria - ci dicevano altro: che il foto-segnalamento a Stefano non era stato fatto perché non voleva sporcarsi le mani (per prendere le impronte digitali, ndr), il carabiniere Roberto Mandolini disse in aula che con Stefano era andato tutto bene, era tranquillo, anche simpatico per la sua parlata romana. Ora è emersa la verità: chi in aula giurò e disse il falso ora è imputato. Sono loro i responsabili di tutta questa perdita di tempo per la ricerca della verità, di 6 anni di processi sbagliati”. Perché non è stato curato, le domanda Mara Venier? “Perché era un ultimo, vittima del pregiudizio. Il giudice non ha saputo guardare oltre il pregiudizio: 140 pubblici ufficiali in 6 giorni non hanno visto oltre. Non hanno visto un detenuto come persona”. E poi il momento choc per la famiglia, arrivato dopo i vani tentativi di riuscire a mettersi in contato con Stefano, ricoverato in ospedale: “Abbiamo saputo della sua morte quando è arrivato a casa il decreto di notifica di autopsia. In pratica ai miei genitori è stato detto guardate che vostro figlio a breve sarà sezionato”. Carcere duro, cade il divieto di cuocere cibi per i detenuti al 41-bis di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2018 Corte costituzionale - Sentenza 12 ottobre 2018 n. 186 - Cade il divieto di cuocere cibi in cella per i condannati al 41 bis. La Corte costituzionale, sentenza 186 del 12 ottobre, ha infatti ritenuto contrario al senso di umanità della pena (articolo 27 della Costituzione) imporre questa ulteriore limitazione non prevista per i detenuti ordinari. Un divieto, argomenta la Corte, che del resto non trova giustificazione neppure in esigenze di sicurezza né tantomeno nel rischio di accrescere il prestigio dei criminali in regime differenziato. Per la Consulta, adita dal Tribunale di Sorveglianza di Pesaro, a sua volta investito dal reclamo di un detenuto del carcere di Terni, “non si tratta di affermare, né per i detenuti comuni, né per quelli assegnati al regime differenziato, l’esistenza di un “diritto fondamentale a cuocere i cibi nella propria cella”: si tratta piuttosto di riconoscere che anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’art. 41-bis ordin. penit. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale”. La Corte ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’articolo 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole “e cuocere cibi”. Nel silenzio dei lavori preparatori della legge n. 94 del 2009, spiega la Corte, si è ritenuto che la ratio del divieto “possa essere scorta nella necessità di contrastare l’eventuale crescita di “potere” e prestigio criminale del detenuto all’interno del carcere, misurabile anche attraverso la disponibilità di generi alimentari “di lusso”“. Se è vero però, prosegue la decisione, che “va combattuto in ogni modo il manifestarsi all’interno del carcere di forme di “potere” dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, è anche vero che ciò deve perseguirsi attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario”. Riguardo poi allo specifico caso della cottura dei cibi, per la Consulta, “non potrebbe comunque trattarsi di cibi di lusso in quanto il 41-bis, comma 2-quater, lettera c), prevede che la sospensione delle ordinarie regole di trattamento debba necessariamente tradursi anche nella ulteriore limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che il detenuto può ricevere dall’esterno”. Né il divieto potrebbe trovare giustificazione in “peculiari e differenziate esigenze di ordine e sicurezza”, posto che anche i detenuti in regime differenziato “possono svolgere (limitati) acquisti di generi alimentari al sopravvitto”, per cui “non è certo il divieto di cottura a risultare congruo e funzionale all’obbiettivo di recidere i possibili contatti con l’esterno”. Inoltre questi detenuti “dispongono comunque del fornello personale, anche se possono allo stato utilizzarlo, a differenza degli altri, solo per riscaldare liquidi e cibi già cotti, oppure per preparare bevande”. Per la Consulta dunque in quanto “incongruo e inutile” alla luce degli obbiettivi della norma “esso si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., configurandosi come un’ingiustificata deroga all’ordinario regime carcerario, dotato di valenza meramente e ulteriormente afflittiva”. Al contrario, come osservato dal giudice rimettente, “il potersi esercitare nella cottura dei cibi, secondo le ritualità cui si era abituati prima del carcere, costituirebbe una modalità, “umile e dignitosa”, per tenersi in contatto con le usanze del mondo esterno e con il ritmo dei giorni e delle stagioni, nel fluire di un tempo della detenzione che trascorre altrimenti in un’aspra solitudine”. “Non erra - conclude la Corte, lo stesso rimettente, quando conclude che la negazione dell’accesso a questa abitudine finisce per configurarsi come una lesione all’art. 27, terzo comma, Cost., presentandosi come un’inutile e ulteriore limitazione, contraria al senso di umanità”. L’affidamento in prova al servizio sociale: elementi del giudizio “prognostico” Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2018 Esecuzione della pena - Misure alternative alla detenzione - Affidamento in prova al servizio sociale - Giudizio prognostico - Elementi di valutazione. Nel giudizio prognostico concernente la concessione della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, oltre ad essere valutati i procedimenti penali passati ed eventualmente pendenti a carico dell’interessato, al fine di pervenire ad una valutazione di fronteggiabilità della pericolosità sociale residua, devono altresì essere riscontrati elementi positivi in base ai quali il giudice possa ragionevolmente ritenere che la misura si possa rivelare “proficua”. Pertanto può ritenersi validamente motivata la reiezione dell’istanza anche sulla sola base delle informazioni fornite dagli organi di polizia e dai servizi sociali che pongano in luce la negativa personalità dell’istante. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 28 settembre 2018 n. 42894. Esecuzione della pena - Richiesta di affidamento in prova al servizio sociale - Ratio dell’istituto - Concessione - Presupposti e parametri. L’affidamento in prova al servizio sociale costituisce una forma di esecuzione della pena esterna al carcere da applicarsi a quei condannati per i quali, alla luce dell’osservazione della personalità e di altre acquisizioni ed elementi di conoscenza, sia possibile formulare una ragionevole prognosi di completo reinserimento sociale all’esito della misura alternativa. I criteri ed i mezzi di conoscenza utilizzabili da parte del magistrato di sorveglianza per pervenire a tale positiva previsione sono da individuarsi nel reato commesso, nei precedenti penali, nelle pendenze processuali, nelle informazioni di polizia ma anche, ed in pari grado di rilievo prognostico, nella condotta carceraria e nei risultati dell’indagine socio-familiare operata dalle strutture carcerarie di osservazione. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 13 settembre 2018 n. 40763. Esecuzione della pena - Istanza di affidamento in prova al servizio sociale - Fine rieducativo - Valutazione. La misura dell’affidamento in prova al servizio sociale può essere adottata, entro la generale cornice di ammissibilità prevista dalla legge, allorché, sulla base dell’osservazione della personalità del condannato condotta in istituto, o del comportamento da lui serbato in libertà, possa ritenersi che la medesima, anche attraverso l’adozione di opportune prescrizioni, possa contribuire alla rieducazione, prevenendo il pericolo di ricaduta nel reato. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 4 settembre 2018 n. 39908. Sorveglianza - Affidamento in prova al servizio sociale - Volontà del detenuto di accedere ad un lavoro regolare e ad un programma terapeutico per uscire dalla tossicodipendenza - Valutazione positiva della personalità del soggetto - Censure di mero fatto - Inammissibilità. L’istanza di affidamento in prova ex art. 47, L. n. 354 del 1975, deve essere valutata tenendo conto non soltanto del reato commesso, ma anche della personalità del soggetto colpevole. [Fattispecie in cui il condannato, da tempo coinvolto in problematiche legate alla tossicodipendenza, aveva evidenziato la motivazione di risolverle, determinandosi ad accedere ad un lavoro regolare e ad un programma terapeutico sì da essere riscontrata da parte dei giudici “una refluenza positiva in tema di revisione critica della devianza”]. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 1° agosto 2018 n. 37367. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Affidamento in prova al servizio sociale - Indisponibilità del condannato a risarcire i danni alla vittima del reato - Valutazione - Legittimità. Ai fini del diniego della concessione del beneficio dell’affidamento in prova al servizio sociale, il tribunale può legittimamente valutare l’ingiustificata indisponibilità del condannato a risarcire la vittima, non ostando a ciò la mancata previsione del risarcimento dei danni quale condizione per la concessione del beneficio suddetto. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 18 agosto 2017 n. 39266. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Affidamento in prova al servizio sociale - Parametri di valutazione - Indicazione. Ai fini della concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale, pur non potendosi prescindere dalla natura e dalla gravità dei reati per cui è stata irrogata la pena in espiazione, quale punto di partenza dell’analisi della personalità del soggetto, è necessaria la valutazione della condotta successivamente serbata dal condannato, attesa l’esigenza di accertare non solo l’assenza di indicazioni negative, ma anche la presenza di elementi positivi che consentano un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 20 luglio 2015 n. 31420. Class action formato extralarge, modello ibrido tra Europa e Usa di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2018 La riforma della class action si avvia al secondo round di esame. Dopo aver ricevuto il via libera della Camera dei deputati a inizio ottobre, il disegno di legge deve ora superare l’esame del Senato (dove ha preso il “nome” di Ddl 844). Fortemente voluta dal Movimento 5 Stelle, la riforma amplia il campo di applicazione della class action, permette l’adesione anche dopo la sentenza di condanna e prevede un compenso premiale per l’avvocato difensore e il rappresentante degli aderenti. Nell’ultimo passaggio in aula, la Camera ha invece eliminato la retroattività dell’applicazione delle nuove norme. Nel frattempo a livello europeo continua il percorso di approvazione della proposta di direttiva Ue (Com (2018)184) presentata dalla commissione nell’aprile scorso e che introduce un nuovo regime anche sulla base della Raccomandazione con cui nel 2013 la Ue aveva indicato i principi comuni (ma non vincolanti) dei meccanismi di ricorso collettivo. La situazione attuale - La normativa oggi in vigore è contenuta nel Codice del consumo (articolo 140-bis) ed è operativa dal primo gennaio 2010. In questi anni le class action annunciate sono state molte (manca un censimento ufficiale) ma solo un numero ristretto è arrivato in porto. Spesso infatti non viene superato il filtro iniziale. Fra le class action “bocciate” quella contro Samsung sulle cosiddette “memorie bugiarde” di smartphone e tablet, dichiarata improcedibile dal tribunale di Milano. Fra le più note che si sono concluse con una condanna c’è la class action contro Trenord, società di trasporto ferroviario lombardo, in cui è stato risarcito anche un danno non patrimoniale (una forma di ansia e insofferenza) provocato dai disservizi dell’inverno 2012, che è stato risarcito con 100 euro per i circa 3000 aderenti. Vinta anche l’azione di classe commissioni illegittime su conti scoperti applicate da Intesa San Paolo o quella per vacanza rovinata verso l’agenzia Wecantour. In attesa di un verdetto ci sono invece le azioni di classe promosse da Altroconsumo contro Volkswagen per il Dieselgate. La riforma - Le nuove regole previste dal Ddl all’esame in Senato non sono più inserite nel Codice del consumo, ma in quello di procedura civile. Eliminati i riferimenti a consumatori e utenti, l’azione potrà essere avviata da tutti coloro che chiedono risarcimenti per la lesione di diritti individuali omogenei e da organizzazioni o associazioni senza scopo di lucro. La procedura è divisa in tre fasi: ammissibilità, decisione sul merito e liquidazione delle somme. I potenziali “accusati” sono le imprese e gli enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità. Può essere contestata sia la responsabilità contrattuale (come oggi) ma anche quella extracontrattuale (ora limitata a pratiche commerciali scorrette e comportamenti anticoncorrenziali). E per far cessare il comportamento lesivo il Ddl prevede anche l’azione inibitoria. Ma sono l’adesione successiva alla sentenza e la cosiddetta “quota lite” per il rappresentante degli aderenti e l’avvocato difensore, i punti più contestati dalle imprese e da Confindustria. La quota lite è un compenso ulteriore rispetto alle somme dovute a ciascun aderente per il risarcimento: va calcolata in percentuale rispetto il totale da pagare e sulla base di sette scaglioni legati alla numerosità della classe. D’altra parte la stessa raccomandazione Ue del 2013 indicava nella pronuncia definitiva il momento limite per le adesioni e invitava ad evitare sistemi di calcolo degli onorari degli avvocati capaci di incentivare un contenzioso non necessario. Delicato infine anche il trasferimento della competenza ai Tribunali delle imprese. Nate nel 2012 con l’obiettivo di velocizzare e rendere più omogenee le pronunce che riguardavano società e aziende, grazie alla specializzazione dei magistrati, i nuovi Tribunali (anche a causa delle carenze d’organico) cominciano ad accusare il peso dall’arretrato. E il trasferimento di nuove competenze rischia di aggravarli ulteriormente. Le lettere non sono “moleste” anche se contengono foto hard di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2018 Corte di Cassazione, sentenza del 13 settembre 2018, n. 40716. Cade l’accusa di molestia per chi bersagli qualcuno con lettere indesiderate, guardandosi bene dall’inviare mail o sms. Del resto, la molestia “viaggia” solo via telefono, posta elettronica e messaggi sul cellulare. Lo affermano i giudici ormai da tempo e lo ricorda, di recente, la Corte di Cassazione con sentenza 40716 dello scorso 13 settembre. Il caso - A finire sotto processo, è un uomo che - per dichiarato spirito goliardico - aveva spedito a una donna diverse missive, corredate di foto hard e apprezzamenti sconvenienti. Di qui, la condanna a 300 euro di ammenda emessa dal Tribunale sulla base delle dichiarazioni rese dalla signora, delle deposizioni testimoniali e delle lettere allegate agli atti. L’imputato, marcava il giudice, si era servito del servizio postale agendo, così, da un luogo pubblico come vuole la norma che punisce la molestia (articolo 660 del codice penale). La tesi della difesa - Ma il suo legale propone ricorso e vince la causa. Non conta, precisa, da dove il suo cliente si fosse attivato. A discolparlo sarebbe stato un altro particolare: aver infastidito la vittima per corrispondenza e non per telefono o mail. Circostanza decisiva giacché, conclude l’avvocato, risponde della contravvenzione in questione soltanto chi “in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo”. La Suprema corte - La Cassazione concorda con la tesi difensiva e “cancella” la condanna. Effettivamente, premette, era indifferente da quale luogo (privato, pubblico o aperto al pubblico) fossero state inviate le lettere, trattandosi di un mero antefatto. Piuttosto, come evidenziato in ricorso, ad escludere la molestia era stato il mancato utilizzo del telefono. D’altronde, per sfuggire alle seccature telefoniche - equiparate alle comunicazioni via mail o short messages system (sms) vista l’immediata “interazione con il mittente” - il destinatario della chiamata non avrebbe altra scelta se non quella di disattivare la linea o cambiare numero. Senza contare che, a far scattare la molestia, non necessariamente abituale, basterebbe una sola telefonata purché fastidiosa (Cassazione, sentenza 6064/2018). Se, invece, a disturbare sono delle lettere trovate in cassetta, che il destinatario potrebbe decidere di non aprire, non scatterà alcuna molestia mancando quell’”intrusione diretta” nella sfera altrui, oggetto di tutela penale. E il rispetto dei principi di stretta legalità e tipizzazione delle condotte illecite, sia chiaro, impone il divieto di interpretare la norma penale in maniera analogica o estensiva. In altre parole, se un disposto contempla una pena per una determinata azione, non lo si potrà applicare a fattispecie simili ma non del tutto identiche. Ebbene, essendo l’articolo 660 del Codice penale dedicato unicamente alla molestia telefonica, va da sé che non poteva essere preso a riferimento nel caso del ricorrente che, senza mai contattare la donna via messaggio, mail o cellulare, si era limitato a spedirle delle lettere, seppur bizzarre, erotiche e certamente sgradite. Più che lineare, quindi, la scelta della Corte di Cassazione di annullare la sentenza di condanna “perché il fatto non sussiste”. Sicilia: il paradosso delle carceri, sovraffollate 11 su 23 eppure i posti ci sono di Claudio Reale La Repubblica, 15 ottobre 2018 Viaggio negli istituti di detenzione dell’Isola: alcuni semivuoti e altri strapieni. A partire da Barcellona Pozzo di Gotto, che ospita il doppio dei reclusi previsti. Boom di casi di autolesionismo. I posti ci sono, ma sono mal distribuiti. E così, mentre la bomba a orologeria delle carceri sovraffollate esplode nella sua gravità con vari episodi da un angolo all’altro del Paese (dalle violenze di Sanremo alla tragedia di Rebibbia, dove una madre ha ucciso i suoi due figli), in Sicilia si consuma un paradosso: le case circondariali dell’Isola ospitano meno detenuti di quanti potrebbero accoglierne, ma alcune sono sovraffollate e altre semivuote. “Un paradosso figlio della cattiva organizzazione - avvisa Pino Apprendi, presidente regionale dell’associazione Antigone che proprio delle condizioni di detenzione nelle carceri italiane si occupa - del quale fanno le spese persone che secondo la Costituzione dovrebbero essere rieducate e non punite, ma che invece in alcuni casi finiscono per impazzire”. E così le aggressioni e gli atti di autolesionismo finiscono per riempire le cronache, fino all’ultimo caso denunciato pochi giorni fa a Barcellona Pozzo di Gotto. Il paradosso delle case circondariali - La situazione più paradossale è quella delle case circondariali, gli istituti che ospitano i detenuti in attesa di giudizio o quelli con pene definitive sotto i cinque anni. In totale in Sicilia sono 18 e - secondo i parametri del ministero della Giustizia, che assegna 9 metri quadrati a testa - hanno una capienza complessiva di 5.605 persone, a fronte delle 5.508 che al 30 settembre erano realmente ospitate al loro interno. Tutto liscio? No, perché sette istituti - secondo lo stesso ministero - sono sovraffollati: il dato peggiore è proprio quello di Barcellona Pozzo di Gotto, dove ci sarebbe posto per 211 detenuti e invece ce ne sono 399, quasi il doppio, mentre all’opposto le due carceri di Catania accolgono molte meno persone rispetto ai propri limiti (138 contro una capienza di 186 a Bicocca e 279 contro 323 nell’istituto di piazza Lanza). E se problemi di sovraffollamento si verificano anche a Sciacca, Caltagirone, Enna, Piazza Armerina e Ragusa, un altro carcere con un po’ di spazio disponibile è invece il Pagliarelli di Palermo (1.186 contro 1.233): “In questo caso - osserva però Apprendi - ci sono però lavori in corso che costringono allo spostamento dei detenuti”. Tanto più che le carceri siciliane, da qualche mese, devono fare i conti con una novità che, almeno in tempi recenti, non si era mai vista: la presenza di bambini nelle case circondariali. “Al momento - annota Apprendi - ce n’è uno ad Agrigento e una a Messina”. E se il primo non ha problemi di sovraffollamento (283 detenuti contro 306), sullo Stretto il problema c’è: ci sarebbe posto per 290 persone, ce ne sono 294. Facile comprendere come sia complicato per la madre gestire una bimba in una situazione del genere. I “sopravvenuti” - Così le condizioni diventano esasperate. E se per fortuna i suicidi in carcere in Sicilia sono diminuiti dai picchi degli anni scorsi (ma a febbraio un trentenne si è tolto la vita ancora a Barcellona), alle cronache vengono consegnate però aggressioni agli agenti penitenziari come quella denunciata dal sindacato Sappe al Pagliarelli a fine settembre. Gli episodi, però, si ripetono: secondo la Federazione dei medici di famiglia, pochi giorni fa due infermieri sono stati aggrediti proprio nel sovraffollatissimo carcere di Barcellona, che da pochi mesi ha completato la lunga transizione da Opg (gli ospedali giudiziari che hanno preso il posto dei manicomi criminali) a carcere “normale”. “Le criticità del carcere di Barcellona dopo la trasformazione da Opg ad istituto multifunzionale ed il trasferimento al sistema sanitario regionale dell’assistenza sanitaria - attacca la Fimg - continuano senza soluzione di continuità”. Anche perché il problema della salute psichica è stato di fatto solo spazzato sotto il tappeto: “Proprio per le condizioni di detenzione - commenta Apprendi - alcuni detenuti entrano in carcere sani e ne escono con problemi psichici. È un problema che di fatto non viene affrontato”. Così finiscono per aumentare anche gli atti di autolesionismo: nei primi sette mesi dell’anno, secondo il Garante dei detenuti Giovanni Fiandaca, sono stati 397, due al giorno. “Per evitare esiti tragici - sottolinea Fiandaca - serve una particolare attenzione da parte di tutti coloro che operano all’interno delle carceri, dal personale dell’amministrazione penitenziaria a quello sanitario, a tutti gli altri soggetti a vario titolo responsabili operanti in Sicilia”. Il caos delle case di reclusione - Anche perché, quando la detenzione diventa definitiva, il problema del sovraffollamento è ancora più grande. I detenuti condannati a più di 5 anni vanno infatti nelle case di reclusione, che in Sicilia sono 5: di queste, solo Augusta non è sovraffollata (372 detenuti contro 458 posti), mentre le altre superano i limiti (567 contro 457 all’Ucciardone di Palermo, 135 contro 121 a San Cataldo, 182 contro 140 a Noto e 93 contro 90 a Favignana). “Tanto più - annotano da Antigone - che l’Italia è stata spesso condannata sul criterio dei 9 metri quadrati per detenuto”. Ma questa è un’altra storia: perché in Sicilia, nonostante i posti ci siano, nel caso-limite di Barcellona ai detenuti vengono garantiti anche soltanto 5 metri quadrati a testa. Bagni inclusi. Per una rieducazione che è solo sulla carta. Quella con la C maiuscola, la Costituzione. Sanremo (Im): rivolta dei detenuti contro il sovraffollamento di Lorenza Rapini Il Secolo XIX, 15 ottobre 2018 Nel penitenziario, che può ospitare al massimo 208 persone, attualmente ne sono presenti 270. Rivolta nella notte scorsa, nel carcere di Sanremo Valle Armea. Un gruppo di detenuti ha lanciato fuori dalle celle lenzuola, schermi tv, suppellettili varie e anche bombolette camping gas, incendiando il materiale. Secondo il sindacato Uilpa-Polizia penitenziaria sono state coinvolte 46 persone, per il sindacato Sappe invece la rivolta ha interessato tre celle, 15 detenuti in tutto. All’origine dei fatti, da un lato il sovraffollamento del carcere più volte denunciato dai sindacati (al momento ci sono circa 270 detenuti in una struttura che potrebbe ospitarne 208), dall’altro “una gestione che ultimamente si è fatta un poco più rispondente alle norme di legge - fa sapere Michele Lorenzo del Sappe - dove i vecchi privilegi, come la libertà assoluta di telefonare all’esterno senza alcun limite e il mantenimento delle celle aperte a qualsiasi orario o quasi, si stanno piano piano abbandonando”. “Tutto è cominciato alle 21, quando l’infermiera è passata con la terapia per alcuni detenuti che si sono rifiutati di assumerla - ancora Lorenzo - poi alle 2 la situazione è degenerata ed è iniziato il lancio di oggetti”. Dal carcere, invece, fanno sapere che non si è trattato di una rivolta, ma di una semplice lite tra detenuti di celle diverse, nella quale sarebbero state coinvolte soltanto quattro o cinque persone. La situazione è tornata alla normalità dopo un paio d’ore. “Fortunatamente la rivolta non si è allargata all’intero carcere - conclude il responsabile regionale del Sappe - anche grazie all’intervento tempestivo sia del direttore del carcere sia del comandante che hanno immediatamente dato un segnale chiaro e mantenuto l’ordine. Ma i fatti per noi restano preoccupanti, come più volte abbiamo fatto notare. C’è bisogno di più personale: non si può governare una struttura come quella di Valle Armea con turni di notte di soli nove o dieci agenti. Serve più sicurezza”. Intanto, il Sappe rileva positivamente la decisione del Provveditorato che ha sospeso il trasferimento dei detenuti da Savona a Sanremo, che era cominciato dopo il crollo del Ponte Morandi a causa della difficoltà dei trasporti per Genova Marassi. Grazie alla nuova viabilità aperta soltanto due giorni fa, viene bloccato il trasferimento a Sanremo e si torna alla normalità. Ma il 9 novembre il sindacato fa comunque sapere che sarà in piazza a Genova per chiedere condizioni di lavoro migliori e più sicure per i suoi agenti. Lite o rivolta, fonti interne al carcere fanno sapere che comunque alcuni provvedimenti verranno presi. I detenuti coinvolti sono stati messi in isolamento, saranno denunciati trasferiti. Reggio Calabria: la storia di Nino, morto in cella, e i dubbi sull’assistenza ai detenuti di Consolato Minniti lacnews24.it, 15 ottobre 2018 “Le vite in carcere non sono vite di serie B. I detenuti non smettono di essere cittadini”. Le conclusioni del garante reggino Agostino Siviglia racchiudono perfettamente il senso dell’incontro conclusivo del master in Criminologia e sistema penitenziario tenutosi venerdì alla Libreria Culture di Reggio Calabria. L’evento, incentrato sulla storia di Stefano Cucchi e programmato già da tempo, ha avuto una fortunata coincidenza: giungere proprio nel giorno successivo a quello in cui sono state rese note le dichiarazioni di uno dei carabinieri coinvolti nel pestaggio, che ha chiamato i colleghi alle proprie responsabilità. Un tema di fortissima attualità, dunque, che però non si è limitato alla sola vicenda Cucchi, ma ha interrogato anche sulle altre morti sospette in carcere, sul sistema di assistenza sanitaria ai detenuti e sulla complessa vicenda riguardante coloro i quali soffrono di patologie di tipo psichiatrico. Un parterre d’eccezione ha interessato per diverse ore studenti e professionisti che hanno potuto approfondire in maniera significativa tematiche troppo spesso lasciate alle ondate emotive determinate dagli eventi. I saluti del direttore del Digiec, Massimiliano Ferrara, hanno fornito lo spunto per una prima notizia: il master avrà una seconda edizione, seppur con una diversa formulazione, al fine di poter creare anche una offerta esterna ed un valore aggiunto per l’intero ateneo. L’introduzione del prof Capone - A fare gli onori di casa Arturo Capone, docente di Diritto processuale penale della Mediterranea nonché direttore del master, il quale si è soffermato su alcuni punti critici riguardanti la salute e l’assistenza sanitaria in carcere: dalle scelte di coscienza dei medici, passando per i diritti fondamentali dei detenuti fino all’evoluzione dell’assistenza nei penitenziari, dapprima affidata alla stessa amministrazione per poi essere ceduta al sistema sanitario nazionale. Quanto al tema Cucchi, Capone si è chiesto come sia possibile che i medici che lo hanno avuto in cura non si siano accorti che quei danni e quelle ecchimosi non fossero compatibili con una “caduta dalle scale”. “Come è potuto accadere? È possibile che i medici abbiano subito dei condizionamenti”, si è chiesto il docente rivolgendosi ai relatori. E sempre a loro Capone ha rivolto altri importanti interrogativi sia sulla formazione della classe medica, sia sulla colpa e la cosiddetta “medicina difensiva” per giungere poi al capitolo delle visite esterne al carcere e della presenza di strutture adeguate o meno, per approfondire la fase diagnostica. “Voglia di manicomio dietro l’angolo” - A rispondere per primo ai quesiti posti dal docente è Franco Corleone, già sottosegretario alla giustizia e garante dei detenuti della Toscana. Rispolvera un vecchio pezzo da lui scritto per il Manifesto in cui, in sostanza, veniva già detto ciò che poi si è appurato sia accaduto al povero Cucchi. Un articolo profetico, in cui venivamo fortemente sottolineate responsabilità, omissioni e coperture a tutti i livelli. Corleone prima ricorda gli articoli 13, 27 e 32 della Costituzione, poi passa a sciorinare alcuni dati riferiti alla Toscana, ma emblematici della situazione italiana. Nel 2017, solo nella regione che ospita la città di Firenze, vi sono stati 104 tentativi di suicidio; 854 gli atti di autolesionismo. “In carcere, di notte, scorre il sangue - rimarca Corleone - perché di giorno vi sono corsi, attività, partite. Di pomeriggio termina tutto, mentre è di notte che accadono i fatti peggiori e bisogna averne consapevolezza”. Molto spazio viene dato anche al capitolo dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, alla difficoltà che si incontra oggi nella gestione di detenuti che presentano particolari patologie mentali e per i quali è particolarmente complesso ottenere misure alternative che, invece, è possibile avere nei casi di patologie fisiche. “Stiamo attenti - conclude Corleone - perché oggi la voglia di manicomio sembra essere dietro l’angolo”. Un argomento che viene poi ripreso e approfondito, specie nella parte riguardante la riforma, nell’intervento di Luciano Lucania, referente regionale per il dipartimento Salute dell’Asp di Reggio Calabria. La paura dell’indifferenza - E se il caso Cucchi diventa motivo di discussione per la sua particolare drammaticità, non è certo l’unico avvenuto nelle nostre carceri. Fra i detenuti morti in circostanze ancora da chiarire fino in fondo c’è anche Antonino Saladino, un giovane reggino deceduto la sera del 18 marzo scorso. Ed è a questo episodio che si riallaccia l’intervento del garante dei detenuti di Reggio Calabria, Agostino Siviglia che esordisce citando Liliana Segre e la paura dell’indifferenza, per approdare ben presto ad una declinazione precisa di tale termine. L’analisi non può che partire dal film “Sulla mia pelle”: “L’indifferenza, che si vede ritratta nel film, pur nella consapevolezza che si tratti di un film - anche se in gran parte basato sugli atti ed i verbali autentici della vicenda “Cucchi” - non risparmia quasi nessuno: il giudice dell’udienza di convalida dell’arresto; il pubblico ministero d’udienza; l’avvocato d’ufficio che non si preoccupa neanche di chiedere l’autorizzazione per la visita dei genitori di Stefano; la dottoressa del Pertini che si preoccupa solo di fare annotare il rifiuto alle cure del degente-detenuto; l’agente di polizia penitenziaria che si preoccupa solo che non gli si venga addebitata la paternità di quelle lesioni di cui Cucchi è evidentemente vittima; il direttore dell’istituto penitenziario che rifiuta di prendere in carico il ragazzo; i carabinieri che traducono Cucchi in udienza preoccupandosi esclusivamente di mettere in chiaro che l’arresto non era stato operato da loro; il medico del primo ingresso in carcere che chiede ma poi finisce per non denunciare quanto risulta evidente … insomma un estenuante passaggio burocratico di consegne e di responsabilità, accompagnato dalla condizione triste di sguardi abbassati, che non vedono perché non si soffermano a guardare … ad eccezione del barelliere del 118 che tenta di vedere ma che non riesce … perché gli occhi bassi questa volta sono quelli di Stefano Cucchi … che non si vuole fare vedere, che non si vuole fare aiutare. È un film, certo, ma gli atteggiamenti raffigurati sono paradigmatici dell’indifferenza che tante volte nella vita reale accompagnano l’esistenza quotidiana”. La situazione delle carceri reggine - Il pensiero corre subito al penitenziario di Arghillà: “Vedo che l’istituto penitenziario è stato negli ultimi anni affollato di detenuti provenienti da altre regioni (Campania, Puglia, Sicilia, in barba al principio di territorializzazione della pena); che il carcere sovrabbonda di detenuti extracomunitari; di detenuti tossicodipendenti; di detenuti cosiddetti sex-offender; di detenuti autori di reati comuni e di detenuti di alta sicurezza: in definitiva, si tratta di una frammistione di popolazione detentiva assai problematica da gestire, tanto sul versante sanitario, quanto su quello securitario e trattamentale. Mentre nel carcere “G. Panzera” ha destato e desta ancora la mia particolare attenzione la sezione di “Osservazione Psichiatrica”, che dopo anni, a seguito di un mio intervento congiunto con il Garante Nazionale, è stata chiusa da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, per essere ristrutturata ed adeguata ai parametri normativi vigenti in materia e, finalmente, riaperta garantendo le condizioni minime di dignità della persona umana”. Tornando ad Arghillà, il presidio sanitario è risultato sempre meno garantito: “Non era ed ancora non è garantita la copertura infermieristica h24; il personale medico-sanitario è ancora insufficiente; la specialistica necessita di implementazione; manca un gabinetto radiologico; manca un presidio di sicurezza da parte del personale di polizia penitenziaria”. Morto in cella senza un perché - Ecco allora che la storia di Antonino Saladino acquista ancor più valore. A testimoniarla è la madre di Antonino, Caterina Amaddeo, che legge una lettera intrisa di amarezza. “Nino era un ragazzo come tanti, nel quartiere lo conoscevano tutti come una persona buona e generosa. Lavorava come imbianchino e si dedicava a me ed alla sorella, visto che il padre ci ha lasciati quando ancora entrambi erano molto piccoli. Mio figlio - incalza Caterina - è entrato in carcere perché sospettato di un reato, non era un criminale, ancora doveva svolgersi il processo”. L’attenzione si sposta alle condizioni di salute del ragazzo: “Quando è stato arrestato era in perfetta salute, per oltre un anno lo abbiamo visitato ma nell’ultimo periodo stava spesso male e si lamentava delle grandi difficoltà di ricevere assistenza in carcere. È morto il 18 marzo scorso in solitudine con tanta sofferenza e lontano dai suoi cari, noi siamo stati avvertiti solo il giorno successivo. Ancora oggi non conosco le ragioni della sua morte”. Caterina - dice lei - non conosce le leggi, ma sa che anche se una persona ha sbagliato “deve avere la possibilità di curarsi come qualunque altro”. Ha diritto di tornare a casa dopo aver scontato la pena. Oggi c’è un magistrato che si sta occupando della vicenda di Nino. Caterina ha ancora fiducia nella giustizia: “La verità verrà a galla”, ripete. Con un augurio che è quasi una preghiera: “Che ciò che è capitato a Nino non succeda mai più a nessun altro detenuto, perché non riesco ad accettare che la vita di una persona detenuta abbia un’importanza diversa rispetto a quella di qualunque altra”. Napoli: morto in carcere a 42 anni, la famiglia denuncia “non poteva nemmeno parlare” vocedinapoli.it, 15 ottobre 2018 Sarà un’inchiesta a chiarire se ci sono state negligenze da parte della direzione del carcere nella morte di Ciro Oliva, il 42enne detenuto scomparso nelle scorse ore nel penitenziario di Secondigliano. Oliva era originario di Ponticelli e si trovava in carcere da diversi mesi dopo l’arresto per spaccio. Aveva problemi cardiaci e sarebbe stato stroncato da un malore. La sua famiglia ha però chiesto che si faccia luce sul suo decesso perché sostiene che non sia stato curato e assistito in modo adeguato. La morte di Oliva riapre le polemiche sulle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane e in particolare quelle napoletane. Sull’argomento è Pietro Ioia, attivista e presidente dell’associazione degli ex detenuti. “Il detenuto Ciro Oliva è morto, cardiopatico se ne andato in punta di piedi, in silenzio, si perché nel carcere di Secondigliano i detenuti ammalati non possono alzare la voce altrimenti vengono minacciati di essere trasferiti, basti pensare che i familiari per il colloquio si ammassano già dalle cinque del mattino, un carcere bello da fuori, barbaro di dentro”. Ciro Oliva era un pusher del rione Conocal di Ponticelli arrestato nel febbraio del 2017 perché sorpreso a spacciare cocaina nella zona del Caravita a Cercola. Lo scorso aprile, insieme con altre 10 persone, venne raggiunto in carcere da una nuova ordinanza perché accusato di far parte del neonato clan D’Ambrosio nato dalle ceneri del clan De Micco. Milano: “io e il mio amico Ivan, così da un anno studio con un ergastolano” di Caterina Lusiani Corriere della Sera, 15 ottobre 2018 Caterina, laureanda all’Università Statale di Milano, racconta l’esperienza di tutor nel carcere di Opera. Mi chiamo Caterina, sto concludendo la laurea magistrale in Lettere moderne alla Statale di Milano e sono tutor di un uomo dal fisico robusto e dall’animo gentile, appassionato di cinema, con un tatuaggio sull’avambraccio che gli ricorda la figlia. Io e Ivan, ormai, siamo quasi amici. Lui 44 anni, io la metà. Io libera, lui recluso nel carcere di Opera. Sono entrata la prima volta in prigione, mettendo da parte gli sciocchi pregiudizi, il 16 aprile 2017. C’era il sole, lì davanti esitavamo: un manipolo di altri studenti e il nostro professore di filosofia, Stefano Simonetta, che guida le iniziative per il sostegno dello studio universitario delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Abbiamo scattato una foto all’ingresso. A guardarla, mi emoziono. Per molti miei compagni, e per me, era la prima volta. Ricordo ancora lo stupore nel confrontarmi con una realtà ben diversa da quanto l’immaginario comune offre: un ambiente tanto straniante nella distesa di cemento che cancella l’orizzonte, quanto colorato nei murales che decorano i lunghi corridoi. Siamo entrati in una stessa stanza; noi, studenti-tutor ancora un po’ timorosi, e loro, gli studenti ristretti nella Casa di Reclusione di Opera, uniti da grandi sorrisi per un’attesa finalmente terminata. In cerchio, seduti alternati, ci siamo presentati; poi, per affinità di studi, ci siamo scelti. “Ciao, sono Ivan”; “Caterina”. Era la prima volta che avevo la responsabilità di una persona; io che, anche nel dare semplici ripetizioni, non mi sono sentita mai abbastanza brava. Però volevo provarci. Ricordo bene la tensione e la gioia del primo esame di storia contemporanea, un po’ come fosse mio, e quel 27 bellissimo. E poi tutti gli altri. Ivan oggi inizia il suo terzo anno e sta per sostenere il suo decimo esame. Un vero traguardo se si pensa ai tempi lenti del carcere! Ogni esame d’altronde lo è, per chi pensava di non aver più seconde possibilità. La realizzazione di un obiettivo; come l’esame di lingua spagnola, scelto per passione, e diventato la possibilità di comunicare meglio con sua figlia, che vive in Spagna. L’università, in fondo, è questo: serve per arricchire. E arricchisce di più dove c’è sempre stato meno. Oggi, di Ivan, ne abbiamo parecchi. Storie diverse ma accomunate da un riscatto che arriva attraverso pagine di libri, che per anni sono stati accantonati davanti alla crudezza di scelte di vita. Perché, se c’è una cosa che ho sentito dire ad ognuno, è che, se avesse studiato, oggi di certo non si troverebbe lì. Ed è questa la rinascita delle loro persone: la consapevolezza di essere differenti, distanti, da quel che si era. E di poter dare, finalmente, un contributo diverso al mondo. Credo che per noi studenti dell’area umanistica, che in larga maggioranza abbiamo consapevolmente deciso di mettere da parte scelte pragmatiche per il nostro futuro per seguire ideali, non ci sia esito più felice. Ed è questa la soddisfazione che traggo io dal progetto carceri della Statale. Partito all’inizio del 2016, il progetto, dentro le mura, cresce d’anno in anno. Ogni settembre abbiamo nuove richieste di immatricolazione, studenti desiderosi di intraprendere un percorso universitario; un bel motivo di orgoglio anche per il nostro Ateneo, che oggi ha il polo universitario penitenziario con più iscritti in Italia. Sarebbe bello potesse crescere alla pari anche al di fuori. Ogni studente dovrebbe avere un tutor di riferimento, che lo possa guidare laddove le sbarre diventano limiti insormontabili. Ed è questo ciò che ci auguriamo. Ti chiedo scusa, Ivan, se ho parlato di te, ma sei tu che per primo mi hai accompagnata in questa avventura. E ti sono grata perché mi hai reso una persona più sicura di ciò che può dare. E grazie a tutti gli altri Ivan, perché siete la prova tangibile che la cultura rende liberi; e dunque che possiate esserlo sempre, anche voi, grazie a noi, oltre ogni barriera. Portoferraio (Li): bullo spedito ad assistere i malati di Alzheimer Corriere della Sera, 15 ottobre 2018 L’esempio dell’Istituto Cerboni di Portoferraio: sospensione e lavori socialmente utili per l’alunno violento, come punizione per aver picchiato il compagno di classe. Unire l’utile all’utile. A poco valgono rimproveri e note sul registro per recuperare gli studenti con comportamenti aggressivi: per la preside dell’istituto tecnico Giuseppe Cerboni di Portoferraio, sull’isola d’Elba, nulla è più rieducativo per i bulli che mandarli ad assistere i deboli, certa che il contatto con il dolore e la sofferenza di chi sta peggio possa cambiare il loro atteggiamento più di qualunque altra coercizione. Del resto la punizione, come il carcere, dovrebbe avere proprio la funzione di fornire un’altra opportunità di reinserimento, e non limitarsi all’espiazione di un castigo. E così - come riporta l’edizione online del Tirreno - un ragazzino, alla sesta nota in condotta per aver rifilato un pugno a un compagno, è stato prima sospeso dalle lezioni (misura che, magari, avrebbe anche gradito) e poi spedito al centro anziani della cittadina, gestito dalla cooperativa psichiatrica Altamarea, ad aiutare i malati di Alzheimer nelle loro piccole faccende quotidiane. La “restituzione” - Finite le quali - è l’aspetto più interessante - non se ne vanno a casa, ma tornano in classe a raccontare l’esperienza vissuta, passando da esempi negativi a eroi positivi: “Non ho più la nonna - racconta un alunno - ma giocando a carte con una signora è come se l’avessi di nuovo con me”; “Alcune signore hanno pregato per me - rivela un’altra - perché diventassi più brava”; “Alcuni di loro non avevano più nessuno e parlavano da soli, con persone che non c’erano - riferisce un altro ancora -, li ho aiutati nelle pulizie e poi li ho accompagnati a messa”. Un’intensa “terapia d’urto” per caratteri difficili che - a quanto riferisce la pedagogista Silvia Dini, promotrice dell’iniziativa - sta andando molto bene: da quando è partita, un paio d’anni fa, nessuno dei giovani “volontari” ha più mostrato i muscoli in classe. La scuola di Portoferraio - prescelta dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, per inaugurare l’anno scolastico 2018 - non è tuttavia l’unica ad aver adottato questo progetto: nel 2017 più di mille studenti hanno scontato la sospensione in attività socialmente utili. La dirigente dell’istituto, Grazia Battaglini, sarà ospite domenica sera della trasmissione di Rai 3 “Le parole della settimana”, condotta da Massimo Gramellini, proprio per raccontare questa felice esperienza. Palermo: “In stato di grazia”, 20 detenute attrici sul palco del carcere Pagliarelli Redattore Sociale, 15 ottobre 2018 Liberamente ispirato al testo “La lunga vita di Marianna Ucrìa” di Dacia Maraini, è il terzo spettacolo della Compagnia Oltremura che dal 2015 ha l’obiettivo di rendere il carcere luogo di cultura e di produzione teatrale. Un coro di lunghi applausi ha accolto venerdì pomeriggio la performance teatrale di 20 detenute che hanno recitato per l’opera “In stato di grazia” andata in scena sul palco del teatro dell’istituto penitenziario Antonio Lo Russo Pagliarelli di Palermo. Le donne, attrici non professioniste, hanno recitato guidate dalla regista Claudia Calcagnile. Liberamente ispirato al testo “La lunga vita di Marianna Ucrìa” di Dacia Maraini, “In stato di grazia” è il terzo spettacolo della Compagnia Oltremura che dal 2015 ha come obiettivo quello di rendere il carcere luogo di cultura e di produzione teatrale. Da oltre tre anni, infatti, l’associazione Mosaico realizza dentro la Casa Circondariale Pagliarelli un laboratorio di teatro permanente con circa settanta donne di diverse nazionalità ed età. Il teatro di Oltremura sta riscuotendo anche interesse sempre maggiore da parte della comunità esterna e, in particolare, dell’Università degli Studi di Palermo, per l’efficacia trattamentale che caratterizza questo lavoro. In particolare, nello spettacolo “In stato di grazia”, inserito nel programma di Palermo Capitale della Cultura, costruito su immagini, non c’è una storia raccontata: il testo che lo ha ispirato è stato scelto sulla base di alcune suggestioni arrivate nel corso del laboratorio. La drammaturgia è frutto di un lavoro collettivo sul concetto di ruolo sociale e sui temi di autenticità, di libertà e sulla condizione umana. “In stato di grazia” è una riflessione sul tema dell’identità, l’inizio di un viaggio di cui non si conosce la meta, un tentativo di sottrazione al proprio ruolo sociale. Protagonista della narrazione è Marianna, ragazza sordomuta, costretta ad andare in sposa. L’impossibilità di sottrarsi al suo ruolo di “mugghieri” la obbliga a rifugiarsi in un mondo altro, dove la lettura diventa strumento di sovversione tale da ribaltare dogmi e pregiudizi, stereotipi e convenzioni sociali. La performance che ha richiesto quasi un anno di lavoro, innesca un capovolgimento di senso: come Marianna stravolge il proprio destino trovando nei libri il luogo di ricerca per la libertà, così le attrici, sottolineato anche da uno dei pensieri forti “Io appartengo all’essere e non lo so dire” compiono il tentativo di capovolgere la propria posizione cercando quel luogo immaginario in cui demolire il senso comune delle cose. Lo spettacolo verrà riproposto la prossima settimana per farlo fruire ai familiari delle donne e alle altre detenute della casa circondariale. Migranti. Il Viminale corregge la linea: “niente deportazioni da Riace” di Alessandro Di Matteo La Stampa, 15 ottobre 2018 Il ministero: i migranti trasferiti su base volontaria ad altri Sprar. Il Pd: pronti alla piazza. Nessun trasferimento obbligatorio per i rifugiati che risiedono a Riace, ma di sicuro lo Stato non finanzierà più il comune calabrese, il “modello Lucano” finisce qui, per il ministero dell’Interno. Mentre continuano le polemiche per la mossa decisa dal ministro Matteo Salvini, il Viminale conferma la scelta di chiudere i rubinetti per i progetti di accoglienza del sindaco calabrese, ma precisa anche che formalmente non obbligherà nessuno a spostarsi. Una risposta anche al sindaco sospeso Lucano che attacca: “Le persone non sono merci che vengono trasferite dalla sera alla mattina”. Fonti del ministero replicano appunto che nessuno verrà costretto a lasciare Riace, la scelta sarà affidata ai singoli “su base volontaria” e l’amministrazione cittadina potrà comunque “avviare altri interventi di assistenza”. Una puntualizzazione che appare un po’ formale, perché sembra un eufemismo parlare di “scelta volontaria” nel momento in cui vengono tolti i soldi che permettevano di far funzionare il sistema. Questa però è la linea del governo. È stata la stessa direttrice del sistema Sprar Daniela Di Capua, in una intervista al Grl, a chiarire che “non ci sarà nessuna deportazione da Riace. Le persone che sono in accoglienza possono proseguire il progetto di integrazione in un altro progetto Sprar e noi, operativamente, cerchiamo di individuare altri posti che siano adeguati”. Chi vorrà, potrà chiedere di essere assegnato altrove e i posti “adeguati” sono altri comuni disposti ad accogliere richiedenti asilo e rifugiati. Attualmente sono “un centinaio”, dicono al ministero, gli stranieri che risiedono a Riace e il comune ha sessanta giorni di tempo per fornire al ministero la documentazione finanziaria relativa ad ognuno di loro. Per quelli che chiederanno il trasferimento ad altri progetti Sprar si provvederà a trovare una soluzione alternativa innanzitutto nelle regioni limitrofe alla Calabria e poi allargando la ricerca al resto d’Italia, perché l’accoglimento da parte dei comuni è su base volontaria. Di sicuro, precisa ancora la Di Capua, si terrà “in considerazione il nucleo familiare”, per evitare di dividere genitori e figli, mogli e mariti. Lo scontro politico Precisazioni che non fermano la polemica. Nicola Zingaretti, candidato alla segreteria Pd e presidente del Lazio, parla di “atto immondo compiuto da Salvini, un leader che ha rubato 49 milioni. Ha paura che la realtà demolisca il modello della paura”. Il segretario Pd Maurizio Martina chiede all’Italia di “reagire” e invoca una manifestazione, una “grande iniziativa antirazzista” simile a quella che si è svolta a Berlino. L’ex premier Enrico Letta usa Twitter per attaccare il governo, aggiungendo a Riace anche il caso Enrico Letta attacca: “Lodi e Riace sono due facce della stessa medaglia, la vergogna” Lodi, dove i bambini stranieri sono stati esclusi dalla mensa scolastica: “Lodi e Riace sono due facce della stessa medaglia, la vergogna”. L’Anpi, l’associazione dei partigiani, parla di “atto di violenza e vendetta nei confronti dell’esperienza di riuscita integrazione”. Per la leader Cgil Susanna Camusso si tratta di “un atto disumano, sbagliato, di dubbia legalità e va bloccato”. Salvini replica alla sua maniera, usando un tweet: “Ma quelli del Pd che parlano di “deportazioni” sanno che l’indagine sulle gravi irregolarità di Riace, e del suo arrestato sindaco, erano state avviate da Minniti, mio predecessore al Viminale e oggi possibile segretario del loro partito?”. Ma se le indagini erano state avviate già dal governo precedente, è ora Salvini a tirare le conclusioni. Per il ministro l’amministrazione Lucano non rispetta le linee guida previste dal decreto sui progetti Sprar e dunque il “modello Riace” non può continuare a ricevere i soldi dello Stato. Immigrazione, la lezione del ministro Fontana: “diluisce la nostra identità” La Repubblica, 15 ottobre 2018 Intervento del titolare della famiglia alla Scuola di formazione politica della Lega: “Contro l’omologazione che avanza daremo battaglia, anche se ci massacreranno”. Mentre il M5S cerca di spegnere il caso Lodi con Luigi Di Maio, che rassicura che si troverà una soluzione perché “i bambini non si toccano”, il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana apre un altro fronte nel delicato tema dell’integrazione. E in un intervento alla Scuola di Formazione politica della Lega afferma che “con l’immigrazione si diluiscono le identità e l’omologazione avanza”. Parole nette contenute all’interno di un ragionamento sul tema caro al ministro leghista ortodosso, ovvero quello del sostegno alle giovani coppie italiane per incentivare la natalità. “Quando dici che bisognerebbe aiutare i nostri giovani ad avere più figli ti danno del fascista - ha detto il ministro nel suo intervento - Ci sono parti politiche che dicono: cerchiamo di aiutare i giovani e le coppie ad avere un lavoro stabile e una casa con politiche per la natalità. Poi ci sono altri che dicono avanti con l’immigrazione. Ma nessuno di questi ultimi si è reso conto che con l’immigrazione si diluiscono le identità e l’omologazione avanza”. “La battaglia che bisogna fare è questa - ha aggiunto Fontana - e sarà una battaglia dove i mass media saranno fortemente contrari, visto che ci sono molti interessi in gioco. Ci massacreranno, lo hanno fatto con me, lo fanno con Matteo (Salvini, ndr) ma sarà una battaglia per il futuro, non quello da qui a 5 anni ma dei nostri figli”. E mentre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte condivide su Facebook il post di Luigi Di Maio, Salvini in serata è intervenuto sui casi Riace e Lodi precisando la sua posizione su entrambi. “Nel Paese che voglio - ha affermato il titolare del Viminale - le regole valgono per tutti e l’unica distinzione non è tra bianchi e neri ma tra onesti e disonesti. Il Pd da che parte sta?”. E ha aggiunto: “Termini come razzismo o apartheid sono così gravi che non vanno maneggiati a sproposito. Il Pd, dopo aver vaneggiato di nazifascismo in campagna elettorale, ora delira per quanto accade a Lodi e Riace - sostiene Salvini - Nella città lombarda, la brava Sara Casanova non ha chiuso la mensa scolastica agli immigrati, ma il comune darà agevolazioni solo a chi ne ha realmente diritto”. “Gli stranieri devono fornire documentazione del loro paese d’origine, dove magari hanno proprietà e disponibilità economiche, ma se non è possibile il Comune si fiderà della buonafede. A Riace - ha sottolineato ancora il Ministro - la vicenda è ancora più incredibile: c’è un sindaco che per la gestione degli immigrati è stato arrestato per ordine del pm (e non del sottoscritto) e sono spuntate una serie di irregolarità contabili segnalate dal Viminale quando il governo era ancora di centrosinistra. Irregolarità che hanno fatto scattare la revoca dei finanziamenti per l’accoglienza”. “Notte dei senza dimora”: cittadini e scrittori hanno dormito con i clochard di Luca De Vito La Repubblica, 15 ottobre 2018 Mobilitazione delle associazioni con cena, concerto e un concorso che ha premiato le opere dei senza fissa dimora. Scrittori e senza tetto insieme, per cacciare il freddo e la solitudine. Ieri, nella centralissima piazza Santo Stefano a Milano, dietro la sede dell’università Statale, è andata in scena “La notte dei senza dimora”, evento organizzato da Terre di Mezzo editore. Una giornata e una notte che hanno raggruppato associazioni che si occupano di persone in difficoltà, volontari e clochard che vivono in città. Cena, concerto, testimonianze di strada oltre a una notte passata a dormire all’aperto sul sagrato della chiesa che ha visto la partecipazione di normali cittadini. Nel pomeriggio, finalissima di un concorso a premi inconsueto: sono state premiate le opere realizzate dai senza fissa dimora. Il “Premio Isacchi Samaja” ha tre sezioni, in totale 21 partecipanti: narrativa, arte figurativa e fotografia. Con una giuria d’eccezione, formata tra gli altri da Paolo Cognetti, premio Strega 2017, e Giorgio Fontana, Campiello 2014. Per i vincitori premi in servizi dai 100 ai 400 euro. In piazza Santo Stefano sono arrivate le tante facce della “Milano solidale”. Accanto al lavoro delle associazioni, ecco i cittadini, che hanno contribuito portando saponi, dentifrici, spazzolini, prodotti per l’igiene. Il momento della cena, subito dopo la premiazione, è stata l’occasione per incrociare storie ed esperienze tra chi vive la vita di strada e chi aiuta. Davanti a un vassoio con pasta, zuppa, contorni e macedonia, c’è anche chi si è sfogato. Come Marco, che non è riuscito a nascondere il vuoto della depressione che lo divora: “Ogni giorno mi sento senza una direzione, da quando ho perso la famiglia mi è crollato il mondo addosso e non riesco più a tirarmi su. Questi eventi mi aiutano certo, ma andare avanti è dura”. Dopo mangiato, un breve concerto con musica e balli. Tutta la sera i tendoni delle associazioni - da Caritas a Croce Rossa, da Fondazione Fratelli di San Francesco, a Sos Milano, dal Progetto Arca agli Avvocati di strada - sono rimasti aperti e a disposizione dei senza tetto. E c’era ancora voglia di raccontarsi, prima di tirare giù i sacchi a pelo e condividere anche l’asfalto come materasso. Carlos di anni ne ha 53, arrivato in Italia dal Venezuela in cerca di un modo per far vivere la sua famiglia, dorme alla Casa Jannacci e fa le consegne in bicicletta per mandare a casa qualche soldo. Sa che le persone in piazza con lui vengono da storie complicate, disperate e anche la sua non è da meno: “Ma giornate come questa ci ridanno un po’ di vita, o quasi”. Medio Oriente. Caso Khashoggi, le condanne mondiali che arrivano in ritardo di Giudo Olimpio Corriere della Sera, 15 ottobre 2018 La condanna doveva scattare molto prima, specie dopo i massacri di civili nella guerra nello Yemen, vittime della campagna sostenuta dal principe Mohammed e denunciata da Jamal Khashoggi. Con ritardo qualcosa si muove sul caso Khashoggi. Gran Bretagna, Francia e Germania chiedono chiarimenti sulla scomparsa del commentatore saudita. Donald Trump fa la voce grossa promettendo punizioni, ma lega tutto ad un “se”, ossia se saranno accertate responsabilità di Riad. Poi i boicottaggi di grandi gruppi nei confronti dell’evento internazionale promosso dal regno. È l’inizio dell’indignazione, per ora di facciata. La condanna doveva scattare molto prima, specie dopo i massacri di civili nella guerra nello Yemen, vittime della campagna sostenuta dal principe Mohammed e denunciata da Jamal Khashoggi. E non solo lui: altre voci nel regno hanno protestato, usando probabilmente quest’avventura per denunciare gli eccessi dell’erede al trono. MBS, come spesso viene soprannominato sui media, è forse caduto nell’errore di chi è abituato a prendere decisioni senza che nessuno si opponga. Uomini forti e regimi annientano i nemici in modo “arrogante”, non si preoccupano delle conseguenze perché pensano che tutto sia lecito. Anche l’illegalità. E usano la leva degli affari per evitare che amici e comunità internazionale adottino contromisure. La tattica ha funzionato spesso in questi anni e non solo in Medio Oriente. Ma arriva sempre il momento che il Leader compie un passo avventato oppure che il dossier sfugga di mano. Non tutto è sempre pulito e semplice, specie nel mondo delle ombre. I giorni a seguire diranno se il “vento” sollevato dalla scomparsa del dissidente scuoterà appena la tunica candida di Mohammed o invece scompaginerà i rapporti. Riad è convinta di avere potere contrattuale adeguato. Lo ha ribadito lo stesso Mohammed quando Trump ha sostenuto che senza l’aiuto Usa l’Arabia non durerebbe neppure due settimane.