I suicidi dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane sono stati 46 Ansa, 14 ottobre 2018 Lo rileva l’associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri che ricorda come “negli ultimi giorni sono stati tre i detenuti che si sono tolti la vita in cella”. Uno nell’istituto di Carinola (Caserta), dove a uccidersi è stato un detenuto al 41 bis. Uno nel carcere di Lucera (Foggia), dove si è suicidato un uomo a cui avevano tolto la patria potestà il giorno prima. Uno nel carcere di Trieste. “Qui a suicidarsi - spiega “Antigone” - è stato Tarzan Selimovic, un homeless che soffriva di problemi psichici”. Era in carcere per “rapina”, condannato con rito abbreviato a 1 anno e sei mesi. La “rapina” consisteva nell’aver strappato di mano un cellulare ad un uomo ed essere fuggito. “Il 26 settembre scorso - prosegue l’associazione - aveva scontato i 18 mesi e si aspettava di uscire, ma era rimasto in carcere perché la procura aveva fatto ricorso in Cassazione contro la sentenza del Gup e quindi i 18 mesi erano considerati di custodia cautelare”. Essendo senza fissa dimora non c’era modo di dargli i domiciliari. “Lui - dice ancora Antigone - credeva di aver diritto ad essere scarcerato, per questo ha fatto casino, aggredendo gli agenti. E per questo è finito in isolamento dove si è tolto la vita”. A chi fa paura la stampa libera di Lirio Abbate L’Espresso, 14 ottobre 2018 Il lavoro del giornalisti è un vaccino contro l’ignoranza e le fake news, necessario perché l’opinione avvertita e responsabile sviluppi gli anticorpi. Ma è una pillola che non va giù a tutti, in particolare ai politici e ai potenti che hanno qualcosa da nascondere. È il lavoro di illuminare fatti nascosti o riportare alla luce episodi sepolti nella memoria. Più di una volta, in passato, si è così restituita un po’ di verità a un paese, l’Italia, che troppo spesso sembra aver paura di conoscerla. La tentazione di rimuovere la memoria è forte. Come forte è la reazione contro i giornalisti che fanno il loro dovere, informare. Chi detiene il potere vede sovente nella stampa libera un pericolo per il mantenimento del consenso, e allora da sempre, ricorre alle lusinghe, o alle minacce, sempre fedele alla massima: “Chi non è con noi è contro di noi”. È una tentazione cui non sfuggono nemmeno personaggi entrati nella leggenda come i Kennedy. James Reston, celebre “columnist” del “New York Times”, commentatore per più di trent’anni dei principali avvenimenti mondiali, rispose così alle pressioni di John Fitzgerald Kennedy e del suo “clan”: “Quando voi siete arrivati, noi c’eravamo; quando voi ve ne andrete, noi ci saremo ancora” (I Kennedy però non si sognarono di augurare la morte ai giornali e la disoccupazione ai giornalisti). E così, quando si parla di giornalismo investigativo, si può pensare ai cronisti italiani che portano in superficie fatti e storie che potenti e governanti vorrebbero invece “annegati” nell’oblio o ancora ai reporter americani, quelli che interpretano il loro lavoro, come lo pensiamo noi, in difesa della società, indagando e controllando attraverso reportage e inchieste, il potere: capaci di mettere in discussione anche i loro presidenti, o di polverizzare politici e candidati alla Casa Bianca. Trovano notizie sui traffici illeciti che coinvolgono uomini d’affari o governatori, le pubblicano e vanno avanti perché hanno il sostegno dei lettori, dell’opinione pubblica che ha fiducia in loro, nelle testate più autorevoli. È il ruolo, fondamentale in una società autenticamente liberale, di “cane da guardia” dei cittadini, svolto in modi più o meno garbati. Ma oggi molto sta cambiando, in peggio, negli equilibri democratici dei paesi occidentali. La scorsa settimana la giornalista bulgara Viktoria Marinova, reporter del canale televisivo privato Tvn di Russe, nel nord della Bulgaria, è stata violentata e poi uccisa in un parco alla periferia della città dove faceva jogging. L’ultimo lavoro presentato da Marinova in televisione era un’inchiesta giornalistica che riguardava una gigantesca frode legata all’appropriazione indebita di fondi europei. I giornalisti bulgari a conoscenza dello scandalo sono stati minacciati. Lei è stata la mosca bianca, l’unica ad avere avuto il coraggio di parlarne in una trasmissione televisiva. E su di lei è stato puntato il dito di chi non voleva che si accendessero i riflettori su questa realtà oscura. Come rivela un rapporto di “Reporters sans frontières” pubblicato lo scorso luglio, i giornalisti bulgari sono soggetti a pressioni di ogni tipo: intimidazioni, avvertimenti di tipo mafioso, campagne di diffamazione. Nell’indice World press freedom, la Bulgaria continua a scendere anno dopo anno e ora ha il peggior risultato nell’Unione europea al 111° posto su 180 paesi. L’omicidio dí Viktoria Marinova è il terzo che avviene nell’arco di un anno in un paese dell’Unione europea. Un dato allarmante per tutti. Un anno fa a Malta (16 ottobre 2017) veniva fatta esplodere nella sua automobile Daphne Caruana Galizia e pochi mesi dopo (21 febbraio 2018) veniva assassinato in Slovacchia il giornalista investigativo Jan Kuciak. Daphne stava raccogliendo informazioni per un’inchiesta sul crimine e la corruzione nelle autorità maltesi e su questo delitto non è stata fatta ancora piena giustizia. La Slovacchia, dove lavorava Jan Kuciak, è un paese dell’Unione europea dove i politici al governo non esitano ad attaccare apertamente la stampa. Basta ricordare le parole “siete sporche prostitute anti-slovacche” dell’ex primo ministro Robert Fico, all’epoca presidente di turno dell’Ue, quando i giornalisti gli hanno chiesto conto della sua gestione dei fondi pubblici. L’omicidio di Jan Kuciak, 27 anni, uno dei migliori giornalisti investigativi del paese, ha segnato una svolta nella storia del giornalismo slovacco. Oggi occorre rivedere con occhi diversi la scomparsa di due giornalisti avvenuta nel 2008 e nel 2015 di cui la polizia non ha mai dato alcuna spiegazione ai familiari e all’opinione pubblica. Oggi appare sempre più probabile che si possa parlare di casi di “lupara bianca” vista la forte presenza sul territorio dei clan criminali che ricorrono a un vero e proprio metodo mafioso. Kuciak stava indagando su un’evasione fiscale su larga scala e lavorava per il sito online Aktuality.sk. Negli ultimi anni i media slovacchi, tv, radio e giornali, che appartenevano a gruppi stranieri sono stati venduti poco alla volta a potenti industriali o uomini d’affari del paese e adesso il controllo degli oligarchi sui media è sempre più forte. Nel nostro Paese, dopo gli attacchi di Luigi Di Maio all’Espresso e a Repubblica, è la Federazione nazionale della Stampa che traccia una linea sullo stato dell’arte e dice: “Giù le mani dall’informazione”. Per il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso i giornalisti italiani sono pronti a mobilitarsi contro gli attacchi alla Costituzione perché “è in atto un tentativo di indebolire la democrazia al quale dobbiamo rispondere compatti”. D’accordo pure il presidente del sindacato dei giornalisti, Giuseppe Giulietti, per il quale “serve una grande iniziativa pubblica”. Per continuare a essere giornalisti, liberi. Bomba carta a Trento: democrazia è dialogo, non nemici da abbattere di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 14 ottobre 2018 Bisogna stare attenti a cogliere ogni segnale, avendo la consapevolezza che è fin troppo facile - in qualsiasi fase storica - trovare una miccia da accendere per alimentare nuovi scontri. Due giorni fa, durante la manifestazione degli studenti, sono stati bruciati in piazza due fantocci che raffiguravano i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Era già successo che i ragazzi se la prendessero con il governante di turno per manifestare disagio e protesta contro l’ultima riforma della scuola. E lo facessero in una maniera che forse ritengono goliardica, ma invece è vietata dalla legge perché chi compie un atto del genere commette il reato di vilipendio. Ieri notte è accaduto un fatto ben più grave: una bomba carta è esplosa di fronte a una sede della Lega che il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva inserito nel tour elettorale in vista delle amministrative in Trentino. Anche in passato sono state prese di mira allo stesso modo e in svariate parti d’Italia le sezioni dei partiti al governo. E quasi sempre, come adesso, si è ipotizzato che la firma fosse degli anarco-insurrezionalisti. Sono due episodi molto diversi nelle modalità di attuazione e soprattutto nella matrice. Però entrambi sono evidentemente la spia di un malcontento che non deve essere mai sottovalutato. La storia del nostro Paese è segnata da stagioni buie che hanno portato a conseguenze ben più gravi di queste. E più recentemente hanno alimentato le azioni di gruppi che hanno deciso di manifestare il dissenso in maniera violenta, scagliandosi contro le forze dell’ordine chiamate a presidiare le aree e i cantieri delle grandi opere, prime tra tutte la Tav. Dunque individuando come bersaglio persone che avevano il compito di difendere lo Stato. Ecco perché bisogna stare attenti a cogliere ogni segnale, avendo la consapevolezza che è fin troppo facile - in qualsiasi fase storica - trovare una miccia da accendere per alimentare nuovi scontri. E allora basterebbe tenere sempre a mente che una democrazia è fatta anche e soprattutto di valori semplici come la tolleranza e il dialogo, senza che ci sia - tra chi governa e chi è governato - l’idea di avere di fronte un nemico da abbattere. Da Genova 2001 al caso Cucchi, la fiera del falso di Lorenzo Guadagnucci* Il Manifesto, 14 ottobre 2018 Gli ultimi sviluppi del caso Cucchi dovrebbero spingerci a mettere a fuoco due fenomeni emersi dal 2001 in poi: da una parte l’attitudine delle nostre forze dell’ordine, in determinate circostanze, a mentire e falsificare gli atti. Dall’altra la sistematica tendenza a fare muro contro le richieste di trasparenza. Il G8 di Genova in questo senso è all’origine di tutte le più recenti degenerazioni. Spiace doverlo ricordare, ma le giornate del 20, 21 e 22 luglio 2001 sono state una fiera del falso in atto pubblico e della calunnia, una caporetto dell’etica pubblica. Innumerevoli persone furono arrestate per strada ricorrendo a verbali fotocopia, con false accuse di violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Nell’immediato la maggior parte di quegli strani arresti non fu convalidata dai Gip genovesi e negli anni seguenti la magistratura civile ha inflitto numerose condanne al ministero degli Interni per gli abusi compiuti: non abbiamo mai saputo se qualcuno avesse dato un’imbeccata dall’alto o se la pratica dei verbali fasulli sia sgorgata spontaneamente in seno alla truppa. Il caso Diaz andrebbe poi fatto studiare nelle scuole di polizia, se davvero si volesse introdurre un antidoto al veleno immesso a piene mani nel 2001 nel cuore degli apparati. Basti dire che il comunicato con il quale si tentò di giustificare agli occhi del mondo la singolare operazione, mentre decine di persone erano in ospedale e le altre nella caserma delle torture a Bolzaneto, è risultato falso dalla prima all’ultima parola: dalle molotov piazzate ad arte e attribuite agli arrestati, alla tesi delle ferite pregresse, fino al finto accoltellamento d’un agente. Potremmo continuare, ma basti dire che nei processi Diaz e Bolzaneto i principali reati che hanno portato alle condanne di decine di agenti (in gran parte coperte dalla prescrizione) sono stati falso e calunnia. Nel caso Cucchi, secondo le cronache, abbiamo avuto ben 7 interventi di manipolazione di carte ufficiali. Il secondo punto - il rifiuto di agire per accertare subito e senza sconti le responsabilità - non è meno grave del primo. Anche questa è una storia che viene da lontano. I pm nel processo Diaz, Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, parlarono con molte ragioni di omertà, condotta che ritorna nel processo Cucchi. Di fronte a ogni vicenda estrema - dal G8 di Genova alla morte di persone sottoposte a custodia di polizia, come Aldrovandi, Magherini e altri - abbiamo assistito all’applicazione del medesimo schema, ossia la chiusura degli apparati a qualsiasi sguardo esterno, come se si trattasse di panni sporchi da lavare in casa e non di fatti gravi, potenzialmente criminosi, sui quali è necessario fare subito e bene chiarezza, nell’interesse dei cittadini e degli stessi corpi di sicurezza. Proviamo a pensare alle storie appena citate e a quel che sarebbero state se polizia e carabinieri avessero agito con trasparenza e collaborando con chi cercava solo verità, ossia le famiglie e i magistrati. Quante sofferenze risparmiate, quanta credibilità recuperata. Nel caso Diaz c’è un dettaglio che dice tutto: il verbale d’arresto, poi risultato falso e calunnioso, fu sottoscritto da 14 funzionari e dirigenti, tutti indagati e condannati tranne uno, mai identificato perché la grafia era illeggibile e perché gli altri tredici non hanno mai fatto il suo nome. Ecco in che modo è stata concepita la collaborazione con la magistratura inquirente ed ecco spiegate le durissime critiche allo Stato italiano scritte nelle sentenze di condanna subite dal nostro paese alla Corte per i diritti umani di Strasburgo - già dimenticate e pochissimo lette. Nel caso Cucchi la denuncia-confessione di uno dei carabinieri imputati ha spezzato la consegna (o forse imposizione) del silenzio che ha caratterizzato tutti i procedimenti simili avviati in questi anni, a cominciare da Genova G8. Se vogliamo dare un senso a quanto sta accadendo sotto i nostri occhi e nell’intento di frenare la rovinosa caduta di credibilità degli apparati, è lecito chiedere qualcosa al legislatore e a chi riveste ruoli di responsabilità: si collabori lealmente con la magistratura in tutti i procedimenti penali in corso e si sospendano gli indagati lungo l’intera catena di comando, fino ai massimi livelli; si trasferiscano ad altri ministeri i funzionari di polizia condannati nei processi per reati attinenti l’abuso di potere e la tortura; si introduca l’obbligo di indossare codici di riconoscimento sulle divise; si istituisca un organismo indipendente di controllo sull’operato delle forze dell’ordine, avviando contestualmente un’indagine conoscitiva a vasto raggio: l’Italia non può più farne a meno. Infine, non meno importante, si chieda scusa, ma davvero, accompagnando le scuse con atti concreti, per quanto hanno dovuto sopportare in questi anni le vittime degli abusi, i loro familiari, i cittadini tutti. *Comitato Verità e Giustizia per Genova “Inflessibili e pronti alle scuse su Stefano Cucchi, ma difendo la dignità dell’Arma” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 ottobre 2018 Il comandante generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, promette: “Prenderemo provvedimenti e faremo chiarezza su tutti gli aspetti di questa vicenda disonorevole”. “Quando tutto sarà definito attraverso gli accertamenti dell’autorità giudiziaria, e sarà fatta chiarezza su tutti gli aspetti di questa vicenda disonorevole, l’Arma prenderà i propri provvedimenti, e saprà farlo con il massimo rigore, senza remore e senza riguardi per gli eventuali colpevoli”, promette il comandante generale dei carabinieri Giovanni Nistri. La morte di Stefano Cucchi, arrivata dopo il pestaggio confessato da uno dei militari che avevano arrestato il ragazzo, è tornata a scuotere l’istituzione chiamata Benemerita, dalle fondamenta al vertice. Ed è dal vertice che ora i cittadini si attendono una reazione adeguata alla gravità di quanto è emerso. “Lo capisco - dice il generale Nistri a due giorni dal colpo di scena, ed è per questo che noi siamo al fianco della magistratura che è riuscita ad aprire questo spiraglio di luce. Per la prima volta un carabiniere ha deciso di raccontare ciò che ha visto, e questo aiuterà a chiarire i fatti e ad agire in piena trasparenza, senza guardare in faccia nessuno”. Però per nove anni il carabiniere Francesco Tedesco, che da imputato ha ora deciso di vestire i panni del “pentito” accusando i suoi colleghi, ha taciuto o raccontato bugie. E il generale sa bene che questa imbarazzante realtà mette a dura prova la fiducia verso l’istituzione che dirige. “Tuttavia siamo di fronte a un singolo episodio - spiega, i carabinieri non sono rappresentati dalle persone coinvolte nel caso Cucchi, bensì dal lavoro quotidiano che nell’ultimo anno ha portato 6 dei nostri uomini a morire in servizio, oltre che a contare 1.092 feriti. Per questo dico che l’Arma non ha perso né deve riacquistare una dignità garantita ogni giorno da tutti i carabinieri che svolgono con scrupolo e diligenza il proprio lavoro. La gravità di ciò che è accaduto non si discute, ma è un episodio che non rispecchia la normalità del modo di procedere dell’Arma”. Dignità a parte, dopo le botte sono arrivati i depistaggi e le coperture per evitare che l’accaduto venisse alla luce, consentendo che venissero processati (e infine assolti) degli innocenti. È scattato un “sistema di protezione”, come lo chiama l’avvocato Fabio Anselmo, di fronte al quale l’Arma non può non reagire, come se dovesse difendersi da se stessa. Il generale Nistri ne è consapevole e risponde: “Siamo di fronte a una patologia che non è stata affrontata subito e ha prodotto una cisti che s’è trasformata in un cancro, una metastasi. Ma è circoscritta a quel fatto. Adesso che tutto questo è emerso, oltre a individuare i responsabili siamo chiamati ad approfittare di questa situazione certamente negativa per migliorare le nostre procedure interne, e fare in modo che situazioni di questo tipo non si ripetano. O almeno che non arrivino a queste conseguenze. Io penso che i sistemi di controllo al nostro interno sostanzialmente funzionino, ma evidentemente vanno migliorati. Proprio a partire da questo caso, il comando provinciale di Roma ha istituto un servizio ispettivo interno che ha già attivato nuovi e più efficaci modi di procedere. Aspettiamo di conoscere tutta la verità su questa bruttissima storia per adeguare le nostre strutture e poterci muovere meglio in futuro. Sia sul piano della prevenzione che su quello degli accertamenti successivi”. Ma che cosa non ha funzionato nel caso Cucchi? Com’è possibile che occultamenti e manomissioni siano confinate a una piccola “cricca” di persone, senza protezioni e silenzi a più alto livello? “Credo che davvero sia necessario attendere la fine di tutti gli accertamenti per trarre le conclusioni adeguate - dice il comandante generale; questa è una vicenda che s’è snodata lungo nove anni, e bisogna verificare ogni passaggio. Anche per valutare i livelli di responsabilità nelle coperture e nelle omissioni che hanno allontanato lo svelamento della verità. Dopodiché prenderemo le misure conseguenti”. Nel frattempo c’è una famiglia - i genitori, la sorella, i nipoti di Stefano Cucchi - che attendono le scuse dell’Arma. Che Nistri offre così: “Sono pronto a farmi carico delle responsabilità della mia istituzione, garantendo di fare luce e prendere provvedimenti per ciò che mi compete in una evento complesso nei suoi molteplici aspetti. L’Arma si scusa, ed è sempre pronta a scusarsi, quando alcuni suoi componenti sbagliano e viene accertato che sono venuti meno al loro dovere”. Toscana: sciopero della fame per i diritti dei detenuti voceapuana.com, 14 ottobre 2018 Sotto la lente del garante la nuova riforma carceraria. Si è conclusa la prima fase dell’iniziativa lanciata dal garante regionale dei detenuti, Franco Corleone, per sollecitare l’attenzione sulle questioni della riforma del carcere e in particolare sul disagio psichico. Un digiuno per sensibilizzare, contribuire a salvare la riforma che ha chiuso gli Opg e offrire attenzione a chi è detenuto e ha problemi psichiatrici. “Sono molto soddisfatto per le tante espressioni di solidarietà, condivisone e apprezzamento che si sono manifestate in questi giorni. Sia da parte di cittadini che di associazioni e personalità”, dice Corleone. A sostenere l’iniziativa i consiglieri comunali di Livorno Andrea Raspanti e Giovanna Cepparello e di Firenze Stefano Di Puccio, dal cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo, a Paolo Hendel e l’associazione ‘Progetto Firenzè, al presidente della Camera penale di Livorno, Nando Bartolomei. Il garante è molto soddisfatto anche dell’interessamento manifestato dal presidente della Regione, Enrico Rossi, “che ha programmato una visita a Sollicciano proprio per superare i ritardi nell’attivazione di un’articolazione psichiatrica che non dovrà essere una sezione carceraria, ma un luogo con gestione sanitaria prevalente, se non esclusiva - spiega Corleone. In questo modo, si attuerà nei fatti la previsione che incomprensibilmente è rimasta nel cassetto”. Il garante ha annunciato che lunedì e martedì sosterrà altri due giorni di digiuno, “per mantenere viva l’attenzione su una vicenda che non può essere confinata nel silenzio. Siamo tutti in attesa - chiude Corleone - della pubblicazione dei decreti che sono sopravvissuti alla decimazione, per verificare quanto di positivo comunque vi sia”. Napoli: detenuto muore nel carcere di Secondigliano, la famiglia chiede giustizia cronachedellacampania.it, 14 ottobre 2018 È morto nel carcere di Secondigliano dovere era detenuto da due anni circa il 42 enne Ciro Oliva. Aveva problemi cardiaci e l’ennesimo colpo al cuore lo ha stroncato. La famiglia ha chiesto che si faccia luce sul suo decesso perché sostiene non sia stato curato adeguatamente nonostante la grave patologia a cui era soggetto. Ora sarà l’inchiesta a chiarire se vi siano state negligenze da parte della direzione del carcere. la morte di Oliva riapre le polemiche sulle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane e in particolare quelle napoletane. Pietro Ioia, presidente dell’associazione degli ex detenuti che da sempre si batte per migliorare la qualità della detenzione nelle carceri italiane e autore del famoso libro denuncia “Cella zero”, ha commentato sulla sua pagina Facebook: “Il detenuto Ciro Oliva è morto, cardiopatico se ne andato in punta di piedi, in silenzio, si perché nel carcere di Secondigliano. I detenuti ammalati non possono alzare la voce altrimenti vengono minacciati di essere trasferiti, basti pensare che i familiari per il colloquio si ammassano già dalle cinque del mattino, un carcere bello da fuori, barbaro di dentro”. Ciro Oliva, noto pusher del rione Conocal di Ponticelli era stato arrestato l’ultima volta nel febbraio del 2017 perché sorpreso a spacciare cocaina nella zona del Caravita a Cercola. E nell’aprile scorso insieme con altre 10 persone era stato raggiunto in carcere da una nuova ordinanza perché accusato di far parte del neonato clan D’Ambrosio nato dalle ceneri del clan De Micco che da Ponticelli aveva spostato le sue attenzioni criminali di Cercola appunto e su Sant’Anastasia. Vigevano (Pv): detenuto etiope si dà fuoco in cella, è gravissimo di Sandro Barberis La Provina Pavese, 14 ottobre 2018 “Sembrava una torcia umana”. Così alcuni agenti della polizia penitenziaria descrivono la scena che hanno vissuto l’altra notte. È accaduto quando un giovane detenuto etiope, carcerato nel penitenziario della frazione Piccolini, si è dato fuoco nella sua cella del reparto infermeria del carcere: è gravissimo al centro ustionati dell’ospedale di Milano Niguarda. Sette agenti sono finiti al pronto soccorso dell’ospedale di Vigevano intossicati dal fumo, ma non sono gravi. Il detenuto etiope, condannato per resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento, ha dato fuoco alla sua cella. Il giovane è rimasto gravemente ustionato e portato in elisoccorso al Niguarda. La sua carcerazione terminerà nel maggio 2019. Sono stati attimi di tensioni quelli vissuti all’interno del carcere di Vigevano. Tutte le sigle di polizia penitenziaria (Sappe, Osapp, Uilpa, Uspp, Cisl e Cgil) denunciano “lo stato di abbandono che vive la polizia penitenziaria costretta, senza mezzi idonei, ad affrontare aggressioni e a fronteggiare situazioni di pericolo superate solo grazie all’esperienza, al sacrificio e alla professionalità del personale. Solo la bravura degli agenti in servizi e di quelli fuori servizio accorsi hanno evitato conseguenze peggiori. Il detenuto è stato salvato in extremis”. I sette agenti di polizia penitenziaria di Vigevano intossicati dalle esalazioni del fumo sono stati visitati nella notte al pronto soccorso e poi dimessi. Ieri mattina erano di nuovo in carcere per accertamenti sull’accaduto. Brescia: carcere, l’appello della direttrice “servono mediatori culturali” di Marco Toresini Corriere della Sera, 14 ottobre 2018 Francesca Paolo Lucrezi da settembre fa il “doppio” lavoro: nell’ambito del riordino voluto dal ministero delle carceri italiane, le strutture di Brescia (Verziano e Canton Mombello) sono tornate ad un unico dirigente. Così, mentre Francesca Gioieni direttrice di Canton Mombello è finita nell’”isola felice” di Trento (carcere nuovo e ipertecnologico), alla dottoressa Lucrezi, già a capo della Casa di reclusione di via Flero è toccato la “patata bollente” della Casa circondariale “Nerio Fischione”, una struttura vetusta e obsoleta che va riconvertita. “Lavoriamo in condizioni molto difficili” ha ricordato ieri la direttrice in una delle sue prime uscite pubbliche dopo la nomina, in occasione del convegno organizzato dal Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sinappe) a Desenzano dal titolo: “Carcere e sicurezza sul territorio, quale mission per la società”. “Non ci sono solo le condizioni fatiscenti della struttura che rendono problematica la qualità della vita dei detenuti e degli agenti che vi operano, ma anche il contesto sociale che si è sviluppato all’interno del carcere”. Tensioni e rimedi culturali - L’alta percentuale di detenuti stranieri e il ricrearsi negli ambienti angusti di un penitenziario delle dinamiche che rendono spesso alcune etnie incompatibili tra loro all’interno dei quartieri cittadini sono problemi che rendono ogni giornata una sfida. “In carcere - ha osservato Lucrezi - si ripropongono faide e tensioni, che si fatica a governare. Ecco perché abbiamo bisogno di mediatori culturali, di gente capace di sanare le situazioni di crisi, di disinnescare quelle problematiche che rischiano di deflagrare in ogni momento”. Ma le carceri - è emerso dal convegno organizzato da Antonio Fellone - hanno da tempo anche un problema aggiuntivo. “Ospitiamo malati psichiatrici che dovrebbero finire nelle Rems e non dovrebbero stare in carcere - ha spiegato la direttrice. Questo è un problema grave, sul quale chiediamo alla politica di intervenire prima che succeda l’irreparabile come è accaduto recentemente (il riferimento è alla detenuta di Rebibbia che ha gettato i figli dalle scale, ndr)”. L’impegno politico - E la politica promette di lavorare per migliorare la situazione. “Sul nuovo carcere ci sono 16 milioni per iniziare il progetto, tocca a noi far ripartire l’iter. Mi chiedo perché non lo si è fatto nella precedente legislatura” ha ribadito il senatore leghista Stefano Borghesi. Palermo: il Gip “arrestate poco, mancano i giudici”. Circolare del tribunale Il Dubbio, 14 ottobre 2018 “Sono diversi anni ormai che la sezione gip del Tribunale di Palermo versa in condizioni di grave scopertura”, dichiara al Dubbio la dottoressa Giovanna Nozzetti, presidente dell’Associazione nazionale magistrati del capoluogo siciliano. Purtroppo la situazione adesso non è più gestibile ed è necessario un intervento urgente da parte del Consiglio superiore della magistratura per ripristinare la piena funzionalità dell’ufficio”, aggiunge poi Nozzetti. Che la situazione sia fuori controllo è stato lo stesso capo dei gip palermitani, Cesare Vincenti, ad attestarlo. Con una circolare diramata questa settimana ai giudici del suo ufficio, Vincenti ha invitato i colleghi a dare priorità agli “atti urgenti” e a rinviare per quanto possibile tutti gli altri. “Prioritaria - si legge nella nota la trattazione dei procedimenti con imputati sottoposti a misure cautelari o per reati di competenza della Direzione antimafia o commessi contro la Pubblica amministrazione”. Prioritari i procedimenti che riguardano reati “che hanno prodotto grave danno alle persone offese”, come pure “le proroghe delle indagini e le autorizzazioni ad effettuare intercettazioni”. I sequestri, le archiviazioni, i decreti penali, le liquidazioni o anche le richieste di misure cautelari per i reati ritenuti di minore allarme sociale, come truffe e furti, in coda dopo le urgenze. La dotazione organica della sezione gip ha dunque determinato una “discrezionalità” negli affari penali che hanno seguito rispetto a quelli che subiscono uno stop forzato. Nella pianta organica dovrebbero essere ventotto i giudici. I magistrati effettivamente in servizio sono invece diciassette. Con i trasferimenti in corso, non coperti da nuovi arrivi, stanno per scendere a breve a quindici. Ma come è possibile che un ufficio importante come questo versi da anni in condizioni di grave sotto organico? Considerando poi che da sempre la funzione del gip è fra le più ambite nel penale? Una funzione prestigiosa che consente, essendo monocratica, anche una significativa autonomia organizzativa. La risposta la fornisce sempre Nozzetti: “Quello che sta accadendo all’ufficio gip del Tribunale di Palermo è il classico cane che si morde la coda. Quando si crea una grave scopertura questa determina una sorta di timore nei magistrati: anche se il posto è importante nessuno ha voglia di andarci considerando che i carichi di lavoro non saranno gestibili. Anzi, si crea un effetto opposto: chi è nelle condizioni di andar via, appena può fa domanda”. Tutto ciò a fronte di una Procura, retta da Francesco Lo Voi, che ha oltre sessanta pm che generano una gran mole di procedimenti. Le criticità della sezione gip hanno causato negli ultimi tempi proteste e lamentele proprio da parte dell’ufficio inquirente. Dalla sezione gip di Palermo viene l’ex consigliere del Csm Piergiorgio Morosini. Fu lui a disporre il rinvio a giudizio del processo Stato- mafia. “La prossima settimana abbiamo già in programma un incontro con il presidente Vincenti e con i giudici dell’ufficio per capire cosa sia possibile fare. Sono state fatte delle applicazioni, anche con giudici provenienti dal civile. Però non è stato sufficiente. Sarà necessario procedere con applicazioni extra distretto”, conclude Nozzetti. Prima di alzare definitivamente bandiera bianca. Cagliari: il nuovo carcere di Uta “fa acqua” da tutte le parti sardegnalive.net, 14 ottobre 2018 Il sindacato Osapp, per voce di Domenico Nicotra, denuncia pubblicamente l’assurda situazione: “Casa circondariale allagata e senza luce”. “Anche il carcere di Cagliari allagato e senza luce.” A dichiararlo è il Segretario Generale Aggiunto dell’Osapp - Organizzazione sindacale autonoma Polizia Penitenziaria, Domenico Nicotra - che rende note le criticità che la recente alluvione ha causato all’interno della Casa Circondariale di Cagliari che nella serata del 10 ottobre ha visto i propri scantinati allagati e l’interno Istituto al buio per un blackout. “Per fortuna, prosegue Nicotra, le criticità non si sono acuite perché diversamente sarebbe stato interessante capire in ossequio a quale piano di evacuazione il Direttore, che comunque era presente in Istituto, avrebbe dato l’ordine e con quale personale, tra l’altro. E questo perché per quanto è dato conoscere sembrerebbe che addirittura sia stata presa in considerazione da alcuni superiori la disponibilità da parte di alcuni Poliziotti Penitenziari a offrire attività di protezione civile”. “Per fortuna, conclude il sindacalista dell’Osapp, nessun ferito si è registrato all’interno della Casa Circondariale di Cagliari ma si spera che, eventualmente, anche in futuro la dea bendata dia la sua protezione.” Augusta (Sr): al carcere di Brucoli i detenuti imparano a fare cappelli augustanews.it, 14 ottobre 2018 Determinanti sono stati gli spazi formativi messi a disposizione da don Claudio Magro della Parrocchia Sacra Famiglia di Siracusa. La San Vincenzo di Siracusa entra nelle carceri. Un laboratorio gestito da venti volontari formati dalla San Vincenzo di Siracusa è partito questa settimana all’interno del carcere di Brucoli: si chiama “la Coppola della Legalità”. I detenuti impareranno a realizzare cappelli e potranno successivamente metterli in commercio grazie alla collaborazione di alcuni negozi che hanno già dato la loro disponibilità. I volontari che tengono questo laboratorio sono stati formati dalla San Vincenzo durante un corso che si è chiamato “Fuori dalle celle” e che per tutta l’estate si è tenuto alla parrocchia della Sacra Famiglia. Tutto il progetto è stato voluto dal presidente della San Vincenzo, Emanuele La Spada, che in collaborazione con il direttore del Centro studi Pedagogicamente, Antonello Nicosia, docente esperto in trattamento pedagogico penitenziario, è stato ben accolto dalla direzione nazionale, e ha trovato parte del finanziamento da Fondazione per il Sud. Determinanti sono stati gli spazi formativi messi a disposizione da don Claudio Magro della Parrocchia Sacra Famiglia di Siracusa. “Aiutare gli altri si può - spiegano alla San Vincenzo di Siracusa - anche in uno spazio che per alcuni sembra inaccessibile come il carcere. Serve una preparazione, utile a comprendere come poter intervenire e soprattutto come poter utilizzare al meglio le proprie capacità. L’importante è l’impegno, la forza di volontà, ma soprattutto il desiderio di mettersi a disposizione degli altri”. “Il carcere è spesso dimenticato - ha detto Camillo Biondo, volontario e già presidente della San Vincenzo di Siracusa - ma al suo interno vivono e abitano persone con cui si può dialogare avvicinandosi a loro, hanno un valore e l’hanno smarrito”. Il laboratorio permanente “La coppola della legalità” vede partecipare 10 detenuti ristretti nella Casa di Reclusione di Brucoli. Grazie al direttore Antonio Gelardi, che ne ha permesso l’istituzione, i detenuti impareranno a realizzare le coppole e potranno successivamente metterle in commercio. I volontari sono stati formati nei vari aspetti: giuridico, pedagogico e psicologico. Punto di partenza l’articolo 27 della Costituzione Italiana, l’ordinamento penitenziario con tutte le sue norme sulla vita carceraria, ma soprattutto tutta la parte che richiama i diritti e la formazione. “La formazione dei volontari - spiega il dottor Nicosia - sarà continua, anche attraverso la soluzione ai problemi che probabilmente si presenteranno, ma un’attenzione speciale verrà rivolta al laboratorio che vede attori principali i detenuti e la loro formazione, il processo di rieducazione e reinserimento sociale”. La San Vincenzo de Paoli di Siracusa grazie alla sensibilità del presidente Nazionale Antonio Gianfico e alla direzione, avvierà altre attività riguardanti il microcosmo carcerario, attraverso attività formative e lavorative utili al reinserimento sociale. Bologna: alla Dozza nasce la squadra di volley delle detenute, ma manca la palestra La Repubblica, 14 ottobre 2018 Dopo un anno di allenamenti le ragazze della Dozza hanno esordito con la società sportiva Spartacus. “Il nostro sogno è giocare un campionato”. Hanno visto i campioni del loro sport fare tappa a Bologna per i mondiali. Li hanno guardati in tv, però, perché la loro squadra, per il momento, non fa trasferte. Sono le giocatrici di pallavolo del carcere della Dozza, una esperienza nata da pochi mesi che ora chiede più spazio e più libertà, almeno a livello sportivo. E soprattutto un trattamento per lo meno simile a quello dei maschi. Il primo traguardo, comunque, è già stato raggiunto, in un sabato pomeriggio di pioggia. Dopo un anno di allenamenti, le ragazze della Dozza hanno esordito il 6 ottobre, con una società sportiva, la Spartacus: un gruppo di mamme che gioca dopo cena alle scuole Irnerio. È stata la prima partita in assoluto per le 17 detenute che formano il gruppo, la primissima esperienza di questo tipo nella sezione femminile del carcere. “Una vera attività sportiva al femminile non c’è mai stata alla Dozza. Allora mi sono chiesta perché non creare una squadra di pallavolo in carcere”, racconta l’allenatrice, Valentina Finarelli, studentessa in criminologia, arrivata l’anno scorso nel carcere bolognese con un tirocinio. Da volontaria, ha trovato modo di mettere a frutto anche la sua esperienza agonistica nella pallavolo. La scommessa è aiutare le detenute a ri-socializzare attraverso lo sport, ponendo le basi per il “dopo” migliore quando usciranno. Il progetto, che si chiama “Mani e fuori”, è partito nel settembre 2017 ed è stato capace di coinvolgere una ventina delle circa 80 detenute della sezione femminile. Il problema si è posto alle prime giornate fredde: l’unico spazio a disposizione per le ragazze è lo spiazzo all’aperto dove le detenute trascorrono l’ora d’aria. “Noi una palestra non ce l’abbiamo. O meglio, c’è uno spazio, piccolissimo. Impossibile giocare lì”. Decisamente complicato anche, per le rigide regole carcerarie, sfruttare la palestra dei maschi, che avrebbe dimensioni adeguate. Ma il sogno di giocare una partita è stato più forte. Attraverso la Uisp sono state contattate altre squadre femminili, sono comparse le divise (lo sponsor è un negozio di abbigliamento di Borgo Panigale) e sono stati donati palloni. La seconda partita verrà disputata il 20 ottobre. Milano: micro-case e centri diurni, nuova strategia con i clochard di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 14 ottobre 2018 Ci sono sempre. E sono sempre di più, “perché aumentano i giovani e i ragazzi stranieri”. I senzatetto di Milano. Settecento. Di giorno nascondono i cartoni in giro per la città, di sera li trasformano in letti. Pronto il piano di Palazzo Marino. Una tenda azzurra, spaziosa. “Quasi di lusso. Sono in campeggio libero”. Triste ironia di un clochard che risuona nel buio della notte, un po’ stonata. Mario è lì dentro, con due cani. Uno bianco e l’altro nero: “Noi tre tifiamo Juve”. È per loro che non va in dormitorio: “Lì non possono stare con me, ma io non li lascio da soli al freddo”. Con l’autunno tornano le fila di clochard. Irriducibili della strada. Di giorno nascondono i cartoni in giro, di sera li tirano fuori e si sistemano. Lungo le vetrine Brooks Brothers, in via San Pietro all’Orto, ce ne sono almeno una dozzina, a riposare. In fila, uno dopo l’altro. Mario ha posizionato un separé di cartoni, “l’illusione di un po’ di privacy”. Una seconda tenda di fianco alla sua, e un’altra ancora. “Siamo gli stessi dell’anno scorso più tanti ragazzi stranieri”, osserva lui, che di tutto questo piccolo, ordinato “accampamento” pare il regista. Ritira dal pavimento le sue cose - un paio di scarpe e la ciotola per gli animali - e fa per chiudere la lampo della tenda. Dentro si intravede un bastone. “Perché? Vengono di notte e cercano di rubarmi tutto anche se non ho niente”. Immaginazione, incubi o più probabilmente solo paura, il bastone ce l’ha. Eppure la solidarietà di strada si vede, prevale. Due giovani aiutano un anziano a sistemare i cartoni e la coperta, lui ringrazia. È buio pesto, intorno. In corso Vittorio Emanuele sono pochi: “Con l’ordinanza del sindaco, da qualche mese vengono i vigili e ci dicono di spostarci, a volte bagnano con l’acqua il pavimento e allora ci mettiamo negli angoli meno visibili - nicchia Carlo, berretto grigio e giacca arancione -. Ora scusate, vado alla toilette”. Prende lo zaino e gira dietro via Ugo Foscolo, chissà dove. Baluardo di una dignità che resta, nonostante tutto. Sara, una delle poche donne, è sdraiata lungo uno specchio che corre a terra, sotto la vetrina di un negozio. Quando sente qualcuno passare si alza di scatto. “Dormo qui perché con la mia immagine riflessa pare di essere in due”. Si racconta in cinque minuti e non scivola nel pietismo, mai. Qualcuno scatta con il telefonino la fotografia di un palazzo, incurante di chi dorme ai suoi piedi. Intorno alla Mela di Pistoletto, davanti alla Stazione Centrale, è un’infilata di sacchi a pelo, come in via Vittor Pisani e in piazza Ventiquattro Maggio, accanto alla movida della Darsena. “C’è un aumento di giovani, molti stranieri”, osserva Paola Arzenati della Fondazione Isacchi Samaja. Conferma Magda Violi, presidente di Ronda della Carità: “Nel periodo caldo si disperdono, molti vanno fuori città. Tutti insieme ritornano, e si posizionano sempre negli stessi luoghi”. Si accoda Luca Sechi di Mia-Milano in azione: “Con loro, gli irriducibili, bisogna avere il massimo rispetto - raccomanda. Chi vuole restare sulla strada molto spesso ha motivazioni legittime. Abbiamo tutti il dovere di ascoltarle e risolverle: c’è chi non vuole separarsi dal proprio animale e chi si sente in difficoltà per l’orientamento sessuale o per altre scelte di vita”. Il Comune è in allerta e si prepara per tempo: “Abbiamo avviato una riorganizzazione del sistema - spiega l’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino. Intanto, le macrostrutture che oggi lavorano solo di notte terranno aperto anche di giorno”, annuncia. Obiettivo: tenere lontane dalla strada quante più persone possibile. In più, Palazzo Marino ha stanziato sette milioni aggiuntivi per nuove forme di accoglienza che vanno incontro alle delicate esigenze dei senzatetto più fragili. Dal prossimo mese saranno a disposizione 300 posti letto in più, strutturali, tutto l’anno. Si aggiungono ai mille già a disposizione e agli ulteriori 1.400 che si liberano durante il piano antifreddo). I bandi sono chiusi, vanno solo assegnati. Debutteranno poi tre o quattro microstrutture da 15-20 posti, a metà tra dormitori e alloggi. “Uno in via Giorgi ad esempio: ex Sprar ora vuoto, tornerà disponibile per i clochard”, dice Majorino. Per chi si rifiuta di andare nei centri, 50 posti in alloggio. E ancora 80 in strutture dedicate a chi ha disagi mentali o dipendenze. In tutto, 2700 letti durante il piano antifreddo, uno sforzo già enorme, che si aggiunge ai 3.500 nei centri dedicati ai migranti. Secondo le stime, tra clochard e profughi che rifiutano l’accoglienza resterebbero ancora per strada settecento persone. Migranti e dialogo con l’Europa, Conte in Africa batte un colpo di Raffaella Scuderi La Repubblica, 14 ottobre 2018 Italia primo paese europeo a celebrare la pace tra Etiopia ed Eritrea. Con prove di collaborazione su gestione flussi. A novembre tocca alla Farnesina. Piovono critiche e abbondano elogi. Si parla di inconsistenza e di visita epocale e coraggiosa. Il viaggio del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, in Etiopia ed Eritrea non mette d’accordo nessuno. Comprensibile, dopo vent’anni di silenzio in questo pezzo strategico del continente. Tutti alla ricerca di risposte concrete in un momento delicato in cui è stata siglata una pace storica, tre mesi fa, che ha solo bisogno di tempo, controllo, sostegno e lavoro comune. Il dato indiscutibile è che siamo stati noi italiani, rappresentati dal premier, a recarci in loco per primi a celebrare la riconciliazione tra i due Paesi del Corno d’Africa. Conte è arrivato mercoledì per una due giorni ad Addis Abeba dove ha incontrato il premier etiopico, Abiy Ahmed, in carica dal 2 aprile e già noto in tutto il mondo per le riforme attuate in soli sei mesi. Venerdì è volato per una toccata e fuga di quattro ore ad Asmara, dove si è intrattenuto in un bilaterale con il presidente eritreo Isaias Aferwerki. Le questioni sul tavolo in entrambi i Paesi cugini, unici al mondo a ospitare due sedi della scuola statale italiana, sono stati: la riconciliazione, la cooperazione e i flussi migratori. Il gesto simbolico italiano ha provocato la standing ovation delle centinaia di persone presenti giovedì sera alla cena di rappresentanza al palazzo presidenziale di Addis Abeba. “Sono davvero felice di essere qui come primo leader europeo a celebrare la pace - ha detto Conte - Mi farò latore presso l’Ue degli sforzi intrapresi dal coraggioso leader etiopico, per portare avanti gli accordi di pace, di cui l’Italia vuole essere la principale sostenitrice. Intendiamo concentrare i nostri sforzi soprattutto sul settore agro-industriale”. Conte ha lodato l’audacia del premier Abiy: “Ora capisco perché in tutto il mondo viene celebrata la Abiymania”. Il suo discorso si è concluso con una breve frase in lingua amarica, con cui ha invitato Abiy a visitare l’Italia nel 2019. Il premier etiopico ha introdotto la serata: “I nostri Paesi hanno un lungo trascorso storico di rapporti fatti di rispetto e comprensione. Noi abbiamo lavorato insieme per lo sviluppo di questa regione. Credo fermamente nel ruolo cruciale che l’Italia può avere nel sostenere questo processo di pace all’interno dell’Ue”. La conferenza stampa prevista è saltata. Non ha aiutato la situazione delicata di questo ultimo mese nella capitale etiopica. Solo due giorni fa girava sui social la notizia di un colpo di Stato militare. Fake. Ad Asmara la tappa è stata veloce, con un po’ di delusione per la mancata visita della scuola italiana pronta ad accogliere il premier con striscioni e inni di gioia, ma i tempi erano strettissimi. Nel giorno dell’incontro tra i due leader, l’Eritrea, con votazione a larga maggioranza, è stata accettata come membro del Consiglio Onu sui diritti umani. Scelta discutibile: l’Eritrea non ha Costituzione, nega le libertà civili, sopprime quella d’espressione, le elezioni politiche che avrebbero dovuto tenersi nel 2001 non sono mai avvenute e il servizio militare è obbligatorio per tutti gli uomini e le donne dai 17 anni in poi, per poi protrarsi sine die sotto forma di servizio civile. Per questo scappano in molti. Comanda Isaias dal 1993, giorno della sua indipendenza dall’Etiopia. La pace all’interno dell’Eritrea non è ancora arrivata. Tutto il mondo si aspetta che ora Aferwerki intraprenda un percorso di cambiamento, inevitabile ma non scontato. Non c’è niente di concreto nella visita di Conte, è vero. Non è stato siglato alcun accordo. L’obiezione dei critici può essere giusta, ma avrà più peso e motivo tra qualche mese. Quando, a metà novembre, il viceministro degli Esteri, Emanuela Del Re, si recherà ad Addis Abeba e Asmara per dieci giorni, in compagnia di imprenditori italiani: un follow up che genera aspettative, attenzione e ottimismo. Stop al modello Riace, il Viminale ordina di trasferire i migranti di Silvio Messinetti Il Manifesto, 14 ottobre 2018 Accoglienza. Saranno cacciate oltre 300 persone, integrate nel territorio dal 2004, è la fine del progetto Sprar. Con la circolare si impone al Comune calabrese di rendicontare tutte le spese fino alla chiusura. Un altro duro colpo dopo l’arresto del sindaco Mimmo Lucano. Nella comunicazione di 21 pagine inviata dal Viminale al comune di Riace, e firmata dalla direzione centrale per i servizi civili per l’immigrazione e l’asilo, c’è la chiusura del modello d’accoglienza e la deportazione degli oltre 300 migranti integrati nel territorio dal 2004. La paranoia ossessiva del ministro Salvini trova così sfogo e soddisfazione nel freddo linguaggio burocratico con cui si dispone “il trasferimento/uscita degli ospiti in accoglienza” e si ordina “a codesto comune di rendicontare le spese sostenute dovendosi procedere alla definizione degli aspetti contabili dare/avere degli ospiti in uscita entro 60 giorni dal trasferimento dell’ultimo beneficiario”. Senza ombra di equivoco si tratta dello smantellamento di un sistema di integrazione multietnica ormai celebrato in tutto il mondo ma indigesto al ministro degli Interni che già aveva plaudito alla decisone del Gip di Locri di disporre gli arresti domiciliari per il sindaco della cittadina jonica, Mimmo Lucano, accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e affidamento fraudolento del servizio nettezza urbana. L’udienza del riesame è prevista all’inizio della prossima settimana. La comunicazione, indirizzata al comune, alla prefettura di Reggio Calabria e al servizio centrale Sprar, arriva a una settimana esatta dalla straordinaria manifestazione popolare di Riace conclusa sotto la prigione domiciliare del sindaco. Sono freddi calcoli burocratici quelli del Viminale che con un colpo di penna sbianchetta 15 anni di umanità e solidarietà sociale. Si accusa il comune di “mancato aggiornamento della Banca dati gestita dal Servizio centrale”, “mancata rispondenza tra i servizi descritti nella domanda di contributo e quelli effettivamente erogati e/o mancata applicazione di quanto previsto dalle linee guida anche in termini di standard qualitativi e quantitativi”, “erogazione dei servizi finalizzati dal Fondo a favore di soggetti diversi da quelli ammessi all’accoglienza”. E soprattutto si contesta “la mancata rendicontazione delle spese”. Un totale di 34 punti di “penalità” in quella grottesca classifica degli Sprar più o meno virtuosi, che determineranno “la revoca dei benefici accordati”, mentre per il periodo antecedente alla notifica dell’atto “si procederà con separato provvedimento per la definizione dei rapporti contabili e per l’eventuale recupero di contributi già erogati per la cui determinazione di dovrà attendere la definizione dei procedimenti in corso”. Il riferimento è al procedimento di natura penale ma anche a quello di carattere contabile su cui la procura di Locri ha annunciato la trasmissione degli atti alla Corte dei Conti. Il Comune potrà ora ricorrere al Tar contro il provvedimento. “Martedì daremo mandato agli avvocati Gianfranco Schiavone e Lorenzo Trucco dell’Asgi per presentarlo” spiega al manifesto il nuovo sindaco di Riace Giuseppe Gervasi, che ha assunto le funzioni dopo la sospensione coatta di Lucano. “Da parte nostra c’è la consapevolezza che i servizi sono stati sempre erogati come del resto era già scritto nero su bianco nella relazione inviata dalla prefettura di Reggio al Viminale. Le nostre controdeduzioni evidentemente non sono state recepite ma confidiamo in un giudice terzo. Errori in buona fede ne sono stati commessi ma chi di noi non fa errori di calcolo. Di sicuro ciò che fa rabbrividire è la contestualità di questa comunicazione: prima l’arresto e poi questa nota. È una manovra a tenaglia e una dichiarazione di guerra volte ad intimidirci. Ma non ci fermeranno”. Di certo non si ferma la protesta. Oggi a Riace manifestazione di Rifondazione Comunista con il segretario nazionale Maurizio Acerbo mentre sabato prossimo è l’Anpi a chiamare alla mobilitazione di piazza con una manifestazione nazionale alla presenza della presidente Carla Nespolo. Perché Riace e il suo modello non si arrestano. La rabbia del sindaco di Riace ai domiciliari: “ci distruggono, così finisce un sogno” di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 14 ottobre 2018 Mimmo Lucano è indagato anche per immigrazione clandestina. “La mia priorità è aiutare la gente, non occuparmi di rendicontazione”. Il lungo sfogo al telefono con Laura Boldrini, l’ex presidente della Camera che è dal 2013 cittadina onoraria di Riace. “Tanti ragazzi africani in queste ore stanno venendo qui sotto casa mia a dirmi tutti la stessa cosa: che non vogliono andar via da Riace”. Mimmo Lucano, il sindaco di Riace, agli arresti domiciliari da una settimana, sta cenando nella casa di via Milano con la figlia Martina, 29 anni, venuta a trovarlo da Roma. Passa a salutarlo il fratello minore Sandro ed è con lui che si sfoga inizialmente: “Così finisce il sogno e finisce il paese. Chiuderanno in poco tempo il bar, la farmacia, il supermercato. Tra quattro mesi Riace sarà un borgo fantasma, andranno via tutti, italiani e immigrati insieme. È un colpo durissimo a me, ma è soprattutto un colpo alla Calabria”. Poi lo chiama al telefono l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, oggi deputata di Leu. I due si conoscono da almeno 20 anni, da quando la lei era portavoce dell’Unhcr: nell’estate del 2013, da presidente della Camera, ricevette a Riace la cittadinanza onoraria. “Lo sai, Laura? Io in queste ore sto pensando soprattutto a Becky Moses, che viveva con noi a Riace ma poi se ne dovette andare all’inizio di quest’anno, perché le venne negato l’asilo. Tre settimane dopo, il 27 gennaio, è morta carbonizzata nel rogo della baraccopoli di San Ferdinando, a Rosarno, dove aveva trovato una dimora di fortuna. Era una ragazza nigeriana, aveva solo 26 anni...”. Per il sindaco di Riace è stata un’altra giornata tremenda: la circolare del Viminale ha disposto il trasferimento dei 100 rifugiati ospiti del suo comune, esprimendo dubbi sulla rendicontazione delle spese per il progetto Sprar. Lucano si sfoga con la Boldrini: “Ma insomma! Noi dobbiamo diventare dei professionisti della rendicontazione o dobbiamo concentrarci piuttosto su questa gente che ha bisogno d’integrazione? Laura, credimi, io non ho mai fatto niente di male, non ho mai speculato sull’accoglienza! Con l’avvocato Lorenzo Trucco sto già preparando il ricorso al Tar. Contro di noi c’è un vero e proprio tiro incrociato, ci vogliono distruggere”. Tra due giorni, comparirà davanti al Tribunale del Riesame di Reggio Calabria per l’istanza di remissione in libertà: “Con i giudici chiarirò tutto e spero che mi ridiano la libertà, perché qui c’è tanto ancora da fare. Ma come si può dubitare dei nostri conti? Io ho dedicato tutta la mia vita a questo. Con i 35 euro che ci davano per ogni persona, abbiamo creato a Riace un villaggio globale: frantoio, fattoria didattica, laboratori d’artigianato, ambulatorio medico. Abbiamo dato lavoro a stranieri e italiani, 80 nostri concittadini hanno trovato un lavoro col progetto Sprar. Mi chiedo allora come sia possibile pensare di distruggere in questo modo il “modello Riace”, descritto da tanti artisti e intellettuali, penso a Wim Wenders? E poi, lo ricordo ai cittadini, i pagamenti dello Stato si sono interrotti nel luglio del 2017: da allora, andiamo avanti solo grazie ai soldi raccolti dalla rete dei Comuni solidali. Martedì, se mi ridaranno la libertà, devo subito trovare un modo per assicurare un futuro ai miei ragazzi. Devono tutti restare a Riace”. Droghe. Il mare, la “grande strada” dei narco-trafficanti di Piero Innocenti* La Repubblica, 14 ottobre 2018 È in mare che occorre concentrare le attività di contrasto al narcotraffico, perché è proprio “dagli specchi d’acqua prospicienti le coste, in acque internazionali o all’interno del mare territoriale, e lungo la frontiera marittima..” che viene intercettata la maggior parte degli stupefacenti sequestrati in Italia e in altri paesi dell’UE. Basti pensare alle oltre 90 tonnellate di marijuana (record assoluto) sequestrate nel corso del 2017 dalle forze di polizia italiane e dalle dogane (cfr. la relazione annuale della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga-Dcsa, pubblicata il 6 luglio scorso) nel contesto di molteplici operazioni antidroga che hanno interessato, in molti casi, le coste pugliesi ed i porti di Bari, Brindisi, Foggia, Lecce, Bitonto/Barletta. È da anni, d’altronde, che la criminalità organizzata pugliese, in combutta con i sodalizi albanesi (che hanno una diffusa rete di trafficanti in gran parte del nostro paese) è la “padrona” incontrastata nel traffico della marijuana proveniente dalla regione balcanica (va anche detto che la Puglia, con i sequestri di 34.941,96kg di droga e 12.002 di piante di cannabis è la prima regione). Anche in questi primi cinque mesi del 2018 i porti italiani (ed alcuni tratti di coste)sono stati l’approdo di molti carichi di stupefacenti occultati a bordo di navi o trasportati su gommoni, sei si considerano i dati (non consolidati forniti dalla DCSA) relativi a Brindisi con circa 1,4ton di marijuana, a Lecce con 2ton di marijuana, a Bari e a Foggia, rispettivamente, con 250 e 150 kg sempre di “maria”. E se, in questo scorcio di 2018, nel porto di Gioia Tauro, approdo particolarmente privilegiato dalla ‘ndrangheta (la metà circa delle 4ton sequestrate in tutto il territorio nazionale nel 2017 è stata effettuata nel porto calabrese) si sono sequestrati soltanto una settantina di chilogrammi di cocaina che è la “merce” che più interessa i “calabresi”, nel porto di Livorno se ne sono intercettati 438kg nel marzo scorso: ulteriore campanello di allarme dopo i 262 kg del 2016 e i 165kg del 2017. Anche nel porto di Genova, i 297kg di cocaina (oltre ai 635kg di hashish) sequestrati inducono a ritenere condivisibili le considerazioni espresse dagli analisti della DCSA (cfr. la relazione annuale del 2016 della Direzione Centrale Servizi Antidroga appunto) che, tenuto conto che i più consistenti sequestri di cocaina, oltre l’80% del totale frontaliero, avvengono nelle aree della frontiera marittima “ ricollegano il fenomeno “…ai cambi di strategia da parte delle organizzazioni internazionali che, sfruttando lo sviluppo e/o il potenziamento del sistema portuale mediterraneo, nonché possibili nuovi accordi commerciali con Paesi che notoriamente commercializzano la cocaina per conto dei Paesi produttori, hanno aumentato il volume di traffico di questa sostanza sulle rotte marittime (..) privilegiando, talvolta, l’introduzione dello stupefacente direttamente sul territorio nazionale”. Cambio di strategia attuato anche da parte delle forze di contrasto italiane con un impiego sempre più adeguato del dispositivo aeronavale della Guardia di Finanza nel contesto operativo internazionale di Maoc-N, Maritime Analysis and Operations Centre Narcotics (istituito nel settembre del 2007, ha coordinato il sequestro di oltre 136ton di cocaina e 390ton di cannabis per un valore di mercato stimato di circa 13 miliardi di euro), che ha sede nella capitale del Portogallo, paese i cui porti sono pure oggetto di particolare attenzione dei narcotrafficanti. Giusto un anno fa, fu la polizia portoghese, in collaborazione con quella spagnola, a sequestrare ben 276kg di cocaina proveniente dalla Colombia, a bordo di un panfilo battente bandiera danese e diretto a Portimaio (città accogliente anche per esponenti della ‘ndrangheta e della camorra) uno dei porti (tra cui quelli di Aveiro, Figueira da Foz, Mathosinhos, Viana do Castelo, Leixoes e lo scalo marittimo di Porto) verso i quali si indirizzano i carghi di cocaina dall’America Latina. Ed era diretto in uno di questi anche il carico di 126kg di cocaina trovati, nel 2012, a bordo di una nave proveniente dal Brasile: operazione antidroga che portò nelle carceri portoghesi Gabriele Bauce, imprenditore italiano nel settore della concia delle pelli. Né si può dimenticare uno dei più ingenti sequestri di cocaina, 3,5ton a bordo di un’imbarcazione diretta in un porto spagnolo, avvenuto nel 2009, al largo delle coste galiziane (la mafia galiziana è di casa in Portogallo) nel contesto della operazione Albatros, condotta dalla polizia italiana e spagnola. I rapporti di collaborazione delle forze di polizia spagnole e italiane sono di buon livello e dal 2013 è operativo, insieme alla Francia, un apposito organismo di coordinamento per la lotta antidroga nel Mediterraneo (CeClad-M). Con la Spagna, oltretutto, è vigente, sin dal maggio del 1994, un Trattato per la repressione in mare del traffico illecito di stupefacenti. Tra i sequestri più rilevanti va segnalato quello di 500kg di cocaina (operazione Perita) trasportata dall’imbarcazione Mungo, battente bandiera della Tanzania e diretta in un porto italiano. La droga era stata confezionata in pacchi di 50kg ciascuno provvisti di giubbotto salvagente e dispositivi riflettenti in grado, cioè, di essere localizzati nel caso di eventuali recuperi in mare. Nel 2014, poi, con l’operazione Ki-Cain, che portò al sequestro di ben 229kg di cocaina, fu smantellato, per la prima volta in Spagna,un laboratorio per la raffinazione della cocaina. Sempre a quell’anno risale l’operazione “Scugnizza”, con il sequestro di 680kg di cocaina, destinati alla camorra, a bordo di un’imbarcazione nel porto di Aguilas. Degne di nota : l’operazione “Pinocchio” con 217kg di cocaina bloccati nel porto di Valencia e destinati anche questi al mercato italiano e l’operazione “Santa Fe” con 900kg di cocaina stipata nel veliero Pandora, diretto in un porto italiano e riconducibile ad una organizzazione di narcotrafficanti con a capo Femia Antonio e Fuda Nicodemo. Più recentemente, nell’ottobre del 2015, l’operazione “Outlet” della polizia di stato di Milano, conclusasi con una cinquantina di arresti, tra cui persone contigue alla ‘ndrangheta, per traffico di cocaina, , scaricata nel porto di Malaga e trasportata in Italia a bordo di autovetture o autocarri. Anche il porto di Algeciras continua ad essere destinazione di consistenti carichi di stupefacenti, come dimostrano i ripetuti sequestri e, tra questi, quello particolarmente ingente di 2.515kg di hashish occultati all’interno di un container carico di frutta proveniente dal Sud America. Da indagini di polizia giudiziaria è emerso pure che i trafficanti di hashish privilegiano il trasporto di carichi sempre più consistenti via mare, poiché le tradizionali rotte terrestri sono diventate sempre più insicure per i conflitti armati che continuano a caratterizzare la regione del Magreb e del Sahel. Questo spiegherebbe anche il traffico di molti pescherecci (battenti bandiera egiziana, moldava, delle isole Comores, ,della Sierra Leone e della Tanzania), in alcuni casi di navi anche di oltre 40 metri, in movimento continuo lungo le coste egiziane e libiche, per stoccare lo stupefacente in porti sicuri per il successivo trasferimento verso quelli europei. E tra quelli europei, un posto di primo piano per i narcotrafficanti, occupa quello di Rotterdam, il più grande d’Europa, e quello di Anversa, due straordinarie porte di ingresso delle droghe in tutta l’UE. È in quest’ultimo porto, in particolare, che sono stati sequestrati gran parte dei 30.925kg di cocaina sul totale di 70.883kg, intercettati in ambito UE, nel 2016 (cfr. Relazione europea sulla droga-Tendenze e sviluppi, a cura dell’Emcdda, 7 giugno 2018). E nei porti spagnoli sono state bloccate buona parte dei 15.629 kg di polvere bianca mentre in quelli inglesi è stata sequestrata un 80% circa dei 5.697 kg di cocaina. Nel 2015, sempre secondo l’attendibile relazione dell’Emcdda (pubblicata nel giugno 2017), sul totale di 69.427kg di cocaina sequestrata in ambito UE, oltre l’80% era stata intercettata nei porti spagnoli (21.621kg), in quelli belgi (17.487), francesi (10.869kg) e portoghesi (6.029). I porti, dunque, sono oggetto di particolare attenzione, vigilanza e controllo da parte delle organizzazioni criminali dedite, in particolare, al narcotraffico che, talvolta, preferiscono per meglio svolgere tali attività, insediarsi in prossimità degli scali marittimi, come è emerso, per esempio, in indagini su cellule della criminalità serba, operative in prossimità di importanti porti come quelli di Genova, La Spezia, Livorno e Venezia: le basi ideali per lo stoccaggio e la distribuzione della cocaina che giunge direttamente nella regione balcanica dove, negli anni, si sono consolidate basi operative in Croazia, Montenegro, Kosovo, Bulgaria e Albania. *Dirigente generale della Pubblica Sicurezza (a riposo), è stato questore di Teramo, Piacenza e Bolzano ed ha prestato servizio alla Direzione Centrale Servizi Antidroga Stati Uniti. Stretta sugli ingressi, le carceri private si riempiono di immigrati di Francesco Semprini La Stampa, 14 ottobre 2018 Nelle strutture rinchiuso il 73% degli illegali tra cui 12.800 bambini. Pressing per separare i figli dai genitori. Melania Trump: inaccettabile. Prigioni private per gli immigrati illegali. Alle prese con le difficoltà del sistema penitenziario e dinanzi alla stretta dell’amministrazione Trump sugli ingressi illegali, il governo americano ricorre in maniera sempre più ampia a strutture detentive gestite da operatori privati. Strutture da incubo in alcuni casi, denuncia il “New York Times”, come quella di Adelanto, circa cento chilometri a Nordest di Los Angeles, gestita dal gruppo Geo, dove è stato recluso Josue Vladimir Cortez Diaz, 26 enne di El Salvador minacciato di morte nel suo Paese perché omosessuale. “Le condizioni erano pessime - racconta, non interessa a nessuno se sei ammalato o se il cibo è disgustoso”, i secondini picchiavano e usavano spray urticante. Diaz e i suoi compagni hanno potuto solo dar vita a uno sciopero della fame. Lo scorso novembre al cittadino salvadoregno è stato concesso l’asilo, ed ora è in causa con Geo e le autorità americane per violazione dei diritti umani. Pablo E. Paez, portavoce della società, definisce le accuse “prive di ogni fondamento” e le autorità federali difendono l’operato del personale carcerario, asserendo che sia sempre stato in linea con i protocolli fissati dalle leggi americane. Le priorità - La genesi di queste strutture risale ai primi anni Ottanta, quando operatori privati come Wackenhut, CoreCivic, Corrections Corporation of America o Management & Training Corporation offrivano centri e professionalità gestionali alle autorità alle prese con la saturazione delle carceri statali o federali. Oggi ospitano solo il 9% della popolazione carceraria, ma per la stragrande maggioranza vi finiscono immigrati illegali, il 73% di quelli complessivamente reclusi. “Abbiamo creato questa partnership con le strutture private per rendere le procedure più rapide, efficaci ed economiche - racconta Alonzo Peria, ex numero due di Immigration and Customs Enforcement. La priorità non è stata di assicurare standard elevati e spesso i controlli sono lacunosi”. La vicenda desta molte preoccupazioni, specie perché come riportava il “New York Times” a settembre ci sono stati 12.800 bambini migranti in custodia nelle “prigioni contractor”, cinque volte di più del 2017. E perché i falchi della Casa Bianca starebbero spingendo di nuovo su piani improntati alle separazioni tra genitori e figli al confine del Messico, scongiurate la scorsa primavera. La strategia sarebbe di fermare il crescente numero di famiglie che tentano di entrare illegalmente negli Usa, salito del 38% in agosto ed ora a livelli record. La “scelta binaria” Un’opzione, denominata “scelta binaria”, è di tenere insieme le famiglie che cercano asilo per 20 giorni e poi dare ai genitori la scelta tra stare nei centri detentivi con i loro figli mentre il loro caso viene esaminato, o consentire che i bimbi siano portati in altri centri dove parenti o altre persone possano chiederne l’affido. Un’ipotesi orribile secondo Melania Trump, la quale in un’intervista ad Abc ha detto di aver reagito con indignazione alla “tolleranza zero” dell’amministrazione contro gli immigrati illegali che la scorsa primavera portò alla separazione di 2.500 minori dai loro genitori al confine col Messico, inducendola ad una visita a sorpresa. “Per me era inaccettabile vedere bambini e famiglie separate” ha detto la First Lady, che ne parlò subito a Donald: “Gli dissi che ritenevo fosse inaccettabile, e lui pensò la stessa cosa”. Quando arriverà in Siria l’ora della resa dei conti di Ian Bremmer Corriere della Sera, 14 ottobre 2018 L’assalto finale delle forze di Assad contro Idlib, per annientare ciò che resta dell’opposizione, provocherà grandi ripercussioni negli interessi di tutte le parti in causa. Per il momento, nulla di nuovo nell’ultima roccaforte dei ribelli in Siria. Il governo turco ha raggiunto un accordo che posticipa il giorno dell’apocalisse, quando l’esercito di Bashar al-Assad, con l’appoggio della Russia, sferrerà l’assalto finale contro la provincia di Idlib per annientare quel che resta dell’opposizione. Questa pausa è una buona notizia per i 2,9 milioni di uomini, donne e bambini rinchiusi in una trappola pericolosa, ma non c’è garanzia che la tregua duri. Questo dipenderà dai vari gruppi ribelli, che tutti assieme contano decine di migliaia di combattenti stipati a Idlib, se saranno disposti a deporre le armi o vorranno battersi fino all’ultimo. Se e quando inizierà l’attacco, sarà l’ultima grande battaglia della guerra civile siriana. La piena ricostruzione potrà cominciare solo quando finiranno i combattimenti, ma questo conflitto ha già massacrato o costretto alla fuga la metà della popolazione che viveva in questo Paese nel 2011, infliggendo terribili traumi psicologici sia su quanti sono fuggiti come su coloro che sono rimasti. Il presidente siriano Assad farà il possibile per evitare il bagno di sangue. Le accuse che gli sono state mosse per l’utilizzo di armi chimiche, vietate dai regolamenti internazionali, anche contro la popolazione civile, hanno già inflitto un gravissimo colpo alla sua credibilità. Ma il presidente punta anche a ristabilire il controllo sul suo Paese e ci sono validi motivi di preoccupazione nel presupporre che la sua pazienza con i ribelli stia per finire. Di parti in causa qui non c’è solo lui, tutt’altro. Questo conflitto ha spalancato la Siria a una lunga serie di attori ed osservatori esterni che ne temono le ripercussioni per i loro interessi. Per capire questa guerra e il futuro del Paese, è importante esaminarlo da più punti di vista. L’Iran è il principale alleato regionale di Assad. Il suo governo, alla guida di un Paese circondato da confinanti arabi ostili e sotto dure pressioni economiche, che vanno avanti da tempo, da parte di Donald Trump, ha disperatamente bisogno che Assad resti saldamente al potere. Certo, l’Iran vuol vedere la sconfitta dei gruppi islamisti, delle milizie ribelli e degli altri nemici di Assad, ma i suoi leader temono seriamente che la loro influenza sul futuro della Siria sarà scalzata dall’altro fido alleato di Assad, la Russia. Il presidente russo Vladimir Putin è intenzionato ad allargare il raggio di influenza del suo Paese in Medio Oriente, sia per rafforzare il prestigio della Russia sullo scenario mondiale, sia per garantire alla sua marina militare l’accesso al Mediterraneo. Ma Putin è anche consapevole del danno considerevole che una catastrofe umanitaria a Idlib infliggerebbe ai suoi interessi. Egli vuole evitare a tutti i costi una battaglia sanguinosa che gli alienerebbe le simpatie europee e renderebbe più difficile raccogliere fondi per la ricostruzione della Siria: come Assad e l’Iran, anche lui è pronto a dichiarare vittoria e concludere questa guerra. Al di fuori dei confini siriani, non c’è nessuno più determinato del presidente turco Recep Tayyip Erdogan a evitare uno scontro totale a Idlib. La Turchia già ospita circa 3,5 milioni di profughi siriani in tendopoli improvvisate, una soluzione non più sostenibile. Un assalto in piena regola contro Idlib da parte del governo siriano scatenerebbe un altro tsunami di civili disperati, in fuga verso i confini turchi. L’economia turca ha già abbastanza problemi senza dover sobbarcarsi l’ennesima ondata di rifugiati che sicuramente si abbatterebbe sul suo territorio. I leader europei osservano la situazione con estrema attenzione, specie quelli che già ospitano un gran numero di migranti provenienti dalla Siria. Qualunque sia la loro opinione sulla brutalità di Assad, sanno bene che la ricostruzione non potrà cominciare finché l’uomo forte non avrà ristabilito il suo controllo su tutto il Paese, e i siriani ospitati in Europa che avessero intenzione di rientrare in patria non lo faranno fintanto che mancheranno le condizioni fondamentali di sicurezza. L’amministrazione Trump terrà gli occhi puntati sulla Siria per assicurarsi che Assad non faccia nuovamente ricorso alle armi chimiche. Washington ha già emanato avvertimenti pesanti che valicare questa linea provocherà rappresaglie contro l’esercito di Assad, stavolta con maggior durezza. Infine, le altre parti in causa sono rappresentate dalle Nazioni Unite e svariate agenzie umanitarie, intenzionate a prestare aiuto ai civili intrappolati a Idlib. Esse sperano nella creazione di un corridoio di evacuazione che consenta al maggior numero possibile di civili di spostarsi verso zone sicure prima dell’inizio dei combattimenti. È questa la posta in gioco, mentre a Idlib si prolunga la situazione di stallo. *Traduzione di Rita Baldassarre Sudafrica. Città del Capo è ancora un posto violento ilpost.it, 14 ottobre 2018 È una delle 15 città più pericolose al mondo e le cose peggiorano, mentre nel resto del Sudafrica, dalla fine dell’apartheid, la violenza è molto diminuita. Città del Capo è conosciuta come una delle città più belle del Sudafrica, per il suo clima mediterraneo e le famose spiagge oceaniche, ma è anche la più violenta. A qualche minuto di macchina dal centro, la cui fondazione risale all’arrivo degli olandesi nel diciassettesimo secolo, iniziano le cosiddette Cape Flats - chiamate comunemente Flats - un’intricata serie di quartieri popolari e baraccopoli dove a inizio Novecento vennero segregati gli abitanti neri della città. Le Flats - che devono il loro nome alla forma pianeggiante - oggi sono di fatto governate da più di 130 bande criminali di cui fanno parte in tutto almeno 100 mila persone in costante lotta tra di loro. Ne ha parlato l’Economist in un recente articolo sulla crescente pericolosità della città. Dalla fine dell’apartheid nel 1994, quando il Sudafrica divenne una democrazia e Nelson Mandela fu eletto presidente, il paese è sceso dal terzo al settimo posto nella classifica dei paesi più violenti al mondo e in venticinque anni il tasso di omicidi è passato da 69 casi ogni 100 mila persone nel 1994 a 36 casi ogni 100 mila persone nel 2017. A Città del Capo, in controtendenza con il resto del paese, c’è invece stato un costante aumento del numero degli omicidi: negli ultimi otto anni il tasso di morti violente è salito da 43 a 69 persone uccise all’anno ogni 100 mila abitanti. Città del Capo ha un tasso di omicidi doppio rispetto a quello di Johannesburg, la città più popolosa del Sudafrica, ed è al quindicesimo posto nella classifica delle cinquanta città più pericolose al mondo, l’unica che non si trova in America. Nelle Flats, dove si concentra la maggior parte degli episodi di violenza, ci sono grossi problemi di disoccupazione e povertà: molti bambini crescono orfani di uno o di entrambi i genitori e nel 2016 (ultimo anno per cui sono disponibili dati affidabili) il 93 per cento delle famiglie del distretto di Philippi East, uno dei quartieri delle Flats, ha denunciato di essere stato vittima in qualche modo della criminalità organizzata. La violenza è così diffusa che non ci si preoccupa neanche più di nascondere i cadaveri alla vista dei bambini, spesso arruolati fin dai 12 anni dalle gang che li usano come corrieri della droga per evitare i controlli della polizia. La storia di alcune delle gang delle Flats è iniziata più di secolo fa, quando il Sud Africa divenne uno stato indipendente, e diversi gruppi si contendevano il controllo di strade e quartieri della città. Molte sono diventate famose per i loro rituali di iniziazione, come quello degli “The Americans”, una delle più numerose bande criminali di Città del Capo: per entrare bisogna accoltellare una persona e poi pulire il coltello dal sangue usando una bandiera degli Stati Uniti, da cui la scelta del nome Americani. L’appartenenza a una gang permette a chi vive nelle Flats di procurarsi cibo e vestiti, mentre tra i più giovani è anche un modo per impressionare le ragazze, dice l’Economist. Craven Engel, un pastore protestante a Hanover Park, un altro quartiere delle Flats, ha raccontato all’Economist che qualche anno fa nacque una gang formata dai figli dei membri degli “Americani” che ancora frequentavano la scuola: si chiamava “Spoiled Brats”, i mocciosi viziati. Oggi solo due dei 22 affiliati sono ancora vivi. Le gang non sono l’unica causa dell’aumento della criminalità a Città del Capo, ma molte si comportano come vere e proprie cosche mafiose, arrivando a corrompere poliziotti e politici per coprire i loro traffici di droga - soprattutto eroina - e di armi. La corruzione delle forze di polizia è un altro problema che la città deve affrontare: molte delle armi che circolano tra le bande di strada arrivano infatti dalle riserve dei commissariati. Nel 2016 Chris Prinsloo, un ex colonnello della Saps, la polizia del Sud Africa, è stato dichiarato colpevole di aver venduto 2400 pistole a un trafficante d’armi che a sua volta le aveva vendute ad affiliati di gang avversarie. 1066 omicidi, di cui 261 di bambini, e 1403 tentati omicidi avvenuti a Città del Capo sono stati in qualche modo ricondotti all’uso di queste armi. Il caso di Prinsloo ha esposto la corruzione radicata da anni all’interno dalla Saps: l’Economist ha scritto che dall’inizio della presidenza di Mandela non uno dei commissari nazionali della Saps ha lasciato il mandato senza essere accusato di corruzione o cattiva condotta. Città del Capo ha cercato una soluzione alla corruzione arruolando nuovi agenti nella polizia metropolitana, la Metro Police; all’inizio queste forze erano state pensata per multare chi infrangeva il codice stradale, ma oggi ha anche un’unità che si occupa del problema delle gang nelle Flats. L’unità conta 600 uomini contro i 18 mila che la Saps ha in giro per la città.