Senza Opg. Chiusi i “manicomi giudiziari”, restano alcuni problemi aperti di Lucia Aversano retisolidali.it, 13 ottobre 2018 Per Antigone nelle 30 Rems italiane sono ricoverate 599 persone. Ad un anno e mezzo dalla chiusura degli Opg li abbiamo superati davvero? Era il maggio dello scorso anno quando gli ultimi due pazienti dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, lasciarono l’ultimo Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario) ancora attivo. Un momento storico, che ha segnato la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari. Dopo un secolo dalla loro istituzione, e a quaranta anni dalla riforma Basaglia, gli Opg, un tempo conosciuti come “manicomi giudiziari” e prima ancora noti con il nome di manicomi criminali, hanno realmente chiuso i battenti. Un evento che pone fine a oltre 100 anni (era il 1904 quando il governo Giolitti approvò la prima legge sui manicomi) di violenze e coercizione ai danni di chi, anziché essere privato della libertà, avrebbe dovuto essere curato. L’approccio alla cura del malato anziché della malattia ha lo scopo di reinserire il malato psichiatrico all’interno del tessuto sociale. Per le persone libere, con la legge 180/78, si è passati dalla custodia coercitiva alla terapia riabilitativa mentre per i detenuti con disagi psichici, fino alla legge 81/2014, c’erano gli Opg. Ospedali nei quali i “folli-rei” erano rinchiusi in condizioni drammatiche: isolamento, contenzioni abituali e condizioni igieniche precarie; incarcerati spesso a vita, poiché ritenuti pericolosi socialmente e impossibili da reinserire. Un non-luogo nel quale venivano segregate non-persone. Se è vero che la libertà è terapeutica, all’interno degli Opg la salute mentale degli internati poteva solo che peggiorare: senza diritti, in quanto incapaci di intendere e di volere e senza possibilità di cura, poiché questi istituti erano ospedali solo di nome. Che cosa sono le Rems. Oggi gli ospedali psichiatrici sono stati sostituiti dalle Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture molto differenti sia nella forma che nella sostanza rispetto ai loro antenati: gli utenti non possono superare le 20 unità, l’uso dei mezzi coercitivi è assente e la permanenza nelle strutture non può superare la durata della pena prevista per il reato commesso. Questo per evitare il fenomeno degli “ergastoli bianchi” ovvero la permanenza all’interno dell’Opg per un tempo che il magistrato poteva prorogare all’infinito. Tali strutture sono gestite esclusivamente da personale sanitario e ciascun paziente deve seguire un programma terapeutico individuale. L’extrema ratio. Per la legge 81 le Rems sono da considerarsi una extrema ratio, l’ultima delle soluzioni da prendere in considerazione e solo dopo aver vagliato misure di sicurezza non detentive. Il rapporto tra istituti penitenziari e detenuti con patologie psichiatriche però è da sempre molto complesso e la gestione dentro e fuori i penitenziari delle patologie psichiche è molto difficile: il personale medico, tra cui psichiatri, psicologi e infermieri, all’interno dei penitenziari non è sufficiente a coprire gli effettivi bisogni della popolazione carceraria; l’informatizzazione della cartella clinica è presente solo in rari casi e ciò rende complicato sia quantificare la popolazione che necessita di cure e sia garantire la continuità delle terapie psicologiche che il detenuto aveva fuori. I casi limite, un tempo spediti in Opg, oggi ingrassano le liste d’attesa delle Rems, con il rischio concreto che tali strutture alla lunga possano diventare una valvola di sfogo, come lo erano gli Opg, laddove a monte non si adoperino interventi necessari a garantire soluzioni efficaci per la cura della salute mentale dei detenuti. Le Rems in numeri. Secondo il 14mo rapporto sulle condizione di detenzione di Antigone onlus, “Un anno in carcere”, “Al 15 marzo 2018, nelle 30 Rems italiane sono ricoverate 599 persone, di cui 54 donne (il 9%, percentualmente quasi il doppio delle donne detenute in carcere)”. All’interno del report viene evidenziato anche che “Il numero di presenze corrisponde ai posti disponibili e questo permette di sottolineare l’ammirevole “resistenza” da parte dei servizi sanitari nel non eccedere il numero massimo di posti previsto, evitando il sovraffollamento”. Dunque al momento, su base nazionale, si sta scongiurando quello che gli addetti ai lavori paventavano più di ogni altra cosa, ovvero la trasformazione delle Rems in tanti piccoli Opg. Il caso del Lazio. Nel Lazio le Rems attive sono 5 con un numero di posti pari a 91, i pazienti ad oggi ospitati sono 84 e Pontecorvo ospita esclusivamente pazienti di sesso femminile. Il Lazio insieme alla Lombardia è la regione che ha il maggior numero di posti e anche quella nella quale l’organizzazione delle Rems è ancora lontana dai criteri della legge del 2014. Un operatore, che preferisce rimanere anonimo, spiega che il sistema appena nato ha già molte pecche e che se non si corre subito ai ripari, presto lo spettro degli opg potrebbe rimanifestarsi. “Partiamo subito col dire che la parola internato ancora esiste nel codice penale e nell’ordinamento penitenziario e, se esiste la parola, esiste tutto ciò che essa si porta dietro, detto ciò le criticità che sono emerse con il passaggio dagli Opg alle Rems sono molte”. Se da un lato la teoria è lodevole, dall’altro lato la pratica è tutt’altro che rosea: “Il punto più critico sono i Dsm, i Distretti di salute mentale, ovvero la psichiatria territoriale. A parte rarissime eccezioni in cui il sistema funziona, non sono mai entrati in carcere, hanno fatto di tutto per non entrarci mai, ribadendo come il carcere non riguardi le Asl, e ciò impedisce quella connessione al territorio che è tra i capisaldi della legge” nonché il punto di forza per permettere un reale reinserimento del detenuto una volta in libertà. Inoltre ogni Regione interpreta la legge secondo i propri criteri e non esiste uniformità a livello nazionale; alcune strutture, come ad esempio Subiaco, ma Pontecorvo non è da meno, sono provviste di evidenti e massicci dispositivi di sicurezza (metal detector, sbarre fino al soffitto, telecamere di sorveglianza) che bypassano i requisiti prettamente terapeutici che dovrebbero avere tali strutture. Le note dolenti. Poi, secondo il principio che le Rems debbano essere gestite esclusivamente da personale sanitario, la prassi che si è scelto di perseguire è alquanto dubbia: “a dirigere tali strutture sono state messe figure senza esperienza penitenziaria e gli stessi operatori sono stati assunti senza alcuna esperienza pregressa di stampo carcerario. Per formare equipe valide che si occupino di tali strutture ci vogliono anni” e questo pone un grosso interrogativo sull’effettiva efficacia di tali servizi. Altra nota dolente è la mancanza delle cartelle cliniche informatizzate dei detenuti insieme alla mancata “valutazione del bisogno dell’assistenza e della valutazione sull’impatto sociale degli interventi socio sanitari condotti in favore della popolazione detenuta”. Tutto ciò si ripercuote sul lavoro dei magistrati che spesso sono costretti a “operare delle forzature perché - senza alcun tipo di dato conoscitivo - non sanno dove mandare i detenuti”. La stessa posizione giuridica dei detenuti delle Rems risulta, a conti fatti, contraddittoria: secondo i dati dell’osservatorio di Antigone “i prosciolti per vizio totale di mente, ma socialmente pericolosi (ex art. 222 c.p.) che dovrebbero costituire la categoria giuridica paradigmatica del ricoverato in Rems sono 215, pari al 37% del totale, una netta minoranza” mentre “i pazienti con una misura di sicurezza provvisoria arrivano ad essere il 45,7 % del totale”. C’è poi l’incognita del fine pena: chi si prende carico del detenuto appena rimesso in libertà? “La mancata connessione tra Asl e amministrazione territoriale”, conclude l’operatore, “ e la mancanza di strutture atte alla presa in carico del detenuto con disagio psichico comportano un altissimo rischio di recidiva”. Insomma, gli interrogativi sui quali Ministero della salute e Dipartimento di giustizia devono rispondere sono ancora molti e il rischio di creare nuovi Opg risulta tutt’oggi concreto, per tale motivo l’attenzione sulle Rems deve restare alta. Intervista a Franco Corleone: “i malati psichici in carcere dimenticati dal governo” di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 13 ottobre 2018 Ha appena terminato tre giorni di digiuno di protesta e si appresta a ricominciare lunedì, Franco Corleone, garante dei detenuti della Toscana, già commissario del ministero che due anni fa ha dismesso gli ex Opg, i vecchi residui manicomiali giudiziari. Ci spiega il perché di questa sua estrema protesta? Sono molto preoccupato della situazione che si sta creando, non solo di sovraffollamento, in particolare per quanto riguarda il problema del disagio psichico in carcere. Un problema che spesso viene evocato, anche drammaticamente - come nel caso della donna che ha gettato dalle scale i suoi due figli, uccidendoli, a Rebibbia e che personalmente penso non sarebbe proprio dovuta andare in carcere - ma nell’evocarlo viene spesso anche strumentalizzato. Sento in giro una gran voglia di tornare ai manicomi. È vero che gli istituti penitenziari sono di nuovo congestionati come prima del decreto svuota-carceri? Sì, siamo tornati a una popolazione carceraria vicina ai 60 mila detenuti e Ristretti Orizzonti denuncia un forte incremento dei suicidi in cella. Non è solo una questione di sovraffollamento, è che è venuta meno la speranza verso una grande riforma dell’ istituto carcerario che era stata impostata e prevedeva dalle misure per garantire l’affettività alle caduta della preclusione delle misure alternative per chi manifesta disagio psichico. L’articolo 147 del codice penale prevede infatti misure alternative al carcere in presenza di gravi patologie fisiche. La legge finora non contemplava l’esistenza della psiche. Così, con un decreto, era stata aggiunta la dizione “e mentali”. Due paroline che avrebbero risolto il problema di dover gestire la malattia mentale all’interno di una istituzione totale che per sua natura non è proprio il luogo adatto. Altrettanto fondamentale sarebbe stata l’abrogazione dell’articolo 148 del codice penale, che avrebbe risolto il problema della permanenza in carcere delle persone che nel corso della detenzione manifestano malattie psichiche. Dove devono scontare la loro pena? Dalla chiusura degli ex Opg due anni fa esistono le Rems - le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - ma non sono quelle che devono assorbire tutto il disagio mentale. I magistrati dicono “chi ha un grave disturbo psichico non può stare in carcere” e cercano di mandarli nelle Rems perché non sono stati ancora istituite le strutture apposite - chiamate articolazioni psichiatriche in carcere - che devono essere a esclusiva o prevalente gestione sanitaria, quindi con personale medico e infermieristico dipendente dalle Regioni. Nelle Rems sono stati trasferiti i detenuti che prima stavano negli ex Opg? Sì, non tutti fortunatamente, ma soprattutto le 31 Rems esistenti sono concepite per persone considerate incapaci di intendere e di volere quando hanno commesso il reato e che comunque non possono stare in libertà e sono organizzate sulla base di alcuni principi: la territorialità, il numero chiuso, il rifiuto della contenzione e la permanenza non più a vita ma legata alla pena per il reato compiuto. Con la pressione dovuta al sovraffollamento e alle pur buone intenzioni dei magistrati, ma si sa che lastricano il pavimento dell’inferno, anche la riforma della chiusura degli ex manicomi giudiziari, che insieme alla legge Basaglia ci pone all’avanguardia in Europa, viene messa a rischio. Quale atto ha fatto l’attuale governo per mettere a rischio la chiusura degli ex Opg e per svuotare la speranza della riforma carceraria? Lo scorso 2 ottobre ha fatto scadere i termini della legge delega, ha bloccato tre decreti: sull’ordinamento minorile, sui lavori in carcere e sull’ordinamento penitenziale. Così come ha cancellato il decreto sulla giustizia riparativa. Tutte le norme fondamentali per evitare l’esplosione del disagio psichico e invece per gestirlo fuori e dentro il carcere. Il suo digiuno di protesta ha ottenuto qualcosa finora? L’obiettivo è quello di attirare l’attenzione su un problema enorme, di sollecitare altre adesioni, oltre a quelle che già ci sono state a iniziare dal parroco di Sollicciano, e poi non voglio essere corresponsabile dei disastri. Ho anche scritto ai ministri Grillo e Bonafede. La ministra mi ha mandato una risposta garbata dicendo che stanno valutando, da Bonafede niente. Certo, anche le Regioni, tutte, sono responsabili dei ritardi per la mancata apertura delle articolazioni psichiatriche nelle carceri e da questo punto di vista il governatore della Toscana Enrico Rossi si è reso disponibile a un sopralluogo a Sollicciano a novembre. Importanti sono però le caratteristiche terapeutiche dei reparti penitenziari, non dare un’imbiancata alle celle. Così abbiamo ceduto al giustizialismo di Emanuele Macaluso Il Dubbio, 13 ottobre 2018 Lo scorso mercoledì ho partecipato ad un dibattito che si è svolto alla Scuola superiore della Magistratura di Scandicci (Firenze) insieme procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo, al giudice Antonio Balsamo, nella Rappresentanza italiana presso le Organizzazioni internazionali di Vienna e allo storico Francesco Barbagallo. Il tema ricordava il ruolo della magistratura nel contrasto alla mafia. Ne parlo non per raccontare il dibattito, certamente interessante dentro un’aula gremita da giovani magistrati, ma perché il tema chiama in causa i caratteri dello Stato italiano dall’Unità ad oggi. Ripercorrendo la storia politico-giudiziaria del nostro Paese si capisce bene che, in diversi momenti, molti magistrati hanno teso a chiedere leggi eccezionali per reprimere il fenomeno mafioso e delinquenziale. Ma nelle stesse inchieste si è letto poi che queste leggi hanno colpito essenzialmente la piccola delinquenza e sono servite a praticare compromessi con l’alta mafia. Compromessi che hanno coinvolto la politica e gli stessi magistrati. Questo andazzo è sostanzialmente continuato anche dopo la Liberazione e l’avvento della Costituzione la quale, invece, prefigura con chiarezza uno stato di diritto. I fatti che testimoniano questa realtà sono molti e sono emersi nel dibattito. È questa la causa per cui, a mio avviso, non è stato possibile sconfiggere la mafia che ha provocato illegalità, corruzione, violenza e tanti morti, tra cui molti dirigenti sindacali, politici e tanti magistrati onesti e coraggiosi. Da questi fatti, dalla storia letta con rigore, emerge con nettezza ciò che Leonardo Sciascia ha sostenuto nelle sue polemiche e cioè che la mafia si può sconfiggere solo in nome della legge, con le garanzie volute dalla Costituzione e solo se ci sarà uno stato di diritto. Uno Stato che non concede né indulgenze né emergenze. La responsabilità primaria su questo terreno è della politica. E la politica, anche dopo la Liberazione e l’approvazione della Costituzione, non ha avuto tutte le carte in regola. E oggi le forze che sono al governo possono, con brutalità, affermare che “se ne fregano” delle articolazioni dei poteri previste dalla Costituzione e che garantiscono i diritti dei cittadini. Non è un caso che, tra le altre, è stata affossata la legge di riforma carceraria su cui si continuano a battersi soltanto i Radicali. Considero un grande fatto politico e civile l’iniziativa dei giudici della Corte costituzionale di recarsi nelle carceri a parlare con i reclusi. Il presidente della Consulta, Giorgio Lattanzi, ha ricordato, con parole forti, che la Costituzione deve operare anche dentro le mura dei penitenziari e i detenuti debbono scontare le pene con le garanzie e i diritti scritti nella Carta. Le forze che sono al governo hanno invece come linea politica il giustizialismo più brutale. Ma anche l’opposizione, che giustamente critica il governo sulla manovra economica e altri campi, tace sui temi della giustizia. E nel nostro Paese si è determinato un clima di pesante giustizialismo che, come sempre, incoraggia quella parte della magistratura che mantiene questa vocazione. Per dirla ancora con Sciascia sembra che l’Italia sia irredimibile. Legittima difesa, la Lega accelera ma nel M5S crescono i dubbi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2018 Sulla legittima difesa la Lega prova stringere i tempi al Senato. Ma nel Movimento 5 Stelle prendono corpo le perplessità. Della volontà di accelerazione sulla riforma è testimonianza il fatto che, dopo l’adozione del testo base da parte del relatore e presidente della commissione Giustizia, l’avvocato padovano Andrea Ostellari, entro la prossima settimana si voteranno gli emendamenti per andare poi in Aula a partire dal 23 ottobre per un via libera che dovrebbe arrivare nei giorni immediatamente successivi. Dei mal di pancia 5 Stelle sono invece prova i 3 emendamenti presentati da un altro avvocato, il presidente dell’Ordine di Nola, Francesco Urraro. Forse troppo poco per ritenere possa saltare l’intesa che ha condotto la scorsa settimana alla tranquilla approvazione alla Camera della riforma della class action, intestata ai 5 Stelle, nel silenzio assoluto della Lega, in cambio di un tranquillo passaggio sulla legittima difesa. Però abbastanza per fare pensare che il disegno di legge messo a punto sia un po’ troppo estremo. Per capire di più, allora meglio leggere il testo base, il cui architrave è costituito dall’articolo  che con una sola parola, “sempre” accostata a “sussiste il rapporto di proporzione” azzera qualsiasi valutazione di discrezionalità da parte dell’autorità giudiziaria su natura e peso della risposta con armi o altri mezzi per proteggere la propria persona o altri beni. A rinforzare il tutto, casomai le intenzioni non fossero chiare, la previsione esplicita che “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica da parte di una o più persone”. Del resto, la Lega ci aveva già provato con il rafforzamento della presunzione di legittimità in caso di violazione di domicilio; tuttavia la giurisprudenza successiva alla riforma ne aveva in larga parte sterilizzato l’impatto ribadendo la necessità di una proporzione rispetto alla natura dell’aggressione e dei beni messi in pericolo (vita o patrimonio). Ora però si attenua sino quasi ad essere azzerata anche l’applicabilità della disposizioni sull’eccesso colposo di legittima difesa, la cui punibilità è esclusa, tra altro, quando si è agito in condizioni di grave “turbamento” per il pericolo in corso. Detto che del provvedimento fa parte poi anche un pacchetto di misure che inasprisce il trattamento sanzionatorio per alcuni reati come il furto in abitazione e la rapina, peraltro già oggetto di un analogo intervento poco più di un anno fa, il dato politico da sottolineare è che gli emendamenti 5 Stelle puntano innanzitutto a chiarire meglio il concetto di violenza che giustifica la reazione, ma soprattutto ammorbidiscono la parte dedicata all’eccesso colposo, cancellando il punto del grave turbamento e limitando l’esclusione della punibilità ai casi di colpa lieve. Legittima difesa. Il M5S "smonta" la legge: non è sempre presunta di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 13 ottobre 2018 Legittima difesa, i Cinquestelle inseriscono tre piccoli cambiamenti tanto da far vacillare l'intera costruzione del disegno di legge messo in piedi dalla Lega. Tre piccoli mattoncini, in grado però, di far vacillare l'intera costruzione messa in piedi dalla Lega. Il Movimento5stelle continua a confermare l'obiettivo di arrivare a una legge sulla legittima difesa, peraltro prevista dal contratto di governo, ma alla fine tenta di indebolire il cavallo di battaglia del Carroccio. Un cavallo che Matteo Salvini vuol vedere arrivare al traguardo del via libera definitivo già a fine anno, perfetto vessillo da sbandierare di fronte al suo elettorato di riferimento in vista delle Europee. La mossa dei pentastellati si è concretizzata con la presentazione, a firma del senatore Francesco Urraro, di tre emendamenti al testo base redatto da Andrea Ostellari, relatore leghista del provvedimento e presidente della commissione Giustizia del Senato che si sta occupando della norma. Tre proposte di modifica che il Carroccio non mostra di gradire. “Quella è una nostra bandiera, così ce la smontano, quegli emendamenti non possono passare”, spiega una fonte leghista di governo. Proprio per sminare il terreno per martedì mattina è stata convocata una riunione tra i due partiti, alla quale è prevista la presenza anche del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. L'obiettivo è quello di non arrivare divisi al momento della votazione sugli emendamenti che si terrà proprio martedì nel pomeriggio. Ma perché i tre "mattoncini" di Urraro vengono considerati così inficianti per il progetto leghista? I due perni della proposta Ostellari sono le modifiche agli articoli 52 e 55 del codice penale: la prima, con l'aggiunta di un avverbio, rende di fatto la legittima difesa “sempre proporzionata” se si usa un'arma per difendere la propria o altrui incolumità, i beni propri o altrui. Si interviene poi sull'eccesso colposo di legittima difesa prevedendo che la punibilità sia “esclusa” se chi ha commesso il fatto “ha agito in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Ed è proprio su questi due pilastri che intervengono le modifiche pentastellate. Urraro, infatti, nella parte relativa alla definizione della legittima difesa, stabilisce che essa sussista non genericamente ma quando vi è “violenza o minaccia alla persona”. Ma, soprattutto, prevede che non sia punibile soltanto la “colpa lieve” e chiede che venga cancellata precisamente la parte dell'articolato in cui si dice che il grave turbamento è condizione sufficiente. Insomma, due proposte indigeribili per il Carroccio. Il sottosegretario leghista alla Giustizia Iacopo Morrone, che sta seguendo il provvedimento in commissione, assicura che non ci sarà alcun problema. “Gli emendamenti sono contributi, che sono arrivati da tutti i partiti, non soltanto dal M5S. L'impianto e il percorso, però, sono delineati e sono quelli previsti nel programma di governo”. Il timing dell'iter della legittima difesa al Senato è ormai segnato, martedì si comincia a votare sugli emendamenti in commissione, appunto: in tutto ne sono stati presentati 71, compresi quelli del leader di Leu, Pietro Grasso, che chiedono direttamente la soppressione del testo. L'approdo in Aula è già fissato per il 23 ottobre e la Lega conta di avere il primo sì del Senato entro la fine del mese. L'obiettivo, al netto della legge di bilancio, è quello di ottenere l'ok definitivo del Parlamento entro l'anno. “Vuole essere il nostro regalo di Natale agli italiani”, spiega Morrone. Ci sono anche altre novità rispetto alla normativa attuale: l'aggredito non si potrà più ritrovare a subire cause di risarcimento per il danno né da parte dell'aggressore né da suoi familiari. Inoltre, nell'ottica di rendere più veloci i processi, si prevede che sia a carico dello Stato l'obbligo di pagare le spese giudiziarie nell'ipotesi di assoluzione di chi ha esercitato la legittima difesa. Una novità che Salvini ha sintetizzato così: “Un ladro ti entra in casa, in azienda o in negozio e tu ti difendi? Sarà tuo diritto farlo, senza finire sotto processo per anni e pagando di tasca tua”. Le mosse di Ermini al Csm per non finire nella rete di Bonafede di David Allegranti Il Foglio, 13 ottobre 2018 Basso profilo, per il neo vicepresidente del Csm David Ermini - che venerdì prossimo, come prima sortita, parteciperà a un convegno di Magistratura Indipendente e poi andrà a Sorrento al congresso dell'Unione delle Camere Penali - significa evitare strumentalizzazioni politiche. Compito non così a portata di mano, visto che le etichette di "renziano" e "ex deputato del Pd" difficilmente potrà togliersele. D'altronde sono parte della sua storia politica, che Ermini rivendica. Per questo, il vicepresidente del Csm potrebbe evitare subito un paio di pietre d'inciampo. A novembre, la Sezione disciplinare del nuovo Csm appena insediato dovrà giudicare i pm di Napoli dell'inchiesta Consip Henry John Woodcock e Celestina Carrano, come previsto dall'articolo 105 della Costituzione, che attribuisce al Consiglio superiore della magistratura la possibilità di adottare provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. La Sezione disciplinare è presieduta dal vicepresidente del Csm, ma Ermini quel giorno potrebbe essere (non casualmente) altrove per impegni, evitando così di partecipare al giudizio su Woodcock e Carrano e lasciando tutto nelle mani di Fulvio Gigliotti, professore arrivato al Csm in quota Cinque stelle. Secondo l'accusa, i due magistrati di Napoli avrebbero violato i diritti di difesa di Filippo Vannoni, uno degli indagati nell'inchiesta su Consip, e per l'appunto da deputato Ermini si è schierato apertamente in difesa dell'ex segretario del Pd sul caso ("Prima si prende di mira Renzi poi si lavora sulle indagini? Ci sono mandanti?"). Adesso vuole tenersi lontano da ulteriori polemiche dopo l'attacco del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: "Prendo atto che all'interno del Csm, c'è una parte maggioritaria di magistrati che ha deciso di fare politica". Una condotta che il vicepresidente del Csm vuole mantenere anche in altre situazioni. Per esempio nel caso di Michele Emiliano, anche lui sotto giudizio del disciplinare per via del suo doppio incarico, di politico e di magistrato. A luglio la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità sollevata dal Csm sulle norme che vietano l'iscrizione e la partecipazione sistematica e continuativa dei magistrati ai partiti. La richiesta era stata avanzata, appunto, nel corso del procedimento disciplinare al quale è sottoposto Emiliano, magistrato che da anni ricopre molti incarichi elettivi e ruoli dirigenziali nel Pd. Il governatore della Puglia adesso rischia un ammonimento, la censura o, peggio, la perdita dell'anzianità. Anche in questo caso, a presiedere il disciplinare potrebbe non essere Ermini. Giudicare un "compagno di partito" non farebbe parte del profilo di imparzialità che l'ex responsabile giustizia del Pd intende mantenere. Una sponda paradossalmente gliel'ha data Piercamillo Davigo, membro togato e suo avversario al Csm. Su La7 martedì scorso ha spiegato, sì, di non aver votato per Ermini e che secondo lui "bisognava cercare chi era meno coinvolto in attività di partito". Però, ha aggiunto, "qui c'è un difetto tutto nazionale che sono le polemiche successive: quando uno viene eletto credo che poi sia il presidente di tutti, punto e basta. Faccio un esempio del diverso atteggiamento che c'è all'estero rispetto all'Italia. Quando venne eletto presidente degli Stati Uniti Barack Obama il suo rivale John McCain, che aveva fatto una campagna elettorale molto dura, disse queste parole: pochi minuti fa ho avuto l'onore di congratularmi con il nuovo presidente degli Stati Uniti. Io vorrei sentire i politici italiani comportarsi così". Dopo gli attacchi del ministro Bonafede, un assist inaspettato. Stefano Cucchi, altri carabinieri indagati per il depistaggio di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 ottobre 2018 Dopo la denuncia di Tedesco, la procura accusa di falso anche il comandante di Tor Sapienza. Nella lente i vertici dell’Arma. Ci sono altri carabinieri indagati per il depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi. Uomini appartenenti all’Arma che potrebbero aver contribuito alla falsificazione e alla scomparsa degli atti relativi a tutte le fasi dell’arresto del giovane geometra romano, arrestato per spaccio la sera del 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo all’ospedale Pertini. O che comunque sapevano del pestaggio a cui è stato sottoposto ed hanno taciuto. Tra loro, indagati per falso ideologico, oltre a Francesco Di Sano, il carabiniere della stazione di Tor Sapienza, che aveva già ammesso davanti alla Corte d’Assise (nell’udienza del 17 aprile scorso) di aver dovuto ritoccare i verbali per “ordine gerarchico” nascondendo le reali condizioni in cui versava Cucchi, c’è anche il suo comandante, il luogotenente Massimiliano Colombo, allora a capo della stazione di Tor Sapienza dove Stefano trascorse la notte dopo essere stato picchiato nella caserma Casilina. Gli inquirenti, che interrogheranno Colombo la prossima settimana, hanno già perquisito nei giorni scorsi la sua abitazione e gli uffici, alla ricerca di eventuali comunicazioni con i suoi superiori di allora. La procura di Roma, infatti, vuole capire fino a quale livello i vertici dell’Arma fossero a conoscenza del pestaggio subito da Stefano. I nuovi indagati - e quelli che eventualmente verranno - sono iscritti nel filone di inchiesta integrativa che il pm Giovanni Musarò ha aperto in seguito alla denuncia presentata il 20 giugno scorso da Francesco Tedesco, uno dei cinque carabinieri imputati nel processo bis che dopo nove anni ha deciso di raccontare il pestaggio a cui i suoi due colleghi, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, hanno sottoposto Cucchi dopo averlo arrestato (anche se non erano in servizio). Tedesco ha anche denunciato la scomparsa di due sue annotazioni di servizio, redatte non appena appresa la notizia della morte di Cucchi, nelle quali - a suo dire - raccontava la verità, fino ad allora taciuta, su quanto accaduto quella sera. Ecco perché la nuova inchiesta integrativa al processo bis sarebbe composta da due fascicoli: uno per falso ideologico e l’altro per soppressione di documento pubblico. Il 26 settembre scorso, durante il suo secondo interrogatorio davanti ai pm, a Piazzale Clodio, il vice brigadiere Tedesco riconosce nel “fascicolo delle annotazioni di servizio” che i magistrati gli mostrano quello nel quale inserì i suoi verbali, “anche se - puntualizza - io ricordavo che la copertina era rossa e non grigia, e che le tabelle erano scritte a mano e non con il computer”. Ma nella cartellina, come hanno appurato gli stessi inquirenti, i documenti relativi a Stefano Cucchi non ci sono più, e al loro posto compare un foglio bianco con su scritto “occupato”, che nel linguaggio burocratico dell’Arma vuol dire “utilizzato temporaneamente per fini di servizio”. Tedesco si accorse che erano spariti già qualche giorno dopo, e lì “cominciai ad avere paura”. Non sono mai riapparsi. Ma non è l’unico documento, presumibilmente scomparso o sostituito, che avrebbe potuto comprovare le pessime condizioni di salute di Stefano dopo il pestaggio - o forse i pestaggi - subiti quella notte. Il sospetto degli inquirenti è che siano stati ritoccati anche il verbale di arresto, quello di perquisizione e il registro di foto-segnalamento (nella caserma Casilina), oltre alle due annotazioni di servizio della caserma di Tor Sapienza (secondo Tedesco, fu il maresciallo Mandolini, comandante della caserma Appia oggi imputato per falso e calunnia, a chiederlo esplicitamente con una telefonata). Ma, soprattutto, evidentemente potrebbero essere stati camuffati tutti i protocolli informatici interni dell’Arma, che infatti non riportano notizia delle annotazioni di servizio depositate da Tedesco il 22 ottobre 2009. Il carabiniere che per la prima volta ha rotto il muro di omertà che da sempre protegge le “mele marce” delle forze dell’ordine, ha raccontato anche di essere sottoposto a un “procedimento di Stato”, che è “più grave del procedimento disciplinare e fra le sanzioni prevede anche la destituzione”. E di averne ricevuto notizia nello stesso giorno in cui si è presentato a Piazzale Clodio per essere interrogato dai pm. Il suo avvocato, Eugenio Pini, ha chiesto all’Arma di “sospendere il procedimento in attesa che la Corte d’Assisi si pronunci”. “Ora non mi interessa nulla se sarò condannato o destituito dall’Arma - ha però affermato lo stesso Tedesco. Ho fatto il mio dovere, quello che volevo fare fin dall’inizio e che mi è stato impedito. Sono rinato”. E a rinascere ora dovrebbe essere l’intero corpo dei carabinieri. Occorre però che lo Stato, e soprattutto chi ha sempre negato l’uso della tortura nelle nostre caserme e carceri, chieda scusa. “Il giorno in cui il Ministro dell’Interno chiederà scusa a me, alla mia famiglia e a Stefano - ha precisato ieri Ilaria Cucchi rispondendo all’inveto di Matteo Salvini - allora potrò pensare di andarci, prima di allora non credo proprio”. Caso Yara, la Cassazione conferma la condanna. Bossetti all'ergastolo, restano i dubbi di Alessandro Dell'Orto Libero, 13 ottobre 2018 Dunque Massimo Bossetti è colpevole. Per la giustizia italiana è lui che ha ucciso la povera Yara Gambirasio, è lui che l'ha presa con la forza i126 novembre 2010 e poi l'ha abbandonata - ferita e priva di sensi - al freddo in un campo di Chignolo d'Isola otto anni fa. La Cassazione ha pronunciato la sentenza definitiva su questa terribile vicenda, confermando la condanna dei primi due gradi di giudizio: ergastolo. E però proprio adesso che si è di fatto chiusa la vicenda processuale, anche se magari sei convinto della sua colpevolezza, non puoi non pensare all'occasione rifiutata, all'opportunità non concessa. Già, la super perizia: un ulteriore esame del Dna ritrovato sugli slip e sui pantaloni della ragazzina e ai tempi attribuito a Bossetti, ma senza la presenza di un perito super partes (“la difesa non ha partecipato agli accertamenti”, hanno sempre sostenuto gli avvocati). Questo è ciò che manca e mancherà sempre a questa sentenza, l'ombra che resterà su questo lungo e tortuoso processo. Il super esame è stato invocato più volte dall'imputato e dai suoi legali, e lo stesso Bossetti l'aveva ripetuto anche ieri: “Fatemi l'esame, vedrete che lì dentro non ci sono io”. Un esame tanto invocato ma sempre negato. Eppure la parola "perizia" ritorna 60 volte nelle 644 pagine del ricorso presentato a Roma, e 41 volte nelle 376 pagine delle motivazioni della condanna in Appello: evidente che se ne sia discusso, ma sempre con lo stesso risultato. “L'approfondimento dell'istruttoria sul punto palesa come non decisivo ogni ulteriore approfondimento” ha scritto l'Assise di Bergamo. Il significato è semplice: la prova del Dna è certa. Cosa sempre contestata dalla difesa, secondo cui non sono stati rispettati i protocolli internazionali sulle analisi, dai kit per i test scaduti alle controprove. Perché in otto anni non ci si è tolti questo dubbio? Questo è il punto più delicato e - per certi versi - assurdo. La sentenza d'Appello dice che non ci sarebbe più materiale da analizzare, ma la difesa lo nega, spiegando che il genetista Giorgio Casari testimoniò il contrario. Una questione tanto delicata sarebbe stato il caso di risolverla o dimostrarla a fatti. E invece ancora oggi non è chiaro se sia rimasto Dna sufficiente a nuove analisi per qualità e quantità. La parte migliore, emerse in primo grado, è stata utilizzata. In modo “incolpevole” per tentare ogni accertamento, scrissero i giudici. “Inutilmente - criticarono gli avvocati - per esercizio sperimentale”. Risultato: Rossetti passerà la vita in cella, ma a tutti noi - innocentisti e colpevolisti - resterà sempre il dubbio: perché non si è fatta la perizia che avrebbe davvero chiarito tutto? Verdiglione, respinta anche la quarta istanza di scarcerazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 ottobre 2018 Respinta anche la quarta istanza di differimento pena. Pare che non ci sia scampo per il professore Armando Verdiglione, 73enne e come già raccontato da Il Dubbio, recluso nel carcere milanese di Opera dove ha perso 24 kg e trasferito al repartino detentivo (celle più piccole di quelle del carcere ed è simile a un bunker) dell’ospedale San Paolo, tanto da destare preoccupazione sul suo stato di salute oramai precario. È stata rigettata per la quarta volta la richiesta della difesa per la scarcerazione del professore, che non andrà neppure in detenzione domiciliare. Il magistrato di Sorveglianza ha considerato inapplicabile la norma che consente la detenzione domiciliare per l’ultrasettantenne, obiettando che il fine pena non fosse entro i limiti dei 4 anni di residuo. Sul punto la difesa ha anticipato che impugnerà, perché contesta l’insussistenza del limite dei 4 anni, nell’ipotesi inquadrata al comma 01 dell’art 47 ter dell’ordinamento penitenziario dove prevede che la pena detentiva inflitta a una persona che abbia compiuto i settanta anni di età “può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza”. Esclusa la concessione della misura alternativa per infermità fisica, non essendoci i requisiti, è stata rigettata anche la richiesta di differimento che si reggeva su ragioni di una sopravvenuta depressione: sul punto il magistrato ha tuttavia dato atto di aver disposto “un monitoraggio costante” sul professore, interpellando lo psichiatra del carcere per avere un riscontro e poter valutare una eventuale infermità sopravvenuta secondo l’art 148 del codice penale. Un articolo molto particolare e di difficile interpretazione da quando sono stati chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari. Come mai? L’articolo in questione, infatti, stabilisce che i detenuti affetti da infermità psichica sopravvenuta, tale da impedire la prosecuzione dell’esecuzione, siano ricoverati in Opg, casa di cura e custodia o ospedale psichiatrico civile (quest’ultimo soltanto qualora la pena loro inflitta per il reato commesso sia inferiore a 3 anni di reclusione). Dunque, la destinazione dei detenuti affetti da infermità psichica sopravvenuta e perciò soggetti a un ordine di ricovero ex art. 148 c. p. a un’apposita sezione di un istituto penitenziario, modalità di esecuzione sostanzialmente diversa da quella legislativamente prevista, è illegittima e produttiva di un pregiudizio grave alla libertà personale, così come garantita dall’art. 13 della nostra Costituzione, laddove prevede una riserva di legge assoluta e rinforzata in ordine all’individuazione dei "modi" di restrizione della libertà personale. Un articolo del codice penale che la riforma originaria dell’ordinamento penitenziario l’avrebbe modificato proprio per risolvere questo gap che si è creato. Ma la riforma appena approvata ha stracciato qualsiasi riferimento all’assistenza psichiatrica e, di conseguenza, l’articolo 148 è in una sorta di limbo. Non si può nemmeno prevedere una Rems, anche perché tali strutture servono per coloro che sono raggiunti da una misura di sicurezza e non di una condanna da scontare in carcere. Problematiche legislative a parte, il professor Verdiglione rischia la vita. È stato lo stesso avvocato Stefano Pillitteri a confermarlo quando è andato a trovarlo al repartino detentivo dell’ospedale San Paolo dove nel frattempo è stato trasferito. La prossima udienza per l’ennesima istanza è stata fissata per il 13 dicembre. Si augura che non sia troppo tardi. La Consulta: “Cuocere cibi al 41 bis non è un’esibizione di potere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 ottobre 2018 Accolta la questione di legittimità sollevata dal Magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi. grazie a questa sentenza della Corte Costituzionale il carcere duro non contemplerà più questa misura ulteriormente afflittiva, presente anche nel decalogo elaborato nel 2017 dal Dap. La Consulta si pronuncia sul 41 bis e dichiara anticostituzionale le misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi. È con la sentenza di ieri della Corte costituzionale presieduta da Giorgio Lattanzi, redattore il giudice Nicolò Zanon, che viene accolta la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 41 bis sollevata dal magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi. Con l’ordinanza del 9 maggio 2017, il magistrato di sorveglianza aveva ritenuto non manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale in materia di 41 bis relativa, nello specifico, al divieto imposto dall’Amministrazione penitenziaria di “acquistare cibi che richiedono cottura, nonché cucinare quelli di cui gli è consentito l’acquisto (poiché consumabili anche crudi con la conseguenza di subire, in caso di violazione, una sanzione disciplinare) ”. Era stata, pertanto, sollevata questione di legittimità costituzionale dell’articolo 41bis, comma 2quater lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 2), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui “impone che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi”. Il reclamo recepito dal magistrato Gianfilippi, in sintesi, proveniva da un detenuto sottoposto al regime duro con il quale l’interessato per motivi di salute aveva bisogno di una dieta differenziata - si doleva dei divieti, impostigli dall’amministrazione penitenziaria, di acquistare cibi che richiedono cottura, nonché di cucinare quelli di cui gli è consentito l’acquisto (poiché consumabili anche crudi), a pena della sottoposizione, in caso di violazione, a una sanzione disciplinare. La Consulta ha recepito la questione sollevata e ha richiamato diversi articoli della Costituzione, smontando - di fatto - le obiezioni circa la presunta esibizione di potere e carisma dei detenuti se avessero la possibilità di cuocere il cibo. Quest’ultimo punto viene decostruito dalla Consulta sottolineando, innanzitutto, lo scopo del 41 bis che prevede limitazioni per esigenze di sicurezza e per impedire i collegamenti con l’associazione criminale di riferimento. Alla luce di questo, la Consulta spiega che una simile finalità, tuttavia, appare al rimettente “inidonea a giustificare effettivamente il divieto imposto”, sia perché il divieto sarebbe del tutto incongruo rispetto alla finalità descritta, sia perché l’ordinamento penitenziario prevedrebbe altri strumenti - quali le limitazioni, valevoli per la generalità della popolazione detenuta, alla quantità e alla qualità di cibi ricevibili o acquistabili dall’esterno (siano essi da consumarsi crudi o da cucinarsi) - volti ad evitare efficacemente l’affermarsi di situazioni come quelle temute. Altro aspetto che viene sollevato è il divieto che va in contrasto con gli articoli 3 e 27 Costituzione. Per i giudici della Consulta si tratta di un’ingiustificata deroga all’ordinario regime carcerario, “dotato di valenza meramente e ulteriormente afflittiva”. Il motivo? La cottura dei cibi rappresenta una ritualità, a cui si era abituati prima del carcere, e costituirebbe “una modalità, umile e dignitosa, per tenersi in contatto con il mondo esterno e con il ritmo dei giorni e delle stagioni”. Negarla, per la Corte significherebbe solo “un’inutile e ulteriore limitazione, contraria al senso di umanità”. Ma non solo, aggiunge la Consulta che la norma in questione impedirebbe quei “piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale”. Grazie a questa sentenza, il 41 bis non contemplerà più questa misura ulteriormente afflittiva che è presente anche nel decalogo elaborato nel 2017 dal Dap per uniformare le regole del regime duro in tutti gli istituti penitenziari che ospitano tali sezioni. Soddisfatti i dirigenti dell’associazione Nessuno tocchi Caino, il presidente Sergio D’Elia, il presidente Rita Bernardini la tesoriera Elisabetta Zamparutti: “È una sentenza bellissima perché fa entrare un senso di umanità nelle celle dei reclusi al 41- bis. Per noi, questa sentenza della Corte Costituzionale è come un argine a quell’ondata di misure afflittive che negli anni si è riversata su di loro in nome della sicurezza, ma che ben poco hanno a che fare con questa, essendo piuttosto volte ad infliggere sofferenze fisiche e psichiche volte ad indurli alla collaborazione. Ancora una volta - continuano gli esponenti di Nessuno tocchi Caino - ci riconosciamo in questa Corte Costituzionale ed in essa riponiamo la nostra massima fiducia nell’adeguamento del nostro ordinamento alla finalità rieducativa della pena e al rispetto della dignità umana. Vogliamo anche esprimere tutta la nostra stima al magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, che ha sollevato questione di illegittimità costituzionale su questo aspetto del regime detentivo del 41 bis”. Campania: il 16 ottobre in Consiglio regionale il “Focus sulla sanità penitenziaria” linkabile.it, 13 ottobre 2018 Promosso dall’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale e dal Garante Campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale si terrà martedì 16.10.2018 alle ore 9.30 il “Focus sulla sanità penitenziaria” presso la Sala Nassirya del Consiglio Regionale della Campania al centro direzionale Isola F13. Nel corso del dibattito interverranno i consiglieri regionali Tommaso Casillo - Vicepresidente del Consiglio Regionale, Flora Beneduce - Componente Ufficio di Presidenza, Stefano Graziano - Presidente V Commissione Sanità, Valeria Ciarambino - Presidente Commissione Trasparenza. Sono previsti inoltre gli interventi del Dott. Domenico Schiattone - Vicedirettore Prap Campania, della Dott.ssa Marialuisa Palma - Direttore Istituto di Poggioreale, della Dott.ssa Giulia Russo - Direttore Istituto di Secondigliano, del Dott. Mario Forlenza- Direttore Asl Na1 Centro, Dott. Giuseppe Nese - Osservatorio Regionale sulla Sanità Penitenziaria. Presiede il Prof. Samuele Ciambriello - Garante dei Detenuti conclude l’On. Rosa D’Amelio - Presidente del Consiglio Regionale. Il Garante Ciambriello ha dichiarato: “Nel corso delle quotidiane visite nelle carceri della Campania la mia attenzione viene attirata soprattutto su problematiche afferenti l’assistenza sanitaria ai detenuti. In quest’ottica un momento di riflessione da parte di tutti gli attori dell’organizzazione carceraria campana è sembrato attuale e doveroso al fine di un miglioramento dell’offerta sanitaria per i detenuti, soprattutto perché da dieci anni la sanità delle carceri dipende dalle regioni e non più dal Ministero della Giustizia”. Durante la mattinata dei lavori sono previsti gli interventi dei consiglieri regionali presenti e degli operatori sanitari e penitenziari dell’intera regione. Milano: "viaggio nelle carceri", Marta Cartabia a San Vittore il 15 ottobre Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2018 Lunedì 15 ottobre 2018, a partire dalle ore 10,00, a Milano, presso la Casa Circondariale di San Vittore (Piazza Filangieri n.2), la Vice-Presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia incontrerà i detenuti e le detenute, nell'ambito del progetto "Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri". Nella rotonda dell'istituto penitenziario, la Vice Presidente terrà una lezione che si svilupperà a partire dal frammento di Costituzione 'Pieno sviluppo della persona umanà. Successivamente risponderà alle domande che i detenuti e le detenute vorranno rivolgerle. Al termine dell'incontro, la Vicepresidente Cartabia visiterà gli spazi detentivi. Lo comunica la Corte con una nota. Il progetto 'Viaggio nelle carceri', prosegue il comunicato, è stato deliberato dalla Corte l'8 maggio scorso e, in continuità con il “Viaggio nelle scuole”, risponde anzitutto all'esigenza di aprire sempre di piu' l'Istituzione alla società per diffondere e consolidare la cultura costituzionale. Prato: sopralluogo dei consiglieri regionale M5S al carcere notiziediprato.it, 13 ottobre 2018 “Tante criticità per agenti e detenuti. Occorre intervenire”. I pentastellati toscani hanno deciso di iniziare il loro tour nelle case circondariale della regione dalla Dogaia perché ritenuta la situazione più grave come testimoniato anche dalle recenti aggressioni agli agenti in servizio. Visita oggi, 12 ottobre, dei consiglieri regionali M5S Andrea Quartini e Gabriele Bianchi al carcere di Prato. Si tratta della prima tappa di un tour negli istituti di pena, spiega una nota, voluto dagli esponenti 5 stelle per approfondire le condizioni di servizio e sicurezza in cui lavorano agenti di polizia penitenziaria e prendere nota delle eventuali criticità collegate alla permanenza dei detenuti. "La situazione che abbiamo riscontrato - spiegano Quartini e Bianchi - non è delle migliori. Vi è una forte carenza organica della polizia con un vuoto di circa 70 guardie rispetto alla dotazione ideale. Inoltre mancano 8 educatori e vi è un sostanzioso sovraffollamento tra le file dei detenuti. Chi lavora in carcere deve poter agire in piena sicurezza". Problemi sono stati rilevati anche per quel che riguarda la struttura in sé: "Le singole celle sono sprovviste di docce e questo provoca disagi sia ai detenuti che al personale - osservano ancora gli esponenti M5S. In linea generale si deve agire anche nel recupero dei detenuti tramite un miglioramento dei percorsi che prevedono il graduale reinserimento nella società". Per Bianchi e Quartini, "questo deve però avvenire nella più assoluta sicurezza di chi si occupa di garantire il perfetto funzionamento del sistema carcerario, personale troppo spesso rimasto abbandonato a se stesso. Anche in questo senso la presenza di un esponente del Movimento ai vertici del ministero sarà sinonimo di garanzia ed efficienza". Milano: economia Made in carcere, protagonista il Consorzio di viale dei Mille laprimapagina.it, 13 ottobre 2018 Nuovo look per il “Consorzio Viale dei Mille”, polo dell’economia carceraria, si rifà il look. Aperto il nuovo negozio dedicato ai servizi e ai prodotti nati all’interno delle case circondariali milanesi. Oltre 200 metri quadrati e cinque vetrine su strada, tra viale dei Mille 1 angolo piazzale Dateo, messi a disposizione dall’Amministrazione comunale di Milano per promuove lo sviluppo di nuove opportunità di lavoro, collaborazione e scambio tra chi vive e opera all’interno del carcere e il mondo esterno. “L’inaugurazione di questo nuovo spazio è il giusto punto di arrivo di un percorso volto a valorizzare il lavoro, le professionalità e le imprese nate all’interno delle carceri milanesi. Lavoro, prodotti e servizi che trovano oggi una vetrina rinnovata e più attraente per aprirsi alla città e rafforzarsi sul mercato”. Così commenta l’assessore alle Politiche per il Lavoro, Attività produttive e Commercio Cristina Tajani, che prosegue. “Un nuovo look per uno spazio che non è solo un vivace esercizio commerciale ma una realtà fruibile e plurale dove confrontarsi sui temi della riabilitazione e dell’integrazione, attraverso il lavoro e l’attenzione alle categorie fragili” L’apertura del rinnovato store rientra nel perimetro delle azioni previste dal progetto di promozione del lavoro carcerario, voluto dal Comune di Milano e dal Consorzio Viale dei Mille. Consorzio costituito da un gruppo di imprese sociali attive all’interno degli istituti di pena milanesi (Cooperativa sociale Alice - Cooperativa sociale Opera in fiore, Cooperativa sociale Zerografica, Cooperativa sociale Bee4, Cooperativa sociale Il gabbiano, Cooperativa sociale In Opera, Associazione l’hub) e supportato dalla Fondazione Cariplo. Nello showroom è possibile entrare in contatto con il mondo dei prodotti e servizi “100% made in carcere”: dal tessile alla tipografia, passando per la produzione alimentare; dalla serigrafia alla cosmesi, senza tralasciare servizi come call center e quality check. Tante occasioni per verificare la qualità che sta dietro al lavoro in carcere. Un luogo unico nel suo genere, testimone di un modello economico che vuole fare sintesi tra la dimensione della responsabilità sociale e quella della qualità dei prodotti e dei servizi realizzati. Uno spazio aperto alla cittadinanza, fruibile e plurale, dove è possibile confrontarsi e dibattere sui temi legati alla detenzione e al ruolo del lavoro nel percorso di reinserimento. Incontri, eventi, presentazione di libri, tante sono le occasioni per parlare di carcere mettendoci senso e spirito di partecipazione. Milano: saranno i designer a risolvere il sovraffollamento nelle carceri? di Carla Amarillis elledecor.com, 13 ottobre 2018 "Stanze sospese" porta a San Vittore una serie di arredi funzionali e intelligenti, che migliorano la vita nei 9 metri quadri di una cella standard- Milano, carcere di San Vittore: un gruppo di giovani designer ripensa i 9 metri quadri di una cella standard per due persone con arredi che sfruttano lo spazio in maniera intelligente, cambiando ingombro e funzione nel corso della giornata. È l’ultima tappa di Stanze sospese, un progetto di design sociale nato un anno fa da un concept di Giovanna Giannattasio e Daniele Fiori per ripensare gli arredi delle celle del carcere di Opera, sostenuto dalla Fondazione Allianz Umanamente e presentato al Fuori Salone 2018 con un’installazione promossa da 5VIE art+design nelle cantine del Siam. Dietro il progetto ci sono un gruppo di tutor (Franco Raggi e Giovanna Giannattasio)e di giovani designer (Erika Baffico, Roberta Di Cosmo, Niccolò Ferrari, Cansu Goksu e Giulia Menestrina), che hanno immaginato i tanti modi in cui il design può aiutare a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri: con una progettazione sensibile e razionale, certo, ma anche con l’utilizzo di materiali di riciclo come la plastica riciclata e con il coinvolgimento delle falegnamerie sociali, in questo caso il laboratorio Arteticamente di Sacra Famiglia e il Polo formativo Legno Arredo. Il progetto trova concretezza in una serie di arredi che provano a risolvere il problema della mancanza di spazio: una barra per appendere, appoggiare, archiviare, un sistema aperto che suggerisce un supporto, ma lascia al singolo la libertà di integrarlo; una sedia per studiare, socializzare e svagarsi, pronta a trasformarsi in tavolino quando ne incontra un’altra; uno scaffale sospeso dotato di mensole e feritoie, che in orizzonta diventa anche angolo cottura, con lo spazio per riporre piatti, bicchieri, vettovaglie e un ripiano per cucinare; infine il letto, elemento cardine della cella. Quello immaginato dai progettisti di Stanze Sospese è un letto a castello in cui i piani slittano, per sedersi senza oppressioni sopra la testa, con mensole e cassetti, che sfrutta la barra come parte integrante per costruire un comodino. L’ultimo tassello della progettazione intelligente per le carceri sono i colori: “la cella misura m. 2,30 X 4,30 ed è alta m. 3,40. Pareti e pavimenti sono neutri chiari e opachi perché sono colori silenziosi, più adatti a spazi minimi di uso quotidiano. Un riquadro verde delimita la zona del letto e un passaggio azzurro separa la camera dal bagno. Un filtro rosso applicato allo spioncino del bagno riduce la visibilità e tutela la privacy” raccontano i designer che offrono ai carcerati stanze “sospese” come il caffè, a disposizione di chi ne ha bisogno. Ferrara: dal giornale ai corsi di fotografia, i detenuti si raccontano alla città di Eugenio Ciccone filomagazine.it, 13 ottobre 2018 Il carcere è per antonomasia luogo degli ultimi, dei reietti della società. Ci si finisce quando si oltrepassa la linea tra bene e male secondo l’ordine costituito, quando la giustizia stabilisce il prezzo da pagare mettendo la parola fine ad un certo tipo di vita per proporne tutta un’altra che si spera porti a qualche tipo di redenzione. È proprio il lungo cammino verso la redenzione a riempire le giornate dei detenuti nella struttura di via Arginone a Ferrara, la casa circondariale Costantino Satta, che quest’anno hanno incontrato un gruppo di cittadini per un paio di ore in occasione del Festival di Internazionale a Ferrara. Un ponte tra due realtà, tra il mondo fuori che prosegue a testa bassa la sua vita libera e costellata di problemi, e chi vive invece dentro un perimetro piccolissimo di città delimitato da mura di cemento. Cosa succede fuori lo conosce a volte solo attraverso il racconto di una tv. Un luogo dove c’è dolore e rabbia ma spesso anche speranza di rivedere un giorno la luce. Il carcere di Ferrara è un enorme palazzo di cemento con braccia lunghe a cingerlo tra orti e giardini interni che non mettono alcuna allegria. Come un ospedale, ma ancora più triste. Entrarci in visita per la prima volta suscita un mix di sensazioni molto forti e mette soggezione. D’altra parte è proprio questo il suo compito: varcati gli enormi cancelli interni e superato il controllo documenti l’impatto con l’edificio e il suo intorno non è diverso dai film sul tema che affollano l’immaginario collettivo. Tante finestre uguali in fila, scarpe appese per i lacci alle sbarre, qualche indumento steso ad asciugare come in ogni casa che si rispetti. Le stanze di vita quotidiana sono micromondi colorati e disordinati, le immagino piene di parole, suoni, un misto di sconforto, silenzio, risate, imprecazioni, preghiera, letture. Il trascorrere delle ore all’interno di pochi metri quadrati può essere infinito se non ci si lascia abbracciare dalle attività culturali e ricreative che la struttura propone, anche su iniziativa di esterni. Oggi siamo qui proprio per scoprire tre piccole realtà che lavorano con i detenuti giorno per giorno e che raccontano il mondo carcerario con occhi diversi e un entusiasmo che coinvolge. “Perché lavorare con persone simili? Perché proporgli attività culturali, non se lo meritano affatto! Chi ha sbagliato è giusto venga punito e stia in cella a marcire”, potrebbe obiettare qualcuno. Eppure è “il miglior modo per trascorrere le ore qui dentro”, ci racconterà più tardi Paride, tra i più giovani detenuti che incontriamo. La pensano così anche tutti gli operatori che lavorano con loro, fare cultura in carcere è il miglior modo di sanare le ferite dello spirito, seppure complicato e faticoso. All’ingresso ad attenderci in quello che sembra un incrocio tra la hall di un albergo e l’atrio di una scuola c’è Raimondo Imbrò, un pittore polesano che conduce il laboratorio di pittura in carcere. Entusiasta dei lavori del suo gruppo ci conduce attraverso due corridoi mostrando le tele una ad una, spiegando significati, storie, ossessioni e stili dietro ogni opera, spesso sbagliate dal punto di vista formale ma cariche di energia e importanza. L’arte come percorso terapeutico è forse una delle attività più comuni in strutture come queste, eppure il livello delle produzioni stupisce per la qualità allontanando quel pensiero che ti ronza sempre intorno diventando pregiudizio: un detenuto sa dipingere come un vero artista? Prova emozioni gentili come noi fuori, che siamo andati a scuola e abbiamo visto centinaia di musei? Ci si aspetta sempre che un vero bad guy sappia manovrare con destrezza pistole e coltelli piuttosto che un pennello, ma la mostra è qui per ricordarci la nostra natura umana più profonda, che accomuna tutti quanti. “È un attimo finire dall’altra parte, commettere uno sbaglio che finiamo per pagare caro - ammonisce Imbrò lasciando ammutolito il gruppo che lo ascolta - chiunque di noi è convinto di essere una persona corretta, che non potrà mai perdere la testa commettendo un reato, eppure tante storie di questi detenuti raccontano proprio questo”. Cristiano Lega, fotografo di origini napoletane ma da anni a Ferrara e nostro collaboratore, ha condotto invece un laboratorio di fotografia con alcuni detenuti negli ultimi sei mesi. Gli scatti sono confluiti in una mostra dal titolo Limbici, tutti ritratti e autoscatti davanti a un muro bianco, completamente neutro. La fotografia in carcere, specialmente quando ritrae chi lo vive, è spesso retorica, cupa, andando ad esasperare gli aspetti più alienanti di ogni situazione. Per contrasto gli scatti di Limbici mettono in mostra sotto tutta un’altra luce le cinque o sei persone che si sono messe in gioco davanti all’obiettivo, increduli per primi dell’ottimo risultato finale, dove al contempo si mostrano come modelli e fotografi. Sorrisi, tatuaggi, sguardi intensi che raccontano gli uomini e non i detenuti, privi di ogni riferimento temporale e geografico, senza raccontare il loro pregresso ma soltanto ciò che sono oggi. Giocare con una macchina fotografica, conoscere un po’ di tecnica e la storia di alcuni fotografi famosi è un’attività complessa e del tutto insolita per un carcere, ma è un’esperienza importante e originale, che si spera potrà essere replicata in futuro all’Arginone. L’attività più nota che ormai da 13 anni viene organizzata all’interno del carcere è però il suo giornalino. Lo chiamano proprio così - giornalino - i detenuti che raccontano il progetto, come una cosa piccola, un progetto scolastico, seppure di grande importanza. Astrolabio rappresenta, come il nome stesso suggerisce, un vero e proprio strumento di navigazione da ben 13 anni, un riferimento per chi trascorre parte della sua vita all’interno del carcere e desidera cimentarsi con la scrittura. Astrolabio è un bimestrale patinato e ben impaginato, stampato in proprio grazie al contributo del Comune di Ferrara e distribuito per posta, nelle biblioteche ma anche disponibile online sul sito della rivista. Il progetto coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dell’Arginone, coordinati dal maestro elementare Mauro Presini. Capace di dare voce ai reclusi e a chi opera per il carcere, raccoglie storie, eventi, poesie e pensieri in libertà, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali. Alcuni dei ragazzi che lo scrivono raccontano dell’importanza che ha avuto nel loro processo rieducativo: chi si è avvicinato alla lettura in biblioteca, chi ha preso finalmente il diploma disponendo soltanto della licenza elementare, chi ha potuto fare amicizia con detenuti di altre sezioni che normalmente sono separate, sfruttando le riunioni del giornalino due volte a settimana. Soprattutto uno sfogo, libero, forte e necessario. Sfogliare le pagine di Astrolabio è come immergersi un po’ nel dolore e nella speranza, è come essere partecipi di un disagio, cogliendo al contempo l’importanza e l’entusiasmo di chi grazie a questi momenti trascorre più serenamente le sue giornate all’Arginone. Momenti come il teatro, che porta in scena spettacoli ogni anno o gli incontri aperti al pubblico, come quello per presentare l’orto condiviso “Galeorto”, durante la scorsa edizione di Interno Verde o proprio in questi giorni con il festival di Internazionale e l’incontro con ottanta cittadini che hanno prenotato il loro posto con un mese di anticipo. L’affetto e l’interesse di tante persone curiose di scoprire come funzionano, seppure in parte, le dinamiche all’interno del carcere sono segnali importanti in una società che sempre di più si volta dall’altra parte, o nasconde la polvere sotto il tappeto cercando di non pensarci. Se l’anagramma di carcere è cercare, come racconta Presini, allora è bello che qualcuno abbia voglia di fare questa ricerca, varcando una soglia, rompendo un muro, stabilendo un contatto. Monza: “Oltre i confini-Beyond Borders”, il giornale dei detenuti ilcittadinomb.it, 13 ottobre 2018 Il Cittadino produce un giornale scritto interamente dai detenuti del carcere di Monza. Il progetto “Oltre i confini-Beyond borders”, nato dalla collaborazione con Antonetta Carrabs, è stato raccontato al Tg2 nella rubrica “Tutto il bello che c’è”. “Una bella storia da un carcere, il penitenziario di Monza, dove i detenuti si educano alla socialità: si combatte con coraggio l’emarginazione dietro le sbarre. Anche grazie a un giornale”. Il progetto “Oltre i confini-Beyond borders”, nato dalla collaborazione tra Antonetta Carrabs e il Cittadino di Monza, è stato raccontato al Tg2 nella rubrica “Tutto il bello che c’è” di giovedì 11 ottobre. Le telecamere Rai sono entrate nella casa circondariale di via Sanquirico e con il giornalista Daniele Rotondo hanno raccontato la nascita del giornale che ogni due mesi va in edicola con lo storico bisettimanale di Monza e Brianza attraverso la voce dei protagonisti. Quella di Alberto, in carcere per rapina, che compone poesie e parla dei colori attraverso “la luce che è tornato a vedere” o di Rosario, impegnati a scrivere “per chi sta fuori”. “Qui non ci sono i colori, è tutto in bianco e nero - ha detto al microfono Carrabs che in carcere coordina un laboratorio di narrazione - Quindi ho scoperto che la poesia e la parola e la narrazione possono essere terapeutiche, salvifiche”. È stata l’occasione per portare in tv anche il progetto di “Spazio - casa” che permette ai detenuti di incontrare le loro famiglie in un ambiente più familiare. “Oltre i confini-Beyond borders” torna in edicola con il Cittadino giovedì 22 e sabato 24 novembre 2018. Tre italiani su dieci a rischio povertà. Cinque milioni gli indigenti assoluti di Diana Cavalcoli Corriere della Sera, 13 ottobre 2018 Il rapporto di ASviS e la situazione italiana rispetto agli obiettivi dell’agenda OnuEnrico Giovannini: in ritardo con le misure, non è solo una questione economica. Un’Italia dove i poveri sono l’eccezione. Dove sorprende vedere qualcuno all’angolo di una strada che chiede l’elemosina. Dove la fila per il pane è dimezzata. Dove nessun bimbo è costretto a vivere in una baracca senza sapere cosa si prova a stare seduti, con le gambe ciondoloni, in un banco di scuola. E dove nessun anziano vive della frutta caduta dai banchi del mercato. È questa l’Italia che “sogna” l’Onu quando nell’Agenda 2030 scrive che bisogna “ridurre, almeno della metà, la percentuale di chi vive in povertà”. Gli ultimi invece fanno ancora parte del nostro quotidiano e la ragione è semplice: siamo lontani dall’obiettivo zero povertà. Che poi è il primo dei 17 Sdgs, i “Sustainable development goals”, traguardi di sostenibilità sottoscritti da 193 Paesi del mondo che esamineremo uno alla volta in queste pagine. E in effetti una nazione senza ultimi sembra un’utopia, un mondo uscito da un racconto di fantascienza in stile Ray Bradbury. La realtà è ben diversa. Il Rapporto 2018 del network ASviS, che su dati Istat e sui propri indicatori, analizza i progressi dell’Italia sui singoli obiettivi, segnala che da noi la popolazione a rischio di povertà e esclusione sociale è pari al 30 per cento, in aumento rispetto all’anno precedente. Nel 2017 si contano infatti oltre 5 milioni di persone in povertà assoluta. “È il livello più alto dal 2005 - dice Enrico Giovannini, ex ministro del Lavoro e fondatore di ASviS - e i numeri sono preoccupanti: direi che siamo molto lontani dal risolvere la questione”. Le ragioni sono molteplici. “Sicuramente ha inciso il fatto che per molto tempo non abbiamo avuto una misura universalistica di contrasto alla povertà assoluta, a differenza di Francia o Germania. Ci siamo poi concentrati sul sostegno economico che purtroppo non basta”. Un primo passo avanti è stato fatto con il Rei, il reddito d’inclusione che lega al beneficio economico una serie di servizi per attivare le persone e che oggi interessa circa la metà dei poveri assoluti. La strada però è ancora lunga. Il governo gialloverde annuncia nuove misure che dovranno rispondere ai bisogni dei nuovi poveri. “La povertà - aggiunge Giovannini - sta cambiando volto. Si è ridotta la quota di anziani indigenti, grazie ai sistemi di welfare che li hanno protetti durante la crisi, ma crescono le famiglie giovani povere specialmente se straniere o con molti figli. Il che espone i più piccoli al rischio di una vita ai margini”. La condizione dei bambini e degli adolescenti si conferma la più preoccupante: il 12 per cento dei minori è in povertà assoluta, sono 1,2 milioni. Giovannini lancia poi l’allerta sulla cosiddetta “povertà generazionale”. “Viviamo in un Paese in cui i figli nati in una famiglia povera avranno sempre meno possibilità di uscire dalla loro condizione. All’indigenza si associa un alto tasso di abbandono scolastico che incide poi sulle possibilità di trovare lavoro”. Semplificando, chi nasce povero in Italia muore povero. E vale soprattutto al Sud. Quasi la metà di chi è a rischio si trova nel Mezzogiorno dove si registra l’incidenza più elevata di soggetti in povertà assoluta (11,4 per cento degli individui). Con gravi criticità in Campania, Molise, Abruzzo, Calabria e Sicilia. “Basta pensare alle periferie di queste regioni dove va evitata la concentrazione di povertà come avviene nelle banlieu francesi”. Per Giovannini la strategia più efficace per arginare il problema è puntare sul rimettere in gioco le persone e il giudizio sul Rei è positivo. Soprattutto perché oltre al sostegno materiale prevede un progetto di inclusione che coinvolge comuni, servizi per l’impiego e centri di formazione. “La povertà - sottolinea- non è infatti solo assenza di reddito. Basta guardare agli ultimi anni: nonostante la ripresa e l’aumento degli occupati i poveri sono cresciuti. Non basta il Pil e tanto meno un assegno mensile per le famiglie indigenti. Bisogna lavorare sull’inclusione”. E magari aumentare i fondi a disposizione. Come richiesto a gran voce dall’Alleanza contro la povertà che pensando alla Legge di Bilancio ha scritto una lettera al governo. Nel testo si chiede di non fare “tabula rasa” rispetto al Rei, e incrementare il fondo povertà “gradualmente nei prossimi anni, con altri 5,8 miliardi così da ampliare la platea dei beneficiari”. L’Alleanza ha anche espresso alcuni dubbi sulla proposta pentastellata di affidare la gestione dell’intervento anti povertà non più ai Comuni ma ai centri per l’impiego. “La povertà assoluta - si legge nella lettera - è multidimensionale. Solo i servizi sociali comunali dispongono delle competenze per analizzare il fenomeno”. Per l’Alleanza è un autogol sovraccaricare i centri dell’impiego, già poco efficienti, perché si ridurrebbe la loro capacità di svolgere la mansione per cui sono nati: l’inclusione lavorativa. “L’esempio a cui guardare - conclude Giovannini - è quello dei Paesi nordici. Anche se le best practice ci sono anche da noi. Data l’assenza di una misura nazionale si sono moltiplicate le sperimentazioni a livello regionale”. Esempi? Il Reddito di solidarietà dell’Emilia-Romagna che con fondi regionali ha bilanciato i limiti del Rei o la Caritas di Benevento che ha avviato un progetto di presa in carico diretta dei più poveri. Per “non dimenticare gli ultimi” sarà quindi necessario raccordare tutte queste esperienze e fare sistema. Possibilmente accelerando in vista del termine del 2030. Tutt’altro che lontano. I migranti portano malattie? La realtà scientifica è diversa di Paolo Rossi Castelli Corriere della Sera, 13 ottobre 2018 Esperti riuniti in Svizzera per un convegno che fa il punto sul fenomeno in Italia ed Europa: “Fra chi arriva sono molto rare le malattie gravi e trasmissibili. Tubercolosi, colera, Zika e Dengue arrivano più spesso con turisti o merci”. Davvero i migranti sono portatori di gravi malattie quando sbarcano in Italia o nel resto dell’Europa, come alcuni giornali e social media, anche recentemente, hanno ribadito? La realtà scientifica, basata su dati verificabili, è molto diversa. In viaggio persone sane e forti - Lo dimostra la relazione che Bernardino Fantini, professore emerito di storia della medicina all’Università di Ginevra, terrà sabato 13 ottobre a Lugano, nell’ambito di un Forum Sguardi scientifici sulle migrazioni, organizzato dalla Fondazione IBSA in collaborazione con l’Università della Svizzera Italiana. L’idea del convegno, a cui sono stati invitati esperti di notevole valore, è quella di affrontare in modo ordinato, attendibile e non emotivo (svizzero, verrebbe da dire...) i diversi temi legati ai migranti, da quelli puramente economici e sociali, ai problemi giuridici e storici, affrontando anche, naturalmente, il delicato argomento della salute pubblica. “I dati raccolti in modo serio dalle autorità di molti Paesi europei e nordamericani - dice Fantini - forniscono un quadro molto più rassicurante, rispetto a quello che può apparire (o che si può temere). Molti studi dimostrano, infatti, che la popolazione straniera in arrivo sulle coste italiane presenta, di norma, condizioni di salute buone. Dati interessanti sono contenuti, a questo proposito, in due recenti indagini dell’Istat, intitolate “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari” e “Condizione e integrazione sociale dei cittadini stranieri”. Le buone condizioni di salute dei migranti (almeno, quando arrivano) sono legate al fatto che, in genere, solo le persone più giovani e più sane decidono di tentare il viaggio (un viaggio spesso durissimo, come sappiamo) verso l’Europa. È il cosiddetto “effetto migrante sano”, come lo definiscono gli addetti ai lavori”. Più spesso sottoalimentazione e disidratazione - “Le statistiche dell’Istat, ma anche quelle delle Nazioni Unite e di altre importanti organizzazioni internazionali, dimostrano che fra i migranti in arrivo sono molto rare le malattie gravi e “trasmissibili” ad altre persone. La rivista Epidemiologia & Prevenzione (maggio-agosto 2017), pubblicata dall’Associazione Italiana di Epidemiologia, cita, per esempio, i dati raccolti dalle équipe dell’INMP (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e il contrasto delle malattie della Povertà) presso gli hotspot di Lampedusa e di Trapani Milo nel periodo maggio 2015-ottobre 2016: ebbene, su circa 6.000 visite effettuate, i migranti hanno mostrato spesso situazioni di forte sottoalimentazione e disidratazione, ma senza gravi malattie infettive e diffusive, mentre erano presenti casi di patologie facilmente curabili, soprattutto dermatologiche: scabbia, prurito e affezioni correlate, pediculosi, impetigine e dermatite da contatto”. Tubercolosi pochissimi casi - “L’incidenza della malattia tra gli stranieri nati all’estero, sempre secondo i dati pubblicati da Epidemiologia & Prevenzione, era di 47,1 casi ogni 100.000 persone nel 2015, non molto distante dalla media della presenza di tubercolosi nella popolazione europea, che - secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità - è di 39 casi su 100.000 abitanti. I dati dell’Inmp riferiscono, in effetti, che su 51.000 pazienti visitati nell’arco degli anni 2009-2014, sono stati riscontrati solo 24 casi confermati di tubercolosi. Il problema, semmai, è che la “presa a carico” di queste persone da parte dei servizi sanitari mostra qualche criticità, in particolare per quanto riguarda il follow-up degli stranieri malati, vista la bassa aderenza ai protocolli terapeutici, anche in seguito, spesso, allo stato di clandestinità”. Più a rischio navi e aerei - “I migranti, come dicevo, hanno una responsabilità molto bassa nella trasmissione delle malattie da un Paese (continente) all’altro. Nell’era della globalizzazione, il rischio dell’arrivo di nuovi germi (come Zika e Dengue) è molto più alto in seguito agli spostamenti, elevatissimi, di turisti e merci. Spesso i turisti, o gli stranieri che tornano nei loro Paesi a trovare i parenti, possono importare malattie infettive, come è successo a Napoli qualche giorno fa, con due casi di colera che hanno fatto subito pensare, erroneamente, all’epidemia del 1973. Inoltre, i microbi e i loro vettori possono viaggiare abbastanza facilmente sulle navi (per esempio all’interno dei pneumatici conservati nelle stive, o in piccole pozze d’acqua), o addirittura sugli aerei. uesto è successo, per esempio, a proposito della zanzara tigre e della Dengue, arrivate su una nave cargo che aveva attraccato nel porto di Ravenna. Altro esempio: a Fiumicino sono arrivate, in aereo, zanzare portatrici di malaria, e una di queste zanzare ha punto una signora ai Castelli romani. Si tratta di situazioni rare, mentre sono invece frequenti i casi di turisti europei che contraggono un’infezione nei Paesi asiatici, africani, o sudamericani, e poi tornano in patria con il loro carico infettivo. Fortunatamente, grazie ai presìdi sanitari territoriali e alle reti reti internazionali di monitoraggio e di prevenzione, questi casi vengono rapidamente presi in carico”. La storia - “Le relazioni fra le migrazioni e le epidemie sono state costanti attraverso tutta la storia dell’umanità. La maggior parte delle grandi epidemie che hanno marcato la storia (peste, vaiolo, febbre gialla, sifilide, colera, influenza) sono state legate, in effetti, a massicci spostamenti di popolazione nei secoli passati, a causa di migrazioni, guerre, scoperte geografiche. Ma allora non si sapeva nulla dell’origine di queste malattie e le autorità facevano di tutto per nascondere le notizie sulle epidemie, favorendo in tale modo la loro diffusione e provocando il panico. È questo che ha creato e mantiene una paura ancestrale nei confronti del migrante, o in genere dello straniero. In realtà, adesso c’è una grande discontinuità storica rispetto al passato, perché la medicina e la sanità pubblica hanno acquisito, in particolare dopo la rivoluzione di Pasteur e lo sviluppo delle vaccinazioni, e dopo la scoperta degli antibiotici, efficaci strumenti per il controllo delle malattie infettive”. La salute peggiora dopo l’arrivo in Europa - “L’amaro paradosso (molto conosciuto dagli addetti ai lavori, ma ben poco dai cittadini) è che l’“effetto migrante sano” tende più o meno a ridursi, fino spesso a scomparire, a causa delle condizioni difficili in cui i migranti si vengono poi a trovare nei Paesi europei. In altre parole, il “vantaggio di salute”, che spesso i migranti hanno al loro arrivo, viene perso per le disparità economiche e sociali che in molti casi sono costretti a subire (scarsissimi guadagni, alloggi precari, lavori pesanti e spesso pericolosi, a volte discriminazione): tutto questo porta a un peggioramento delle loro condizioni di salute. In questi casi si parla di “effetto migrante esausto”, che è provocato anche dalla grande vulnerabilità dimostrata nei confronti delle malattie metaboliche e cardiovascolari da alcune popolazioni del subcontinente indiano o dell’Africa, quando cominciano a seguire stili di vita e alimentari non salutari, tipici dei Paesi in cui vengono ospitati, e radicalmente diversi da quelli delle nazioni di origine”. Le malattie mentali sottovalutate - “Purtroppo fra le donne che emigrano verso l’Europa sono molto più frequenti, rispetto ai nostri standard, problemi (non infettivi) che nei Paesi industrializzati appaiono invece ampiamente sotto controllo, come il tumore del collo dell’utero (e questo avviene per l’assenza di controlli preventivi, come il pap test, in molti Paesi poveri, che rende ancora ampia la diffusione di questo tipo di tumore). Naturalmente c’è anche il grave problema delle mutilazioni genitali, che tuttora vengono inflitte a molte ragazze. E poi, vanno considerati i disturbi psichici: se parliamo di salute dei migranti, il problema più diffuso e difficile da affrontare è sicuramente quello delle malattie mentali, che colpiscono queste persone in una misura nettamente superiore rispetto alla popolazione residente, per svariate ragioni, alcune facilmente comprensibili”. Nazioni Unite. L'Italia ora entra nel Consiglio per i diritti umani Il Giornale, 13 ottobre 2018 Anche l'Italia, così come gli altri 17 candidati votati nel pomeriggio di ieri dall'Assemblea generale Onu, si è guadagnata un seggio nel Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Il risultato, insieme all'alto numero di voti a favore (180 su 193), ha fatto esultare il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Il titolare della Farnesina ha detto che l'Italia, nel suo mandato triennale, intende concentrarsi sui “temi che reputa prioritari”: la condanna di ogni forma di xenofobia, il contrasto delle discriminazioni religiose, la protezione dei minori, la tutela delle persone con disabilità, la parità delle donne nella società, la lotta contro ogni tratta di esseri umani, lo stop alla pena di morte nel mondo e la tutela del patrimonio culturale. Ma il voto di ieri, che è andato a rinnovare un terzo dei 47 membri del Consiglio, ha concesso l'ingresso anche a Eritrea, Filippine, Bahrein, Bangladesh, Camerun e Somalia. Tutti Paesi su cui le organizzazioni che si occupano di diritti umani avevano lanciato l'allarme. Anche perché l'organismo già vede tra i suoi Stati membri la Cina, che ha appena ammesso l'esistenza di “campi di rieducazione” per la minoranza musulmana uigura, e l'Arabia Saudita, ora nel mirino per il caso Khashoggi. Secondo le Ong in cima alla lista dì chi, quel posto, proprio non se lo merita ci sono l'Eritrea, il cui regime è considerato tra i peggiori al mondo, e le Filippine, dove la guerra alla droga del presidente Badrigo Unterte ha ucciso migliaia di civili. Ma anche il Bahrein, dove i gli oppositori vengono imprigionati, o il Camerun, dove la minoranza anglofona è stata a lungo perseguitata. Proprio per queste anomalie a giugno gli Usa si sono ritirali dall'istituzione, definita “ipocrita” e “protettrice di chi abusa dei diritti umani”. La Ong Human Rights Watch ha avvertito: “Così si perdono credibilità ed efficacia”. Stati Uniti. Vernon, il condannato a morte che ha perso la memoria di Michele Farina Corriere della Sera, 13 ottobre 2018 L’uomo, 68 anni, in carcere dal 1985, ha la demenza: esecuzione sospesa in attesa della Corte suprema. Aspetta la visita della madre, senza ricordare che è morta molti anni fa. Si lamenta per la mancanza del bagno, senza sapere che ce l’ha in cella. Parla a fatica, ci vede poco, è incontinente, non è più in grado di camminare. Eppure non c’è motivo di simpatizzare per Vernon Madison, 68 anni, uno dei 5 milioni di americani che soffrono di Alzheimer o di altre forme di demenza. Da 33 anni Madison è nel braccio della morte in un carcere dell’Alabama, per un crimine che non ha mai riconosciuto. Nell’aprile 1985 uccise con due colpi di pistola l’agente Julius Schulte, dopo un litigio nel corso del quale la sua compagna aveva chiamato la polizia. L’uomo ferì la donna, che proteggeva con il proprio corpo la loro figlia undicenne. Anche volendo, per quel Vernon Madison non si potrebbe provare simpatia, perché l’uomo stranito che aspetta la madre nel braccio della morte non è più lui. È uno che ha smarrito la sua identità, a causa della demenza vascolare insorta dopo due ictus (nel 2015 e nel 2016). Una persona che ha perso la cognizione del passato, compreso il motivo per cui si trova in carcere, può essere messa a morte in base alla Costituzione americana? È quanto dovrà stabilire in via definitiva la Corte Suprema, che pochi giorni fa ha ascoltato le parti. Lo Stato dell’Alabama ritiene che la demenza di Madison non sia motivo sufficiente per risparmiare a lui il boia, e alla società la lezione su che cosa accade a chi uccide. I suoi avvocati invocano l’Ottavo Emendamento, che vieta “il ricorso a pene crudeli e inusitate”. L’anno prossimo i giudici annunceranno la decisione su una vicenda già passata una volta sotto i loro occhi. Il 25 gennaio 2018, mezz’ora prima dell’iniezione letale, un tribunale dell’Alabama bloccò l’esecuzione di Madison. Lo Stato fece appello e la questione finì davanti alla Corte Suprema, che nel 2007 aveva stabilito che gli imputati non possono essere giustiziati se non sono in grado di comprenderne il motivo. Ma, nel caso di Madison, i giudici si schierarono in prima istanza contro la sospensione dell’esecuzione, basandosi su una sottile distinzione: c’è differenza tra chi non ricorda il crimine commesso e chi non è in grado di comprendere i concetti di delitto e pena. In occasione della sentenza, però, i tre magistrati più liberal - Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer e Sonia Sotomayor - si dissero pronti ad approfondire in futuro la questione del degrado cognitivo del condannato. Il futuro è arrivato veloce, in concomitanza con l’aggiunta del nono giudice, Brett Kavanaugh, fresco di tortuosa nomina. Il giudice Breyer in una nota ha sottolineato il tema dell’invecchiamento dei detenuti. Nel 1987 la detenzione prima dell’esecuzione era in media di 7 anni; oggi di 19. I condannati invecchiano, cambiano. E poiché l’età è un fattore di rischio, ci si può aspettare che Alzheimer e affini siano in aumento anche fra le celle del “miglio verde”. Vernon Madison probabilmente non sa nulla di tutto questo. All’ultimo check-up, un perito ha confermato la demenza vascolare. La perdita di memoria di chi soffre per patologie simili non è legata a una forma di amnesia, quanto a un degrado cognitivo che coinvolge progressivamente le capacità di ragionamento, la coscienza di sé. L’assassino dell’agente Schulte al primo processo nel 1985 si difese dicendo di essere malato di mente e al secondo, qualche anno più tardi, parlò di legittima difesa. Un essere abominevole, sfuggito alla pena che qualcuno oggi gli vorrebbe affibbiare. Perché purtroppo o per fortuna l’uomo che ogni mattina si sveglia nel braccio della morte aspettando la visita della madre, anche se conserva il suo nome, non è più Vernon Madison.