Mamme e figli, una prigione senza sbarre di Maria Novella De Luca Venerdì di Repubblica, 12 ottobre 2018 Niente muri di cinta, divise o celle. Dopo la tragedia di Rebibbia, dove una detenuta ha ucciso i suoi bambini, la prima “struttura protetta” d’Italia apre le porte al Venerdì. Omar calpesta il prato con il suo triciclo rosso e Marina corre con il vento nei capelli. Cadono, si rialzano, ridono, hanno sette anni in due e un giardino immenso da esplorare. Niente sbarre, niente muro di cinta che rompe la linea dell’orizzonte, niente agenti in divisa. Bogena prepara il brodo vegetale, Mary, nigeriana, appena arrivata dal carcere di Rebibbia, allatta Tiffany, Anna gioca nel salone con Dani, un anno e mezzo e gli occhi blu. (I nomi delle detenute sono tutti di fantasia, le loro storie, invece, tutte vere). Racconta Agata Venga, psicologa: “Quando uno dei nostri bambini è stato invitato alla festa di un compagno dell’asilo, abbiamo capito che eravamo sulla strada giusta. Vuol dire che qui i figli delle detenute non sono piccoli carcerati, ma bambini e basta”. Una strada appartata dell’Eur, una villa di 600 metri quadrati confiscata alla mafia, pareti rivestite di legno e lampadari di cristallo, resti di un lusso sfrontato e lugubre oggi ingentilito da disegni, giocattoli, castelli di Lego, seggioloni e cavalli a dondolo. Casa di Leda, la prima “struttura protetta” in Italia dove le detenute madri possono scontare la loro pena fuori dal carcere, è nata qui, a Roma, poco più di un anno fa (tra le proteste dei residenti che non volevano le “carcerate”) laboratorio e simbolo di un’idea della pena “non soltanto afflittiva ma rieducativa”. Nello spirito, “oggi in gran parte dimenticato della legge Gozzini, ma anche e soprattutto del benessere dei bambini” dice Luigi Di Mauro, direttore di Casa di Leda. Alberi, aria, una grande cucina, cibo, vestiti puliti, il nido del quartiere, le educatrici, la psicologa. Bogena arriva da uno dei più disperati campi nomadi della periferia romana. “Noi abbiamo sbagliato, ma i figli non devono pagare per le nostre colpe. Guardate, sono felici, come quelli che stanno fuori”. Sorride, senza denti, i denti sono un lusso, la faccia invecchiata, gli anni indefiniti. Gli echi della tragedia avvenuta nel nido del carcere di Rebibbia, l’atroce gesto di Alice Sebaste, detenuta per traffico di droga, che ha ucciso gettando dalle scale Divine e Fatih, i suoi bimbi di sei e diciotto mesi, sono presenti come un’ombra nelle parole e nelle emozioni delle sei donne ospiti di Casa di Leda. “Quei piccoli sono diventati angeli, se fossero stati qui li avremmo salvati”, mormora Anna, 27 anni, due figli, bosniaca, etnia Rom, mentre stringe in braccio Dani e mostra la sua stanza, arredata come tutte le altre con le cassettiere e i lettini chiari donati da Ikea. È intelligente, Anna, veloce. Sulle spalle, come accade a molte ragazzine nomadi spedite a rubare fin da bambine, ha il “cumulo” dei reati, in gran parte furti. Tutti i giorni porto i bambini a scuola, è bello uscire insieme, adesso qui con me è arrivata anche mia figlia più grande, va all’asilo, vorrei prendermi la terza media, imparare un lavoro per quando esco. Ma studiare è difficile, c’è tanto da fare...”. “Dai, dai Anna che cela fai”, incoraggia Marianna, una delle educatrici. Alcune in questo carcere senza sbarre la strada giusta riescono a ritrovarla. E i più piccoli riconquistano il diritto all’infanzia. Perché le detenute, sei più otto bambini, possono uscire e rientrare, secondo le disposizioni del magistrato. Orari da rispettare al minuto, regole severe, ma anche scampoli di normalità. “Leda” è il nome-omaggio a Leda Colombini, partigiana, deputata del Pci, fondatrice nel 1991 dell’associazione A Roma Insieme, la prima a “scarcerare” ogni sabato i bambini di Rebibbia, cui si deve nel 1983 la prima indagine italiana sulla detenzione femminile. Fino alla sua morte nel 2011, Colombini si è battuta per far uscire l’infanzia dai nidi dei penitenziari, istituiti dalla legge di riforma carceraria del 1975 proprio per non spezzare il legame madre-figlio. Ma in quell’orizzonte chiuso, anche se in ambienti speciali e curati (e il nido di Rebibbia grazie ai volontari è uno di questi, conferma Giovanna Longo, oggi presidente dell’associazione fondata da Leda Colombini) si è visto invece quanto i bambini soffrano. Per molti la prima parola è “apri”, la seconda è “fuori”, la terza è “aria”. Neonati e già “colpevoli nati”, li aveva definiti l’associazione Antigone. Infatti la nuova legge di riforma, la 62 del 2011, con lo slogan “Mai più bambini in carcere”, ha finalmente previsto per le detenute madri che non abbiano reati di mafia o terrorismo, sia delle strutture penitenziarie “attenuate” (gli Icam), sia le case protette, per donne con reati fino a 5 anni di detenzione. Una legge disattesa però. Oggi in Italia ci sono ancora 60 “baby-detenuti” che vivono dietro le sbarre, divisi tra i nidi delle prigioni, dove possono restare fino ai tre anni, cinque Icaro in gran parte deserti e soltanto due case protette, una a Roma e una a Milano, in cui invece i figli possono essere ospitati fino ai dieci anni d’età. Spiega Agata Venga, appassionata coordinatrice della struttura, insieme all’educatrice Marianna Cervelloni: “Ricordo un bambino arrivato dopo molti mesi in carcere. Ogni notte, alle quattro, si svegliava e piangeva in modo inconsolabile. Qui ha recuperato il sonno, l’appetito, la serenità. L’ambiente in cui si trascorrono i primi mille giorni di vita, non è indifferente per un neonato. Come diceva Dino Risi, cosa fanno i bambini tutto il giorno? Fabbricano ricordi”. Sonya è marocchina, a Rebibbia c’è stata più di un anno. Poi ha finito di scontare la pena a Casa di Leda e da marzo è libera. È energica, determinata. “Lì è pieno di confusione, c’è chi grida, chi urla, mio figlio era sempre nervoso. Nessuno ti ascolta, ci vogliono mesi per avere un colloquio con l’assistente sociale. Ho altri due bambini, erano stati dati in affido, adesso torneranno con me. Ho affittato una casa, ho imparato a fare la mediatrice culturale. Ma senza l’aiuto delle operatrici di questa casa, Agata, Marianna, che mi hanno seguita giorno dopo giorno, i miei figli li avrei persi”. Per il direttore Luigi Di Mauro, presidente della consulta penitenziaria di Roma, “Sonya rappresenta il successo del nostro progetto. Ha pagato il suo debito con la giustizia, ma attraverso la detenzione in una casa protetta è riuscita a ricostruirsi una vita per sé e per i suoi bambini. Qui ha potuto dimostrare di essere una buona madre, infatti il Tribunale per i minori le ha restituito i figli. Siamo un luogo di esecuzione della pena, ci sono i controlli di polizia quattro volte al giorno, chi non rispetta le regole è soggetto a sanzioni. Ma tutto nel rispetto dell’umanità”. Il futuro di Casa di Leda però è appeso a un filo. La struttura infatti è del Comune di Roma, ma la sopravvivenza delle detenute e i progetti educativi resistono grazie a donazioni private. “I fondi ci sono, Casa di Leda è una priorità” ha promesso l’assessora ai Servizi sociali, Laura Baldassarre. Mary, detenuta per traffico di droga, con Tiffany sulla schiena fa il caffè per tutti. L’aria nel giardino rinfresca. I piccoli guardano la tv. “Finita la pena vorrei fare la parrucchiera”, sogna Anna. Forse. Chissà. Oltre il carcere senza sbarre qualcuna ce la fa. Legittima difesa. “Per sparare non basta essere turbati” di Francesca Angeli Il Giornale, 12 ottobre 2018 Presentati tre emendamenti M5s per ammorbidire il testo leghista. Tensioni in maggioranza sulla legittima difesa. I Cinquestelle cercano di limitare i casi nei quali la legge, voluta dalla Lega, considera giustificato reagire comunque anche con un’arma Per il Carroccio la difesa è sempre legittima come ha più volte ribadito il leader Matteo Salvini: “Se un ladro entra a casa mia di notte lo stendo”. La riforma con la quale si introduce il principio di “presunzione di legittima difesa”, è in discussione in Commissione Giustizia del Senato, relatore, il leghista Andrea Ostellari. Due giorni fa sono stati depositati gli emendamenti che hanno messo in luce la distanza all’interno della maggioranza giallo-verde. Il senatore M5s Francesco Urraro propone correzioni significative al provvedimento. Nel testo base si punta ad escludere la punibilità se chi si difende si trova “in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Insomma non sarebbe più rilevante il possesso di un’arma da parte dell’aggressore per appellarsi alla legittima difesa. I grillini chiedono che venga eliminata la non punibilità automatica in caso di “stato di grave turbamento”. Non solo. I pentastellati chiedono anche di correggere le modifiche all’articolo 52 del codice penale. Per la Lega “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza”. M5s chiede di precisare che la non punibilità scatta quando ci sia “violenza alla persona”, quindi non un generico “violenza”. Sarà difficile però che la Lega accetti limitazioni perché il principio della presunzione di legittima difesa è uno dei cavalli di battaglia di Salvini che con l’approvazione della sua riforma conta di veder salire ancora il Carroccio nei sondaggi. Come conciliare la posizione leghista con quella dei grillini? L’altro vicepremier, Luigi Di Maio ha più volte ribadito di essere contrario alla diffusione delle armi e ad un’idea di giustizia fai da te. I tribunali nazionali “ dimenticano” troppo spesso la Carta di Nizza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 ottobre 2018 Approvata nel 2000 enuncia i diritti civili, politici, economici e sociali dei cittadini europei e di chi vive nella Ue. L’Italia risulta tra i primi paesi europei con il più alto numero di rinvii pregiudiziali alle norme. Ma per la professoressa Castellaneta la cosa potrebbe dire che “che abbiamo un ordinamento interno che non è propriamente allineato”. Gli stati Europei, in particolar modo i giudici, si rifanno ancora troppo poco alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Ma l’Italia risulta tra i primi Paesi europei con il più alto numero di rinvii pregiudiziali richiamandosi alla Carta. Questo è quello che si legge nel documento fornito dall’Agenzia Ue per i diritti fondamentali sulle sfide e le opportunità nell’attuazione della Carta fondamentale. Nel documento - reperibile sul suo sito, l’Agenzia Ue sottolinea che a nove anni dalla sua entrata in vigore, anche i tribunali nazionali, troppo spesso, non fanno riferimento alla Carta dei diritti fondamentali e questo anche nei casi in cui debba essere applicato il diritto dell’Unione. Però qualche dato positivo, come già detto, c’è. Il crescente riferimento alla Carta nei rinvii pregiudiziali: tra il 2010 e il 2017 in 392 casi di rinvio pregiudiziale vi è stato il richiamo alla Carta (una media di 49 all’anno), con una percentuale dell’11% sul totale dei rinvii pregiudiziali. L’anno con il più alto numero di rinvii pregiudiziali che hanno richiamato la Carta è stato il 2012 con 68 casi, scesi a 50 nel 2017. La maggior parte dei rinvii pregiudiziali è arrivata dall’Italia, seguita dalla Germania, dal Belgio, dall’Austria, dalla Spagna e della Romania. “Tuttavia - come spiega sul suo sito personale la professoressa di diritto internazionale Marina Castellaneta, in percentuale rispetto al totale dei rinvii pregiudiziali per ogni Stato membro è la Slovacchia a detenere il primato. Il dato del riconoscimento dell’ordinamento sovranazionale da parte dei giudici italiani è positivo. Ma si può leggere anche in chiave negativa, perché ciò vuol dire che abbiamo un ordinamento interno che non è propriamente allineato con la carta dei diritti fondamentali”. Ma che cos’è Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea? È meglio conosciuta come la Carta di Nizza. Approvata dal Parlamento europeo nel novembre 2000, è stata sottoscritta dal presidente di turno dell’Unione Europea (Ue) nel 2007. Come stabilito nell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea (versione risultante dal Trattato di Lisbona del 2007), pur non essendo integrata nel Trattato, la Carta ha lo stesso valore giuridico di quest’ultimo. La Carta enuncia i diritti civili, politici, economici e sociali dei cittadini europei e di tutte le persone che vivono sul territorio dell’Unione. Si compone di 54 articoli e di un preambolo, in cui sono richiamati i valori spirituali e morali dell’Ue. Accanto ai principi umani universali già enunciati, si affermano i principi di democrazia e dello Stato di diritto. Si afferma inoltre che l’Unione europea ‘ pone al centro della sua azione la persona istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia’. Si garantisce il rispetto del principio di sussidiarietà e dei diritti riconosciuti dal trattato sull’Unione europea e dai trattati comunitari, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo. Diversi sono i temi che tocca. Dall’uguaglianza di genere, al diritto alla salute (articolo importante che viene spesso richiamato anche per il problema dell’assistenza sanitaria in carcere), passando per l’ambiente, il diritto alla vita e per la giustizia. Quest’ultimo punto è del capitolo VI che si compone di quattro articoli, concerne la giustizia: tutti hanno diritto a ricorrere dinanzi a un giudice in caso di violazione dei propri diritti, all’assistenza legale e a una difesa gratuita, nel caso in cui non si disponga di mezzi sufficienti. È sancita inoltre la presunzione di innocenza. Di gran valore anche gli articoli sulle condanne penali (artt. 49 e 50), che sanciscono il divieto di pene sproporzionate rispetto al reato e il diritto di non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso reato. Vittime di reato. Via Arenula e Cnf insieme per tutelarle di Simona Musco Il Dubbio, 12 ottobre 2018 Partecipano anche il Viminale e l’università Roma Tre. Una maggiore tutela e una rete di servizi più solida, in grado di accompagnare le vittime di reato durante tutto il percorso che porta al risarcimento, aumentando la consapevolezza, nell’opinione pubblica, dei loro diritti. È questo lo spirito alla base del tavolo inter-istituzionale per la tutela delle vittime di reato, oggetto di un protocollo firmato lo scorso 8 ottobre presso il ministero della Giustizia. A prendere parte al progetto, oltre il ministero di via Arenula, sono il Consiglio nazionale forense, il Viminale, l’Università Roma Tre, la Conferenza Stato- Regioni e la Rete Dafne Italia, con l’obiettivo di migliorare il sistema di assistenza alle vittime tramite l’interazione tra istituzioni, associazioni, accademia e avvocatura. Il tavolo prende le mosse dalla direttiva europea del 2012 sulle norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, implementata dall’ordinamento italiano nel 2015 e perfezionata da tutta una serie di norme in tema di diritti civili e difesa delle vittime approvate in Italia e in Europa nel corso degli ultimi anni. Norme da inquadrare, ora, in una disciplina organica capace di andare oltre la posizione della vittima nel processo penale e puntando sui servizi di assistenza a livello nazionale e territoriale. Su questa base, partendo dal progetto europeo “Horizon”, il ministero della Giustizia ha avviato delle attività finalizzate al rafforzamento di tale tutela, per assicurare l’adeguata e uniforme attuazione delle misure - introdotte nel 2015 con il decreto legislativo 212 - in tema di salvaguardia dei diritti delle vittime. Ad occuparsi della realizzazione dei progetti finalizzati alla partecipazione a bandi dell’Unione europea per l’ottenimento dei finanziamenti sarà il Dipartimento Affari di Giustizia, unitamente ad altre articolazioni ministeriali, istituzioni e partner nazionali e internazionali. Un percorso che porterà alla creazione di una rete integrata territoriale composta da soggetti competenti sotto ogni aspetto - sanitario, legale e altri - con almeno una sede in ogni regione, che consenta alla vittima di essere presa in carico sin dal primo momento, per essere indirizzata verso la tipologia di servizio necessaria al caso concreto, con un percorso di sostegno costante, fino al momento del risarcimento, e comunque per tutto il tempo in cui viene manifestata l’esigenza di una tutela, a cui si affianca la diffusione della consapevolezza e della conoscenza dei diritti delle vittime. Il tavolo si riunirà periodicamente per definire le linee di azione e programmare le attività necessarie alla realizzazione di tale rete. A rappresentare il Consiglio nazionale forense, come ratificato nella seduta amministrativa straordinaria dello scorso 14 settembre, su invito del direttore generale della giustizia penale Donatella Donati, saranno gli avvocati Ermanno Cicognani, del Foro di Ravenna, e Giovanna Cuccuini, del Foro di Arezzo. Una ratifica che segue l’invito inoltrato da Donati al presidente del Cnf Andrea Mascherin alla riunione dello scorso 11 settembre al ministero, durante la quale è stato verificato lo stato dei lavori. Il progetto mira a colmare le lacune esistenti, attraverso l’identificazione di un modello ideale di assistenza generalista, dedicato a tutte le tipologie di vittime, cui affiancare un’attività di sensibilizzazione degli uffici giudiziari. Il risultato finale include la creazione di una rete integrata di servizi che si attiva fin dal primo contatto della vittima con l’autorità, con un percorso tracciato che cancelli la sensazione di solitudine che, molto spesso, la rende vittima due volte. Caso Cucchi. Il momento spartiacque che riscatta lo Stato di Flavia Perina La Stampa, 12 ottobre 2018 La magistratura che non si rassegna a un’inchiesta finita senza colpevoli può segnare la fine dell’epoca in cui le istituzioni proteggevano funzionari infedeli o nascondevano delitti. È caduto il muro, dice Ilaria Cucchi, ma forse nemmeno lei sa quanto alto e quanto antico fosse questo muro: un uomo in divisa che confessa e riscrive una insostenibile verità di Stato, in Italia, non si era visto mai. Anche per questo il caso di Stefano resterà come spartiacque, come evento che segna il prima e il dopo. Il prima è la lunghissima storia delle ricostruzioni di comodo, l’era in cui le istituzioni si difendevano proteggendo col loro mantello funzionari infedeli, azioni riprovevoli, talvolta veri delitti. Il dopo è questo: la magistratura che non si rassegna a un’inchiesta finita senza colpevoli, i periti che non si stancano di sollevare dubbi, il susseguirsi dei processi in un crescendo di pressione, e infine un carabiniere che sceglie di rompere l’omertà e un altro, Francesco Tedesco, il militare che ieri ha finalmente raccontato il pestaggio, che si decide e parla. E in qualche modo il segnale di una potenziale rivincita dello Stato, di una possibile riappropriazione del potere di fare ordine e giustizia anche in casa propria, senza infingimenti. La sua portata è chiara leggendo le mille dediche lasciate sulla bacheca di Ilaria, omaggi non solo al suo coraggio ma anche a storie antiche che hanno avuto esito diverso. C’è la ballata di Franco Serantini, l’anarchico ventenne che nel 1972, dopo un brutale fermo a Pisa, uscì dal carcere morto: trauma cranico e lesioni interne di ogni tipo, nessun colpevole. Ci sono le foto di Giorgiana Masi, il prototipo della vittima innocente: aveva diciotto anni nel 1977, manifestava per il divorzio insieme ai Radicali, fu freddata da un proiettile forse sparato da uno degli agenti infiltrati (una pratica dell’epoca) nel corteo. Anni di indagini, niente di fatto. Anche in quei casi, così come nei molti successivi, ci furono mobilitazioni, comitati, si mosse - assai più di adesso - la politica, la musica, l’associazionismo, e non successe niente. Se si dovesse fare un film, a quarant’anni di distanza, si dovrebbe usare il trucco di ogni sceneggiatura ambigua: le immagini che sfocano pian piano, i volti che si confondono, la musica che sale per farci capire che sta succedendo qualcosa di indicibile, che è facile intuire ma non si conoscerà mai fino in fondo. A questa lunga catena di nebbiose verità di Stato, ora interrotta da una verità senza aggettivazioni, vanno senz’altro aggiunti due casi quasi contemporanei alla vicenda Cucchi, quelli di Federico Aldrovandi, il diciottenne di Ferrara brutalmente fermato dopo una notte per locali, pestato e poi morto per soffocamento prima ancora che arrivasse l’ambulanza, e di Giuseppe Uva, il quarantenne uscito senza vita da una caserma di Varese dopo il fermo per ubriachezza. La mamma di Aldrovandi e la moglie di Uva per molto tempo hanno manifestato insieme con Ilaria Cucchi per chiedere indagini oneste e un processo vero, ma non hanno avuto fortuna. Le foto di quelle donne, così diverse per età, ceto, estrazione culturale, immobili sotto al Parlamento, ai ministeri o davanti ai tribunali coni loro cartelli di denuncia, hanno rappresentato per mesi una tragica Spoon River della giustizia negata, la nostra piccola, indecente Plaza De Mayo. In molti, qualche settimana fa, si sono stupiti del grandissimo successo popolare che ha avuto “Sulla mia pelle”, il film di Alessio Cremonini che racconta con gelida aderenza ai verbali di inchiesta l’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi. Migliaia di spettatori nelle proiezioni ufficiali, nei licei, nelle università, oltreché su Netflix dove è tuttora uno dei titoli più cuccati, e forse la ragione di questo desiderio collettivo di sapere va cercata proprio nella lunghissima serie di casi senza verità che, generazione dopo generazione, hanno scosso l’immaginario collettivo e diffuso l’idea che la giustizia, quando c’è dimezzo una divisa che si scontra con un cittadino comune, abbia un gradiente diverso e preveda speciali e opache guarentigie. La vicenda del G8 di Genova e della “macelleria messicana” della caserma Diaz (la definizione è di un vicequestore, Michelangelo Fournier, tra i pochi che ruppero il silenzio) incardinò questa percezione quasi vent’anni fa, e da allora nulla l’ha smentita. Sono cambiati i tempi, i governi, i capi delle forze dell’ordine, i ministri, è cambiato un mondo intero ma mai c’è stata una vicenda alla quale appendere la possibile rivincita dell’uomo della strada, quello che crede o vorrebbe credere nell’equidistanza dello Stato, rispetto all’antico “sopire e troncare” manzoniano. Adesso quella chances c’è, lo Stato ne esce rafforzato, i carabinieri possono cancellare una macchia che sembrava indelebile: se è presto per dire che comincia un altro corso, la strada è finalmente visibile e aperta. La svolta su Stefano dal militare pentito. Nove anni dopo di Errico Novi Il Dubbio, 12 ottobre 2018 Un carabiniere accusa due colleghi: “pestarono Cucchi”. Dopo esattamente 9 anni, perché lunedì prossimo cade pure la ricorrenza del probabile pestaggio che uccise Cucchi, il carabiniere Francesco Tedesco accusa due colleghi suoi presunti correi, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, che, ha dichiarato ai pm, avrebbero materialmente e selvaggiamente pestato il geometra romano, all’epoca 31enne, morto 6 giorni dopo. Come dice ancora la sorella della vittima, “finalmente oggi la verità che noi sosteniamo da sempre entra in un’aula di giustizia, ed entra con le parole di uno degli stessi imputati”. È una didascalia appropriata: Tedesco in realtà non prende mai la parola, all’udienza di ieri del processo bis in corso di svolgimento a Roma. Ha parlato il suo avvocato, certo, Eugenio Pini, che ha dichiarato ai cronisti la “impossibilità”, per il suo assistito, “di farsi avanti prima”. Lo avevano indotto a tacere i coimputati: gli autori materiali e soprattutto il superiore, maresciallo Roberto Mandolini, a sua volta a processo per gli stessi reati contestati a Tedesco, falso e calunnia: “Tu gli devi dire che stava bene”, consigliò l’allora comandante della stazione Appia, dove si sarebbe consumato il massacro. Ieri però le parole di Tedesco sono risuonate per voce del pm che sostiene l’accusa davanti alla prima Corte d’assise del Tribunale di Roma, Giovanni Musarò. È lui a raccontare che lo scorso 9 luglio, e poi in altre due successive occasioni, Tedesco è stato da lui ascoltato e che ne è venuta fuori l’ammissione del pestaggio, a cui l’appuntato non avrebbe preso parte e che avrebbe anzi cercato di “fermare”, salvo poi nasconderlo nelle successive testimonianze. Il racconto è mostruoso e fin troppo dettagliato. “Di Bernardo si voltò, colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Non servì, i due aguzzini continuarono e “Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro, poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo, in senso contrario, che gli fece perdere l’equilibrio provocando una violenta caduta sul bacino. Anche la successiva botta alla testa fu violenta, ricordo di aver sentito il rumore”. A quel punto il correo-accusatore sostiene di aver spinto uno dei suoi due colleghi assatanati, Di Bernardo, ma “D’Alessandro colpì con un calcio in faccia Cucchi mentre questi era sdraiato a terra” Fosse andata esattamente così, per l’autore del calcio in faccia la fattispecie dell’omicidio preterintenzionale potrebbe risultare stretta. Ma sono congetture su un processo a questo punto tutto da scrivere. Colpisce di sicuro, invece, la puntualità della descrizione di Tedesco a ben 9 anni di distanza da quella notte. E però, l’odore un po’ bruciacchiato di questa svolta processuale non cela la chiara e condivisibile sensazione che Ilaria Cucchi descrive: “Finalmente oggi la verità entra in un aula”. Così come resta il disgusto per il “movente”, se così lo si può definire: Di Bernardo e D’Alessandro, che fermarono Cucchi nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, si sarebbero inviperiti perché il geometra opponeva resistenza nel sottoporsi alle procedure di fotosegnalazione, lì nella stazione Appia dei carabinieri. Una rappresaglia criminale. La brutalità dei militari è alla base del confronto a distanza fra Ilaria e Matteo Salvini. “Oggi mi aspetto le scuse del ministro dell’Interno. A Stefano e alla nostra famiglia per tutto quello che ha sofferto”, dice la sorella della vittima. Il ministro fa in fondo il suo dovere, cioè da una parte tende la mano e dall’altra difende l’onore delle forze dell’ordine: “Sorella e parenti sono i benvenuti al Viminale. Eventuali reati o errori di pochissimi uomini in divisa devono essere puniti con la massima severità, ma questo non può mettere in discussione la professionalità e l’eroismo quotidiano di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi”. Qualcosa del genere torna anche nelle parole dell’avvocato Pini, difensore di Tedesco: “Questo è uno snodo significativo per il processo ed è anche un riscatto per il mio assistito e per l’intera Arma: gli atti dibattimentali e le ulteriori indagini individuano in Francesco Tedesco il carabiniere che si è lanciato contro i colleghi per allontanarli da Stefano Cucchi, che lo ha soccorso e che lo ha poi difeso”. In realtà le dichiarazioni rese da Tedesco ai pm non sono ancora formalmente agli atti, ma il sostituto della Procura di Roma Musarò le ha comunicate come previsto per dare alle parti la possibilità di predisporsi alle nuove, successive fasi, a cominciare dalla decisiva deposizione in aula che il carabiniere “pentito” dovrà rendere. Dovrebbe anche confermare un’altra circostanza segnalata sempre dal pm: l’annotazione di servizio che lui stesso avrebbe redatto la notte della morte di Stefano, “assolutamente importante per la ricostruzione dei fatti”. Quel documento, ha spiegato ieri in aula Musarò, “è stato sottratto e non ce n’è più traccia”. Il quinto imputato, il carabiniere Vincenzo Nicolardi, continuerà a rispondere di calunnia nei confronti degli agenti penitenziari assolti nel primo processo. Certo si aggrava invece la posizione del maresciallo Mandolini. Stefano “stava bene”, “suggerì” il comandante a Tedesco. Che a luglio si è finalmente ricordato di aver invece visto Stefano “molto provato” dopo il pestaggio. Tardi. Ma per la verità, come dice Ilaria, non è mai troppo tardi. Caso Cucchi, quando la verità vince sulla demagogia di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 12 ottobre 2018 La famiglia di Stefano Cucchi ha creduto fino in fondo nella legge, si è affidata ai giudici e alle istituzioni, si è mossa nel solco della legalità. Viceversa, coloro che hanno detto che per principio erano dalla parte dei carabinieri hanno manifestato una cultura che disprezza la legalità. Il processo per l’omicidio di Stefano Cucchi resterà nella storia della giustizia italiana. Una storia fatta di violenza istituzionale, di morte, di coperture, di silenzi, di indifferenza, di opacità ma allo stesso tempo di determinazione, di forza morale, di rottura del muro della reticenza. Verità processuale e verità storica si stanno lentamente approssimando nonostante le umiliazioni e le dichiarazioni di quei politici che hanno urlato nel tempo una verità dogmatica e stereotipata. Oggi, di fronte alla confessione di uno dei carabinieri che ha ammesso le violenze sul corpo di Stefano, sanno di ridicolo e tragico quelle frasi che si sono sentite nell’etere e lette sui social. C’è chi disse: “É morto perché era anoressico” (Carlo Giovanardi), chi chiedeva alla famiglia di Stefano “dove era quando lui si drogava” (Maurizio Gasparri), chi affermava che Ilaria Cucchi “mi fa schifo” (Matteo Salvini). A nove anni dalla morte di Stefano Cucchi ci sono tre parole, di cui una composta, che vengono esaltate da questa storia: empatia, spirito di corpo, legalità. Da alcune settimane il bellissimo film di Alessio Cremonini Sulla mia pelle, delicato ma rigoroso allo stesso tempo, sta riempiendo le sale cinematografiche, le piazze, le università. Gruppi di persone organizzano visioni comunitarie in luoghi pubblici e privati. Ragazzi e ragazze, anche molto giovani, vedono il film e restano senza parole, immedesimandosi in Stefano e in sua sorella Ilaria. L’empatia è un motore che ha una forza dirompente. Favorisce processi di indignazione. Ha la capacità di trasformarsi in valanga. Stefano Cucchi è sentito come un amico o un fratello nei licei, nelle università, nelle palestre e negli stadi. Ilaria è diventata una sorella di tutti quelli che vogliono giustizia, che credono che non si possa morire ammazzati, pestati a sangue, in una camera di sicurezza delle forze dell’ordine. Non tutti però sono Stefano. Non tutte però sono Ilaria. Non sempre l’empatia porta a giustizia. In questo caso invece sta accadendo un fatto straordinario, ossia la giustizia (e ne siamo grati alla procura di Roma) si è messa al servizio delle vittime di tortura. Accade raramente. Anche perché spesso a vincere è lo spirito di corpo, primo nemico della verità. Ieri, con la confessione di uno dei carabinieri coinvolti nel pestaggio, si è definitivamente rotto lo spirito di corpo nell’Arma. I fatti di violenza o di tortura avvengono molto spesso in circostanze tali per cui gli unici testimoni possibili sono altri poliziotti o carabinieri. Solo se si rompe il vincolo di colleganza, tanto più quando la vittima del pestaggio muore, la verità storica potrà uscire fuori. Ma affinché lo spirito di corpo si incrini ci vogliono messaggi inequivocabili di trasparenza da parte dei vertici delle forze di Polizia, ci vuole la rottura dell’indifferenza da parte dell’opinione pubblica (quell’indifferenza che ha fatto chiudere gli occhi a quei tanti funzionari che hanno fatto finta di non vedere il volto tumefatto di Stefano che stava morendo di dolore), ci vogliono sindacati di Polizia che caccino i loro iscritti infedeli alla Costituzione e alla divisa indossata, ci vogliono procuratori che non guardino in faccia nessuno, ci vogliono governanti e politici che non siano ambigui nei loro messaggi di legalità. La terza parola è legalità. La legalità è una. É inammissibile una legalità doppia. Non esistono persone immuni dalla legge. La legge non è un totem, può ben essere criticata. La legalità comprende in sé la critica alla legalità. Una cosa però non è accettabile, ossia che la legalità sia mitizzata, esaltata e applicata a senso unico. Caserme di Polizia e carceri sono i luoghi dove più di altri dovrebbe essere rispettata la legge. Non si può nel nome della legge violarla impunemente. La famiglia di Stefano Cucchi ha creduto fino in fondo nella legge, si è affidata ai giudici e alle istituzioni, si è mossa nel solco della legalità. Viceversa, coloro che hanno detto che per principio erano dalla parte dei carabinieri hanno manifestato una cultura che disprezza la legalità. La legalità si può criticare, ma è una sia per lor signori che per tutti gli altri. *Presidente di Antigone Caso Cucchi. Una catena di bugie, misteri e omissioni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 ottobre 2018 Ci sono voluti nove anni perché una Procura della Repubblica riuscisse, faticosamente e tra mille ostacoli e difficoltà, i fatti che hanno portato alla morte di Stefano. Il nuovo capitolo del romanzo nero sulla morte di Stefano Cucchi, che non è ancora l’ultimo giacché probabilmente altri dovremo ancora leggerne, conferma il prologo di questa storia che purtroppo è reale, anche se sembra un romanzo: un delitto commesso ai danni di una persona custodita dalle istituzioni è stato coperto da uomini delle istituzioni. Adesso una ruota dell’ingranaggio messo in moto per deviare le indagini ed evitare che si scoprisse la verità ha confessato. È un carabiniere che, dopo aver visto altri suoi colleghi picchiare il detenuto, ha taciuto per paura di ritorsioni, ha mentito perché convinto a farlo dai suoi superiori, e ha scritto una relazione a futura memoria che poi è misteriosamente scomparsa. Un corto circuito interno all’Arma, venuto alla luce grazie a un appartenente a quella stessa struttura che prima aveva aderito al depistaggio, ma una volta finito sotto processo è tornato sui suoi passi. Ci sono voluti nove anni per venire a capo (e non ancora del tutto) di una vicenda densa di misteri, trascuratezze, negligenze, omissioni cominciate la sera stessa dell’arresto di Cucchi, proseguite fino alla sua morte (una settimana più tardi) e poi negli anni a seguire, durante i quali s’è svolto un processo contro gli imputati sbagliati che i veri colpevoli sapevano innocenti. Una serie di “buchi neri” imputabili non solo ai carabinieri, ma anche ad altri apparati dove la burocrazia e l’ottusità di certe regole hanno avuto il sopravvento sul senso di opportunità e persino di umanità; basta ripensare all’incredibile pellegrinaggio imposto ai genitori di Stefano per avere notizie sul suo stato di salute e ottenere un colloquio, concesso al padre mentre alla madre veniva notificato l’atto che disponeva l’autopsia sul cadavere del figlio. Nove anni dopo una Procura della Repubblica è faticosamente riuscita, tra mille ostacoli e difficoltà, a ricostruire i fatti. La stessa Procura che sta cercando la verità sulla morte di Giulio Regeni; rapito, torturato e ucciso in Egitto, neanche tre anni fa. Oggi Ilaria Cucchi ha vinto. E la cosa riguarda anche noi di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2018 Il muro del silenzio è crollato. Ilaria ha vinto. La verità, la giustizia hanno vinto. Uno dei carabinieri imputati nel secondo processo per la morte di Stefano Cucchi ha raccontato il pestaggio del ragazzo da parte di due suoi colleghi. Sono tutti indagati per abuso di ufficio e omicidio preterintenzionale. Vale a dire che volevano, sì, fare del male a Stefano, ma non pensavano di causarne addirittura la morte. In tanti devono chiedere scusa alla famiglia Cucchi. Nella Direttiva europea del 2012 sulle vittime di reato la parola “rispetto” o qualche suo derivato compare 29 volte. “Gli Stati membri assicurano che le vittime siano riconosciute e trattate in maniera rispettosa”, “di trattarle con dignità e in modo rispettoso e sensibile”, e via dicendo. Bene: Ilaria Cucchi e i suoi genitori troppo spesso in questi anni hanno subito un trattamento tutt’altro che rispettoso. Troppo spesso hanno dovuto ricordare a se stessi di non essere loro gli accusati, di non essere loro ad aver commesso qualcosa al di fuori della legge e del rispetto per il prossimo. Troppo spesso sono stati calunniati, guardati con dispregio, perfino querelati. Ricordo, durante un momento di pausa da un’udienza del vecchio processo, un alto funzionario dello Stato - lì chiamato a testimoniare - trovarsi a passare accanto a Ilaria lungo il corridoio esterno all’aula bunker, alzare il naso all’aria, metter su una faccia sdegnata, guardare diritto davanti a sé quasi che lei non esistesse. Qualsiasi principio di pietà umana o solamente di buona educazione (potrà scegliere lui tra i due, se mai si riconoscerà nella descrizione) avrebbe spinto chiunque a tendere la mano, a salutare, a esprimere dispiacere per la circostanza e per un fratello morto. Non è la sola volta che tutto questo accade. Ricordiamo un sindacato di polizia battere le mani ai poliziotti assassini di Federico Aldrovandi e protestare sotto le finestre della madre colpevole di aver voluto sapere chi le aveva strappato il figlio diciottenne a calci. Ricordiamo la compagna di Aldo Bianzino trattata come una criminale petulante e noiosa perché chiedeva quando avrebbe potuto rivedere Aldo e le veniva gridato che doveva aspettare l’autopsia. Oggi Ilaria ha vinto. Oggi abbiamo vinto tutti noi. L’omicidio di Stefano Cucchi non è un delitto privato. È qualcosa che ci riguarda. Poiché Stefano è morto mentre era nelle mani di quello Stato che lo avrebbe dovuto custodire e che dovrebbe rappresentare ciascuno di noi. L’Italia delle persone per bene sta dalla parte di chi non usa la violenza, dalla parte dei tantissimi agenti onesti delle forze dell’ordine ma non dei disonesti. Non sta “sempre dalla parte di polizia e carabinieri”, come recitano i tweet del nostro ministro dell’Interno. Questa Italia saluta oggi una grande pietra posta sul cammino della verità e della giustizia, in un processo che era diventato un simbolo contro l’omertà e gli abusi. Adesso abbiamo tutti qualcosa da difendere. Stiamo attenti a non farcelo portare via mentre siamo distratti. Non sempre purtroppo ci sono una Ilaria Cucchi e un Fabio Anselmo. Non sempre c’è tanta tenacia, tanto coraggio, tanta capacità di farsi ascoltare. Ma qualunque vittima, anche quella che si ritrova ad avere meno risorse, ha diritto non solo, come dovrebbe essere ovvio, alla verità e alla giustizia, ma anche al rispetto. Ilaria ci ha insegnato che possiamo esigerlo anche quando dall’altra parte ci sono le forze dell’ordine. Non dimentichiamolo mai. Diamo forza, diamo voce, indigniamoci al fianco di ogni persona che ha subito o che mai dovesse subire abusi da parte di una pubblica divisa. *Coordinatrice associazione Antigone Reato di riciclaggio senza differenze nei 28 Paesi Ue di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2018 Ieri il Consiglio dell’Unione europea ha emanato una nuova direttiva sulla lotta al riciclaggio di denaro nel diritto penale che va a completare ed integrare la normativa antiriciclaggio. Il provvedimento introduce nuove disposizioni di diritto penale degli Stati membri tese a contrastare e a bloccare l’accesso dei criminali alle risorse finanziarie, includendo espressamente anche quelle utilizzate per attività di terrorismo. La direttiva comporterà un cambiamento significativo delle normative di tutti i 28 Paesi aderenti all’Ue. Il grande problema che affliggeva la lotta al riciclaggio transfrontaliero consisteva nel fatto che fino ad oggi non esisteva una definizione comune a tutti gli Stati dell’Unione di riciclaggio ai fini penali. Infatti in caso di attività criminose internazionali per procedere attraverso la cooperazione giudiziaria penale per casi di riciclaggio era necessaria la verifica della cosiddetta “doppia punibilità”: il giudice dello Stato membro che riceveva un richiesta di cooperazione doveva verificare se nel proprio ordinamento la condotta contestata fosse prevista come reato e solo allora poteva procedere. In molti casi gli ordinamenti nazionali non prevedevano norme uniformi in tema di riciclaggio e pertanto questa situazione rendeva estremamente complessa la lotta al riciclaggio ed al finanziamento al terrorismo internazionale. Per risolvere questo problema le nuove disposizioni prevedono l’introduzione di norme minime relative alla definizione dei reati e alle sanzioni in materia di riciclaggio. In questo senso è stata quindi definita sia la nozione di attività criminale in senso generale che particolare richiamando un nutrito elenco di reati (tra cui quelli di terrorismo ma anche quelli fiscali) sia quella riciclaggio includendo come punibile anche l’auto-riciclaggio. Le condotte di riciclaggio saranno punite con una pena detentiva massima di 4 anni e gli organi giurisdizionali potranno applicare misure e sanzioni accessorie quali, a titolo esemplificativo, l’esclusione dagli appalti pubblici, dall’accesso ai finanziamenti pubblici e pesanti sanzioni pecuniarie. Molto interessante la disciplina delle circostanze aggravanti che prevedono due casi importanti: l’appartenenza alla criminalità organizzata ed l’essere un soggetto obbligato alla normativa antiriciclaggio. Tali aggravanti dovrebbero scoraggiare in particolare i “colletti bianchi” a prestare i loro servizi alla criminalità. Altra novità di rilievo è l’introduzione della responsabilità per i reati di riciclaggio nei confronti degli enti e delle persone giuridiche anche a livello europeo. Infine uno spazio significativo è dedicato all’eliminazione degli ostacoli alla cooperazione giudiziaria e di polizia a livello transfrontaliero introducendo disposizioni comuni al fine di migliorare le indagini di polizia e giudiziarie penali. La nuova normativa detta infatti, per i casi transfrontalieri, a quale Stato membro spetti la competenza giurisdizionale, le modalità di cooperazione tra gli Stati membri interessati e di partecipazione ad Eurojust. Non appena la Direttiva sarà stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Ue, gli Stati membri avranno 24 mesi di tempo per recepirla nel diritto nazionale. L’istanza tardiva non preclude la revoca del sequestro di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2018 Corte di cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 11 ottobre 2018, n. 46201. La mancata tempestiva proposizione della richiesta di riesame avverso un provvedimento di sequestro non preclude l’istanza di revoca e l’eventuale successivo appello, anche in assenza di fatti sopravvenuti. A confermare questo importante principio sono le Sezioni unite penali della Corte di cassazione con la sentenza 46201 depositata ieri. La vicenda trae origine da un sequestro preventivo eseguito nei confronti di due società (una delle quali subentrata per effetto di una scissione di ramo di azienda) per alcuni reati tributari. Successivamente la società subentrante chiedeva la revoca della misura rappresentando la propria estraneità alle violazioni contestate che veniva respinta dal Gip per assenza di elementi di novità rispetto all’originario sequestro. La società presentava appello al Tribunale che lo dichiarava inammissibile. Secondo il collegio, infatti, nell’appello avverso un sequestro si sarebbero dovute dedurre circostanze nuove e non relative alla legittimità della misura, esclusivamente riservate al tribunale del riesame, mediante ricorso da proporre nei termini, nella specie non avvenuto. Si era così formato il giudicato cautelare. L’interessato ricorreva per cassazione evidenziando, in estrema sintesi, che anche senza nuovi elementi era sempre possibile l’appello cautelare. La Terza sezione penale, rilevando un contrasto giurisprudenziale rimetteva la questione alle Sezioni unite. In estrema sintesi, secondo un primo orientamento, condiviso anche da una precedente sentenza delle Sezioni unite, la mancata attivazione del giudizio di riesame (in base all’articolo 322 del Codice di procedura penale da proporsi entro dieci giorni dall’esecuzione del provvedimento) non determinerebbe alcun giudicato cautelare con la conseguenza che sarebbe sempre legittima la successiva richiesta di revoca (articolo 322 bis del medesimo Codice) ancorché fondata solo su fatti originari e non sopravvenuti. Al contrario, secondo altro orientamento, nell’appello avverso il sequestro preventivo potrebbero essere dedotte solo questioni diverse da quelle relative alla legittimità dell’imposizione del vincolo, e quindi la revoca e la conseguente impugnazione risulterebbe inammissibile in assenza di tempestivo ricorso al tribunale del riesame nei 10 giorni successivi. Le Sezioni unite hanno nuovamente confermato l’interpretazione più estensiva in base alla quale la mancata proposizione del ricorso al tribunale del riesame non pregiudica la successiva richiesta di revoca, anche se basata su elementi non sopravvenuti. Tra le varie ragioni, l’alto consesso evidenzia che la sorpresa caratterizzante il sequestro e la decorrenza dei ridotti termini per la formulazione del riesame, rende conforme alle esigenze di garantire effettività alla difesa, la possibilità di sollecitare attraverso metodi e tempi più ampi una rivisitazione dei presupposti giustificativi del sequestro al giudice emittente il provvedimento e, in caso di rigetto, a quello dell’appello. Lucera (Fg): gli tolgono la patria potestà, detenuto 36enne si impicca in cella di Pietro Rossi* Ristretti Orizzonti, 12 ottobre 2018 Il detenuto, residente da libero a Foggia, si trovava a Lucera da un anno e mezzo. Pare che l’elemento scatenante risieda nell’aver da poco appreso di aver subito un provvedimento ablativo della potestà genitoriale emesso dal Tribunale per i Minorenni. Riceveva visite in carcere soltanto dalla madre, vivendo una situazione di isolamento da moglie e figli. Si procurato la morte per impiccagione. Non aveva mai rivolto richieste d’aiuto al Garante regionale, né aveva mai chiesto di essere incontrato. *Garante dei diritti dei detenuti della Regione Puglia Trieste: il detenuto suicida era “seminfermo di mente”, ma per i periti poteva stare in cella di Gianpaolo Sarti Il Piccolo, 12 ottobre 2018 Due consulenze psichiatriche disposte dal giudice avevano ritenuto compatibile il carcere con la salute mentale dell’uomo. Il detenuto che martedì sera si è impiccato in una cella di isolamento del Coroneo era in carcere per aver aggredito un paziente a Cattinara, a cui aveva rubato il cellulare. Una rapina, in buona sostanza. Il fatto si era verificato il 27 marzo dell’anno scorso nel pianterreno dell’ospedale, di fronte all’atrio della pizzeria. Tarzan Selimovic, questo il nome dell’uomo che si è tolto la vita, era un bosniaco di quarantasei anni. Un senza fissa dimora che soffriva di disagio psichico. Lo straniero si era avvicinato al paziente, ricoverato per una polmonite, chiedendogli inizialmente i documenti, ma senza essere badato più di tanto. A quel punto Selimovic aveva strappato di mano il cellulare alla vittima, colpendola al petto e fuggendo. Il paziente era riuscito a raggiungere il bosniaco, ma si era preso una sedia in testa. Il quarantaseienne è stato successivamente arrestato e poi processato in rito abbreviato per rapina e lesioni: il pm che si è occupato dell’indagine chiedeva tre anni di reclusione e 800 euro di multa. Il gup Luigi Dainotti, ha invece concesso le attenuanti (anche in ragione del precario stato psichico dell’imputato) e condannato lo straniero a un anno e sei mesi, oltre a 400 euro di multa, al pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere. In base alla sentenza Selimovic avrebbe dovuto essere rimesso in libertà il 26 settembre, cioè un paio di settimane fa. Tuttavia preferiva restare in carcere dove alternava momenti di tranquillità e di gratitudine nei confronti degli agenti, a scatti d’ira improvvisi. La vicenda processuale non si era però conclusa. “La sentenza di primo grado - precisa l’avvocato Enrico Miscia che ha difeso il quarantaseienne - aveva riconosciuto le attenuanti della semi infermità mentale. La Procura generale ha ritenuto però illegittima la pena applicata e ha fatto ricorso in Cassazione. La sentenza è stata quindi annullata con rinvio al giudice e l’automatica proroga dei termini di custodia cautelare. La prossima udienza avrebbe dovuto tenersi a novembre”. Selimovic aveva dato spesso segni di squilibrio. Di recente aveva anche incendiato la cella e aggredito un agente. In questi giorni era in isolamento. Non sono state ancora rese note le modalità con cui il bosniaco si è suicidato. Cosa ha usato l’uomo per impiccarsi? La direzione del Coroneo ha passato il fascicolo alla magistratura per gli accertamenti. Andrà chiarito anche il ruolo della vigilanza. Il quarantaseienne, comunque, era stato sottoposto a due perizie psichiatriche, entrambe disposte dal gip. Una aveva appurato la compatibilità dello stato psichico dell’imputato con la detenzione carceraria. La successiva, autorizzata su richiesta della difesa, aveva confermato ciò. Il Coroneo aveva fatto domanda per il trasferimento del bosniaco in un istituto attrezzato per le persone con patologie psichiche che necessitano di un’assistenza sanitaria specifica e costante. Lecce: detenuto di 49 anni ritrovato morto in cella di Francesco Oliva corrieresalentino.it, 12 ottobre 2018 Muore in carcere detenuto leccese. A perdere la vita, Danilo Adorni, di 49 anni. Il corpo dell’uomo, ormai privo di vita, è stato ritrovato questa mattina riverso sul letto dal compagno di cella che ha immediatamente allertato le guardie carcerarie. I medici del carcere hanno cercato in tutti i modi di rianimare Adorni ma il suo cuore aveva già cessato di battere. Con ogni probabilità il decesso risale alle ore notturne. La Direzione carceraria ha prontamente informato il pubblico ministero di turno, il sostituto procuratore Luigi Mastroniani, e la salma è stata trasferita presso la camera mortuaria del “Vito Fazzi”. In cella non è stato trovato alcun elemento che possa far ipotizzare una morte dettata da cause differenti da quelle naturali. Adorni si trovava nel reparto reclusi riservato ai detenuti che stanno scontando una condanna definitiva. Difeso dall’avvocato Luigi Piccinni, era stato condannato sia in primo che in secondo grado a oltre 5 anni con l’accusa di tentato omicidio per aver aggredito e ferito gravemente il fidanzato della sorella il 29 luglio del 2016. Non era stato presentato ricorso in Cassazione perché Adorni aveva nel frattempo scontato buona parte della pena per un periodo anche ai domiciliari prima di rientrare nuovamente in carcere. Vigevano (Pv): detenuto si dà fuoco, intossicati gli agenti che l’hanno soccorso di Andrea Ballone La Stampa, 12 ottobre 2018 Il carcerato portato in elisoccorso al più vicino centro per grandi ustionati. I sette agenti subito ricoverati in infermeria. Un detenuto etiope si è dato fuoco nel pomeriggio di lunedì nel carcere dei Piccolini di Vigevano. Al momento non sono note le motivazioni che hanno portato l’uomo ad appiccare l’incendio nella sua cella. Sul posto sono subito intervenuti gli uomini della polizia penitenziaria di Vigevano che hanno cercato di spegnere le fiamme. Il detenuto si è salvato in extremis, ma i sette agenti di polizia penitenziaria che sono intervenuti per portargli i primi soccorsi hanno rimediato un’intossicazione e sono stati subito ricoverati in infermeria. Il ragazzo etiope è stato portato in elisoccorso al più vicino centro per grandi ustionati, dove gli sono state medicate le ustioni sul corpo e attualmente è tenuto sotto osservazione. Si tratta del secondo episodio simile nel giro di due mesi e gli stessi uomini della polizia penitenziaria hanno lanciato l’allarme tramite il loro sindacato per denunciare quali sono le condizioni di lavoro all’interno della casa circondariale di Milano. “Ancora una volta - scrivono in un comunicato - si sono verificati momenti di tensione e paura alla casa di reclusione di Vigevano. L’ultimo episodio si è avuto giovedì quando ancora una volta gli uomini della penitenziaria sono stati costretti a intervenire. Oggi denunciamo lo stato di abbandono che vive la Polizia Penitenziaria costretta quotidianamente, senza mezzi idonei, ad affrontare aggressioni e a fronteggiare situazioni di pericolo solamente grazie all’esperienza, al sacrificio e all’elevata professionalità del personale. Al personale intervenuto, compresi i sette agenti che hanno avuto bisogno delle cure dell’ospedale di Vigevano per aver respirato i fumi tossici, cavandosela con una prognosi di pochi giorni, va il plauso del Coordinamento Unitario che auspica un riconoscimento anche dall’amministrazione del carcere”. Prato: Alfonso, l’ergastolano con tre lauree che fa il ricercatore all’università di Simona Carnaghi La Nazione, 12 ottobre 2018 Condannato all’ergastolo in via definitiva: libero dopo quasi 30 anni di carcere. “Non sono il responsabile di quegli omicidi. Ho ancora un po’ di tempo davanti e posso rifarmi un pezzo di vita”. Fine del “fine pena mai”, per Alfonso Figini, 61 anni, originario di Ispra, in provincia di Varese, da poche ore tornato a essere un uomo libero. Una persona singolare: tre lauree, l’ultima, in ingegneria meccanica conseguita mentre era nel carcere della Dogaia di Prato (primo italiano a conseguire questo attestato dietro le sbarre). Sette lingue parlate fluentemente. Un libro pubblicato “Lupo Alpha”, che gli è valso una certa notorietà. E soprattutto un lavoro in un laboratorio a Prato per l’Università di Firenze. “Un caso raro - sottolinea il suo avvocato Augusto Basilico - In Italia possiamo considerare l’epilogo della vicenda giudiziaria del mio assistito una rarità”. Figini fu arrestato in Lussemburgo nel 1992 con l’accusa di essere il mandante di un duplice omicidio. L’uomo all’epoca era già stato coinvolto in reati, sempre commessi in Lussemburgo, di alto profilo: ingenti furti di gioielli e traffico di droga. Contestazioni che l’uomo ha ammesso: “Ho avuto un passato turbolento”, ripete spesso. Per quel duplice omicidio, però, si è sempre dichiarato innocente. “Il mio assistito - ripete il legale - non ebbe niente a che fare con la vicenda”. A puntare il dito contro di lui, allora, fu un pentito. “Per alleggerire la sua posizione - spiega Basilico - disse che anche il mio assistito era coinvolto nei delitti in qualità di mandante. Figini, in realtà, per quelle morti si è sempre proclamato innocente”. Nel 1999 arriva la condanna: fatti salvi alcuni cardini imprescindibili, quali l’assoluta buona condotta durante la detenzione e il comprovato reinserimento sociale, il detenuto ergastolano possa chiedere la cessazione del periodo di libertà vigilata. “È quello, in sintesi, che abbiamo fatto noi - spiega Basilico - Il mio assistito ha dimostrato di essere in possesso di tutte le caratteristiche. La procura di Varese si è opposta ma il tribunale, viste le più recenti sentenze di Cassazione, ci ha dato ragione. Figini è completamente libero”. Piacenza: Messa alla prova, sforzo della coscienza a volte più faticoso di quello dei muscoli di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 12 ottobre 2018 Scrivo per capire, scrivo per scoprire le ragioni del mio errore, per guardarle in faccia, per metterle in dialogo con altre storie e altre vicende. Scrivo intorno al tavolo e il silenzio cade all’improvviso nella stanza piena di rumori. “Di tutti i silenzi quello che mi commuove di più è il silenzio corale, quando tutti tacciamo insieme. È un silenzio che parla, che unisce, che mette in comunione”. Era Marina e scriveva a Milano alla Casa della Cultura. Noi, invece, scriviamo a Piacenza intorno al tavolo ovale che il CSV presta alla nostra associazione “Verso Itaca” per questo lavoro, ogni martedì sera. Che piova, che nevichi o faccia un caldo tropicale. Da tre anni ormai accogliamo persone imputate o indagate “messe alla prova”, persone condannate in affidamento o in detenzione domiciliare, tirocinanti e giovani volontari. Una volta anche un ragazzo molto caro: - Scusi se la disturbo ma mi hanno detto che da voi si può parlare … - Ha scritto e ha raccontato tanto; è stata Giada a fargli il colloquio e ad accogliere il suo troppo grande dolore. Quando sono rientrati nel gruppo avevano entrambi gli occhi lucidi. La “messa alla prova” da noi non è un impegno muscolare ma richiede fatica, ascolto e serietà. Si tratta di partire per un viaggio con incroci imprevedibili, angoli bui e piazze piene di sole. Un viaggio ricco di incontri; i genitori, la famiglia, gli amici, la scuola. Un viaggio attraverso l’oceano o anche solo attraverso il mare Mediterraneo. Un viaggio da qui a lì. Si tratta di capire perché a un certo punto qualcosa si è inceppato, perché abbiamo incontrato il reato e, un giorno non tanto per caso, ci siamo trovati in un tribunale con il nostro avvocato per proporre al giudice un patto: - Mi impegno a fare un “lavoro di pubblica utilità” in questa associazione, mi impegno a tener fede al patto, a non fare assenze per tutto il tempo che Lei, signor Giudice, stabilirà. Se manterrò fede alla promessa, se sarò una persona responsabile, la mia fedina penale resterà candida come la neve -. Perché di questo stiamo parlando, di un impegno responsabile, di una nuova opportunità che la legge 67 del 2014 offre alle persone indagate e imputate di reati la cui pena edittale non superi i quattro anni di detenzione. Reati “bagatellari” in gergo giuridico, reati cioè che non destano un significativo allarme sociale ma che poi, se li osserviamo bene da vicino, non sono proprio nemmeno acqua fresca: guida in stato di ebbrezza, piccolo spaccio, rissa, furto, omissione di soccorso … Reati, non solo sbagli come ripetiamo spesso. Perché è importante dare senso e spessore alle parole e noi qui, ogni giovedì sera, seduti l’uno accanto all’altro, cerchiamo dentro di noi parole oneste, adulte, autentiche. Una messa alla prova troppo facile? Così, senza sudore della fronte? E la società cosa ci guadagna? A volte ci sembra di sentire il brusio degli scettici, di quelli che vorrebbero vedere e toccare la fatica. D’altronde è lecito. Io che in tanti anni mi sono comportato da cittadino modello, io che mi sento o sono impeccabile vorrei capire meglio, vorrei veder soffrire almeno un po’ le persone che hanno sbagliato. Non lo dico apertamente ma, in fondo, sì, vorrei vederle soffrire e penare. Almeno un po’. Perché se non c’è una qualche sofferenza, che pena è? Ecco, mi sento di dire a quel cittadino che ha tanti dubbi e che rispetto perché saper stare nelle regole non è cosa di poco conto, gli vorrei dire che usare la scrittura come scalpello, andare a incontrare le proprie zone d’ombra non è fatica da poco e lo sforzo della coscienza non è più lieve di quello dei muscoli. È una pena, dunque, e un impegno di riparazione, in linea con quella tensione espressa dall’articolo 27 della Costituzione secondo cui le pene devono “tendere alla rieducazione del condannato”. E qui, tra l’altro, parliamo di individui con ogni probabilità colpevoli ma non ancora condannati. In questi primi tre anni “Verso Itaca” ha accolto circa 35 persone “messe alla prova” e quattro in misura alternativa. Alcune di loro hanno deciso di restare, di continuare a camminare con noi come volontari. E mi si allarga il cuore quando sento Spase che si presenta ai nuovi arrivati: - Sono Spase, volontario. Tra i compagni di viaggio più cari contiamo Alberto Gromi, Brunello Buonocore, Gabriella Sesenna e Massimo Savi. Le ragazze che hanno scritto brevi riflessioni nell’ultima pagina sono cuore e linfa di questo lavoro. All’interno dell’inserto invitiamo i lettori a salire in carrozza per fare un breve viaggio con noi, tra pensieri e frammenti di storie. Trieste: incontro letterario con Antonio Roma presso la Casa circondariale di Elisabetta Burla Ristretti Orizzonti, 12 ottobre 2018 Il 13 ottobre 2018 ad ore 10.00 Antonio Roma presenterà il libro “Oggi è un bel giorno” presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla libertà. L’evento s’inserisce nel ciclo d’incontri letterari organizzati dal Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti di Trieste - Elisabetta Burla. “Oggi è un bel giorno”, romanzo d’esordio di Antonio Roma, racconta la Sarajevo 20 anni dopo la tragica guerra che ha portato alla disgregazione della Yugoslavia e alla rivendicazione brutale delle singole etnie. Vent’anni dopo un ragazzo che in quell’esperienza ha perso la propria famiglia, anche il fratello fotografo che ora cerca di far rivivere nelle immagini scattate di una vita di un tempo che fu, incontra una giovane donna. A farli incontrare un anziano professore di lettere - nonno della ragazza - che a sua volta ricorda i traumi e i morti di una guerra assurda. L’incontro di due ragazzi nella Sarajevo odierna è il mezzo per raccontare l’incontro di due umanità ferite, il tentativo dopo tanta sofferenza, dolore e traumi di costruire un futuro superando l’odio che ha sconvolto quei territori dilaniando relazioni e distruggendo famiglie. Non dimenticare il passato, rievocare i ricordi positivi anche attraverso la lettura, gli scatti fotografici, superare il lutto causato da una guerra fratricida e ricucire gli strappi relazionali, affettivi e umani che da essa sono stati causati. Una riflessione sull’umanità e sulla speranza. La speranza d’imparare dagli errori del passato per cercare di non ripeterli. Concetto molte volte espresso ma evidentemente ancora non pienamente compreso. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Ascoli Piceno: il “Meeting nazionale giornalisti cattolici e non” entra in carcere chiesacattolica.it, 12 ottobre 2018 Seconda tappa per il V “Meeting nazionale giornalisti cattolici e non”, quest’anno organizzato in modo itinerante: il 19 ottobre ad Ascoli Piceno, in carcere. Dopo il primo appuntamento tenutosi a Roma il 12 settembre, il 19 ottobre i partecipanti si ritroveranno nel Carcere di massima sicurezza di Marino del Tronto (via dei Meli, 218 - Ascoli Piceno). Sarà necessario iscriversi sulla piattaforma Sigef in quanto i posti in questo caso sono limitati. Tema dell’incontro (che avrà inizio alle 9 e fornirà 4 crediti ai fini della formazione continua dei giornalisti) sarà “Giornalismo di Pace - La verità oltre le sbarre. Sono previsti gli interventi di Mons. Giovanni D’Ercole, Vescovo di Ascoli Piceno, di Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, di Andrea Domaschio, di InBlu Radio, di Franco Elisei, presidente dell’Ordine dei giornalisti delle Marche, di Lucia Feliciantonio, direttrice del Carcere di Marino del Tronto. In programma anche una testimonianza di alcuni detenuti del Carcere di Marino del Tronto. Modererà l’incontro Giovanni Tridente, docente di giornalismo presso la Pontificia Università della Santa Croce. La tappa successiva del V “Meeting nazionale giornalisti cattolici e non” si terrà il 20 ottobre a Bergamo. Catanzaro: al via il progetto Coni Calabria per i detenuti quicosenza.it, 12 ottobre 2018 “Tutti hanno diritto a una seconda chance. E lo sport è uno strumento straordinario per favorire l’inclusione sociale e la rieducazione dei condannati nel rispetto della Costituzione. Nasce con questa finalità il progetto “Luoghi di sport in carcere” che, grazie al Coni regionale, si svolgerà a Catanzaro”. Lo ha affermato il delegato provinciale del Comitato olimpico Giampaolo Latella, nella conferenza stampa di presentazione del programma di attività sportive che da martedì prossimo sino alla fine del 2018 sarà realizzato nella casa circondariale di Siano e nell’Istituto penale minorile. “Ringrazio il presidente Maurizio Condipodero e la giunta del Coni Calabria - ha affermato Latella - per aver riservato particolare attenzione a questa provincia. Vogliamo dare una mano per il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione della casa circondariale di Siano attraverso l’attività fisica, contribuendo a dare attuazione ai principi della Cedu per i quali l’Italia fu condannata cinque anni fa con la sentenza Torreggiani. Nel caso dei minori, che sono al centro del ‘focus’ del progetto, vogliamo invece favorire la socializzazione e l’educazione al rispetto delle regole e degli avversari. I più giovani non possono essere esclusi dalla società ma vanno messi nelle condizioni di diventarne protagonisti in positivo”. Alla conferenza stampa ha preso parte Isabella Mastropasqua, direttore del Centro di giustizia minorile della Calabria, che ha ringraziato il Coni “per un progetto che condividiamo totalmente e che auspichiamo venga riproposto in futuro perché vorremmo che tanti altri ragazzi abbiano questa opportunità che si sta creando grazie alla sensibilità e all’attenzione delle istituzioni sportive calabresi”. La componente dello staff tecnico (guidato da Giorgio Scarfone) ed esperta in criminologia Caterina Donato ha spiegato i dettagli del progetto che prevede “quattro giornate settimanali di attività motoria di base, ginnastica posturale, taekwondo, calcio, basket e pesistica, sia in palestra che all’aperto. In questo modo - ha aggiunto - contribuiremo al miglioramento delle capacità psicofisiche del detenuto nonché alla rieducazione del condannato, che si avvicinerà così ai valori più sani e adeguati alla società esterna”. Per il presidente della Figc regionale Saverio Mirarchi “lo sport, come ha già dimostrato il progetto pilota promosso dalla nostra federazione, può davvero aiutare chi sta scontando una condanna; la forte sinergia con il Coni agevolerà il raggiungimento di risultati ampi e diffusi specie tra i più giovani”. Il presidente della Fita Calabria Giancarlo Mascaro si è detto “soddisfatto per il pieno coinvolgimento della federazione del taekwondo che è uno sport particolarmente indicato per stimolare autostima, autocontrollo e rispetto dell’avversario. Quando ci è stato proposto di partecipare non abbiamo esitato un istante”. Il presidente del comitato provinciale Csen di Catanzaro Francesco De Nardo ha espresso infine “l’entusiasmo di una sfida nella quale, come ente di promozione sportiva, è importante essere presenti. Dobbiamo prendere atto che il Coni sta riconoscendo ai nostri enti dignità e attenzione e, da parte nostra, forti dei grandi numeri del movimento che rappresentiamo, siamo felici di collaborare a promuovere e diffondere lo sport a tutti i livelli”. Richiedenti asilo senza anagrafe. Il permesso di soggiorno non è titolo per l’iscrizione di Lorella Capezzali Italia Oggi, 12 ottobre 2018 Il decreto Salvini introduce numerose novità in materia demografica e di cittadinanza. Il Consiglio dei Ministri, su proposta del presidente Giuseppe Conte e del ministro dell’interno Matteo Salvini, lo scorso 24 settembre, ha approvato un decreto-legge che introduce disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, di sicurezza pubblica oltre a misure per la funzionalità del ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, nonché in materia di giustizia sportiva e di regolare svolgimento delle competizioni sportive. Il 4 ottobre 2018 il dl n. 113 è stato firmato dal presidente della repubblica Mattarella ritenendo soddisfatta la necessità e l’urgenza di agire anche in materia di riconoscimento dello status di protezione internazionale e nei procedimenti di concessione e riconoscimento della cittadinanza italiana e pubblicato nella G.U. n. 231 entrando in vigore il 5 ottobre. Novità rilevanti in materia demografica a partire dalla impossibilità dell’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo con la modifica dell’art. 5 e l’abrogazione dell’art. 5-bis del Dlgs 142/2015. L’art. 13 del dl “Salvini” prevede infatti che i richiedenti asilo non si possano iscrivere all’anagrafe e non possano quindi accedere alla residenza e il permesso di soggiorno ottenuto, pur costituendo documento di riconoscimento ai sensi del dpr 445/2000, non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del dpr 223/1989. L’ottenimento del permesso di soggiorno garantirà comunque l’accesso ai servizi previsti dal Dlgs n. 142/2015 nel luogo di domicilio. Novità anche in materia di cittadinanza. Il decreto legge, all’art. 14, prevede modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91 “Nuove norme sulla cittadinanza”. La domanda di acquisto della cittadinanza per matrimonio ai sensi degli artt. 5 e 7 della legge n. 91/1992 potrà essere rigettata essendo stato abrogato il comma 2 dell’art. 8 della stessa legge n. 91/92, senza limite di tempo. Attualmente le richieste di acquisto di cittadinanza italiana per matrimonio non potevano essere rigettate. Inoltre il contributo statale richiesto per le istanze o dichiarazioni di elezione, acquisto, riacquisto, rinuncia o concessione della cittadinanza previsto dall’art. 9-bis della legge n. 91/1992, aumenta da € 200 a € 250. Viene prolungato a 48 mesi il termine per la concessione della cittadinanza sia per naturalizzazione che per matrimonio rispettivamente disciplinati dagli artt. 9 e 5 della legge n. 91/1992, quindi più tempo al ministero dell’interno e alle prefetture per la conclusione dei procedimenti e l’emanazione dei rispettivi provvedimenti. Il termine di 48 mesi viene inoltre sancito per la conclusione dei procedimenti di riconoscimento della cittadinanza italiana “iure sanguinis” avviati dall’autorità diplomatica o consolare o dall’Ufficiale di stato civile a seguito di istanze fondate su fatti occorsi prima dell’1 gennaio 1948 disciplinati dalla circolare ministeriale K28.1 del 8/4/1991. La dilatazione dei termini a 48 mesi si applica ai procedimenti di conferimento della cittadinanza in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, non più adeguati alle mutate dimensioni e caratteristiche del fenomeno cittadinanza, oltre alle criticità legate alla complessità della relativa istruttoria e del crescente fenomeno di contraffazione dei documenti dei Paesi d’origine prodotti dai richiedenti. È inoltre introdotta la possibilità di revocare (o negare) la cittadinanza per naturalizzazione, per matrimonio o a seguito di elezione del diciottenne condannato in via definitiva per reati legati al terrorismo, anche se è nato e ha sempre risieduto legalmente in Italia fi no alla maggiore età. Si disciplina anche una ulteriore ipotesi di revoca della cittadinanza ottenuta a seguito della produzione di atti falsi o di false dichiarazioni. La revoca è possibile entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati commessi, con Dpr, su proposta del ministro dell’interno. Dopo l’entrata in vigore si attendono le indispensabili indicazioni del ministero degli interni circa i procedimenti relativi alle novità normative. Migranti. Operazione Mediterranea: la consapevolezza di non poter rimanere indifferenti di Girolamo De Michele Il Manifesto, 12 ottobre 2018 Nel salvataggio degli esseri umani sulla frontiera mediterranea - Saving Humans - si esprime un valore simbolico che valorizza il mero fatto materiale del soccorso. Umanità, così intesa, dice l’essenza stessa dell’essere umano: quell’essere generico che è in potenza di essere, che ha la potenza di creare e trasformare il mondo. In una nota, Adorno commentava la tragica vicenda di Rolan Pelzer, un suo allievo suicidatosi che aveva lasciato la salma alla sezione di anatomia per non far pesare sulla famiglia in povertà i costi del funerale; il cadavere sfracellato era però stato rifiutato perché non era possibile sezionarlo. Mentre ciò accadeva, un’assemblea studentesca discuteva la quota di rappresentanti negli organi accademici. Questa istantanea che fissa l’incapacità di riconoscere l’orrore e di cessare, al suo cospetto, la conta dei pidocchi da parte di sedicenti rivoluzionari può essere presa ad emblema dello stato di cose che ha messo in moto l’Operazione Mediterranea: la consapevolezza che non era possibile rimanere inerti o indifferenti. Ci sono momenti nei quali il freddo ragionamento deve cedere il passo all’indignazione; momenti che segnalano l’emergere di un di più etico che sopravanza le determinazioni sociali ed economicistiche, e fa emergere “quel tessuto di norme ed obblighi, di valori e di affetti, che definisce ciò che si può tollerare e ciò che intollerabile, ciò che si può fare e ciò che non si può fare” (Amendola su Fassin): un’economia morale della rivolta, che scompagina la cosiddetta ragione umanitaria, ridefinendola come resistenza a partire dal sentimento dell’intollerabile. Quel di più etico rinvia alla stessa sostanza dell’umanità degli esseri come un’eccedenza, nello stesso modo in cui il comune eccede i beni comuni; è la lingua italiana stessa a dircelo, nell’acuta distinzione tracciata dal Tommaseo fra umanità e genere umano: “il secondo dice l’insieme degli uomini considerati come razza comune; umanità è la persona formata dal genere umano; la vita di lui nello spazio e nel tempo. Il genere umano può scemare più o meno; l’umanità è indivisibile e immortale”. Nel salvataggio degli esseri umani sulla frontiera mediterranea - Saving Humans - si esprime un valore simbolico che valorizza il mero fatto materiale del soccorso. Umanità, così intesa, dice l’essenza stessa dell’essere umano: quell’essere generico che è in potenza di essere, che ha la potenza di creare e trasformare il mondo. Una potenza sempre passibile di sfruttamento, di assoggettamento; ma anche, sempre in grado di determinare processi di soggettivazione, di riappropriazione della potenza espropriata. Nella sua trovarsi nella zona comune fra la vita e la morte - non nuda vita, ma concreta presenza in un luogo e un tempo -, nel quale il massimo dell’impotenza (la vicinanza con la morte) si coniuga al massimo della potenza (un’intera vita contenuta nel suo diritto al futuro) il migrante dice qualcosa di essenziale sull’umano e sulla sua potenza. Il femminismo ha saputo insegnarci che l’essere umano non viene dal nulla, come sosteneva un cattivo esistenzialismo, ma dal concreto corpo della madre: il migrante a rischio della vita ricorda alle anime belle compassionevoli e a quelle che distolgono lo sguardo con benaltrismi consolatori, l’orrore di un presente da distruggere. Ma non solo: perché considerare il Mediterraneo una frontiera, uno spazio dove le coste si fronteggiano, popolato e attraversato al suo interno - come sempre è stato, significa negarne la ridefinizione di confine (e di fortezza per gli Stati che vi si affacciano). Dunque, resistere e rovesciare la moltiplicazione dei confini, delle gerarchie, delle segmentazioni, in una battuta il confinamento del comune (Mezzadra-Neilson) per riportare le lotte di confine dai margini al centro delle nostre vite politiche. Infine, c’è qualcosa di simbolico nella stessa data di partenza della Mare Jonio nel giorno di san Francesco: la figura del povero che evoca il predicatore che “per denunciare la povertà della moltitudine, ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società” (Negri-Hardt). Il povero è determinato dalle restrizioni delle pratiche in cui si danno desideri, voleri, aspirazioni: patisce la limitazione della capacità di avere aspirazioni (Appaduraj), ma al tempo stesso è orientato dalla propria condizione verso la resistenza e la protesta. La pretesa di un aumento della propria capacità di avere aspirazioni comporta l’analoga pretesa non di essere tollerato in cambio dell’integrazione, ma di un riconoscimento come alterità: non più migrante, ma straniero residente che nel suo rapporto non identitario con la terra dischiude, nell’assunzione dell’estraneità, un coabitare” che allude a “un modo altro di essere al mondo e a un altro ordine mondiale” (Di Cesare). Decreto immigrazione: dal Colle una reazione troppo prudente di Francesco Pallante Il Manifesto, 12 ottobre 2018 Quando il Presidente Mattarella rifiutò la nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia, paventando il rischio di sconvolgimenti finanziari e invocando i suoi doveri costituzionali a tutela del risparmio, alcuni commentatori ne criticarono l’operato mettendo in luce che altri componenti la lista dei ministri risultavano altrettanto pericolosi per delicati beni costituzionali (l’uguaglianza, la non discriminazione, la progressività fiscale, i diritti) e stigmatizzarono le ragioni che avevano indotto il Presidente a far convergere le proprie preoccupazioni esclusivamente sui profili di natura economico-finanziaria. Altri commentatori replicarono che, anche a volerle condividere, le critiche sottovalutavano il fatto che, mentre la nomina di Savona rappresentava, di per sé, un pericolo in atto per la tenuta delle finanze pubbliche e la permanenza dell’Italia nell’Euro, altre nomine risultavano, tutt’al più, un pericolo in potenza, affrontabile dal Presidente nel momento in cui si fosse concretizzato. Ebbene: con il decreto legge in materia di immigrazione il momento sembra essere arrivato, ma la reazione presidenziale è risultata più prudente di quanto, dato il precedente, ci si poteva aspettare. Ci si può limitare a due questioni. La prima ha a che fare con la presunzione di non colpevolezza e con il diritto di difesa, principi che trovano spazio nella nostra cultura giuridica almeno dal 1215, quando la Magna Carta sancì, tra l’altro, che nessuno può essere non solo “preso o imprigionato”, ma nemmeno “bandito o esiliato” senza un giudizio definitivo di condanna. Ora, in virtù di quanto sancito dal recente decreto, il richiedente asilo sottoposto a procedimento penale o condannato con sentenza non definitiva per una serie di reati vedrà accelerata la propria pratica di richiesta d’asilo e, in caso di diniego, sarà immediatamente allontanato dall’Italia, nonostante l’assenza di una condanna definitiva e la compressione del diritto di difesa. La seconda ha a che fare con la cittadinanza, istituto indivisibile in categorie differenziate pena la sua stessa negazione. Cittadini si diventa, con la Rivoluzione francese, nel momento in cui i molteplici status cetuali che definivano peculiarmente il rapporto dei singoli con l’autorità si fondono in una condizione universale, definibile in termini di diritti e doveri uguali per tutti. Se l’autorità può di più o di meno nei confronti di qualcuno, allora a rilevare è il privilegio di chi ha meno doveri o più diritti, vale a dire, lo status che differenzia il privilegiato rispetto agli altri. Esattamente com’era prima del 1789. Il decreto Salvini crea una differenziazione di questo genere, prevedendo che coloro che hanno acquisito la cittadinanza italiana dopo la nascita possano vedersela revocata qualora commettano determinati reati. Analoga regola non vale per chi è cittadino dalla nascita, sicché, quando si tratterà di punire il responsabile di talune condotte criminali, a venire in luce non sarà ciò che egli ha fatto, ma chi è: se un membro della categoria privilegiata o no. La stessa azione sarà, cioè, punita diversamente a seconda di chi ne è l’autore, in clamorosa violazione del principio di uguaglianza formale. Chi replica che l’ordinamento già prevede ipotesi di revoca della cittadinanza non coglie nel segno, perché quelle ipotesi valgono tanto per i cittadini dalla nascita quanto per quelli che lo divengono nel tempo. Sono ipotesi che non creano una categoria di cittadini di secondo rango, come invece fa il decreto del governo. Naturalmente, su entrambi i profili potrà in futuro intervenire la Corte costituzionale, ma che a fronte di tali forzature la Presidenza della Repubblica si sia limitata a un richiamo formale della Costituzione - quando ancora ieri ha dimostrato di saper assumere posizioni critiche ben più incisive - suscita perplessità. Stati Uniti. Migliaia di famiglie separate dalle politiche di Trump sull’immigrazione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 ottobre 2018 Un nuovo rapporto di Amnesty International, intitolato “Tu qui non hai alcun diritto: respingimenti illegali, detenzioni arbitrarie e maltrattamenti di richiedenti asilo negli Usa”, ha rivelato i costi crudeli delle politiche intraprese dall’amministrazione Trump per compromettere e smantellare il sistema d’asilo in vigore negli Usa, in grave violazione delle norme nazionali e internazionali: i respingimenti illegali di massa di richiedenti asilo alla frontiera tra Messico e Usa, la separazione di migliaia di nuclei familiari e il sempre maggiore ricorso alla detenzione arbitraria e a tempo indeterminato dei richiedenti asilo, spesso con diniego della libertà condizionata. Un mese fa l’agenzia per le Dogane e la protezione delle frontiere (Customs and border protection - Cpb) ha riferito ad Amnesty International di aver forzatamente separato oltre 6000 nuclei familiari (definizione che le autorità Usa applicano incoerentemente tanto a intere famiglie quanto a singoli loro componenti) nel periodo compreso tra il 19 aprile e il 15 agosto 2018, più di quanto reso noto in precedenza dalle autorità statunitensi. La Cpb ha confermato che quel dato non tiene conto di un non precisato numero di famiglie la cui separazione non è stata correttamente registrata, che comprendono i nonni o altri gradi di relazione familiare che le autorità giudicano “fraudolenti” e dunque escludono dalle statistiche. L’estrema sofferenza inflitta di proposito dalle autorità Usa alle famiglie separate costituisce maltrattamenti e in alcuni casi tortura. Amnesty International ha intervistato 15 parenti e tutori legali separati dai loro bambini dalle autorità di frontiera, 13 dei quali si erano presentati ai posti di frontiera ufficiali. Le separazioni che sono seguite hanno causato forme estreme di angoscia e in alcuni casi traumi a lungo termine tanto per gli adulti quanto per i bambini. Il rapporto di Amnesty International denuncia anche che nel 2017 e nel 2018 la Cbp ha respinto migliaia di persone che avevano chiesto asilo ai posti di frontiera ufficiali e che a partire dall’anno scorso le autorità statunitensi hanno adottato e imposto la prassi della detenzione obbligatoria e a tempo indeterminato dei richiedenti asilo, spesso negando loro la libertà condizionata, per tutta la durata della procedura d’esame della domanda d’asilo. Si tratta di detenzioni arbitrarie, che violano le norme statunitensi e internazionali. In Malaysia si preannuncia l’abolizione della pena capitale di Emanuele Giordana Il Manifesto, 12 ottobre 2018 Asia. Tra molte contraddizioni il nuovo governo si prepara a votare la fine delle esecuzioni. Cina e Iran i due stati che ne compiono di più al mondo. Dalla settimana prossima la Malaysia potrebbe essere il 143simo Paese che abolisce la pena capitale. Se il condizionale è d’obbligo - il parlamento discuterà la legge abolizionista solo lunedì - il risultato è praticamente certo perché è il governo a volere fortemente il provvedimento e ha già imposto al boia di fermarsi. Gli oltre 1200 detenuti nel braccio della morte possono sperare che il loro destino muti clamorosamente tra appena qualche giorno. La pena capitale in Malaysia viene comminata per impiccagione a chi si è macchiato di terrorismo, omicidio, sequestro, traffico di droga e vari altri reati e tra l’altro, Kuala Lumpur, pur avendo firmato la Convenzione sui Diritti del Fanciullo, aveva espresso una riserva all’articolo 37, che vieta la pena di morte ai minori di 18 anni. L’Asia è un continente con un triste primato: non solo la pena capitale è diffusa in molti Stati, dal Bangladesh (che due giorni fa ne ha condannati a morte 19) alla Tailandia, da Singapore al Vietnam, ma contiene anche gli stati dove si verificano in assoluto più esecuzioni, come la Repubblica popolare cinese e l’Iran (che tra il 2015 e il 2018 ha giustiziato anche 90 minorenni). Questo piccolo ma saldo Paese del Sudest asiatico non smette di stupire. Nel bene e nel male. La giustizia si è piegata spesso alle pressioni del potere politico (famoso il caso del vicepremier Anwar Ibrahim entrato in rotta di collisione con il primo ministro Mahathir Mohamad e finito a lungo in carcere) e la repressione violenta - dai casi di terrorismo al traffico di stupefacenti - è rimasta sempre un punto fermo. Ma adesso il Paese è governato da una colazione molto eterogenea - Pakatan Harapan - che ha promesso una sterzata nel campo della giustizia. Non in quello della politica: ha permesso il ritorno sia dell’inossidabile Mahathir (classe 1925) sia di Anwar Ibrahim: il primo è il capo di PH e l’attuale premier. Il secondo è il leader della medesima coalizione. E per dirla tutta, dopo che Pakatan Harapan ha vinto le elezioni nel 2018, l’ex premier Najib Razak è stato arrestato per corruzione (libero con la condizionale). Prima di perdere era praticamente intoccabile. La notizia comunque è buona. La Malaysia - il cui nuovo governo sembra deciso a mantenere le promesse - potrebbe spingere altri Paesi a seguire il suo esempio. Molti hanno aderito alla moratoria sulle esecuzioni, promossa da una lunga campagna di associazioni come Nessuno Tocchi Caino o Amnesty, ma la strada è ancora lunga.