La Corte Costituzionale in carcere. Quando entrerà anche la Costituzione? di Valter Vecellio lindro.it, 11 ottobre 2018 Mai troppo lodato il progetto “Viaggio nelle carceri”, nato da un’idea del professor Marco Ruotolo, ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università Roma Tre, dove dirige il Master di II livello in Diritto penitenziario e Costituzione. Un progetto a lungo vagheggiato, che ora entra nella fase esecutiva vera e propria: qualche giorno fa una diretta streaming ha messo in contatto circa 150 istituti penali italiani con il carcere di Rebibbia, dove si sono recati numerosi giudici della Corte Costituzionale, guidati dal presidente Giorgio Lattanzi. Si è tenuta così una sorta di lezione-dialogo tra giudici e detenuti che ha spaziato sui temi più diversi: il diritto all’affettività; i diritti di cittadinanza; L’ergastolo ostativo e il diritto alla speranza; le attività culturali all’interno del circuito carcerario e il lavoro ai detenuti. Lodevole iniziativa, che andrebbe estesa. I rudimenti della civiltà giuridica dovrebbero entrare nelle scuole, assieme all’auspicato ritorno dell’Educazione civica, voluta da Aldo Moro nell’ormai lontano 1958, e inopinatamente da una più blanda “Cittadinanza ed educazione” nel 2010. E non solo nelle scuole: speciali corsi di Costituzione andrebbero istituiti per magistrati e politici. Non si è troppo sicuri che i deputati e i senatori (non parliamo degli amministratori ‘locali’) conoscano come dovrebbero almeno i rudimenti della Carta Costituzionale. I giudici costituzionali sono entrati in carcere. La Costituzione troppe volte, ancora, ne resta fuori. Le carceri sono sovraffollate al punto che spesso i diritti fondamentali delle persone detenute risultano pregiudicati. In un paio d’anni la popolazione carceraria è cresciuta di 6.000 unità. Quasi sessantamila detenuti, un terzo dei quali in attesa di giudizio definitivo. Ogni detenuto costa allo stato 137 euro al giorno, ma uno su tre è in cella pur attendendo ancora una condanna definitiva. Fanno (dovrebbero) far riflettere I dati relative ai suicidi in carcere: 52 nel 2017; 1.135 i tentativi di suicidio. L’Italia è il quinto paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare. Nel 2017 i detenuti ancora in attesa di sentenza definitiva erano il 34,4 per cento; la media europea è del 22 per cento. Secondo gli ultimi dati, circa il 70 per cento dei detenuti e affetto da almeno una malattia cronica; sette detenuti su dieci hanno una patologia cronica, circa il 50 per cento non sa neppure di essere malato. Le carceri sono veri e propri lazzaretti, dove proliferano malattie infettive, psichiatriche, metaboliche, cardiovascolari e respiratorie. Grazie ai ‘tagli’ delle risorse e degli stanziamenti, l’assistenza sanitaria è ridotta al lumicino. Sono in aumento i casi di tubercolosi, ed elevate sono le possibilità di mettere in circolo ceppi multi-resistenti ai farmaci. Tra le malattie infettive il virus dell’epatite. C’è quello più rappresentato, soprattutto a causa della massiccia presenza di tossicodipendenti i carcerati con gli anticorpi di specie sono appena il 30 per cento; gli altri hanno il batterio attivo: servirebbero farmaci per circa 30mila detenuti. Aids: a circa il 3,5 per cento dei detenuti è stato diagnosticato l’Hiv, ma si tratta di un numero parziale. Gli affetti di epatite B sono il 6 per cento del totale; oltre 10mila carcerati stranieri risulta positivo ai test per accertare la Tbc. Sarebbe interessante conoscere anche lo stato di salute degli agenti di custodia, e della più generale comunità penitenziaria. Chissà se al ministero della Giustizia ci faranno un pensierino. La situazione che si è creata è critica; non ci vorrà molto perché diventi incontrollabile. La riforma del carcere è morta. La crisi esplode di Franco Corleone L’Espresso, 11 ottobre 2018 Il 2 ottobre il Presidente Mattarella ha firmato i decreti di quel che è sopravvissuto al sogno della grande riforma del carcere nato con gli Stati Generali dell’esecuzione penale. Nessun cambiamento per l’ergastolo ostativo, nessun ampliamento per le misure alternative, niente diritto all’affettività, nulla sulle misure di sicurezza, nulla sulla giustizia riparativa. E l’elenco del niet potrebbe continuare. Evviva il cambiamento! In peggio, ovviamente. La questione che mi turba maggiormente è la cancellazione delle norme relative ai problemi della psichiatria in carcere e al funzionamento delle Rems, le residenze aperte dopo la chiusura degli Opg per l’esecuzione delle misure di sicurezza per i prosciolti per incapacità di intendere e volere. Sarebbe stata sommamente opportuna la modifica dell’art. 147 del Codice Penale per garantire la possibilità di misure alternative non solo ai detenuti con gravi patologie fisiche ma anche mentali. Anche la istituzione di luoghi in carcere destinati a detenuti con problemi psichiatrici, le cosiddette articolazioni psichiatriche a esclusiva gestione sanitaria, avrebbe costituito una risposta a un disagio crescente. Il caso drammatico di Rebibbia è emblematico. Non si capisce il motivo del rifiuto di una norma utile e senza costi per lo Stato. Ho denunciato questo fatto incomprensibile con una testimonianza, per non essere corresponsabile, fosse solo per omissione, del disastro che incombe. Un digiuno di tre giorni per ricordare, io per primo, che le ragioni dell’umanità e dell’intelligenza non si possono cancellare. Morti di carcere, quel dolore urlato per poche ore che poi sparisce nell’indifferenza di Pino Roveredo* Il Piccolo, 11 ottobre 2018 Le carceri sono diventate luoghi illegali, dove regna la disumanità. Nel carcere di Trieste è morto un altro detenuto. L’ennesimo. E, come per gli altri lutti, la notizia urlerà per qualche ora, quindi torneremo alle nostre consuetudini e girando la testa chiuderemo il fatto col disbrigo veloce di un “pace all’anima sua”. Poi, nelle periferie dell’indifferenza, girerà il dolore solitario degli affetti, dietro la minima rabbia di chi conosce la situazione e si rammarica per l’ennesima occasione persa, quella di pretendere un rispetto umano anche nei luoghi del castigo. Anche stavolta non succederà niente, la politica continuerà nella sua guerra alla delinquenza con la convinzione che “più ne richiudiamo e meglio stiamo”. Le parole recupero, riabilitazione, attenzione, hanno perso il senso, sono impopolari, non portano voti. E intanto si riempiono le carceri o le scatole murate della vergogna, con l’indecenza del sovraffollamento, dove saltano le regole e la disumanità continua a produrre percorsi a senso unico di una futura delinquenza. Le celle, per scarsità di risorse e interesse, sono ormai diventati luoghi illegali, dove anche la morte non riesce a scuotere l’uso di una ragione. Il 70% del popolo carcerario ha problemi psichiatrici. Il 75% circa torna a delinquere, ma sembra che tutto questo non sia un problema. C’è tempo e d’altronde resiste ancora lo spazio pulito di un 25% da riempire. Le forze di Polizia sono ridotte all’osso e spesso sono costrette a fare turni massacranti per riempire la sorveglianza, e fino a quando non si sa. Le educatrici, figure indispensabili, devono affrontare l’impegno con numeri insufficienti e con la desolazione di una forza con non riesce ad affrontare le emergenze. I direttori, per una carenza di personale, continuano a dirigere più istituti a discapito di una concentrazione. Il tutto davanti a un’istituzione che continua a girare le spalle all’emergenza, tagliando risorse, interesse e umanità. Sappiamo benissimo che quello avvenuto ieri a Trieste non sarà l’ultimo suicidio, perciò prepariamoci a rileggere la velocità di altri lutti, dove non sarà obbligatorio l’uso della coscienza. *Garante dei diritti dei detenuti della Regione Friuli Venezia Giulia Sesso in carcere: la privazione raccontata da un ex detenuto di Chiara Formica Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2018 La riforma penitenziaria approvata appena due settimane fa non prende minimamente in considerazione il diritto all’affettività, di cui devono fare a meno i detenuti degli istituti penitenziari italiani. A raccontare cosa significa vivere in questo stato di privazione è un ex detenuto C.V. che, rispondendo ad alcune domande, ci permette di cogliere più a fondo l’essenza dei diritti: cosa può scaturire non solo dall’esigenza ma dalla mancanza del “diritto ad essere amati” e del “diritto ad amare”. L’astinenza dal sesso: la pena nella pena. Cosa significa e cosa implica esserne soggetti? Il sesso in carcere non esiste. Non è consentito praticarlo. La “desessualizzazione indotta” applicata ai detenuti è una pena che si aggiunge alla pena intesa come condanna e rende la reclusione molto più disumana. È sicuramente una forma di tortura mentale e fisica celata in nome della sicurezza. Ad ogni modo il problema è che questo divieto viene esteso inevitabilmente anche alle compagne dei detenuti, pur non avendo commesso alcun reato. Esiste un legame tra sesso e rieducazione e dunque reinserimento sociale? Esiste un diritto ad essere amati. Esiste un diritto ad amare. Se l’amore è un bene, tutto quello che lo è sicuramente serve per la rieducazione del soggetto quindi per la sua risocializzazione. In Italia si continua a concepire il carcere come una “discarica sociale” e nessuna forza politica ha il coraggio di cambiare le cose e di affrontare un tema che comunque riguarda tutti. Riguarda i detenuti, ma anche la società che dovrà riaccoglierli in qualche modo e continuare a ignorare il problema di certo non aiuterà a risolverlo. Per l’opinione pubblica di questo paese il sesso è ancora un tabù, figurarsi il sesso in carcere. Perché è invece importante che si inizi a sostenere il diritto all’affettività? La concezione del sesso di solito è molto condizionata dalle culture popolari e delle religioni. Nel nostro paese quella cristiana ha influenzato molto la sessualità. I gusti di alcuni sono considerati devianze per molti. Il sesso in carcere oltre che un tabù è considerato un privilegio: quello che si deve capire è che in realtà è una necessità fisiologica tanto per i cittadini liberi quanto per i reclusi. La sessualità è un diritto e come tale deve essere trattata. Perché in Italia il diritto all’affettività è così in ritardo rispetto ad altri paesi europei? Tra i detenuti ci si chiede spesso perché si continui a lasciare la questione del vis a vis immutata praticamente da sempre. C’è chi dice che in carcere il sesso non è consentito perché “offenderebbe la morale del Papa”. I più complottisti pensano che proibendo il sesso si eviti la riproduzione e, quasi per una “selezione della razza”, si vorrebbe evitare che i criminali ne mettessero al mondo altri, come se fosse un male trasmissibile geneticamente. Forse la risposta è che una classe politica troppo debole per affrontare argomenti scomodi come questo deve fare per forza leva sui populismi e, anziché guidare il paese verso un’evoluzione civile, si lascia guidare dalla retorica. In Europa - ormai solo l’Italia e qualche altro paese si rifiutano di affrontare la questione - Spagna, Olanda, Belgio, Francia, Svizzera e Germania hanno affrontato il tema già da parecchi anni. Qui gli istituti penitenziari non vengono concepiti come ‘depositi di criminali’ a differenza dell’Italia, ma piuttosto come luoghi di rieducazione vera e propria. Purtroppo da noi risulta difficile accettare che se un detenuto non viene trattato con civiltà i cittadini si ritroveranno sostanzialmente un criminale che, scontata la pena, tornerà ad essere quello che nella vita è sempre stato. In uno Stato di diritto si deve assolutamente tutelare la vittima dal crimine subito, ma successivamente ci si deve occupare di chi il crimine lo ha commesso. Bisogna far prendere coscienza del male a chi il male lo ha sempre vissuto con consuetudine e questo spetta a uno Stato che si fa carico di garantire un altro principio costituzionalmente garantito, cioè la rieducazione. Quali altri disagi o conseguenze nascono dalla privazione del sesso? L’abbandono volontario genera nel recluso un senso di frustrazione che lo porta a pensare di non avere debiti di riconoscenza nei confronti di nessuno e da qui il passo a commettere nuovi reati una volta uscito è breve. L’astinenza dalla pratica sessuale fa si che i detenuti si avvicinino in modo ossessivo alla pornografia, usata per l’autoerotismo. Quando la pornografia diventa l’unico mezzo per la masturbazione si innescano processi mentali distorti o comunque innaturali e sicuramente pericolosi. Per quanto riguarda le detenute invece pare siano addirittura molto diffusi i rapporti saffici, anche nel caso in cui le stesse non hanno mai manifestato prima di entrare in carcere desideri omosessuali. A Rebibbia si è verificato un evento importante lo scorso anno, quando è stato celebrato il primo matrimonio gay tra due detenute della sezione femminile. La coppia ha chiesto e ottenuto di poter condividere la stessa cella creando così un precedente storico in materia di affettività, ma contestualmente con tale concessione si è sancita una disparità di trattamenti tra etero e omosessuali. Parli dell’omosessualità tra donne, gli uomini invece? L’omosessualità accettata, sia al maschile che al femminile, è solo quella televisiva quindi artistica, purtroppo. Del resto si continua a valutare la persona in base a chi si porta a letto. C’è sicuramente tanta discriminazione e poca sensibilizzazione già a partire dalle scuole, dove spesso i professori fanno finta di non vedere e non sentire. Credo sia necessario partire proprio dagli ambienti scolastici, per esempio inserendo l’educazione sessuale come materia obbligatoria. Troppo spesso i genitori non riescono ad affrontare l’argomento sesso con i propri figli, o lo affrontano poco e male, quindi dovrebbe essere compito della scuola far capire ai ragazzi che un orientamento sessuale diverso da quello più comune non è da temere o da disprezzare. La riforma penitenziaria da poco approvata dal Consiglio dei ministri non menziona minimamente il diritto all’affettività. In quale direzione va una riforma che non tiene conto delle esigenze e delle aspettative dei reclusi? Si è progettato un grattacielo per poi costruire una capanna. L’affettività era addirittura considerata il fulcro della riforma quando fu concepita, ma è stata immediatamente scartata insieme ai tantissimi decreti non approvati. La politica teme il giudizio popolare, si nutre dei consensi. In politica contano i numeri e i carcerati sono una minoranza di cittadini, tra l’altro senza diritto al voto, quindi i politici cavalcano l’onda per restare in piedi. Con queste premesse non poteva finire diversamente. Tutto quello che di positivo si era pensato in favore dei detenuti è stato scartato per lasciare il posto al peggiorativo o comunque all’irrilevante. La codardia della nostra classe politica non ci consentirà mai di avere cambiamenti radicali che tengono conto delle esigenze dei detenuti, ma un cambiamento sarebbe necessario visto che l’ultima riforma dell’Ordinamento penitenziario risale al 1975. Come resistono (o non resistono) i rapporti di coppia in questa situazione, soprattutto a fronte di condanne lunghe? L’amore platonico è bello da leggere non da vivere. Il sesso è uno degli elementi fondamentali della coppia e quando viene meno non tutte le compagne dei detenuti aspettano il ritorno a casa del proprio uomo tessendo la tela come Penelope. Nelle carceri c’è gente che non pratica sesso da 30/35 anni o forse 40: nella maggior parte dei casi sono ergastolani e quindi gente destinata a morire da reclusi, perché, contrariamente a quanto si crede, con l’ergastolo dal carcere non si esce in vita. Anche i rapporti idilliaci perdono la loro alchimia man mano che il tempo passa, figuriamoci quelli già un po’ incrinati. Nel diritto all’affettività rientrano sesso e affetti, insomma è il diritto a non sentirsi soli. Il distacco dagli affetti in generale rappresenta sicuramente una delle componenti più difficili da gestire durante la detenzione. Cosa significherebbe avere la possibilità di colmare, almeno in parte, questo vuoto? Significherebbe non doversi accontentare di qualche bacio dato quasi di nascosto per l’imbarazzo di stare davanti ad altri detenuti durante il colloquio, significherebbe che la tua donna potrebbe sedersi sulle tue gambe senza che l’agente venga a dirti che non è consentito, significherebbe non essere costretti a passare solo 48 ore all’anno insieme alla persona amata e poterla sentire al telefono più delle 4 ore annuali concesse. Questi sono gli orari in cui devi fare il marito, il padre, il figlio, il fratello. Se il tuo bambino ha la febbre, per non dire altro, e tu hai terminato i 20 minuti mensili previsti di telefonate, devi solo pregare che possa stare meglio perché tu non hai il diritto di saperlo, il tuo tempo è scaduto. Il sistema penitenziario italiano non ha la sensibilità di mettere la persona, che comunque ha sbagliato, nelle condizioni di prendersi cura quanto meno degli affetti più cari. Il detenuto sarà sempre un padre ad intermittenza. Un padre da vedere 4 ore al mese se è in un carcere vicino casa o se si ha la possibilità di raggiungerlo lì dove si trova, ma quasi sempre è fuori dalla regione di provenienza. Se la possibilità non c’è hai a disposizione solo 20 minuti di chiamata al mese da spendere in 2 telefonate. Nelle carceri di altri paesi europei, oltre ad essere consentito il sesso, è possibile fare telefonate ai propri famigliari tutti i giorni, anche più volte al giorno, e le ore di colloquio previste sono di più. Il problema della sicurezza osannato dai nostri legislatori esiste anche in Spagna, in Belgio, in Olanda, ma viene gestito diversamente pur potendo accedere agli stessi mezzi. L’Italia ha un tasso di recidiva molto alto e questo anche perché il modo di concepire la pena nel nostro paese altro non fa che incattivire ancora di più i criminali abbandonati a se stessi. Sarebbe giunta l’ora forse di prendere qualche esempio da quei paesi a cui noi troppo spesso diciamo che non hanno nulla da insegnarci? Il Governo non è lo Stato, ma Di Maio non lo sa di Sabino Cassese Corriere della Sera, 11 ottobre 2018 Luigi Di Maio, nel fare la voce grossa, commette l’errore di confondere il governo con lo Stato. Errore che commette di frequente, quando, ad esempio, invita presidenti di enti a dimettersi, o pretende che alti funzionari dello Stato godano della sua fiducia. “Se Banca d’Italia vuole un governo che non tocca la Fornero, la prossima volta si presenti alle elezioni con questo programma”, ha dichiarato Luigi Di Maio il 9 ottobre scorso, commentando le valutazioni espresse dalla banca centrale in Parlamento sulla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza. Dunque, per il vicepresidente del Consiglio dei ministri tutto il potere discende dal popolo ed è sempre il popolo che, mediante elezioni, deve pronunciarsi. La democrazia è ridotta ad elezioni e anche i vertici della Banca d’Italia debbono presentarsi all’elettorato o sottostare alla volontà del governo. Questa è una versione romanzata della democrazia, che, invece, ha al suo interno poteri e contropoteri, non tutti con una investitura popolare diretta. Le corti giudiziarie, la Corte costituzionale, le autorità indipendenti, le università, sono corpi autonomi, alcuni garantiti come tali dalla stessa Costituzione. Le persone che ne sono titolari non sono elette, ma scelte in altri modi, per lo più sulla base del merito, delle competenze, dell’esperienza, con competizioni aperte (concorsi). In questo modo si realizza il pluralismo del potere pubblico, si riconosce il potere della conoscenza, quello della competenza, quello del giudizio imparziale. Questo pluralismo serve a uno scopo fondamentale, quello di impedire la tirannide delle maggioranze, un pericolo segnalato nel 1788 da James Madison in America, nel 1835 da Alexis de Tocqueville in Francia e nel 1859 da John Stuart Mill in Inghilterra. Questi pensatori e uomini politici, le cui idee sono state alla base delle democrazie americana, francese e inglese, erano preoccupati di equilibrare i poteri dello Stato e di evitare che la maggioranza (popolare e parlamentare) imponesse alla società le proprie idee e le proprie pratiche, garantendo così i dissenzienti e i diritti individuali nei confronti dell’opinione e dei sentimenti prevalenti. Un posto particolare, tra i poteri indipendenti, hanno le banche centrali. David Ricardo, nel 1824, auspicava la separazione istituzionale tra il potere di creare denaro e il potere di spenderlo e il divieto di finanziamento monetario del bilancio dello Stato. Più di un secolo dopo, Milton Friedman voleva che il sistema monetario fosse libero da interferenze governative. Nel 1981, per opere di Nino Andreatta e di Carlo Azeglio Ciampi, si realizzò il completo divorzio tra Tesoro dello Stato e Banca d’Italia, che fu liberata dall’obbligo di acquistare i titoli pubblici inoptati da banche e risparmiatori. Ora la Banca d’Italia fa parte del Sistema europeo delle banche centrali. Lo Stato italiano ha firmato un trattato secondo il quale il governo si impegna a non cercare di influenzare gli organi della banca centrale. La Banca europea ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote. Le banche centrali non possono avere istruzioni dai governi, né sottostare a loro direttive, i loro dirigenti non possono esser rimossi, le loro competenze sono esclusive, la loro indipendenza finanziaria e organizzativa è piena. Tutto questo per sottrarre la politica monetaria alle influenze dei governi, per assicurare la stabilità dei prezzi e il controllo indipendente dei tassi di interesse. Di Maio, nel fare la voce grossa, ignora tutto questo e commette l’errore di confondere il governo con lo Stato, errore che commette di frequente, quando, ad esempio, invita presidenti di enti a dimettersi, o pretende che alti funzionari dello Stato godano della sua fiducia. In un momento di “hybris”, l’altro vicepresidente del Consiglio dei ministri ha detto, recentemente, che l’attuale governo rappresenta la volontà di 60 milioni di italiani. Sarebbe bene che ambedue i vicepresidenti ricordassero che hanno avuto complessivamente poco più di 16 milioni di voti, che rappresentano poco più di un terzo degli italiani con diritto di voto. Legittima difesa, al Senato la Lega accelera. I 5Stelle provano ad ammorbidire il testo di Liana Milella La Repubblica, 11 ottobre 2018 Salvini vuole vedere approvato il provvedimento entro la fine dell’anno. E intende procedere a marce forzate, nonostante gli allarmi che arrivano dai magistrati. Ma il testo presentato in commissione giustizia è talmente hard che anche i Cinquestelle tentano di frenare con alcuni emendamenti. Per attuare il “vangelo” Salvini bisogna fare in fretta. Con la nuova legittima difesa il ministro dell’Interno conta di scalare ancora la classifica del voto puntando diritto al 40 per cento. E per questo ai suoi, in commissione Giustizia del Senato, ha dato ordine di bruciare i tempi. Testo approvato per la fine di ottobre per tentare il colpo di mano di vederlo definitivamente votato entro fine anno alla Camera. Una carta fenomenale da giocare sul tavolo delle elezioni europee e che fa esultare il popolo della Lega, e non solo. Detto fatto, gli ordini di Salvini - “per ladri e rapinatori la pacchia è finita!” - sono legge. Al Senato, in commissione Giustizia, una serata per la discussione generale sul testo, un paio d’ore per presentare gli emendamenti, tra martedì e mercoledì della prossima settimana si vota, tra il 23 e il 24 ottobre in aula. Inutile la raffica di richieste di soppressione del testo, firmate Leu, presentate dall’ex presidente del Senato Piero Grasso, uno che di giustizia se ne intende. Destinate al cestino anche quelle del capogruppo Pd, e avvocato, Giuseppe Cucca. Morbide quelle di Giacomo Caliendo, per conto di Forza Italia, che - guarda caso - giusto nelle stesse ore in cui si parla di legittima difesa ottiene la presidenza di una commissione strategica a palazzo Madama, e destinata a decidere sui futuri ricorsi per il taglio di vitalizi, quella battezzata “contenziosa”, proprio grazie alla scheda bianca del leghista Simone Pillon e della grillina Elvira Lucia Evangelista. Basta andare in commissione Giustizia, al piano rialzato di palazzo Madama, per rendersi conto di che guaio giuridico stanno per combinare i leghisti. Sprezzanti dei moniti di magistrati di esperienza come Piercamillo Davigo che ancora due giorni fa, a Dimartedì, ricordava come sarà impossibile per un pubblico ministero non iscrivere neppure sul registro degli indagati il protagonista di un caso di legittima difesa. Non sono servite a nulla le audizioni. Perfino dall’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, non certo una toga “rossa”, è venuto un esplicito invito alla prudenza. Eccolo dire il 25 settembre su domanda di Grasso: “Non si può evitare l’avvio di un’indagine, come chiedono alcune vittime di aggressioni. Non si può escludere a priori il caso della legittima difesa preordinata, cioè il caso del difeso che invita a casa l’amante della moglie, finge di scambiarlo per un ladro e lo uccide”. La nuova legittima difesa - Tant’è. Ecco che l’articolo 52 del codice penale - riscritto nel 2006 dall’allora Guardasigilli leghista Roberto Castelli con il governo Berlusconi - viene stravolto. Basta un avverbio. Basta un “sempre” piazzato al secondo comma. “Sussiste sempre il rapporto di proporzione se taluno usa un’arma al fine di difendere la propria o altrui incolumità, i beni propri o altrui”. “Sempre”. Quindi il pm ha le mani legate. Quel “sempre” dovrebbe impedirgli di iscrivere nel registro degli indagati colui che ha sparato, per capire se lo ha fatto legittimamente. Ma alla Lega neppure quel “sempre” basta. Non vuole vincere. Vuole stravincere. Ecco allora un ulteriore comma aggiuntivo, elaborato dal relatore del provvedimento, nonché presidente della commissione Giustizia del Senato, l’ovviamente leghista Andrea Ostellari. Che scrive così: “Agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione, posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”. Come dice la vice presidente del Senato, l’avvocato Anna Rossomando, lo slogan della Lega è “cittadino arrangiati”, con un esplicito invito all’uso indiscriminato delle armi. Un “mostro giuridico” per il Dem Cucca che ovviamente ne propone la cancellazione. Il testo è talmente hard che perfino M5S è costretto a prendere le distanze dall’alleato di governo. Con tre emendamenti, firmati da Francesco Urraro, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Nola, i grillini chiedono di cambiare, o quantomeno ammorbidire il testo. Per esempio aggiungendo la frase “con violenza o minaccia alla persona” rispetto alla generica versione leghista. E ancora proponendo modifiche nel comma che riscrive l’articolo 55 del codice penale sull’eccesso colposo nel quale si stabilisce che “la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Urraro, dopo la parola “punibilità”, propone di aggiungere “per eccesso di colpa lieve”. Ma soprattutto chiede di sopprimere quel “ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. A rileggere le parole di Salvini del 20 settembre - “La proposta della Lega prevede il sacrosanto diritto di difendersi all’interno della propria abitazione: se mi trovo in casa una persona armata e mascherata alle 3 di notte non sta a me capire se ha un’arma finta, ho il diritto di difendermi senza se e senza ma” - tutto lascia presupporre che anche gli emendamenti grillini potrebbero non essere accolti. Bossi in prigione per aver detto “terùn” a Napolitano? Mi viene da piangere e da ridere di Valter Vecellio Il Dubbio, 11 ottobre 2018 Possibile che in tutti questi anni a nessuno sia venuto in mente che era ridicolo e assurdo celebrare tre processi? E che ora si debba ricorrere alla farsa dell’affidamento ai servizi sociali? Come si fa, come si può, in questo caso, non esprimere solidarietà, piena e incondizionata con l’ex leader della Lega Umberto Bossi? Ha dovuto chiedere, per evitare il carcere, l’affidamento in prova ai servizi sociali. La richiesta arriva dopo il NO del ricorso che Bossi ha presentato in Cassazione, per l’accusa di vilipendio nei confronti del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ora nessuno mette in discussione che l’onorabilità e il prestigio sia della figura del presidente della Repubblica, sia della persona Giorgio Napolitano, devono essere salvaguardati e tutelati. Però per non scadere nel ridicolo, opportuno sarebbe preservare anche il senso delle proporzioni. I fatti risalgono al 2011: durante un comizio a Bergamo Bossi definisce Napolitano “terùn”, “terrone”. Scatta la denuncia, scattano le condanne, una dietro l’altra. La sentenza di appello prevede una condanna a 18 mesi di carcere; la Cassazione conferma; la condanna diventa dunque definitiva. Ora sfido chiunque a sostenere che valeva la pena impiegare ben tre corti di giustizia (e tutto quello che ne consegue) per la draconiana condanna che è stata emessa: colpevole di “terùn”. Possibile che nessuno si sia messo almeno a sorridere, di fronte alla richiesta di 18 mesi di carcere per questa tremenda offesa? Possibile che nessuno si sia stato sfiorato dal dubbio che tutta la vicenda sia, alla fine, ridicola: per l’entità della pena, per il tempo e il denaro sprecato? Possibile che il presidente Napolitano non abbia sussurrato: “Per favore, occupatevi di cose più serie, urgenti e importanti?”. Possibile che si debba davvero assistere alla sceneggiata di un Bossi affidato ai servizi sociali (già, ma la stessa cosa è già accaduta: a Silvio Berlusconi). Possibile che non si potesse risolvere tutto magari con una multa? Bossi sa certamente sbagliare da solo senza necessità del consiglio di nessuno; peccato, però, che non abbia deciso di fare come Giovannino Guareschi, o come avrebbe fatto Marco Pannella: mi volete in prigione? Ecco, sono qua, e vediamo che cosa accade… Sembrano cronache “marziane”: sono invece le cronache di un paese che ha quasi sessantamila detenuti stipati nelle carceri, che sono quello che sono; con ventimila detenuti in attesa di processo; e sappiamo che almeno la metà di loro sarà riconosciuta innocente ed estranea ai fatti contestati. Vero è che in questo paese le cronache “marziane abbondano, e ci si abitua alle vicende più incredibili: dall’anziana pensionata multata per un po’ d’acqua sul marciapiede, alla signora che viene multata perché salva un cane che poteva essere vittima di un’automobile. E dunque ci può stare anche un Bossi condannato e affidato ai servizi sociali per reato di ‘ terùn’. Prudentemente ci si astiene da commenti. Si dice solo che scrivendo queste note ci si è messi a ridere e a piangere insieme. Il processo all’imprenditore Romeo e l’abuso delle intercettazioni illegali di Claudio Cerasa Il Foglio, 11 ottobre 2018 La Cassazione mette in riga le procure. Il processo napoletano contro l’imprenditore Alfredo Romeo era stato sospeso nell’aprile scorso quando la Cassazione aveva rinviato al Tribunale del riesame la decisione di confermare gli arresti domiciliari, essendo stati comminati in base a indizi raccolti illegittimamente. Poi Romeo è stato coinvolto nell’inchiesta romana su Consip e quella napoletana ha perso di interesse mediatico. Forse per questo quasi nessuno (fa eccezione il Fatto quotidiano) ha mostrato interesse per le motivazioni, rese note ieri, della sentenza della Suprema corte. Invece, se anche ha perso di attualità, questa sentenza è assai rilevante per il suo valore giurisprudenziale. La Cassazione ha stabilito che non si possono utilizzare le intercettazioni ottenute col virus Trojan in quanto erano state disposte “senza una reale notizia di reato, perché Romeo non era interessato dalle indagini di criminalità organizzata che si stavano compiendo in relazione all’appalto del servizio di pulizia dell’ospedale Cardarelli”. Inoltre, le intercettazioni sono proseguite anche dopo la conclusione dei termini di durata delle indagini preliminari. In pratica, la sentenza dice che si può intercettare solo in presenza di notizie di reato specificatamente ascrivibili a una persona e che non si possono fare intercettazioni a strascico in attesa di trovare indizi anche dopo i termini della durata delle indagini preliminari. Può sembrare una notizia puramente tecnica, ma in realtà introduce o meglio conferma un principio di garanzia che è stato ignorato e violato ripetutamente dalle procure. Per questo è invece una novità rilevante e destinata a vaste conseguenze. Per una volta una buona notizia che fa prevalere il diritto formale - cioè neutrale - su quello “sostanziale”, cioè politico. Non occorre l’attualità del reato per interdittiva antimafia Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2018 Consiglio di Stato - Sezione III - Sentenza 9 ottobre 2018 n. 5784. “La c.d. interdittiva prefettizia antimafia, di cui agli artt. 91 e ss., d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, costituisce una misura preventiva volta ad impedire i rapporti contrattuali con la P.A. di società, formalmente estranee ma, direttamente o indirettamente, comunque collegate con la criminalità organizzata; l’interdittiva antimafia è cioè diretta ad impedire che possa essere titolare di rapporti, specie contrattuali, con le pubbliche Amministrazioni un imprenditore sia comunque coinvolto, colluso o condizionato dalla delinquenza organizzata”. Lo ha precisato il Consiglio di Stato con la sentenza 9 ottobre 2018 n. 5784. I magistrati amministrativi hanno inoltre ricordato che l’interdittiva antimafia può legittimamente fondarsi anche su fatti risalenti nel tempo, purché dall’analisi del complesso delle vicende esaminate emerga, comunque, un quadro indiziario idoneo a giustificare il necessario giudizio di attualità e di concretezza del pericolo di infiltrazione mafiosa nella gestione dell’attività di impresa. I tentativi d’infiltrazione mafiosa, che danno luogo all’adozione dell’informativa antimafia interdittiva, possono essere desunti anche da una sentenza penale che, ancorché intervenuta tempo prima ed ancora oggetto d’impugnazione, ha condannato l’interessato per il delitto di usura di cui all’articolo 644 del codice penale, atteso che ritenere che detta sentenza è irrilevante solo perché ha ad oggetto fatti risalenti nel tempo, significa introdurre un elemento della fattispecie - l’attualità del fatto di reato, oggetto di condanna - che non è previsto dalla disposizione, la quale si limita a prevedere che la condanna per uno dei delitti-spia, quale che sia il tempo in cui è intervenuta, debba essere presa in considerazione dal Prefetto ai fini del rilascio dell’informativa. Market abuse, anche dopo la Corte Ue è salvo il doppio binario punitivo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 45829/2018. È tutta una questione di proporzionalità. La Corte di cassazione, con un’importante sentenza depositata ieri, la n. 45829 della Quinta sezione penale, ha ritenuto che non è violato il principio del ne bis in idem nell’azione di repressione delle condotte di market abuse quando le sanzioni penali e amministrative complessivamente inflitte rispettano il principio di proporzionalità. E questo anche alla luce delle recentissime, del marzo scorso, sentenze della Corte di giustizia europea. A valutare la proporzionalità del cumulo, quando non sono necessari particolari accertamenti di fatto, può essere anche la Cassazione stessa. Questo in punta di diritto. In punta di fatto la sentenza ha avallato, respingendo i ricorsi presentati da un terzetto di imputati, la condanna penale emessa dalla Corte d’appello di Milano per una serie di condotte che avevano avuto tra l’altro la conseguenza di alterare in maniera significativa la quotazione del titolo di una società. Per i medesimi fatti erano state inflitte, in via definitiva, da Consob sanzioni pecuniarie di 150mila euro a uno degli imputati e a 100mila ciascuno gli altri 2. A queste misure si erano aggiunte le sanzioni interdittive dell’incapacità ad assumere incarichi di amministrazione nelle società quotate per la durata di 1 anno nel primo caso e di 8 mesi per ciascuno degli altri 2. La Cassazione prende soprattutto in considerazione, ed è la prima volta, le conclusioni della sentenza Garlsson del 20 marzo 2018. La pronuncia dei giudici europei ha affermato che l’articolo 187 terdecies del Tuf (peraltro modificato da pochi giorni dal decreto legislativo di recepimento del Regolamento sul market abuse) non è idoneo a riequilibrare un sistema sanzionatorio come quello italiano che ammette la coesistenza di misure penali e solo formalmente amministrative, ma nei fatti penali, per la repressione delle stesse condotte di manipolazione del mercato. Preso atto di questo giudizio, tuttavia, la Cassazione fa salvo il “doppio binario” penale-amministrativo valorizzando l’articolo 133 del Codice penale che impone al giudice di commisurare la pena alla gravità del fatto commesso: “spetta quindi al giudice nazionale il compito di verificare la proporzionalità delle sanzioni complessivamente irrogate con riguardo a tutte le circostanze della fattispecie concreta oggetto del giudizio”. La Cassazione allora procede, ritenendo di potere intervenire senza svolgere ulteriori attività istruttorie, nel valutare il complesso “pacchetto” sanzionatorio. E lo fa sottolineando come, oltre alle misure amministrative, comunque abbondantemente al di sotto dei massimi possibili, le sanzioni penali si sono attestate sul minimo edittale previsto. “Solo” 2 infatti erano stati gli anni di carcere decisi nei confronti dell’imputato principale, il vero ideatore, secondo l’accusa, della strategia criminale. La multa è stata poi fissata in una cifra di poco superiore al minimo. Tutti elementi che fanno ritenere alla Cassazione come il principio enunciato nella sentenza Garlsson non sia applicabile nella vicenda esaminata. Determinante il fatto che le misure penali siano vicine ai minimi previsti, tanto da fare ritenere alla Cassazione la loro non idoneità, da sole, a punire una condotta di market abuse che si era a lungo protratta nel tempo. Insegnanti, abuso di mezzi di correzione per lo scappellotto all’alunno di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2018 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 10 ottobre 201 n. 45736. L’insegnante che tiene un atteggiamento denigratorio nei confronti di un alunno, compiendo nei suoi confronti gesti di violenza morale o fisica, anche se considerati innocui o rivolti a scopi educativi, commette il reato di abuso di mezzi di correzione o disciplina. Tanto più se il destinatario di tali comportamenti sia un alunno con difficoltà di linguaggio. Questo è quanto si desume dalla sentenza 45736 della Cassazione, depositata ieri. I fatti - La vicenda prende le mosse dal comportamento tenuto da un insegnante di scuola media nei confronti di un alunno della sua classe, un ragazzo dal carattere irrequieto e affetto da disturbo del linguaggio, il quale veniva abitualmente denigrato alla presenza dei suoi compagni per la sua balbuzie. Esasperati da tale situazione, i genitori del ragazzo denunciavano il docente, che veniva processato per il reato di maltrattamenti in famiglia, previsto dall’articolo 572 c.p.. In particolare, l’insegnante era accusato di tenere un atteggiamento denigratorio verso il ragazzo e di aver in una occasione colpito l’alunno con un flauto in testa in presenza dei compagni, nonché in altra occasione di aver colpito il ragazzo con uno schiaffo, impedendogli di recarsi dal preside della scuola per protestare dopo aver subito una nota disciplinare dallo stesso professore. Per tali condotte, che avevano determinato un aggravamento del disturbo espressivo del minore, il docente veniva condannato in primo grado per il delitto di maltrattamenti, mentre in appello, i giudici riqualificavano il reato contestato nel meno grave reato di abuso di mezzi di correzione, di cui all’articolo 571 c.p.. Per la Corte d’appello, infatti, il comportamento del docente non era animato da un intento vessatorio nei confronti del ragazzo, ma risultava essere comunque denigratorio della sua persona. Il docente non accettava però il verdetto e si rivolgeva in Cassazione, dove cerca di far capire ai giudici che, in realtà, si sarebbe trattato di comportamenti innocui, non violenti o offensivi nei confronti del ragazzo, da leggere in chiave didattica anche in relazione alla condotta insofferente e irriguardosa dello stesso alunno verso compagni e docenti. La decisione - Per la Cassazione, tuttavia, la condanna per abuso di mezzi di correzione è legittima e ben motivata dai giudici di appello, i quali hanno correttamente valutato i fatti, accertando la condotta denigratoria dell’insegnante. Ebbene, afferma il Collegio, integra il reato ex articolo 571 c.p. il comportamento del professore che “umili, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno, causandogli pericoli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento”. In sostanza, chiosa la Corte, qualsiasi violenza fisica o morale, anche se minima o orientata a scopi educativi, non è consentita dall’ordinamento, pena la configurabilità del reato di abuso di mezzi di correzione o disciplina. Emilia-Romagna: tagli cure psichiatriche ai detenuti non residenti, scoppia polemica di Alessandro Notarnicola healthitalia.it, 11 ottobre 2018 “La Regione Emilia-Romagna chiarisca i motivi dei tagli alle cure psichiatriche ai detenuti non residenti”. A chiederlo è il sottosegretario alla giustizia Jacopo Morrone, a pochi giorni dalla visita alla Casa circondariale di Port’Aurea a Ravenna, nel corso della quale il senatore ha anche annunciato di voler iniziare a ragionare su un progetto per realizzare una nuova struttura più capiente. L’augurio di Morrone dunque è che dalla Regione l’assessore alla Salute, Sergio Venturi, chiarisca al più presto i motivi per cui sia stato deciso un taglio lineare delle risorse e delle strutture dedicate al ricovero e all’assistenza psichiatrica dei detenuti non residenti, dando un preavviso brevissimo rispetto alla scadenza del provvedimento previsto per il 31 ottobre prossimo. La Regione, spiega il sottosegretario della Lega, avrebbe deciso di ridurre le risorse destinate ai detenuti che sono ricoverati nelle articolazioni di tutela della salute mentale annesse alla casa circondariale di Reggio Emilia, con una drastica riduzione dei posti da 50 a 25, che sarebbero destinati ai soli detenuti residenti in regione. Per i restanti detenuti già ricoverati, la Giunta prevede un trasferimento nelle regioni di provenienza anche se prive di strutture adeguate. “Una decisione - precisa - che non solo contravverrebbe al principio costituzionale del diritto alla salute, ma anche al fatto che questi ricoveri sono effettuati per disposizione dell’autorità giudiziaria. Vorremmo quindi capire cosa succederà dal primo di novembre, visto che, di fatto, si dovrebbero interrompere i percorsi di cura già in atto dei detenuti non residenti. Attiverò quindi i miei uffici - assicura - perché interpellino la Regione su questo tema che potrebbe avere ripercussioni gravi sull’organizzazione carceraria regionale”. Quello sollevato tra i banchi del Parlamento è un tema quanto mai attuale e scottante per quanto riguarda la realtà delle carceri italiane. Stando infatti a uno studio svolto lo scorso anno dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria nell’ambito del “Progetto Insieme”, in Italia tre detenuti su 4 soffrono di una malattia mentale, dalla depressione a disturbi psicotici e della personalità. Dietro le sbarre, la prevalenza di queste patologie sarebbe addirittura più alta rispetto alla popolazione generale. Secondo le stime, infatti, il 4% dei detenuti è affetto da disturbi psicotici contro l’1% della popolazione generale. La depressione, invece, colpisce il 10% dei reclusi contro una percentuale che oscilla tra il 2 e 4% tra i soggetti liberi mentre i disturbi della personalità raggiungono il 65% con una percentuale dalle 6 alle 13 volte superiore rispetto a quella che si riscontra normalmente (5-10%). “In carcere le malattie mentali hanno un’alta prevalenza: si stima - aveva spiegato Andrea Fagiolini, direttore della Clinica psichiatrica e della Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’università di Siena in occasione delle pubblicazioni dei dati - che oltre il 75% dei detenuti conviva con un disturbo mentale, in particolare disturbi psicotici, della personalità e depressione. Questo perché se da un lato molti disturbi psichiatrici possono associarsi (non necessariamente con un rapporto di causalità diretto) con un’alta prevalenza di reati, dall’altro la carcerazione e l’ambiente carcerario possono essere fonte di stress che può portare in casi estremi anche al suicidio”. Trieste: detenuto di 46 anni si impicca, era in cella di isolamento di Gianpaolo Sarti Il Piccolo, 11 ottobre 2018 Soffriva di disagio psichico e stava per essere trasferito. Nei giorni scorsi aveva aggredito un agente. Aperta un’indagine. Si è suicidato in una cella di isolamento, impiccandosi. Quarantasei anni, bosniaco, era in custodia cautelare al Coroneo per rapina. La tragedia si è consumata martedì a tarda sera. L’identità della vittima, in attesa degli accertamenti giudiziari, resta ancora sotto stretto riserbo. La direzione del Coroneo è riuscita a mettere al corrente i parenti dell’accaduto. “Tarzan”, così lo avevano soprannominato gli altri detenuti per quel modo schivo e inquieto, talvolta violento, soffriva di disagio psichico. Alcuni giorni fa il quarantaseienne aveva innescato un incendio e aggredito un agente mandandolo in ospedale. Non sarebbe stata la prima volta in cui avrebbe dato segni di squilibrio. La direzione della casa circondariale ha trasmesso il fascicolo del caso alla Procura. Gli interrogativi sulla vicenda non mancano. A cominciare dalla dinamica del suicidio: quel che si sa è che l’uomo sarebbe stato trovato morto da un agente poco dopo il gesto estremo. Ma che non sono serviti a nulla i tentativi dei soccorritori di salvarlo. Andrà chiarito poi il ruolo della vigilanza in carcere e se le istituzioni coinvolte hanno predisposto tutte le misure di supporto possibili per una persona problematica tenuta in una cella di isolamento. La notizia della tragedia ha colpito profondamente tanto gli operatori carcerari quanto i detenuti, pare avvisati il mattino successivo dagli addetti alla distribuzione della colazione. “Tarzan”, come detto, era in carico ai servizi di salute mentale e seguito da uno psichiatra. Ma il carcere, stando a quanto si apprende, aveva fatto domanda per il trasferimento del bosniaco in un istituto adatto e attrezzato per le persone con patologie psichiche che necessitano di un’assistenza sanitaria specifica e costante. La richiesta era già partita, stando a quanto si apprende, e in più di un’occasione viste le problematiche presentate dal quarantaseienne ritenute non del tutto gestibili da parte della polizia penitenziaria. Il bosniaco non aveva già tentato il suicidio, ma si comportava spesso in modo esagitato e aggressivo: lanciava oggetti, aveva distrutto la cella, gli arredi e il lavabo. Il Coroneo era in attesa di una risposta dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap). L’avvocato Elisabetta Burla, Garante comunale dei diritti dei detenuti, si sta occupando della vicenda. “Le indagini sono in corso - osserva - ma vanno realizzati rapidamente degli interventi a favore di chi ha patologie psichiatriche, perché il problema non è solo somministrare i farmaci”. “Stiamo parlando di una tragedia - commenta il direttore della casa circondariale di Trieste, Ottavio Casarano - di una persona sola, di difficile gestione, che ha deciso di fare una gesto estremo. Faremo i dovuti accertamenti - assicura il direttore, sono vicende molto tristi che ci fanno riflettere”. Secondo il dossier di “Ristretti Orizzonti” (il periodico realizzato dai detenuti del carcere di Padova “Due Palazzi”) sono 1.529 i detenuti morti in cella dal 2002 al 2018. Tra le principali cause, figura proprio il suicidio. Quattro i decessi a Trieste negli ultimi due anni: due persone si sono tolte la vita. Udine: il nodo dei detenuti con problemi psichici non adeguatamente seguiti Il Gazzettino, 11 ottobre 2018 Anche a Udine, come nelle altre carceri del Fvg, rimane da superare l’ostacolo dei detenuti con gravi infermità psichiche, non adeguatamente seguiti. “Innanzitutto oggi a Udine sta rimontando il problema del sovraffollamento dato che oggi ci sono 171 detenuti - erano 158 a luglio, a fronte dei 97 previsti come posti regolamentari e la situazione, aggravata da due suicidi, perdurerà fino all’apertura del carcere di S. Vito”, afferma Franco Corleone, Coordinatore dei garanti territoriali per i diritti dei detenuti. Una situazione che acuisce maggiormente la difficoltà di seguire correttamente i detenuti con problemi psichiatrici e anche nel capoluogo friulano “si mette a rischio la grande riforma che ha portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e l’apertura delle Rems”, aggiunge Corleone che in questi giorni sta osservando uno sciopero della fame in segno di protesta per “denunciare il fallimento della riforma dell’ordinamento penitenziario, soprattutto perché nei provvedimenti firmati dal presidente della Repubblica lo scorso 2 ottobre è stato espunta tutta la materia della psichiatria. Si tratta di norme importanti che prevedevano la presenza di articolazioni psichiatriche nelle carceri, luoghi sanitari con affidamenti terapeutici per i detenuti con disturbi psichiatrici nati per lo più durante la detenzione, come psicosi e disturbi della personalità casi verificatisi anche nel carcere di via Spalato. In questa condizione molti magistrati passano dalle misure detentive alla richiesta di inserimento nelle Rems prevedendo la condizione di incapacità parziale”. Sala Consilina (Sa): il carcere può riaprire, ma servono 220mila euro per ristrutturarlo di Erminio Cioffi La Città di Salerno, 11 ottobre 2018 Il sindaco Cavallone: “Qualcosa è cambiato, adesso finalmente c’è un dialogo”. Un intervento da 220mila euro a spese del Comune per fare in modo che il carcere di via Gioberti possa essere ristrutturato nel rispetto dei requisiti previsti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. È questo il progetto presentato dall’amministrazione comunale, ora all’attenzione del Dap e che ha indotto i funzionari del Dipartimento a convocare un nuovo incontro nell’ambito della conferenza dei servizi al termine della quale dovrà essere deciso se confermare, con un nuovo decreto, la soppressione della casa circondariale o se accettare la proposta del Comune e autorizzare i lavori che poi porterebbero alla riapertura del carcere. L’incontro è fissato a Roma, preso la sede del Dap, per il prossimo 16 ottobre, ed avrà all’ordine del giorno proprio l’ipotesi di ampliamento dell’istituto penitenziario di Sala Consilina. Al tavolo, con i funzionari del Ministero, siederanno l’avvocato Gherardo Cappelli, presidente dell’Ordine degli avvocati di Lagonegro ed il sindaco di Sala Consilina, Francesco Cavallone. “Effettivamente qualcosa sembra essere davvero cambiato - ha dichiarato il primo cittadino - se è vero che adesso si riesce ad interloquire con chi, negli anni scorsi, non ci aveva nemmeno ricevuti”. La chiusura era stata disposta nel 2015 con un decreto ministeriale firmato dall’allora Guardasigilli Andrea Orlando, poi annullato dal Consiglio di Stato per un vizio procedurale. La prima seduta della conferenza si era tenuta a giugno. Da 3 anni, con la casa circondariale chiusa, il tribunale di Lagonegro si ritrova ad essere forse l’unico in Italia sprovvisto di un carcere nel proprio circondario. Questione questa che era stata sollevata anche dall’ex presidente del Tribunale di Lagonegro, Claudio Matteo Zarrella che in una lunga lettera inviata al Ministero della Giustizia aveva definito “una contraddizione in termini” avere un circondario di Tribunale senza una casa circondariale. Zarrella aveva anche sottolineato che con la chiusura del carcere salese veniva violato il principio delle territorialità dell’esecuzione penale con un pregiudizio per le comunità locali, gli operatori di diritto, i detenuti e le loro famiglie. Alla lettera di Zarrella, il Ministero aveva risposto ipotizzando la riapertura, dopo lavori di ristrutturazione particolarmente onerosi, del carcere di Lagonegro o di Chiaromonte, chiusi da oltre 30 anni, senza fare però alcun riferimento a quello di Sala Consilina che invece necessita solo di piccoli interventi. Nelle ultime settimane però qualcosa sembra essere cambiata grazie forse all’intervento della politica che ha fatto riaccendere un flebile barlume di speranza sulla possibilità di poter far riaprire i cancelli della casa circondariale. Milano: “Consorzio Viale dei Mille”, nasce lo store dei prodotti fatti in carcere di Zita Dazzi La Repubblica, 11 ottobre 2018 Oltre 200 mq e 5 vetrine su strada, in Viale dei Mille angolo piazzale Dateo, per entrare in contatto con il mondo del carcere e i manufatti dei detenuti. Dal tessile alla tipografia, passando per la produzione alimentare; dalla serigrafia alla cosmesi, senza tralasciare servizi come call center e quality check. Tutto questo è il “Consorzio Viale dei Mille”, polo italiano dell’economia carceraria inaugurato a Milano dall’assessore alle Politiche per il Lavoro Cristina Tajani con Marco Cappato, presidente dell’Associazione Luca Coscioni e col regista Mimmo Sorrentino. Il nuovo store dedicato ai servizi e ai prodotti nati all’interno delle case circondariali milanesi nasce in locali messi a disposizione dal Comune per promuovere lo sviluppo di nuove opportunità di lavoro, la collaborazione e lo scambio tra chi vive e opera all’interno del carcere e il mondo esterno. “L’inaugurazione di questo nuovo spazio è il giusto punto di arrivo di un percorso volto a valorizzare il lavoro, le professionalità e le imprese nate all’interno delle carceri milanesi. Lavoro, prodotti e servizi che trovano oggi una vetrina rinnovata e più attraente per aprirsi alla città e rafforzarsi sul mercato” così commenta l’assessore Tajani: “Un nuovo look per uno spazio che non è solo un vivace esercizio commerciale ma una realtà fruibile e plurale dove confrontarsi sui temi della riabilitazione e dell’integrazione, attraverso il lavoro e l’attenzione alle categorie fragili”. L’apertura del rinnovato store di rientra nel perimetro delle azioni previste dal progetto di promozione del lavoro carcerario, voluto dal Comune di Milano e dal Consorzio Viale dei Mille. Consorzio costituito da un gruppo di imprese sociali attive all’interno degli istituti di pena milanesi (Cooperativa sociale Alice - Cooperativa sociale Opera in Fiore, Cooperativa sociale Zerografica, Cooperativa sociale Bee4, Cooperativa sociale Il Gabbiano, Cooperativa sociale In Opera, Associazione l’Hub) e supportato dalla Fondazione Cariplo. Nello Showroom si possono acquistare prodotti di bellezza e vestiti, pane e borsette, dolci e succhi di frutta, pezzi d’artigianato e piccole opere d’arte. Uno spazio aperto alla cittadinanza con incontri, eventi, presentazione di libri, tante sono le occasioni per parlare di carcere mettendoci senso e spirito di partecipazione. Tutte le informazioni su appuntamenti e attività del Consorzio sono consultabili su consorziovialedeimille.it. Udine: “Rescripta Libera”, progetto per il reinserimento dei detenuti legacoop.coop, 11 ottobre 2018 “Rescripta libera” e “Scriptura Terapeutica” sono due progetti che puntano, il primo, al recupero e all’inserimento lavorativo dei detenuti, il secondo alla ricerca sulla scrittura medievale come metodo terapeutico per le persone che soffrono di disgrafia e dislessia e l’altro. A presentarli a Montecitorio sono stati il direttore dello Scriptorium Foroiuliense - Scuola Italiana Amanuensi di San Daniele del Friuli, Roberto Giurano - l’associazione votata all’insegnamento dell’arte calligrafica antica e dei mestieri del libro - e Michela Vogrig, presidente del Consorzio Operativo Salute Mentale di Udine (Cosm) e vicepresidente Legacoopsociali Fvg. “Rescripta Libera” nasce dall’accordo tra lo Scriptorium e il Consorzio Cosm che aderisce alla Lega delle Cooperative Sociali del Friuli Venezia Giulia. Il progetto è rivolto alla popolazione carceraria: l’obiettivo è di realizzare assieme ai detenuti un’attività imprenditoriale incentrata sulla produzione e commercializzazione di prodotti di legatoria artigianale e artistica, per offrire loro un’opportunità di riscatto, inclusione e qualificazione professionale. “Rescripta Libera” - ha spiegato Michela Vogrig - intende rafforzare le opportunità di inserimento lavorativo e la riduzione della recidiva fra i detenuti. È rivolto a persone scarsamente scolarizzate, ma motivate a intraprendere un percorso di uscita dalla devianza. Attraverso questo progetto potranno essere sviluppate relazioni positive tra imprese, società civile e carcerati; i partecipanti potranno acquisire competenze tecnico-professionali e trovare un’occasione positiva di imprenditorialità e socialità”. Il progetto si articolerà in due fasi, la prima di formazione alla legatoria dei partecipanti e la seconda di avvio operativo di un laboratorio e di un’attività di produzione e vendita dei libri artigianali: l’intento è di formare gruppi di 30 detenuti che parteciperanno a un corso di 250 ore. “Durante il percorso - spiega Giurano - i detenuti impareranno a realizzare a mano la carta, a scegliere i materiali per la copertina e a padroneggiare le varie tecniche di legatoria artigianale necessarie per realizzare il prodotto editoriale, che verrà poi commercializzato”. Il Cosm, come è stato ricordato, da oltre 20 anni promuove l’inclusione sociale e lavorativa delle persone in condizione di svantaggio e sviluppa attività socio-assistenziali, educative e culturali. Insieme ai 17 soci sostiene modelli di sviluppo innovativi, in grado di generare impatti positivi sulle condizioni economiche e sociali della comunità. Il consorzio promuove in senso più ampio uno sviluppo locale sostenibile, attento al benessere della persona, alla qualità del lavoro e al rispetto dell’ambiente. Gestisce servizi e sviluppa progetti che consentono l’inserimento lavorativo di persone in condizione di svantaggio, oltre ad attività di formazione e progettazione ed è coinvolto in molti progetti di cooperazione allo sviluppo in diversi paesi del mondo. Milano: Fabrizio un liutaio tra i detenuti “ho imparato in carcere” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 11 ottobre 2018 Fabrizio Fornara torna in prigione da uomo libero. Ha appreso l’arte in prigione. Ora torna a Opera da maestro dopo un grave incidente. Arriva davanti al carcere di Opera, frena bruscamente la sua sedia a rotelle e consegna la carta d’identità agli uomini in guardiola che lo salutano affettuosamente e lo lasciano passare. Torna in prigione da uomo libero Fabrizio Fornara: “dentro” è stato decenni, ora rientra tre volte alla settimana come responsabile del laboratorio di liuteria frequentato dai suoi ex compagni di cella. “Era diventato uno dei più bravi a forgiare violini. Ha iniziato che di musica non sapeva niente, pian piano con quella è rinato - spiega Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione Casa dello spirito e delle arti che gestisce il progetto. Il giorno in cui finiva di scontare la sua pena gli abbiamo chiesto quale fosse il suo sogno, ci ha risposto continuare a lavorare con gli strumenti”. Peccato che proprio quel giorno - appena riconquistata la libertà, mentre attraversava la strada, poco lontano dal carcere - Fabrizio viene investito da una macchina. Era lo scorso 15 febbraio. L’incidente gli lascia paralizzati per sempre un braccio e le gambe: una seconda prigionia, se possibile più severa della prima. Lui non si perde d’animo. Affronta l’ospedale e il dolore, di nuovo. E dopo otto mesi di riabilitazione ieri è tornato ad Opera, ancorché in sedia a rotelle, per seguire il suo sogno. “Nella mia vita ne ho fatte di tutti i colori. Furti, traffico di sostanze. Ero espatriato in Spagna e sono venuti a prendermi fino a lì. Mi sono riscattato, però. Mi hanno dato un incarico, una grande responsabilità”, si inorgoglisce lui, 51 anni, fisico minuto, mentre guida in liuteria due ex compagni grandi almeno il doppio di lui. “Destino beffardo, il suo. Non tutti l’avrebbero sopportato così -riconosce il direttore del carcere Silvio Di Gregorio -. Il miracolo della sua forza è legato al percorso che è riuscito a fare, anche grazie al laboratorio”. La Fondazione Casa dello Spirito e delle arti (che ha ideato anche il “pellegrinaggio” per l’Italia della croce di Lampedusa, benedetta da papa Francesco e realizzata con il legno dei barconi provenienti dalle coste libiche) pensa al suo futuro. Ha ottenuto da Fondazione Cariplo il sostegno per avviare un piccolo atelier a Cremona, dove lavorerà. E poi c’è l’impegno in carcere. “Mentre forgiamo violini racconto ai miei compagni cosa succede fuori, loro trovano nuova speranza per quando avranno scontato la pena”, dice ancora Fabrizio. C’è chi non potrà mai più uscire, perché condannato all’ergastolo. “In quei casi l’osmosi tra fuori e dentro è ancora più importante”, riflette ancora l’ex detenuto. Proprio in questo senso il carcere di Opera, considerato il più duro di Milano, riavvierà a breve un altro progetto importante, condotto dal docente della Statale Stefano Simonetta e dall’autrice e drammaturga Elisabetta Vergani. L’anno scorso avevano formato una classe mista, con venti universitari e venti ergastolani insieme: avevano fatto lezione di filosofia e teatro, una volta alla settimana, per un anno intero, nel penitenziario. Temi di discussione: l’attesa, la speranza, la libertà. Era la prima volta in assoluto che un’esperienza simile veniva autorizzata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Siamo pronti ad accogliere di nuovo quella stessa squadra, che ha avuto enorme successo”, dice Di Gregorio. “Confermiamo senz’altro anche quest’anno il progetto”, rilancia il nuovo rettore della Statale Elio Franzini. Gli studenti scalpitano per rientrare in carcere insieme ai loro due professori. E dentro, li aspettano i detenuti, quegli stessi che frequentano l’atelier di liuteria. “Il cerchio si chiude- sorride Fornara. Magari approfitto delle lezioni anche io, e imparo un po’ di Socrate”. Reggio Calabria: il 26 ottobre conferenza regionale sulla violenza alle donne di Mario Nasone strill.it, 11 ottobre 2018 Si terrà venerdì 26 ottobre nella sala Calipari del Consiglio regionale della Calabria la conferenza regionale sulla violenza alle donne. L’iniziativa è stata promossa dall’osservatorio regionale che su questo tema specifico è stato attivato dal Consiglio regionale della Calabria. Finalità dell’evento è quella di offrire una lettura aggiornata del fenomeno della violenza di genere in Calabria, fare il punto sulle azioni di contrasto attivate a livello regionale e locale, raccogliere indicazioni e proposte per la elaborazione di un piano regionale di contrasto alla violenza di genere da proporre alla Giunta Regionale Destinatari centri anti violenza, comuni-scuole-aziende ospedaliere, ordini professionali, uffici giudiziari, forze dell’ordine e associazioni Relatori saranno esperti della materia a livello regionale e nazionale, docenti universitari, magistrati, amministratori regionali e locali con la previsione anche di testimonianze di donne che hanno subito violenza. Con questa conferenza l’osservatorio regionale sulla violenza di genere vuole chiamare a raccolta tutte le varie espressioni delle istituzioni e della società calabresi per attivare una risposta comune ad una problematica che secondo i dati più recenti vede la Calabria al secondo posto tra le regioni più colpite dal fenomeno, come viene confermato anche dai numerosi fatti di cronaca che documentano questa drammatica realtà. Roma: “Scatto libero”, a Rebibbia esposte le foto scattate dai detenuti Il Messaggero, 11 ottobre 2018 Dare ai detenuti la possibilità di utilizzare la fotografia e le sue potenzialità all’interno delle mura del carcere. Il progetto “Scatto Libero” si mette in mostra: sabato 13 ottobre e domenica 14 ottobre saranno esposte presso la terza Casa Circondariale di Rebibbia, in via Bartolo Longo a Roma, le fotografie scattate dai detenuti del carcere. Lo scopo dell’iniziativa, totalmente di volontariato, è quello di far conoscere le potenzialità del mezzo fotografico a coloro che non hanno opportunità di utilizzarlo. Il progetto, ideato dalla fotografa Tania Boazzelli, ha messo a disposizione di ogni detenuto una macchina, un rullino fotografico e la possibilità di scattare negli spazi comuni del carcere. Uno scatto libero per raccontarsi e trasmettere un messaggio personale che impressioni la pellicola, ma anche gli occhi e la sensibilità dello spettatore. Firenze: Premio Nesi ad Armando Punzo, il teatro con i detenuti ha fatto scuola gonews.it, 11 ottobre 2018 A pochi giorni dal conferimento del premio Buone Notizie del Corriere della Sera, ad Armando Punzo è stato assegnato il Premio Nesi 2018, dedicato all’opera e alla figura di don Alfredo Nesi, Medaglia d’oro al merito per la scuola, la cultura e l’arte conferita dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, fautore di esperienze sociali e culturali di notevole significato e di grande valore, ancorate all’istruzione pubblica, alla presenza religiosa autonoma, a servizi sociali resi accessibili ai più bisognosi e ad una promozione culturale e associativa diffusa a livelli differenziati, come nel caso emblematico del Villaggio Scolastico di Corea, a Livorno. Il Premio Nesi è stato assegnato ad Armando Punzo della Fondazione Nesi e dal Comune di Lastra a Signa, su unanime indicazione della Commissione di Esperti, con la seguente motivazione: “nel suo lavoro teatrale, svolto nel contesto carcerario con la Compagnia della Fortezza dei detenuti attori della Casa di Reclusione di Volterra, si muove sul terreno della giustizia e della legalità e rivela una vocazione educativa e rieducativa di ampio respiro, dedicando il suo impegno a una categoria di “socialmente esclusi”, non per assisterli, ma per “promuoverli”. Si riscontrano nell’esperienza e nel lavoro di Armando Punzo tanti criteri propri dell’esperienza e del lavoro di don Nesi riconducibili unitariamente al principio “educare... sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato”. Il conferimento del Premio Nesi 2018 ad Armando Punzo tende a sottolineare, sia per l’elevato valore artistico della sua opera, sia per il più stringente valore sociale del suo impegno, l’unitarietà dei valori sociali e culturali a fondamento di ogni processo di emancipazione delle persone e delle comunità.” La cerimonia di consegna avrà luogo sabato 13 ottobre alle 10 presso la sala consiliare del Comune di Lastra a Signa. Il campo di sterminio non è un’attrazione da tour operator di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 11 ottobre 2018 Il libro della costituzionalista Anna Mastromarino “Stato e Memoria. Studio di diritto comparato”, pubblicato da Franco Angeli. “Mai più” è “il grido che si eleva dai morti ai vivi” con la pretesa di “condizionare il futuro”. È la voce di chi è caduto nella Resistenza, dei desaparecidos, di chi ha combattuto le potenze coloniali, delle vittime dell’odio etnico e razzista. Un urlo che attraverso il diritto “acquista valore giuridico” e, di conseguenza, “forza performativa sul corpo sociale”. I modi per farlo sono molteplici, e tutt’altro che privi di insidie e contraddizioni, come illustra efficacemente la costituzionalista Anna Mastromarino nel suo Stato e Memoria. Studio di diritto comparato (Franco Angeli, pp. 224, euro 30). Le “commissioni per la verità” e i musei, le leggi anti-negazionismo e la toponomastica delle città, i processi penali e le festività civili, le vie attraverso le quali i poteri pubblici democratici intervengono sul passato dovrebbero tutte condurre al medesimo fine: l’adesione dei cittadini al sistema di valori delle costituzioni fondate sul rispetto della dignità umana. Un obiettivo politico e “pedagogico” legittimo, anzi doveroso, come chiarisce l’autrice. Ogni contesto, tuttavia, suggerisce soluzioni più opportune di altre, più efficaci in quanto non meramente impositive, ma capaci di autentica “integrazione”. E ogni situazione nasconde possibili derive, come una certa spettacolarizzazione e commercializzazione (disneyficazione) dei luoghi della memoria, in cui il campo di sterminio è inserito all’interno dei pacchetti dei tour operator come fosse un’attrazione qualsiasi. O come il proliferare dei “giorni” attraverso cui specifici gruppi di vittime sembrano disputarsi visibilità pubblica, al di fuori di una comune narrazione. Non ci si deve sottrarre, dunque, al vaglio critico delle scelte concrete che compie anche “lo Stato” con le migliori intenzioni, lo mostrano la confusa vicenda del “museo del fascismo” a Predappio o l’ineffettualità della Ley de memoria histórica che volle il governo spagnolo guidato da José Luis Zapatero, in cui “manca del tutto la storia e pertanto manca la possibilità di fare memoria”. Né si deve dare per scontato che le leggi di amnistia siano sempre da rifiutare, perché a volte l’azione penale è un corsetto troppo stretto per le esigenze di una società in transizione da una condizione di conflitto a una di pace. È dunque un lavoro utile e meritorio, quello di Mastromarino, non solo in quanto è assai raro che i giuristi - in Italia - affrontino in modo sistematico le “politiche del passato”, ma anche perché vi trova il giusto spazio la vasta elaborazione prodotta in altri campi del sapere, dalla filosofia alla sociologia, dalla storiografia all’antropologia. Econ uno sguardo che, opportunamente, si sofferma a lungo sul laboratorio forse più interessante in cui diritto e memoria si sono incontrati, l’America latina, dove l’attivismo giudiziario della Corte interamericana dei diritti umani incrocia la pratiche di ricerca della verità dopo le dittature e i crimini di massa. È lì che il grido Nunca mas! si è sentito più forte. Quando le residenze per anziani si trasformano in luoghi di detenzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 ottobre 2018 Il Garante nazionale ha anche competenza per il controllo dell’assistenza geriatrica. “Siamo solo 2 Oss con turni 7.00/ 15.00 e 15.00/ 21.30, in estate il pomeriggio il turno è 15.00/ 22.00. Niente giornata libera, sette giorni su sette! Aiutatemi!”. “Ci sono 14 anziani, circa la metà non autosufficienti” ; “Ma è legale lavorare 8/ 9 giorni di fila senza riposo e fare la notte dalle 22 alle 6 di sabato e di domenica consecutivi?”. Tante sono le denunce anonime che compaiono sul forum dedicato all’operatore socio sanitario (Oss) da parte di coloro che lavorano nelle case famiglie per anziani. Turni massacranti, anziani che dovrebbero, per legge, essere autosufficienti, ma non lo sono. Presenza di operatori, soprattutto stranieri, che soggiornano stabilmente nella casa famiglia dove lavorano e di fatto non staccano mai. Il risultato è che non di rado gli operatori cadono nel “burnout”, detta anche “sindrome dell’esaurimento da lavoro”, e a subirne le conseguenze sono poi soprattutto gli anziani. Non è un caso che negli annunci di lavoro ci sia una continua richiesta di Oss: perché chi ci lavora è destinato a durare poco. Si tratta di un dramma poco conosciuto, che viene allo scoperto solamente nei casi di cronaca, quando gli operatori vengono denunciati per maltrattamento. In generale, per chi lavora su turni nelle strutture sanitarie, organizzare la propria vita non è facile: non esistono sabati e domeniche, né festività; a questo si aggiunge anche una turnazione poco attenta a ridurre, come invece previsto dalla legge, il più possibile il ricorso al lavoro notturno e ai cambi improvvisi. Diverse sono le ragioni di queste criticità organizzative, per lo più dettate dalla scelta di prediligere il risparmio sull’assunzione di nuovo personale e la riduzione dei riposi compensativi in base ai turni notturni svolti. Senza dimenticare poi l’affermarsi negli Oss, anche di giovane età, dei problemi alle ossa dovuti dallo sforzo quotidiano per il sollevamento dei degenti. Tutto questo, però, quando si tratta di micro strutture private come le casa famiglia per anziani, la situazione si complica ancora di più. Questo approfondimento non a caso si trova sulla pagina “lettere dal carcere” de Il Dubbio: le residenze per anziani rientrano nel tema della privazione della libertà. Tant’è vero che la sovrapposizione del tema è stata la base della scelta legislativa, che ha portato ad inserire tra le competenze della figura del “Garante Nazionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale” anche quelle relative a strutture residenziali di cura e di assistenza, che ospitino anziani interdetti o inabilitati secondo le norme del codice civile. La necessità di avere un’autorità come il Garante viene confermata dai non infrequenti casi di cronaca nera, nei quali emergono dinamiche relazionali tra gli operatori e gli ospiti, nonché abusi e maltrattamenti, non dissimili da quelle che si verificano negli istituti penitenziari. Le case famiglia per anziani sulla carta - Le case famiglia sono delle comunità residenziali di tipo familiare. I requisiti di tali strutture sono contenuti nel decreto ministeriale del 21 maggio 2001 n. 308, emanato in legge n. 328 del 8 novembre 2000 (art. 11). Sono cioè delle normali abitazioni in cui operatori specializzati coordinano le attività e la vita delle persone, che ne fanno parte e che collaborano nella gestione della casa. Generalmente, gli ospiti delle case famiglia sono bambini e adolescenti che non possono vivere con le loro famiglie. Tuttavia, da alcuni anni a questa parte diverse case famiglia sono orientate verso l’aiuto a persone anziane sole che, per i più svariati motivi, hanno difficoltà a vivere nelle proprie abitazioni, oppure che vivono in case non adeguate alle loro necessità. Le case famiglia cercano di offrire all’ospite un ambiente simile a quello familiare, facendo sentire a proprio agio gli ospiti e rispondendo al meglio alle loro esigenze. A differenza di altre strutture affini, le case famiglia sono in grado di accogliere poche persone. Sempre a confronto con altre strutture, un loro limite è la mancanza di un’area medica, con medici disponibili a tutte le ore al suo interno. Le case famiglia dispongono, infatti, solo di un ambulatorio, con personale addetto al primo soccorso. Ad oggi, almeno in teoria, queste strutture rimangono la soluzione migliore per ridurre al massimo nell’anziano ospite il distacco dalla sua famiglia; sempre se non sussistono gravi patologie, per le quali sono richieste cure specifiche e che siano autosufficienti. La realtà denunciata dalla Cgil - Crescono come funghi, principalmente nelle periferie e lontano dai servizi, spazi per l’intimità ridotti al minimo. Un quadro desolante dipinto dal dossier curato dallo Spi Cgil che da un anno si è dotato di un Osservatorio sulle residenze per gli anziani in Italia, allo scopo di monitorare le principali caratteristiche dell’evoluzione dell’offerta alle famiglie. Cosa denuncia? Negli ultimi tempi il sindacato ha osservato come molteplici soggetti privati e gruppi di franchising propongano la possibilità di aprire tipologie di strutture residenziali di tipo famigliare o a carattere comunitario, come casa famiglia/ casa albergo per le quali sono richiesti requisiti strutturali, assistenziali e organizzativi più facilmente raggiungibili anche con un investimento economico iniziale contenuto. Infatti tali strutture residenziali, in base alla normativa vigente, possono ospitare nel caso delle casa famiglia al massimo sei persone e, nel caso di strutture a carattere comunitario, non più di venti. Le case famiglia o “comunità di tipo familiare, e i gruppi appartamento con funzioni di accoglienza e bassa intensità assistenziale”, rientrano tutti tra quelle strutture per le quali è prevista sola la Dia (dichiarazione inizio attività) e non sono soggette all’obbligo di preventiva autorizzazione al funzionamento, che invece è previsto per le strutture a carattere comunitario (da 7 a 20 posti letto). Questo tipo di affiliazione commerciale permette anche a persone senza competenze e conoscenza del settore dell’assistenza sociosanitaria agli anziani di aprire e gestire una struttura residenziale. La Cgil sottolinea come l’evidenza empirica dimostra, configurandosi nella maggior parte dei casi queste iniziative come attività imprenditoriali a basso costo, che in diversi casi da 4 a 6 anziani possono venire ammassati in appartamenti di 80- 100 metri quadrati, con spazi per l’intimità delle singole persone ridotti al minimo. Il sindacato ci va pesante e denuncia come l’esperienza di vita degli ospiti in diversi casi sia più simile alla sopravvivenza che non ad una esistenza dignitosa, e come le tariffe siano praticamente fuori controllo. Talvolta questi appartamenti sono ubicati in zone periferiche delle città, poco servite dai servizi pubblici. Al contrario, il dossier evidenzia come la programmazione sociale e urbanistica del Comune potrebbe prevedere l’insediamento di queste case famiglie in zone della città dotate di determinati requisiti. Infine, queste iniziative quasi sempre non vengono intercettate dalla programmazione sociale dei Comuni e dalla programmazione socio-sanitaria delle Regioni e delle Aziende sanitarie. La società invecchia sempre di più e aumenta il rischio di sfruttamento di chi vi lavora per necessità, con la conseguenza degli abusi e del malessere sia degli ospiti che degli operatori stessi. Senza un controllo ed un investimento diverso, le conseguenze sociali sarebbero assai pesanti, tenuto conto anche della recente evoluzione dell’offerta privata di posti letto per anziani. Basti pensare che solo nel triennio 2014- 2016, in base ai dati rilasciati dal ministero della Salute, su 6.187 controlli effettuati presso strutture residenziali per anziani, pubbliche e private, sono state rilevate 1.877 “non conformità”, pari al 28% dei controlli eseguiti. In particolare, tra le violazioni più frequenti si segnalano i maltrattamenti, l’esercizio abusivo della professione sanitaria (medico e infermieristica), l’abbandono d’incapace, le inadeguatezze strutturali ed assistenziali. Le case famiglia per anziani - per fortuna non tutte - sfuggono dai controlli. Decreto Salvini. Emma Bonino: “provvedimento pericoloso, aumenterà il disagio sociale” di Carlo Lania Il Manifesto, 11 ottobre 2018 Smantellamento del Sistema di protezione per i richiedenti asilo, forte rischio che si creino migliaia di migranti irregolari con la cancellazione della protezione umanitaria e introduzione di misure “incostituzionali” per cancellare le quali serviranno probabilmente anni. “Il decreto sicurezza produce insicurezza. È un provvedimento che toglie diritti ai migranti e crea forti disagi agli italiani”, avverte la senatrice di +Europa Emma Bonino. Da martedì il provvedimento che porta il nome del ministro degli Interni Salvini è all’esame della Commissione Affari costituzionali del Senato e per il 25 ottobre potrebbe arrivare in aula per il voto. Tempi strettissimi, quindi, che hanno convinto i Radicali italiani, l’Arci, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), Oxfam e gli altri promotori delle campagne Erostraniero e Welcoming Europe (iniziativa dei cittadini europei ancora in corso e che si può firmare sul sito della campagna) a organizzare una conferenza stampa alla Camera proprio per sottolineare la “pericolosità” di alcune delle misure inserite nel testo. “Il decreto riduce i compiti del sistema Sprar e attribuisce maggiori poteri ai prefetti”, spiega Salvatore Facile, avvocato dell’Asgi. “La conseguenza è che si rischia di creare nelle periferie dei centri abitati proprio quello che in passato si è voluto eliminare, vale a dire mega concentrazioni di richiedenti asilo con grave disagi per le popolazioni”. Il paradosso di questa operazione è sottolineato dal deputato di +Europa e segretario di Radicali italiani Riccardo Magi. “Nella relazione presentata al parlamento lo scorso mese di agosto - spiega Magi - è lo stesso Salvini a sottolineare come l’aumento dei Comuni che hanno aderito alla rete Sprar abbia contribuito ad alleggerire i grandi centri di accoglienza, centri che lo stesso ministro definisce come difficili da gestire e da vivere. Ora invece si prepara a ricrearli, con il rischio di produrre un forte conflitto sociale”. Un altro punto segnato in rosso dai promotori dell’iniziativa riguarda l’abolizione della protezione umanitaria. Cosa farà chi in futuro avrà bisogno di convertire il suo permesso se nel frattempo avrà perso il lavoro? “Questa misura aumenterà le spese sociali dei Comuni e di conseguenza il conflitto tra le persone”, spiega Filippo Miraglia dell’Arci, per il quale “non è detto che l’obiettivo del decreto non sia proprio questo, in modo da poter invocare maggiori controlli in nome della sicurezza”. “Il decreto Salvini è un misto di insipienza e di cattivismo ed ha un preciso scopo: quello della campagna elettorale”, aggiunge Bonino. La scommessa, difficile visti i numeri in parlamento, è di riuscire a modificare il testo cancellando almeno le misure più pericolose. “La verità è che chi passa da una bufala all’altra ha bisogno di far dimenticare le bufale che ha detto di volta in volta” dice la leader Radicale. Che conclude con un avvertimento: “Si cerca sempre un capro espiatorio. Questa volta si attaccano i migranti, poi si passa ai poveri”. Decreto Salvini. Non serve allungare la detenzione, lo provano i dati di Liana Vita* Il Manifesto, 11 ottobre 2018 Chissà come si comporteranno i senatori dei 5Stelle quando dovranno votare l’articolo 2 del decreto “sicurezza”, approdato in Senato, con l’incremento del tempo massimo di trattenimento nei centri di permanenza per il rimpatrio. Destinati agli stranieri senza documenti, passano da novanta a centottanta giorni. Nel 2014, i senatori grillini, molti dei quali confermati nell’attuale legislatura o persino attuali membri del governo giallo-verde, votarono a favore della riduzione a novanta giorni del periodo massimo di detenzione amministrativa, approvando un emendamento alla legge europea 2013 proposto dai senatori Pd Manconi e Lo Giudice. E non furono i soli, visto che a favore, oltre alla maggioranza di allora, votarono anche illustri esponenti di Forza Italia e centristi, mentre contrari furono solo i leghisti. Vedremo come si comporteranno i pentastellati ora che sono maggioranza, a quattro anni di distanza da quella presa di posizione molto chiara. Perché se c’è un aspetto che risulta evidente quando si ripercorre la storia dei centri di identificazione ed espulsione, ora Cpr - introdotti nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano per i casi di grave pericolo per l’ordine pubblico - è il ricorso sistematico al prolungamento dei tempi massimi di trattenimento come segnale di una nuova linea “dura” e più repressiva da parte dei governi di centro-destra alternatisi in questi venti anni. La lotta senza quartiere all’immigrazione irregolare è puntualmente passata, e passa, dai Cie e dalla durata della detenzione. Che era di trenta giorni, un mese, con la legge Turco-Napolitano ma nel 2002 con la legge Bossi-Fini diventa di sessanta giorni, due mesi, poi diventati centottanta, sei mesi, con il “Pacchetto sicurezza” nel 2008, lo stesso che ha introdotto il reato di immigrazione clandestina ancora previsto nel nostro ordinamento. Addirittura, nel 2011, altre modifiche legislative, sempre a firma Berlusconi-Maroni, prevedevano la possibilità di prorogare la detenzione fino a un massimo di diciotto mesi complessivi. E a chi obietta che questi tempi lunghi sono definiti dalla direttiva europea sui rimpatri non si può non far notare che quella stessa direttiva prevede esplicitamente il ricorso al trattenimento come misura residuale per casi di particolare gravità, esortando alla massima cautela in quanto si tratta di privazione della libertà, con tutto il portato enorme che ciò implica a livello di diritti fondamentali delle persone. Sono mesi di vita sospesa, in un centro chiuso e spesso delimitato da muri, reti, gabbie, in attesa di un rimpatrio che difficilmente dopo i primi due mesi passati lì dentro verrà effettuato. È la storia di questi venti anni di Cie che dimostra come prolungare il trattenimento sia una misura tutta ideologica, sicuramente iniqua e soprattutto inutile. Prendendo in esame gli ultimi anni, secondo i dati del Ministero dell’interno disponibili, gli stranieri trattenuti nel corso del 2012 sono stati circa 8.000 e di questi solo la metà sono stati rimpatriati. Nel 2013 su 6.000 trattenuti, 2.749 hanno lasciato l’Italia. Quindi tra il 45 e il 50 per cento delle persone passate dai Cie sono state rimpatriate, nonostante il prolungamento dei tempi del trattenimento a diciotto mesi. Numeri molto simili si registrano nel 2014, 2015 e nel 2016, col massimo a tre mesi. La media dei rimpatri effettuati rispetto alle persone trattenute continua a essere intorno al 50%, a prescindere dunque dalla durata del trattenimento. Il nodo critico, evidentemente, non sono i tempi necessari per l’identificazione dei trattenuti ma la scarsa collaborazione dei paesi di origine nel riammetterli, oltre alla complessità delle operazioni di rimpatrio e al loro costo. Nonostante le intenzioni ribadite più e più volte dal ministro dell’Interno, non sarà facile mettersi d’accordo con i paesi di origine. E sembra improbabile che sei mesi di trattenimento nei Cpr, come prevede il nuovo decreto-legge, aiutino a espellere tutti gli stranieri irregolari presenti nel nostro Paese, come continua a dichiarare di voler fare Salvini. *Ricercatrice Migranti. Piano del governo Conte: insieme alla Cina, per aiutarli a casa loro di Tommaso Carboni La Stampa, 11 ottobre 2018 Ma per gli economisti così le migrazioni aumentano. Mezzo milione di irregolari in Italia. Esperto Ispi: “Possibile sanatoria dopo elezioni europee maggio 2019”. Come risolvere il problema delle migrazioni dall’Africa? Si aiuta la Cina ad aiutarli a casa loro. Così il governo italiano intende collaborare con Pechino per sviluppare l’Africa e, gradualmente, “far diminuire i flussi migratori verso l’Europa”. È uno degli obiettivi della “Task force Cina”, strumento costituito dal Ministero dello Sviluppo Economico e destinato a irrobustire le relazioni commerciali ed economiche italiane con la Cina. A dir la verità sono ormai parecchi anni che i cinesi investono enormi quantità di denaro in Africa. Solo pochi giorni fa il presidente cinese Xi Jinping ha promesso ai leader di 54 paesi africani nuovi finanziamenti per 60 miliardi di dollari da stanziarsi nell’arco dei prossimi tre anni. Cifra che fa impallidire i 2 miliardi e 800 milioni d’euro messi a disposizione dall’Europa con il Fondo fiduciario per l’Africa. “La Cina ha investito più in Africa che in qualsiasi altra parte del mondo, in tutto 330 miliardi di dollari. Aiutando la Cina ad aiutare l’Africa, l’Italia può giocarsi una grande partita. È nell’interesse di tutti che il continente africano sia economicamente e politicamente stabile”, ha detto in una recente intervista Michele Geraci, Sottosegretario allo sviluppo economico e promotore insieme a Luigi Di Maio della Task Force Cina. In Africa la Cina insegue cibo, energia e materie prime. In cambio offre prestiti e aiuti per lo sviluppo di economia e infrastrutture. In genere i governanti africani gradiscono il volume di denaro investito e la velocità di esecuzione delle opere, apprezzano meno, invece, i pochi lavoratori locali assunti e l’accaparramento delle terre. È vero anche che diversi paesi dell’Africa sub-sahariana, tipo lo Zambia, sono tornati a essere pesantemente indebitati: colpa dei prestiti cinesi, ma pure delle élite locali che approfittano del credito facile per riempirsi le tasche. Il saldo dei rapporti con la Cina sembra comunque positivo. In Tanzania, per esempio, nella città costiera di Bagamoyo sta per essere costruito un gigantesco porto. Ebbene, secondo un’indagine del Pew Research Center, i due terzi degli abitanti vedono con favore il progetto e hanno una buona opinione della Cina. In ogni caso la questione che al momento sta più a cuore all’Italia appare un’altra: oltre a rafforzare l’economia locale, gli investimenti cinesi saranno davvero in grado di ridurre le migrazioni dall’Africa verso l’Europa? Lo chiediamo a Matteo Villa, che per l’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) elabora ricerche e studi su flussi migratori che interessano l’Europa e in particolare l’Italia. “In realtà, non è assolutamente detto che lo sviluppo economico in Africa sub-sahariana, e cioè il passaggio da redditi molto bassi a redditi medi, faccia diminuire l’emigrazione”, ci spiega Villa. “Anzi, gran parte dei dati in nostro possesso indica il contrario”. Questo perché - spiegano gli economisti dello sviluppo - al di sotto di una certa soglia di reddito, all’aumentare della ricchezza aumentano solo la propensione ad emigrare e le risorse per farlo. Gli esperti parlano di “gobba migratoria”: in un paese povero, il tasso di emigrazione degli abitanti cresce insieme al Pil, raggiungendo il punto più alto quando il paese si assesta su un reddito medio tra i 7000 e i 10000 dollari pro capite (a parità di potere d’acquisto). Soltanto oltre questa soglia scatta l’inversione di tendenza - ossia un calo dell’emigrazione a fronte di un progressivo aumento della ricchezza. E in Africa quando avverrà questo passaggio? “Se consideriamo che la media degli Stati dell’Africa subsahariana è ancora ferma sui 5 mila dollari pro capite, mancano ancora diversi decenni prima che un ulteriore sviluppo possa frenare le emigrazioni”. Tuttavia, aggiunge Villa, esistono alcuni studi secondo cui investimenti “molto mirati” permetterebbero di frenare le migrazioni - soprattutto quelle internazionali - anche prima che il paese superi la fatidica “gobba migratoria”. Politiche di investimento rivolte all’accumulo di ricchezza e capitali in punti specifici del territorio. L’obiettivo è creare poli attrattivi che diventino magneti per quei giovani pronti a migrare fuori dal continente africano. “In Nigeria, per esempio, non ti concentri solo su Lagos, ma cerchi di sviluppare anche Abuja e altre città”. La Cina però ha una politica ambivalente su questo, chiarisce Villa. “Essendo un approccio basato sul finanziamento di infrastrutture, genera uno sviluppo diffuso nell’intero paese. Di solito non c’è un focus specifico su singole città”. E poi c’è un altro dettaglio importante: “Pechino non ha alcun interesse a frenare le migrazioni, che è un obiettivo prettamente europeo”. È molto probabile quindi che le spinte migratorie dall’Africa restino piuttosto intense nei prossimi decenni. Non perché in Africa subsahariana si migri più che in altri continenti. Anzi, con un tasso di emigrazione medio del 2,5%, la propensione a spostarsi è inferiore alla media mondiale. Il problema è l’esplosione demografica: il numero di migranti assoluto cresce di pari passo con l’aumento degli abitanti. Nel 2050 la popolazione subsahariana raddoppierà a quota 2 miliardi e 200 milioni, di cui più della metà saranno persone in età lavorativa (tra i 15 e i 64 anni). Se la tendenza a partire restasse la stessa, l’ISPI si aspetta che il numero di migranti internazionali dall’Africa subsahariana passi da 25 a 54 milioni entro il 2050. Di questi 30 milioni di migranti in più, 7 milioni e 500mila dovrebbero raggiungere l’Europa, l’1,5% della popolazione dell’Ue. Ma quanti di loro arriveranno in modo irregolare? “Difficile prevederlo, dipende dalle politiche europee, ma l’idea che se si restringono i permessi l’irregolarità scenda non è provata dalla ricerca. Spesso succede il contrario”. In Italia intanto prosegue il calo degli arrivi via mare dall’Africa (- 79,74% rispetto al 2017), cominciato quando al Viminale c’era Minniti. Restano però mezzo milione di irregolari sul territorio. “Oltre questa soglia l’Italia ha sempre fatto un condono. Rimpatriare è difficilissimo: non mi sorprenderebbe una sanatoria dopo le elezioni europee di maggio 2019”. Pena di morte, le inutili crudeltà su chi è rinchiuso senza dignità in attesa di morire La Repubblica, 11 ottobre 2018 Gli appelli di Amnesty International e della Comunità di Sant’Egidio, in occasione della Giornata Mondiale contro la pena capitale. Dove si entra nel braccio della morte all’età di 15 anni. I segreti della Bielorussia. “I prigionieri condannati a morte devono essere trattati con umanità e dignità e detenuti in condizioni rispettose delle norme e degli standard internazionali sui diritti umani”. Lo ha dichiarato Amnesty International in occasione del 10 ottobre, Giornata mondiale contro la pena di morte. In questa occasione, l’organizzazione per i diritti umani ha lanciato una campagna su cinque paesi (Bielorussia, Ghana, Giappone, Iran e Malaysia) affinché i rispettivi governi pongano fine alle inumane condizioni detentive dei condannati a morte e assumano iniziative in favore dell’abolizione totale della pena capitale. Le 993 persone mandate a morte in 23 Paesi. Nel 2017 Amnesty International ha registrato 993 esecuzioni in 23 paesi, il quattro per cento in meno rispetto al 2016 e il 39 per cento in meno rispetto al 2015. La maggior parte delle esecuzioni ha avuto luogo in Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan ma questo dato non tiene conto delle migliaia di esecuzioni avvenute in Cina, dove le informazioni sull’uso della pena di morte restano un segreto di stato. Il rigido isolamento dei condannati. “A prescindere dal crimine che possa aver commesso - dice Stephen Cockburn, vicedirettore del programma “Temi globali” di Amnesty International - nessuno dovrebbe essere costretto a subire condizioni inumane di detenzione. Invece, in molti casi, i condannati a morte sono tenuti in rigido isolamento, vengono privati delle cure mediche di cui necessitano e vivono nella costante ansia di un’imminente esecuzione. Il fatto che alcuni governi notifichino l’esecuzione ai prigionieri e ai loro familiari pochi giorni, se non addirittura pochi minuti prima - ha affermato Cockburn - aggiunge crudeltà alla situazione. Tutti i governi che ancora mantengono la pena di morte dovrebbero abolirla immediatamente e porre fine alle drammatiche condizioni di detenzione che troppi condannati alla pena capitale sono costretti a subire”, ha concluso il rappresentante di Amnesty. Nel braccio della morte all’età di 15 anni. Amnesty International ha documentato condizioni detentive agghiaccianti in molti paesi del mondo ma la sua campagna si concentra su Bielorussia, Ghana, Giappone, Iran e Malaysia, dove la crudeltà del sistema della pena capitale è estrema. In Ghana i condannati a morte denunciano che spesso non ricevono le cure mediche necessarie per curare malattie o disturbi di lunga durata. In Iran, Mohammad Reza Haddadi, nel braccio della morte da quando aveva 15 anni, ha dovuto subire la tortura di vedersi fissata e poi rinviata l’esecuzione almeno sei volte negli ultimi 14 anni. Matsumoto Kenji, in Giappone, soffre di delirio molto probabilmente a causa del prolungato isolamento in cui trascorre l’attesa dell’esecuzione. Hoo Yew Wah ha presentato una richiesta di clemenza alle autorità della Malaysia nel 2014 ed è ancora in attesa di una risposta. L’estrema segretezza delle esecuzioni in Bielorussia. Il clima di segretezza che circonda l’uso della pena di morte in Bielorussia fa sì che le esecuzioni non siano note all’opinione pubblica e vengano portate a termine senza alcuna comunicazione preventiva ai prigionieri, alle loro famiglie o agli avvocati. Amnesty International si oppone sempre alla pena di morte, senza eccezione e a prescindere dalla natura o dalle circostanze del reato, dalla colpevolezza, dall’innocenza o da altre caratteristiche del condannato e dal metodo usato per eseguire le condanne a morte. La pena di morte è una violazione del diritto alla vita, proclamato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. È l’estrema punizione crudele, inumana e degradante. La Comunità di Sant’Egidio e le visite nei bracci della morte. L’organizzazione, da anni è vicina ai condannati a morte nei diversi continenti, attraverso diverse campagne tra cui “Città per la Vita”, partecipa alla Giornata mondiale contro la pena capitale, promuovendo visite nei bracci della morte negli Stati Uniti, in Indonesia e in diversi paesi africani. “Occorre tener vivo, ad ogni livello delle società, delle istituzioni e dei governi, questo impegno di civiltà e umanità - si legge in un documento diffuso dalla Comunità di Sant’Egidio - diffondendo la fiducia che in futuro la pena capitale possa essere totalmente abolita negli ordinamenti giuridici, come è già avvenuto negli ultimi anni in tanti Paesi, specialmente in Africa, dopo l’esempio dell’Europa, unico continente che finora ha bandito del tutto la pena di morte. Ci confortano - dice ancora la nota dell’organizzazione fondata nel 1968 da Andrea Riccardi - la recente abolizione della pena di morte in Burkina Faso e la decisione di papa Francesco di modificare il Catechismo della Chiesa cattolica, definendo la pena capitale “inammissibile alla luce del Vangelo perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”. Turchia. Il giornalista Jamal Khashoggi fatto a pezzi da killer sauditi di Valerio Sofia Il Dubbio, 11 ottobre 2018 Il reporter dissidente ucciso al consolato di Ankara. Un intrigo internazionale dai contorni cruenti scuote il Medio Oriente. Il New York Times con particolari efferati conferma quanto si pensava da qualche giorno: il giornalista saudita scomparso Jamal Khashoggi sarebbe stato assassinato, e all’interno del consolato del suo Paese. Khashoggi era considerato in Arabia Saudita un giornalista ostile e sgradito dopo che da consigliere del governo di Riad si era trasformato in un dissidente critico verso il potere crescente del principe ereditario Mohammad bin Salman. Il reporter è scomparso alcuni giorni fa a Istanbul, dopo essersi recato nel consolato del proprio Paese. I sauditi negano che sia successo alcunché e affermano che l’uomo sia vivo, ma i turchi - sulla cui posizione all’inizio erano stati sollevati sospetti - sono diventati i primi accusatori del governo di Riad sulla vicenda. E proprio un alto ufficiale del servizio di sicurezza turco ha raccontato al New York Times l’efferata scena che si sarebbe svolta dentro la sede diplomatica. Khashoggi si era recato al consolato per ritirare il nulla osta per le proprie nozze. Ma sarebbe stato preso in consegna dalla sicurezza da una squadra saudita che era stata inviata apposta per lui. Proprio quel giorno, il 2 ottobre, ai 28 impiegati turchi del consolato era stato detto di non presentarsi in ufficio, per un giorno di ferie forzate, spiegando loro che doveva essere tenuto un incontro diplomatico riservato. Entro due ore dall’arrivo, sostiene la fonte, l’uomo era morto e il suo corpo era stato fatto a pezzi con una motosega. I suoi resti - viene aggiunto come macabro dettaglio che avvalorerebbe la veridicità del racconto - sarebbero stati portati via in un furgoncino nero per farli sparire. Secondo un video pubblicato da un canale tv privato, il mezzo avrebbe percorso circa 2 chilometri, parcheggiando poi in un garage nella residenza del Console saudita. Un giornale turco a sua volta ha pubblicato le foto dell’arrivo in aeroporto della squadra di agenti sauditi, mentre video dei loro movimenti ripresi dalla telecamere di sorveglianza sparse in città sono stati pubblicati su diversi siti. E così risulterebbe che il team sarebbe ripartito nella stessa giornata poche ora dopo il tragico evento. Di fronte a questa massa di accuse l’Arabia saudita ha ribadito che queste ricostruzioni sono senza fondamento. La Turchia - con cui la tensione è alta - ha chiesto allora che Riad mostri i video che dimostrino che Khashoggi sia vivo e sta bene, a partire dall’uscita dal consolato il giorno della sua scomparsa. Ma dal consolato il giornalista non è mai uscito, stando alle parole della fidanzata che lo ha aspettato invano per ore davanti al portone. Secondo il Washington Post, con cui il reporter che viveva in America collaborava, anche gli Stati Uniti erano al corrente delle minaccia a Khashoggi, ma non è chiaro se la loro intelligence lo avesse o meno avvisato. Sarebbero state intercettate comunicazioni tra agenti sauditi che parlavano di un piano per rapire il giornalista, per riportarlo in Arabia Saudita. Non è chiaro se quell’eventuale piano sia poi cambiato o se la vicenda sia degenerata. Il dipartimento di Stato dal canto suo afferma di non avere informazioni su Khashoggi. Bangladesh. Pena di morte per 19 esponenti dell’opposizione a Dacca di Emanuele Giordana Il Manifesto, 11 ottobre 2018 Tra i condannati anche due ex ministri, ergastolo per Tarek Rahman. Il partito al governo, la Lega Awami, chiede anche la sua testa. Il Bnp, di cui è leader, parla di sentenza politica in vista delle elezioni. È un’atmosfera sempre più tesa quella che si respira a Dacca alla vigilia di elezioni che ancora non sono state messe in calendario. Sempre più tesa dopo che il tribunale ha comminato ieri ben 19 condanne a morte nelle file dell’opposizione e una sentenza di ergastolo al suo capo in esilio a Londra. La vicenda riguarda i gravissimi incidenti del 2004 quando un corteo dell’allora partito di opposizione - la Lega Awami ora al governo - fu attaccato anche con granate con l’intento, secondo l’accusa, di uccidere il capo della Lega Sheikh Hasina, ora primo ministro. La donna fu circondata da un cordone di militanti del partito che le salvarono la vita, ma negli incidenti morirono oltre venti persone tra cui personaggi di spicco del suo movimento. Per i giudici si è trattato di un “meticoloso complotto” per uccidere la leader dell’Al, guidando la mano del gruppo jihadista Harkatul Jihad al Islami. Per l’opposizione, il Bangladesh Nationalist Party, non è invece che un processo motivato politicamente. E in un momento molto delicato per la destra bangladese, rappresentata appunto dal Bnp. La pena di morte per i 19 include due ex ministri, mentre l’ergastolo riguarda Tarek Rahman, figlio in esilio dell’ex premier Khaleda Zia. Non contenta la Lega Awami, partito teoricamente progressista e di sempre più tenue ispirazione socialdemocratica, vorrebbe la pena capitale anche per Tarek, che vive nel Regno unito dove si è rifugiato nel 2008 mentre si addensavano nubi sulla sua famiglia. La madre, premier sino al 2006 in alternanza con Sheikh Hasina, fa parte di una delle maggiori dinastie del potere locale: negli anni Sessanta ha sposato Ziaur Rahman, ufficiale diventato nel 1977, alcuni anni dopo l’indipendenza, presidente. Viene ucciso nel 1981 e Khalezda Zia si butta in politica. Come in ogni dinastia anche i due figli Tarek e Arafat le sono vicini. Nel 2007 vengono entrambi arrestati per corruzione ma riescono a uscire (nel 2015 Arafat muore). Ma i guai giudiziari tornano più volte per Tarek e nel 2018 per la madre, arrestata per una vicenda di corruzione legata a fondi esteri utilizzati per lo Zia Orphanage Trust, fondazione di famiglia. Condannata a 5 anni, ora Khaleda Zia, che alcuni giorni fa è riuscita a farsi spostare in un ospedale di Dacca per problemi di salute ma sempre sotto custodia, facilmente sarà interdetta dalle prossime elezioni. Ipotesi che ha reso il clima politico incandescente. La nuova sentenza butta benzina sul fuoco. Quattromila agenti presidiavano ieri la capitale: il Bnp non passerà la cosa sotto silenzio e reagirà con manifestazioni di piazza, un’attività che in Bangladesh costa molto spesso la vita a chi vi partecipa. Tarek è teoricamente il capo del Bangladesh Nationalist Party anche se a casa per ora non può tornare. Oltre all’ergastolo - e una possibile futura condanna a morte - deve scontare altri anni di galera per diversi guai giudiziari che riguardano il periodo in cui sua madre era al governo. La Cina ha aperto “campi di rieducazione” per i musulmani di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 11 ottobre 2018 La linea dura di Pechino nello Xinjiang dove abitano 11 milioni di iuguri considerati ostili al potere centrale. “Educare e trasformare” i soggetti influenzati dall’estremismo religioso, riabilitarli in “centri di addestramento professionale”. È la nuova legge dello Xinjiang, la regione più estesa della Cina, la più occidentale, il bacino di gran parte delle sue risorse di carbone, gas naturale e petrolio. Un Far West abitato da 11 milioni di uiguri musulmani, dove Pechino combatte da anni un movimento ostile al potere centrale e alla penetrazione degli han (la stragrande maggioranza della popolazione cinese). Da mesi si parla della linea dura seguita dalle autorità, ci sono state proteste internazionali guidate dagli Stati Uniti per le testimonianze insistenti sulla costituzione di campi di rieducazione e sullo spostamento in massa di uiguri e altre minoranze musulmane in altre zone del Paese. Una commissione dell’Onu ha ascoltato rapporti che denunciavano l’internamento di un milione di persone nello Xinjiang. Pechino aveva smentito, accusando gli occidentali di doppiopesismo opportunista: gli estremisti islamici violenti sono sempre definiti terroristi in Europa e America, mentre sono considerati degli oppressi se sono in Cina. Ora il Comitato permanente dell’Assemblea del popolo di Urumqi, capitale della Xinjiang, ha pubblicato una legge che autorizza “le autorità sopra il livello di contea ad istituire organizzazioni di educazione e trasformazione attraverso dipartimenti di supervisione, come centri di addestramento professionale, per persone influenzate dall’estremismo”. Una formula burocratica che si può tradurre in campi di internamento e rieducazione. Oltre a tenere corsi di istruzione professionale, i centri di raccolta, in base alla legge pubblicata ieri a Urumqi e sintetizzata dal Youth China Morning Post, dovranno impartire lezioni di cinese scritto e parlato (la lingua del posto è turcofona) e nozioni sulla legge della Repubblica popolare. In più sono previsti corsi di “educazione ideologica per eliminare l’estremismo e aiutare i soggetti a trasformare i loro pensieri e rientrare nella società e nelle loro famiglie”. Se la Cina ha deciso di rendere noto il sistema di rieducazione dei musulmani significa che lo scontro è arrivato a un punto di svolta. Da qualche anno sono stati segnalati mujaheddin uiguri sul fronte siriano, contatti con Al Qaeda e i talebani in Afghanistan, tutti combattenti che sarebbero pronti a tornare nello Xinjiang per lanciare una guerriglia separatista. Ci sono stati attacchi alla polizia nello Xinjiang e attentati terroristici sanguinari in lontane città della Cina: il più grave alla stazione ferroviaria di Kunming nello Yunnan, dove nel 2014 una decina di terroristi armati di coltelli aveva inseguito e massacrato 29 passeggeri e passanti, ferendone altri 140. Per fermare il contagio Pechino ha cercato di imporre oltre alla sua legge i suoi costumi, vietando le “barbe anomale” ai maschi musulmani dello Xinjiang, decretando anche una campagna contro il cibo e i prodotti halal, visti come rituali islamici che minano la secolarizzazione della regione. Un sistema forse controproducente.