“L’ergastolo non è soluzione migliore, tutti devono avere speranza” palermotoday.it, 10 ottobre 2018 Così Salvatore Lupo, docente di Storia contemporanea dell’Università di Palermo, intervenuto alla prima videoconferenza del progetto educativo antimafia e antiviolenza promosso dal Centro studi Pio La Torre: “Il 41 bis è una tortura”. “Le pene devono essere rieducative, l’ergastolo non è la soluzione migliore per punire i criminali. Chiunque dovrebbe avere almeno la speranza che con un buon comportamento e una giusta pena possa uscire prima o poi dal carcere”. È la provocazione di Salvatore Lupo, storico dell’Università di Palermo, intervenuto alla prima videoconferenza del Progetto educativo antimafia e antiviolenza promosso dal Centro studi Pio La Torre, giunto al tredicesimo anno e rivolto agli studenti delle ultime tre classi delle scuole secondarie italiane di secondo grado. “L’ergastolo non è la pena migliore - ha continuato Lupo. Il 41 bis è stato d’altronde equiparato a una tortura. E una tale pena non indica lo stato di buona salute di una società e di un sistema penale”. “Se in un passato recente la nostra Repubblica, minacciata, ha avuto bisogno di usare una risposta molto dura - ha sottolineato - non è detto che la situazione attuale sia la stessa di allora e forse per il futuro la risposta deve essere proporzionale. Serve una atmosfera di ragionevolezza anche nella lotta al crimine. La mafia è un reticolo di cui fanno parte i criminali, chi li favorisce direttamente e anche chi lo fa inconsciamente o involontariamente sfruttandone i servizi come droga o contraffazione. A questo va contrapposto un altro reticolo quello dell’antimafia, un insieme di forze, idee che intendono contrapporsi alle mafie”. La prima videoconferenza si è tenuta al Teatro Don Bosco-Ranchibile sul tema “La storia della mafia e dell’antimafia: evoluzione dal dopoguerra ad oggi”. Presenti in sala anche ventisette ragazzi di una scuola parigina, il Liceo Bouset, a Palermo per un gemellaggio con l’Itet Marco Polo. “La mafia - ha sottolineato Vito Lo Monaco, presidente del Centro Pio La Torre - è sempre stata uno strumento di difesa a servizio della classe dirigente. I mafiosi negli anni 50 e 60 controllavano a Palermo i lavori di ricostruzione della città con il consenso di una parte della politica cittadina. Oggi si dedicano ad altri affari, si è assistito ad una trasformazione da braccio servente a struttura di potere utilizzata per ottenere consenso politico e per alterare il mercato economico. Un’azione giudiziaria repressiva è stata fatta - ha concluso Lo Monaco, ma il fenomeno continua a riproporsi e a diventare sempre più silenzioso infiltrandosi nella politica”. Per la prima volta da quest’anno il progetto sarà proposto anche alle case circondariali italiane che offrono ai propri detenuti corsi di studi medi-superiori. Già nove gli istituti penitenziari che hanno aderito, tra questi le due carceri di Palermo (Pagliarelli e Calogero Di Bona - Ucciardone), e quelli di Augusta, Caltanissetta, Noto, Enna. Adesioni anche dagli istituti penitenziari di Milano (San Vittore), Alessandria e Pesaro. La prossima conferenza si terrà mercoledì 7 novembre, al cinema Rouge et Noir di piazza Verdi, sul tema “Ruolo delle mafie: tra restringimento dei diritti, corruzione, violenza, e penetrazione mafiosa”. Rieducazione e sicurezza, funzioni essenziali della pena in carcere di Bruno Ferraro* Libero, 10 ottobre 2018 Di fronte ai tristi eventi proposti, con sempre maggiore frequenza, dalla cronaca, si impone una riflessione sull’argomento indicato nel titolo, come pure su altri che sono ad esso conseguenziali come il terrorismo ed il pentitismo. Unica infatti è la matrice di fondo, ovvero l’attualità o meno della sanzione penale detentiva e, più in generale, del carcere. Regna infatti una diffusa confusione di concetti che si ripercuote in contradditorie prese di posizione. C’è da capire il cittadino che rimane sconcertato alla notizia della scarcerazione di un Vallanzasca (in semilibertà con 4 ergastoli e 300 anni di pena da scontare) o di fronte alla sostanziale soppressione dell’ergastolo in un Paese come l’Italia, che ha da decenni rinunziato alla pena capitale ancora molto presente in Paesi di altrettanta civiltà. Occorre però fare i conti con la nostra Carta Costituzionale che, all’art. 27, sancisce il principio secondo cui la pena deve tendere alla “rieducazione” del condannato. Come conciliare espiazione e redenzione, vendetta e perdono, crimine e sanzione, corrispondenza tra il male inflitto e la richiesta sacrosanta di soddisfazione delle vittime o dei loro eredi? A mio avviso, il carcere ha ancora la sua funzione e la sua attualità. Al reato deve corrispondere la reazione dello Stato e delle vittime (soggetto passivo costante il primo, soggetto passivo particolare le seconde nel gergo del diritto penale), per cui la permanenza in carcere è inevitabile, giusta e doverosa, anche come deterrente per tutti i potenziali criminali. Poiché, però, nel carcere occorre collocare un’attività di rieducazione, l’esecuzione deve avvenire nel rispetto delle regole e con l’introduzione di servizi idonei allo scopo da raggiungere. Quindi sì alle misure alternative, agli sconti di pena, ad esperimenti di custodia attenuata, al lavoro dei detenuti, persino alla figura del garante dei detenuti: purché, beninteso, non ne esca ridotto pericolosamente l’aspetto repressivo che costituisce la ragion d’essere della sicurezza invocata dai cittadini. Alle misure del legislatore deve poter seguire il massimo senso di responsabilità dei giudici e dei tribunali di sorveglianza, se si vuole evitare lo smarrimento della comunità. Una conclusione? Si usi, dai governanti, dai giudici, dall’opinione pubblica un pragmatismo di fondo, senza innamorarsi delle parole. Le regole esistono per essere rispettate; le leggi esistono per essere correttamente applicate; si giudichi prescindendo da emozioni e da rancore, con giusta misura di umanità; si eviti il ricorso alle illusioni ed alle chimere, come pure ai paroloni (l’Italia della civiltà, il garantismo, ecc.). Sono considerazioni di ordine generale che devono prescindere dalle pregiudiziali politico-ideologiche e dalle distorsioni di cruenti fatti di cronaca: vedi la proposta di legge Molteni sul rito abbreviato e sugli sconti di pena, come pure il caso della detenuta che ha ucciso i due figlioletti nel carcere di Rebibbia. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Bonafede incontra don Grimaldi: “In carcere umanità e rigore” giustizia.it, 10 ottobre 2018 Il ministro Bonafede ha incontrato ieri mattina nel suo ufficio in via Arenula l’ispettore generale dei Cappellani delle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi, che coordina gli oltre 200 cappellani presenti negli istituti di pena italiani. Don Grimaldi, già cappellano della Casa circondariale di Secondigliano a Napoli per 23 anni, ha presentato al ministro Bonafede il terzo convegno nazionale dei cappellani italiani che si svolgerà a Montesilvano (Pescara) e durante il quale verranno definite le linee guida della pastorale penitenziaria per i prossimi anni. Al convegno parteciperanno anche molti volontari che quotidianamente prestano il loro servizio negli istituti offrendo un sostegno ai detenuti e ai loro familiari. “Tutti i giorni ci impegniamo per far capire ai detenuti che non è sufficiente scontare la pena, occorre liberarsi dal peso dell’illegalità che frustra qualsiasi prospettiva di crescita umana e sociale. La questione più urgente che riscontriamo andando nelle carceri - ha raccontato don Grimaldi - è la povertà. È questa la vera piaga che dobbiamo affrontare, pensando anche e soprattutto al dopo, al momento in cui cioè il detenuto torna in società. Se non si interviene sul problema della povertà e della disoccupazione, il detenuto corre il rischio di cadere nuovamente, di riprecipitare nel vortice dell’illegalità. Per questo dobbiamo dargli una mano ad affrancarsi dalla condizione di indigenza per poter vivere un’esistenza onesta”. Dello stesso avviso il ministro Bonafede che, illustrando le iniziative sinora intraprese, ha sottolineato come “l’unica vera forma di rieducazione e reinserimento sia il lavoro. È necessario uno sforzo comune tra tutti i soggetti coinvolti nella gestione dell’esperienza carceraria- istituzioni, educatori, agenti di custodia e cappellani - per coniugare umanità e rigore e per declinare la funzione rieducativa come seconda opportunità che viene data a cittadini che hanno commesso errori ma intendono rimediare ai danni causati e riscattarsi in un percorso di cambiamento”. Il ministro Bonafede, ringraziando don Grimaldi “per la straordinaria funzione svolta dai cappellani all’interno degli istituti di pena”, ha espresso la massima disponibilità a proseguire il dialogo avviato “per dare vita a ulteriori progetti d’inclusione e a lavorare in sinergia con l’obiettivo di trovare insieme soluzioni quanto più rispondenti alle concrete esigenze delle persone detenute”. Le donne in carcere si ammalano più degli uomini pianetadonna.it, 10 ottobre 2018 Sono le donne i soggetti più vulnerabili sul piano della salute in carcere. Le detenute presentano percentuali di infezioni superiori rispetto agli uomini in prigione. È ad esempio dimostrato che se l’Hiv è 10 volte superiore negli uomini detenuti rispetto alla popolazione generale, per le donne lo è di 16 volte, mentre per l’Hcv non disponiamo di numeri accertati, ma la tendenza sembra la stessa. Una élite in negativo in cui si concentrano non solo malattie infettive, ma anche psichiatriche, cardio-respiratorie, metaboliche e anche degenerative”. A rivelarlo è Sergio Babudieri, direttore scientifico Simspe-Onlus presidente del XIX Congresso nazionale della Società di medicina penitenziaria Simspe, Agorà penitenziaria 2018, organizzato insieme alla Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit), che si è svolto la scorsa settimana a Roma. Secondo i più recenti dati forniti dall’amministrazione penitenziaria, ogni anno all’interno dei 190 istituti penitenziari italiani transitano tra i 100 mila e i 105 mila detenuti. I dati ufficiali del ministero della Giustizia indicano che oltre il 50% dei soggetti ha meno di quarant’anni e che un detenuto su tre è straniero. Per quanto riguarda le donne sono circa il 4% della popolazione carceraria. I reati più perseguiti sono quelli contro il patrimonio, contro la persona e in materia di stupefacenti. Ma sono molto frequenti anche i reati di prostituzione. Si contano anche circa 60 bambini, che hanno da pochi mesi a sei anni, figli di madri che hanno subito un arresto o una condanna. Numeri importanti sottolineano una forte precarietà anche da un punto di vista psicologico: si stima che due detenuti su tre, secondo dati Simspe, soffrono di qualche disagio di tipo mentale. “Per disagio mentale - spiega Luciano Lucania, presidente Simspe onlus - intendiamo quella sofferenza sia psicologica che clinico-psichiatrica. Sono numeri importanti, con percentuali molto elevate: si stima che riguardi il 60-70% dei detenuti. Tali disturbi rendono questa popolazione a rischio per fenomeni di autolesionismo e di auto-soppressione. Se, infatti, la cura delle malattie infettive è legata a una diagnosi e a una conseguente terapia, per quelle mentali occorre non soltanto un approccio clinico e farmacologico, ma anche psicologico e di sistema, sociale e territoriale, che non guardi solo la situazione nelle carceri, ma anche quella esterna”. Tornando alle donne “in ragione dei numeri contenuti - aggiunge Babudieri - occorrerebbe un piccolo sforzo per garantire a loro, e agli eventuali minori, ottimi risultati”. Poi aggiunge: “Ma, data l’età media della popolazione totale, si potrebbe raggiungere uno stato di salute nettamente superiore per tutti”. A partire dai vaccini. “I responsabili dell’assistenza sanitaria in carcere sono i sistemi sanitari regionali - spiega Babudieri. A loro spetterebbe il compito di creare un ponte tra i medici delle carceri e i medici dell’igiene e della prevenzione territoriale. Il responsabile di ogni struttura penitenziaria dovrebbe correlarsi con i responsabili della Sanità pubblica per la realizzazione di un programma di vaccinazione totale. In questo modo tutte le persone detenute saranno sotto controllo, garantendo non solo la loro sicurezza, ma anche quella di chi starà loro accanto, dentro e fuori le strutture penitenziarie”. L’urgenza - hanno concluso gli esperti - è sotto gli occhi di tutti, ma c’è una generale tendenza a demandare le proprie responsabilità, a danno non solo dei malati, ma anche di quelli ancora sani. “Non è mai stato fatto un registro nazionale per nessuna patologia, non c’è mai stato un coordinamento nazionale - afferma Babudieri. Ovviamente non è interesse del ministero della Giustizia, mentre quello della Salute ha demandato ai sistemi sanitari regionali. Manca un coordinamento: è da anni che la nostra Società ha proposto di affidare all’Istituto superiore di sanità la gestione di un Osservatorio nazionale per la tutela della salute in carcere che coordini tutti gli osservatori regionali già costituiti, ma questa nostra richiesta è stata costantemente disattesa”. La Repubblica dei magistrati intoccabili di Giuseppe Basini L’Opinione, 10 ottobre 2018 Come cittadino, che crede di essere consapevole di quello che questa parola dovrebbe significare, sono preoccupato (e molto) dagli assetti normativi del nostro Paese in materia di giustizia per i loro effetti distorsivi sulla democrazia liberale. Non voglio ripercorrere la storia degli ultimi trent’anni di conflitti tra i poteri dello Stato (causa e non solo effetto, del crollo della Prima e della Seconda Repubblica) né entrare nel merito di singoli fatti, anche gravi, ma voglio provare a fare un discorso generale sul perché possano esistere queste distorsioni e su ciò che le rende tuttora sempre possibili. Non mi interessa tanto valutare l’esistenza di toghe politicizzate, singole o collegate, che stravolgano il codice per fini di parte fino a privare della libertà e dell’onore degli innocenti, mi interessa sapere se, dalle nostre leggi, questo rischio sia sufficientemente contrastato o, al contrario, favorito. Temo che il rischio ci sia, sia grave e sia reso possibile proprio dall’assetto normativo generale. Anzitutto il problema della responsabilità. Quello che ci permette, con una certa (pur se relativa) tranquillità, di stenderci sul lettino di un chirurgo o di transitare su di un viadotto, è il principio di responsabilità, per cui il medico o l’ingegnere in causa, è tenuto a rispondere degli errori fatti per sua colpa, anche se commessi senza volontà di ferire e cioè senza dolo, e questo per il cittadino è una garanzia di maggiore scrupolo a tutela della sua vita. I magistrati no, a loro questo principio non si applica allo stesso modo, se un innocente vede la sua vita rovinata da una prigionia ingiusta, non basta la semplice colpa perché il magistrato paghi, occorre il dolo, cioè che l’abbia fatto volontariamente e poi dimostrarlo con prove molto difficili da trovare (soprattutto quando, ad esempio, è un pregiudizio ideologico a spingerlo) e in ogni modo, anche in caso di colpa grave, sarà sanzionato soltanto civilmente (con lo Stato a pagare la maggior parte dei rimborsi) e non anche penalmente. E poi, mentre tutti noi cittadini siamo giudicati da una magistratura esterna alle nostre vite e alle nostre professioni, cioè un organo con cui non abbiamo contatti e dimestichezza, i magistrati no, è la magistratura stessa, quella di cui fanno parte, a giudicarli. Un altro problema di fondo è quello della divisione dei poteri e, prima ancora, su cosa si debbano basare questi poteri. In democrazia, nelle forme costituzionali, il potere proviene dal popolo attraverso libere elezioni e dunque, in Italia, dove solo il Parlamento è elettivo, esso solo è l’organo a cui compete dare la fiducia al Governo e fare le leggi rispettando la volontà popolare. La magistratura da noi non è e non può essere un “potere”, perché priva di legittimazione popolare (e difatti nel nostro ordinamento è definita come ordine) e tantomeno può sostituirsi o interferire col Parlamento e il Governo. In realtà, in forma pienamente realizzata, una democrazia realmente fondata sulla classica tripartizione dei poteri - legislativo, esecutivo, giudiziario - esiste solo negli Stati Uniti, dove quasi tutte le cariche pubbliche sono elettive. Quando però la magistratura può indagare e giudicare un parlamentare o un partito, senza che invece nessun organo esterno possa indagare e giudicare su singoli magistrati o sui loro organi costituenti, è di tutta evidenza che siamo di fronte ad un pericoloso sbilanciamento che, di fatto, lascia aperta la strada ad un prevalere dell’ordine giudiziario non elettivo, sul Parlamento eletto. Jefferson ammoniva: “In materia di potere smettiamolo di credere nella buonafede degli uomini, ma mettiamoli in condizione di non nuocere con le catene della costituzione”. Ed è proprio qui il problema, il nostro assetto normativo che si sforza di tutelare la civile convivenza tra cittadini e, con le leggi e le elezioni stesse, anche la correttezza delle istituzioni politiche, non ci garantisce invece affatto da eventuali deviazioni illegittime di magistrati. Infatti, a cominciare dalla loro pratica sottrazione al principio generale di responsabilità, per proseguire con la impossibilità per un organo esterno di indagarli e per finire con la prerogativa che il giudizio su di loro sia sempre e solo affidato all’organo di cui fanno parte, sono di fatto posti nella condizione di essere quasi immuni dai rigori della legge. In pratica basta un “libero convincimento”, basato su indizi, di un pubblico ministero e di un giudice, per portare al rinvio a giudizio di un noto esponente politico e così ledere gravemente non solo la vita di quell’uomo, ma anche il funzionamento della democrazia stessa (e a volte basta un semplice avviso di garanzia) mentre se poi il politico (o l’industriale o il semplice signor Rossi) verrà assolto, anche con formula piena, nessuno pagherà, perché non esiste un’autorità indipendente “esterna” che possa indagare sulla legittimità (e le vere ragioni) di quell’incriminazione. Noi potremo ristabilire l’equilibrio dei poteri (e la democrazia) solo o ripristinando la completa separazione degli stessi, come era con la tradizionale immunità parlamentare della prima costituzione, che difendeva il Parlamento dagli abusi di ogni potere assoluto, o al contrario dando anche alle camere poteri ordinari di indagine e sanzione nei confronti dei magistrati, o infine ancora creando una corte speciale di giuristi, obbligatoriamente estranei alla magistratura, con lo scopo unico di indagare e sanzionare gli eventuali crimini commessi da magistrati. L’equilibrio dei poteri è davvero essenziale per il funzionamento di una democrazia. Non meno essenziali, anzi, sono i diritti del cittadino, troppo spesso violati. Da noi il carcere preventivo viene usato in maniera indiscriminata, violando il principio sacrosanto che nessuno possa essere incarcerato prima di un processo in cui venga provata (e, ripeto, provata) la sua colpevolezza, in un pubblico dibattimento fatto con tutte le garanzie. E se si può ammettere la prevenzione nei casi di omicidi e massimamente in quelli del crimine organizzato o del terrorismo, perché l’eventuale ripetizione dell’atto crea il fatto irreversibile della morte, non è invece ammissibile in tutti gli altri casi, in cui può configurare - e senza nemmeno la difesa della cauzione - un vero e proprio abuso, volto o ad estorcere confessioni con la minaccia del carcere o a mostrare il volto onnipotente dello stato di polizia e questo senza che gli italiani se ne rendano nemmeno ben conto, convinti che per andare in prigione ci voglia un giusto processo, come la logica vorrebbe. E su questo si innesta il problema grave e urgente della separazione delle carriere. Pubblici ministeri e giudici devono avere non solo funzioni, ma proprio appartenenze e carriere rigidamente separate, la pubblica accusa non può essere messa in condizione di vantaggio, effettivo e talvolta determinante, rispetto alla difesa, grazie all’appartenenza alla stessa magistratura dei giudici. La funzione giudicante propria del giudice, deve sempre essere super partes, terza, indipendente dalla difesa e dall’accusa, altrimenti il giusto processo diviene solo una parola. Rimangono la durata dei processi, le troppe leggi e la loro interpretazione estensiva. Mentre il primo punto ci rimanda alla carenza cronica di organico che ormai potrebbe essere curata (vincendo non poche resistenze corporative) forse solo immettendo in massa, con procedure anche essenziali, avvocati cassazionisti nei ruoli della magistratura (anche per portare una cultura diversa, non principalmente punitiva, tra le toghe) per poter celebrare i processi, senza dover distruggere, allungandola a dismisura, la garanzia della prescrizione. Il secondo punto, che coinvolge direttamente anche il legislatore, riguarda la possibilità pericolosa che troppe leggi, e fatte in tempi diversi, possano fatalmente trovarsi in contraddizione tra loro, indebolendo la certezza del diritto ed aprendo la strada ad interpretazioni, anche arbitrarie, che possono minare lo stato di diritto. Le legislazioni “emergenziali”, ad esempio, troppo spesso sono in contrasto evidente coi principi di un ordinamento liberale e il risultato può essere che, con l’occhio fisso sulle organizzazioni criminali, si dimentichi, come troppo spesso è successo nella storia, il pericolo che uno Stato, che dispone di mezzi ben più potenti, finisca per farsi esso stesso criminale. Il diritto non può essere solo un fatto di diritto positivo, con qualunque legge da considerarsi valida se inserita in un contesto legislativo coerente con essa, non dobbiamo mai dimenticarci i principi del giusnaturalismo inseriti nella costituzione, tra cui quelli della pena come rieducazione e della presunzione d’innocenza. E, quando si parla di principi, non c’è potere costituito e sapienziale fatto di procedure e di codici che tenga, la libertà è il valore fondamentale e la Giustizia è una cosa troppo importante perché se ne occupino solo i magistrati. È cosa di tutti. Le correnti della magistratura sono utili, un luogo di elaborazione culturale di Alberto Cianfarini* Il Dubbio, 10 ottobre 2018 Le correnti in magistratura non sono semplici centri di potere. Possono essere (e in parte ancora sono) i luoghi dove si affermano i propri punti di vista sulla giustizia. Una delle caratteristiche (e anche la principale critica mossa dagli osservatori) della magistratura ordinaria è la sua divisione in correnti “di pensiero” - cui sono simpatizzanti o iscritti la gran parte dei magistrati - variamente riconducibili alle grandi ideologie del 900 e alle sensibilità presenti nella società in generale e alla magistratura in particolare. È noto come esse, per il particolare sistema elettorale vigente in relazione all’elezione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, riescano a convogliare l’elettorato attivo dirigendolo su nomi predeterminati i quali, a seguito di primarie atipiche, riescono ad essere eletti senza particolari patimenti. A riprova di quanto testé affermato l’esiguo numero di aspiranti candidati (21) in relazione ai posti assegnabili (16) nell’ultima competizione elettorale. La forte critica che si rinviene anche in questi giorni sui mass media più attenti riguarda il rischio di ritrovarsi un Csm potenzialmente non libero e astrattamente sensibile ad etero richiami che non siano prettamente dettati dalla neutra constatazione del dato oggettivo, così come esso emerge dai fatti. Se così fosse ma così non è - le cosiddette correnti si sarebbero trasformate in esecrabili centri di potere autoreferenziali, autonomi ed avulsi dal controllo degli stessi elettori. Le correnti, invece, per allontanare anche solo il sospetto di quanto sopra accennato, dovrebbero potenziare quel ruolo di luogo di elaborazione culturale, di connotazione del magistrato, non tanto e non solo riferibile alle pur importanti questioni sindacali (condizioni di lavoro del magistrato, orarie ed economiche ecc. ecc.), quanto piuttosto delle diversità nell’approccio culturale che segna e marca la differenza tra magistrato e magistrato. In ultima analisi senza una dottrina filosofica certa e conosciuta al servizio e sostegno della corrente, quest’ultima muta geneticamente in un mero luogo sindacale e di divisione degli interessi. Da luogo degli ideali a luogo delle ideologie. Un esempio, tra i molti che si potrebbero fare, renderà meglio il concetto. L’art. 358 del codice di procedura penale afferma che Il Pm …svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini. Molti pubblici ministeri sono presi da un impercettibile e non esteriorizzabile disagio quando leggono questa norma; altri la considerano la più importante di tutto il codice, metro ideale di tutta la loro condotta professionale. Eppure entrambi avrebbero il diritto e il dovere di esporre le loro convinzioni e coerentemente di militare in settori distinti: se non si chiarisce all’interno di ogni raggruppamento - quale precondizione indispensabile - il significato culturale da attribuire alla norma, appare sterile ogni appartenenza correntizia. Oggi infatti la esegesi della citata disposizione codicistica (si ripete solo un esempio) segna trasversalmente gli appartenenti ad ogni raggruppamento ideologico per cui ci si domanda se il Csm rifletta le sensibilità dei magistrati o, piuttosto, la forza persuasiva delle correnti. Ed ancora. Quale significato attribuire al dolo, alla colpevolezza colposa - concetti questi che appaiono semplicisticamente universitari - è veramente patrimonio comune e condiviso di ogni magistrato? Credo vi siano, a ben scavare, sensibilità e diversità abissali tra magistrato e magistrato. In ultima analisi oggi l’appartenenza correntizia non sembra offrire un’impronta forte e caratterizzante. Il pernicioso annacquamento delle ideologie, tipico del XX secolo, pare aver colpito anche la magistratura; i grandi temi sono ormai fuori del dibattito culturale e la tristezza monta quando sale forte la constatazione di correnti interessate più alla raccolta del consenso, piuttosto che all’elaborazione di una comune idea condivisa, la quale dovrebbe essere una indispensabile precondizione. Tutti i grandi temi della giustizia contemporanea non potranno trovare adeguata soluzione senza una preventiva e precisa concezione filosofica della persona che trovi nelle correnti quel luogo ideale di identificazione e confronto che, per il momento, appare grandemente scemato. *Sostituto Procuratore Generale di Reggio Calabria Csm, il sorteggio è necessario di Carmen Giuffrida Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2018 La legge n. 44 del 2002, che modificò il sistema elettorale della componente togata, intendeva perseguire la riduzione del peso delle “correnti” all’interno del Csm. Tuttavia, il nuovo sistema elettorale, prevedendo l’elezione in un collegio unico nazionale, ha di fatto sortito l’effetto opposto. Infatti, proprio su base nazionale diviene praticamente impossibile che un candidato non sostenuto dalle correnti abbia concrete chance di essere eletto. A ciò si aggiunga che, anche laddove un candidato non supportato da alcuna corrente riuscisse a essere eletto, la sua possibilità di incidere sulle decisioni adottate dalle “cordate” sarebbe praticamente nulla. Che il magistrato togato sia legato indissolubilmente alla propria corrente è stato dimostrato anche dalle recenti elezioni del vice presidente del Csm, durante le quali i neo consiglieri hanno votato “per corrente di appartenenza”. Al contrario, il segnale che tanti si aspettavano era proprio quello che i consiglieri agissero senza vincolo di mandato - come previsto dalla legge e dal codice etico e come espressamente auspicato dal presidente della Repubblica - e ciascuno mantenendo fede solo alla propria scienza. La recente proposta di modificare le nomine da elettive a sistema per sorteggio reciderebbe il legame indissolubile tra il consigliere “togato” e la sua corrente di riferimento, restituendo così al Csm la sua originaria funzione costituzionale e alle correnti il loro corretto ambito di operatività, ovverosia l’Anm. Tuttavia, buona parte della magistratura appare restia ad accettare tale proposta. La prima resistenza è opposta ovviamente dalle stesse “correnti” e, inutile dirlo, dai partiti a loro collaterali. Ma resistenze provengono anche dai magistrati che, pur non avendo obiettivi di carri era, non vogliono essere privati del diritto di “eleggere il loro rappresentante”. È proprio quest’ultimo convincimento che bisogna superare: il Csm non è, non può e non deve essere un organo rappresentativo dell’ordine giudiziario, compito che dovrebbe svolgere esclusivamente l’Anm, sede naturale delle correnti. Il Csm è esclusivamente organo di garanzia della autonomia e indipendenza della magistratura ordinaria, ma non ha alcun potere di rappresentanza dei magistrati. Ciò si evince dalla Carta costituzionale, e ciò è stato chiaramente affermato anche dalla Corte costituzionale che, con sentenza n. 44 del1968, si è espressa con chiarezza su ciò che il Consiglio non è: non è organo di autogoverno e non è organo rappresentativo dell’ordine giudiziario. Al Csm compete l’adozione di tutte le decisioni che riguardano la vita professionale dei magistrati (ad esempio, l’accesso, i trasferimenti ad altra sede o altre funzioni, le progressioni in carriera, lo svolgimento di incarichi extragiudiziari, la nomina a incarichi direttivi o semi-direttivi, l’irrogazione di sanzioni disciplinari) al fine esclusivo di evitare che le loro decisioni possano essere “influenzate” dal timore di eventuali ripercussioni negative sulla carriera. L’attribuzione di tali funzioni, lungi dal fare del Csm un organo rappresentativo della magistratura, al contrario evidenzia come non lo sia né debba esserlo. Infatti, appare quanto mai opportuno che i consiglieri, nel decidere delle sorti professionali dei propri colleghi, non abbiano alcun “debito” nei loro confronti. E ciò è a maggior ragione auspicabile in considerazione del fatto che dietro ogni consigliere eletto c’è una corrente e dietro una corrente un certo collateralismo politico. Né si può ritenere che il Csm abbia funzione rappresentativa, funzione propositivo- consultiva e funzione “para-normativa”. A sostegno del sorteggio va, infine, sottolineato che non va in alcun modo messa in dubbio la capacità di qualunque dei soggetti sorteggiati di far parte degnamente del Csm e di essere in grado di svolgere le funzioni assegnategli. Infatti il sorteggio verrebbe effettuato all’interno di una categoria qualificata, quella dei magistrati, i quali, già solo per il fatto di appartenere a tale categoria, si deve supporre abbi ano le caratteristiche e le competenze per prestare servizio anche all’interno del Csm. A meno che non si voglia accettare l’idea che - oltre ai magistrati che temono il sorteggio come strumento di vanifica delle loro prospettive di carriera e ai magistrati che, per quanto “non carrieristi”, preferiscono comunque alzare la cornetta per sollecitare il collega votato in merito a un procedimento che li riguarda - esista anche una fetta di magistrati che non vu ole rinunciare al voto, temendo che il sorteggio consegni al Csm colleghi “non all’altezza”. Beh, a questi andrebbe risposto che è quantomeno strano che un magistrato “non all’altezza” possa decidere della vita di una persona, ma non possa decidere della carriera dei propri colleghi. *Esperta presso il Dipartimento Giustizia e Affari Interni del Consiglio europeo La riforma del processo civile punta a termini più flessibili di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2018 Comincia a prendere forma la riforma del processo civile. Un testo esiste, anche se dovrà essere messo meglio a punto dall’Ufficio legislativo, e ora deve essere individuato lo strumento sul quale puntare. Che potrebbe essere anche un decreto legge, soluzione che avrebbe il vantaggio di una maggiore “blindatura” del testo in una materia assai complessa. Il progetto si ispira al concetto di case management, in base al quale il rito più efficiente è quello che attribuisce al giudice il potere di declinare le regole processuali sulla concreta complessità del caso in discussione. Una “filosofia” che ha ispirato gli interventi introdotti nel Regno Unito prima e poi in Francia e Spagna. Più nel dettaglio, si punterebbe alla eliminazione dell’atto di citazione e alla sua sostituzione con il ricorso; al taglio dei termini di comparizione, adesso di 90 giorni, a fronte dei 30 del rito del lavoro, del procedimento sommario, dell’opposizione allo stato passivo. Dovrebbe essere introdotto un sistema di preclusioni istruttorie già negli atti introduttivi, che potrà essere superato solo se ci sono domande riconvenzionali o, comunque, se emergono necessità difensive dell’attore davanti alle difese del convenuto. Il ruolo del giudice esce potenziato dalla possibilità di valutare, in maniera discrezionale e in relazione alla complessità del caso, l’utilità della concessione dei termini previsti dal Codice di procedura (articolo 183, sesto comma) e l’ampiezza dei termini stessi, oggi ingessati nel divieto di distinzione sulla complessità della controversia. Infine, in agenda una rimodulazione della fase decisoria, assegnando al giudice il potere di valutare, volta per volta, l’utilità del deposito di comparse conclusionali oppure generalizzando un’udienza di discussione, permettendo poi un deposito della sentenza, nei casi più complessi, nei 30 giorni successivi alla discussione, eventualmente prevedendo che il deposito della comparsa conclusionale sia anticipato rispetto all’udienza e che quest’ultima serva per repliche solo orali. Punti che andrebbero incrociati con le conclusioni del Congresso nazionale forense di Catania che ha approvato una serie di mozioni che incide proprio sul processo civile. Gli avvocati così chiedono di rafforzare “le opportunità di istruzione preventiva, indipendentemente dalle esigenze d’urgenza, con forte valorizzazione del ruolo del difensore e delle Istituzioni forensi”; di valorizzare e potenziare il ruolo dei difensori nella fase preparatoria del giudizio indirizzata alla definizione del thema decidendum e del thema probandum. Andrebbe poi data maggiore rilevanza alla contumacia e alla non opposizione del convenuto in maniera tale che il giudice, nelle controverse relative a diritti disponibili, possa decidere la causa con sentenza semplificata. Da generalizzare, ancora,, per gli avvocati, l’applicazione dello schema decisorio previsto dopo trattazione solo orale, con previsione della facoltà del deposito di memoria solo a richiesta di parte. Perquisizione arbitraria: la Cedu condanna l’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 ottobre 2018 Il ricorso è stato proposto da un cittadino che aveva ricevuto la visita della guardia di finanza. Perquisizioni arbitrarie e prive di garanzie legislative per la persona coinvolta, per questo l’Italia ha ricevuto una condanna dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Una perquisizione effettuata in una fase iniziale di un’indagine penale deve comprendere garanzie adeguate e sufficienti per evitare che essa serva a fornire alle autorità d’inchiesta elementi compromettenti su persone che non sono ancora sospettate di aver commesso un reato. Questo è in sintesi ciò che dice la Cedu nei confronti del nostro Paese. Considerato l’articolo 8 della Convenzione, la Corte è arrivata a concludere che il diritto nazionale italiano non offre le sufficienti garanzie contro gli abusi e le arbitrarietà che possano essere realizzati con la perquisizione. Il motivo di ciò va cercato nel fatto che manchi quel controllo effettivo, che dovrebbe essere previsto in uno Stato di Diritto. Il caso concreto riguardava una perquisizione effettuata dalla Guardia di Finanza presso la casa di un cittadino italiano. Nei motivi del ricorso il cittadino ricorrente contestava che ci fosse stato un attacco ingiustificato al diritto di inviolabilità della sua casa e della vita privata, in quanto per verificare la sua situazione fiscale si sarebbe anche potuta evitare la perquisizione e procedere invece al anche con altri mezzi. Il tema interessante è che nella legislazione nazionale, in mancanza di sequestro, non è previsto un mezzo di impugnazione per far valere la tutela del diritto di inviolabilità della casa. Infatti, davanti alla Corte di Cassazione, veniva riconosciuta solo la possibilità di elevare sanzioni disciplinari nei confronti degli agenti di polizia - che avevano condotto le operazioni - senza la possibilità di avanzare un ricorso ammissibile mancando la violazione in tema di libertà personale. È l’art. 8 della Convenzione quello che riconosce che “ogni individuo ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, della sua casa e della sua corrispondenza”. Aggiunge al paragrafo 2 che “nell’esercizio di questo diritto vi sarà l’interferenza di un’autorità pubblica solo nella misura in cui tale interferenza è prevista dalla legge e costituisce una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, il benessere economico del paese, la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della moralità o la protezione dei di controllo ritti e delle libertà di altri”. Proprio a partire dalla lettera di tali garanzie, il richiedente sostiene di aver subito un’ingiustificata ingerenza nel suo diritto al rispetto della propria casa, in quanto la Guardia di Finanza avrebbe potuto verificare la situazione fiscale consultando gli archivi telematici, anche riferendosi alla Germania dove viveva stabilmente pur essendo residente in Italia e al fatto che egli avesse messo a disposizione una persona di fiducia per agevolare la ricerca telematica e che il decreto di perquisizione fosse generico, aggravavano la contestazione. Nessun dubbio per la Corte che tali considerazioni fossero meritevoli di accoglimento, considerato che non vi fosse incertezza alcuna sul fatto che la ricerca in questione costituisse “un’interferenza delle autorità pubbliche” nel diritto alla riservatezza e che tale interferenza violasse la Convenzione, non soddisfando i requisiti dell’art. 8 paragrafo 2, sopra richiamato. La Corte ha stabilito che, con riguardo agli articoli 247 e seguenti del codice di procedura penale, mancassero le adeguate e sufficienti garanzie contro l’abuso e l’arbitrarietà, cioè quelle che includono anche il controllo effettivo delle misure intrusive. Interessante è la considerazione finale: “L’esistenza di una richiesta di un mandato sottoposta a controllo giurisdizionale, non deve necessariamente essere considerata come una garanzia sufficiente contro l’abuso”. Del resto, nel caso di specie la ricerca non ha portato alla raccolta delle prove e il procedimento è stato archiviato dal giudice per le indagini preliminari, che a suo tempo non aveva esaminato la legalità o necessità del mandato di perquisizione richiesto. Bancarotta semplice: pene accessorie legate come durata alla pena principale di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 9 ottobre 2018 n. 45307. Nel reato di bancarotta semplice la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa (prevista per il delitto di bancarotta fraudolenta) non ha la durata di dieci anni, ma si deve attenere alla durata della pena principale. Questo il significativo principio enunciato dalla Cassazione con la sentenza n. 45307/18. La sentenza. La Corte ha così accolto uno dei quattro motivi di censura sollevati dal ricorrente. Rigettato, invece, il ricorso verso la qualificazione effettuata nel merito del comportamento come bancarotta semplice documentale. Si tratta, infatti, si legge nella sentenza, di pericolo presunto e di pura condotta informazione sulle vicende processuali patrimoniali e contabili dell’impresa fallita, che sussiste anche se non si realizza alcun danno o solo la messa in pericolo degli interessi dei creditori. Nella fattispecie l’anomala contabilizzazione dei crediti vantati dalla società nei confronti di altra azienda e dei relativi pagamenti sostenuti mediante delegazione in favore di terzi subappaltatori non rappresentava una mera irregolarità formale nelle registrazioni comunque inidonea a compromettere la completezza delle scritture in quanto la ricostruzione dell’artificio contabile era stata possibile solo all’esito dell’esame postumo delle scritture, seguito dal curatore con conseguente offensività della condotta. I precedenti. A tal proposito - per rafforzare il proprio convincimento - i Supremi giudici affermano come sia consolidato orientamento (ex multis sentenza n. 48523/11) che per la bancarotta semplice prevista ex articolo 217 del regio decreto n. 267/42 il coefficiente di attribuibilità psichica della condotta deve essere sostenuto indifferentemente dal dolo o dalla colpa, che sono ravvisabili quando l’agente ometta con coscienza e volontà o per semplice negligenza di tenere le scritture contabili obbligatorie per legge o le tenga in modo inidoneo a rappresentare fedelmente il contenuto. Trenitalia, niente peculato al bigliettaio che ruba solo appropriazione indebita di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2018 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 9 ottobre 2018 n. 45465. Per la Corte di cassazione chi lavora allo sportello della biglietteria di Trenitalia non è incaricato di pubblico servizio e nel caso s’intaschi i soldi ricevuti per l’acquisto dei titoli di viaggio non può commettere il reato di peculato per l’assenza della qualifica soggettiva pubblicistica, ma solo quello meno grave di appropriazione indebita perseguibile a querela di parte e sanzionato molto meno pesantemente. Infatti, la sentenza n. 45465 del 9 ottobre della sesta sezione penale, pur ribadendo l’ininfluenza della privatizzazione del 1992 sulla funzione pubblica affidata a Trenitalia, escludono che emettere titoli di viaggio e incassarne il corrispettivo sia esercizio di funzione pubblica. Ma si tratterebbe di quelle mansioni d’ordine meramente esecutive e prive di discrezionalità e che perciò esulano dal perimetro pubblicistico. Nel dare ragione alla ricorrente la Cassazione precisa che il motivo del ricorso fondato de plano sulla natura privatistica di Trenitalia Spa e del sottostante rapporto di lavoro non coglie nel segno. Infatti, è pacifico che la privatizzazione di società che operano in mercati concorrenziali ma alle quali è affidato lo svolgimento di servizi di rilevanza pubblica soggiacciono alla disciplina pubblicistica seppure concludono rapporti di lavoro regolati dal codice civile. La sentenza ricorda che la definizione del codice penale (articolo 358) di “incaricato di pubblico servizio” (qualità che aggrava i reati commessi) ricomprende chiunque a qualunque titolo presta un servizio pubblico, e a prescindere da qualsiasi rapporto d’impiego con un determinato ente pubblico. Il Legislatore del 1990 ha privilegiato il carattere oggettivo- funzionale eliminando dall’articolo ogni riferimento al rapporto d’impiego con lo Stato o altro ente pubblico. Dice la Cassazione che - secondo il codice penale - il concetto di servizio pubblico ha la stessa estensione della funzione pubblica affidata all’ente privatizzato seppur privo dei poteri deliberativi, autoritativi e certificativi di quest’ultima. Ma tale estensione del perimetro pubblico dei compiti affidati non ricomprende coloro che esplicano semplici mansioni d’ordine, cioè meramente esecutive e prive di qualsiasi discrezionalità e autonomia decisionale. E secondo la Cassazione l’addetto alla biglietteria ferroviaria è figura fuori dal perimetro dell’articolo 358 del Codice penale perché il suo lavoro prevede il compimento di operazioni quasi interamente meccanizzate ‘al pari’ di quelle self service svolte dagli utenti alle macchinette erogatrici dei biglietti. Nessun rilievo pubblico quindi alla mansione di chi conclude di fatto un contratto per Trenitalia e ne incassa materialmente il corrispettivo. Firenze: Di Puccio (Pd) “a Sollicciano serve un luogo per chi è in semilibertà” fionline.it, 10 ottobre 2018 “In quest’ultimo scorcio di mandato impegnerò il Consiglio comunale con atti concreti per tentare di risolvere i tanti problemi della struttura. Serve al più presto un luogo per chi è in semilibertà”. Queste le dichiarazioni del consigliere Pd Stefano Di Puccio. “Leggo su La Repubblica di oggi dei problemi, che non sono certo nuovi, delle carceri toscane, quindi anche di Sollicciano. Il garante dei detenuti Franco Corleone interviene appunto rifacendo l’elenco delle criticità vecchie e nuove. Disservizi, mancanza di personale, mancata riforma dell’ordinamento giudiziario e a Firenze in particolare il problema delle sezioni psichiatriche. A Sollicciano è predisposta la sezione psichiatrica ma non è stata collaudata, gli otto posti di assistenza psichiatrica vuoti. Tutto questo degenera poi nei fatti di violenza dei detenuti verso gli agenti ma anche verso se stessi o addirittura dei figli come recentemente accaduto. Per richiamare l’attenzione su tali problemi il garante ha indetto uno sciopero della fame. La mia solidarietà a Corleone che sosterrò con l’azione politica con gli strumenti a disposizione, con i lavori della commissione competente per portare poi la discussione in Consiglio Comunale e farne scaturire un atto concreto. A Firenze non si è ancora trovato un luogo per ospitare i detenuti in semilibertà, quei detenuti che alla fine del lavoro devono rientrare in istituto. Ne parlavo già cinque anni fa, durante la mia precedente consiliatura. Attualmente i semiliberi sono al Gozzini, ma in quella sede il Garante ci vorrebbe la “casa delle donne”. L’idea sarebbe quindi quella di utilizzare un edificio vuoto, San Salvi era stata la prima ipotesi, per ospitare i 30-40 detenuti in semilibertà. L’impegno verso le carceri non si è concluso per me alla fine del primo mandato, sono sempre presidente della “inesistente Polisportiva di Sollicciano”, in attesa di riprendere l’attività una volta finito il campo da gioco in costruzione (da molti anni), all’interno di Sollicciano, ma si sa il tempo lì non manca. Collaboro sempre con Cruccolini garante Comunale anche come membro della Lidu, Lega Italiana per i Diritti Umani. Adesso, rientrato finalmente in consiglio comunale, intendo riprendere il mio lavoro istituzionale a favore del carcere di Sollicciano, detenuti e Polizia penitenziaria, entrambi vittime dei problemi del carcere. In clima di campagna elettorale rafforzo il mio impegno in tal senso senza timore di essere additato come cercatore di voti: si sa che il carcere non porta voti, ma è una battaglia di umanità che sento di dover combattere”. Milano: Rogoredo, un muro alto 4 metri contro lo spaccio di eroina di Gianni Santucci Corriere della Sera, 10 ottobre 2018 Alla stazione accanto al “boschetto della droga”, una barriera anti pusher voluta dal sindaco Sala e il ministro dell’Interno Salvini. Ma loro si sono già trasferiti altrove. Nessuno protesterà per queste mastodontiche lastre, alte quattro metri, erette su fondamenta di cemento, che ieri pomeriggio gli operai fissavano con i tondini d’acciaio: a vederle da lontano, quelle piastre grigie allineate, che formano ormai una barriera lunga qualche centinaio di metri (ancora da completare), sono identiche al muro costruito da Israele in Cisgiordania, o a quello che si snoda tra Stati Uniti e Messico per ostacolare migranti e narcos. E invece al confine di Milano, in fondo alla via George Orwell, sotto i piloni della tangenziale, il muraglione serve per impedire lo spaccio di eroina. Da una parte, i binari dell’alta velocità. Dall’altra, un pratone lercio e polveroso. I pusher marocchini stavano nel mezzo, lungo la ferrovia, appena fuori dalla stazione metropolitana di Rogoredo. Il muro sarà impedimento definitivo alla vendita: per questo non ci saranno proteste, e anche perché nessuno la vedrà mai quella barriera, così distante dalla Milano contemporanea dei grattacieli, in quella landa sterrata, attraversata fino a qualche mese fa da un migliaio di ragazzi che approdavano qui da mezzo Nord Italia a comprare la nera, l’eroina low cost a 5 euro. Cinque di quei ragazzi, solo quest’anno, su quella terra sono morti di overdose. Vittime di un disastro sociale e sanitario dimenticato. È parziale l’efficacia di quel muro. Perché la “piazza” di Rogoredo era divisa in due succursali: una in via Orwell, che ormai è blindata dalla barriera, e l’altra al di là dei binari, su una collinetta alberata, dove i ragazzi comprano e subito si bucano. È il “boschetto” di Rogoredo, e oggi si sono spostati tutti qui i tossicodipendenti che scendono dai treni o escono dal metrò e camminano lungo la via Sant’Arialdo: una piccola strada senza marciapiedi, solo per le macchine, ma dove c’è sempre qualcuno che va o torna a piedi. I carabinieri della compagnia “Monforte”, qualche settimana fa, hanno bloccato un grossista albanese prima che recapitasse un paio di chili di eroina. I poliziotti del commissariato “Mecenate”, per anni, hanno arrestato gli spacciatori dopo faticose e pericolose rincorse sui binari. Ieri il vice sindaco di Milano, Anna Scavuzzo, rifletteva sul fatto che ormai serve una nuova “lotta alla dipendenza”. Ma in questa stagione di politica costruita sulla sicurezza, il principale approccio istituzionale è sempre stato: “Bonificare Rogoredo”. Ed è certamente corretto: nella zona di via Orwell le Ferrovie stanno completando il muro; dall’altra parte si studiano una recinzione, un disboscamento, una strada per permettere un passaggio agevole e frequente delle forze dell’ordine nella boscaglia. Ma gli “anziani” tossicodipendenti poi dicono: “Noi dobbiamo farci, mattina e sera; e se non sarà qui, dove nessuno praticamente s’accorge di noi, magari si ricomincerà a spacciare dentro la città, o in stazione, come negli anni Ottanta. Volete questo?”. La considerazione ha un senso; o quanto meno pone il tema in un’ottica più ampia: chiudere una piazza di spaccio così, dove si vende almeno un chilo di nera al giorno, è in qualche modo un dovere. Ma non risolverà l’emergenza-eroina, quella che si sta portando via ragazzini e ragazzine minorenni, che non hanno ancora vent’anni e già vivono a Rogoredo, tra elemosina, ricerca di monetine nelle macchinette, episodica prostituzione. Ragazze magrissime e sempre sporche, coi segni dei buchi pure sul collo, imprigionate in stazione dalla dipendenza, nello “zoo di Berlino” alla periferia di Milano. Airola (Bn): i minori detenuti diventano pizzaioli professionisti ottopagine.it, 10 ottobre 2018 Un risultato straordinario: giovani carcerati si diplomano pizzaioli professionisti per un futuro di speranza e lavoro. Alcuni giovani dell’Istituto Penale per minorenni di Airola in provincia di Benevento si sono diplomati come pizzaioli professionisti all’interno del carcere: un progetto sostenuto dalla Fondazione Angelo Affinita e culminato con la consegna dei diplomi e cena a base di pizza all’interno dell’Istituto. Donare un futuro e una piena riabilitazione umana: questa è la sfida più difficile per le carceri italiane. Ma è la sfida che la Fondazione Angelo Affinita ha deciso di accettare, insieme a te. Queste le parole introduttive del direttore dell’Istituto penale minorile di Airola, Antonio di Lauro: “Ringrazio di cuore la Fondazione Angelo Affinita per aver pensato e strutturato un progetto così serio e impegnativo. Un grazie va a tutti, dai ragazzi ai tutor per tutto l’impegno profuso. Per fare davvero la differenza per questi ragazzi c’è bisogno del sostegno dei privati e delle imprese, perché non sempre lo Stato riesce ad arrivare e arrivare in tempo per le esigenze di questi giovani. Per fare davvero la differenza c’è bisogno dell’intervento di tutta la comunità e di tutti i cittadini”. Hanno ottenuto il diploma grazie al Corso di formazione per giovani pizzaioli realizzato col sostegno economico della Fondazione Angelo Affinita. Il Corso ha visto il coinvolgimento di importanti professionisti del settore, che hanno coordinato e supervisionato il lavoro dei giovani: Marco Amoriello - pizzaiolo e 1° classificato al Campionato Mondiale della pizza per ben tre volte, Domenico Comune, panificatore professionista e tutor esperto nella gestione di gruppi di lavoro e Patrizia Flammia, orientatrice al lavoro. Il Corso è stata un’occasione unica non solo per insegnare un lavoro ai giovani carcerati, ma anche - e soprattutto - una preziosissima occasione di crescita umana, di lavoro su di sé per “essere” ancora prima di “fare”. I ragazzi che hanno superato il test sono stati poi ammessi alla successiva fase di stage, svoltasi presso la Pizzeria “Il Guappo” di Moiano. È questo il modo giusto per riprendersi il proprio futuro. Il modo in cui si può davvero cambiare e rendere questo paese un paese che crede finalmente nell’impegno e nella riprese dei tanti che erano stati dati per dispersi. Le parole di uno dei ragazzi: “È stata la prima volta che mi sono veramente impegnato in qualcosa. La pizza napoletana fa parte della nostra tradizione e della nostra vita. Abbiamo davvero visto una prospettiva di vita e di lavoro. Voglio chiudere con il passato, anche per dare un futuro a mio figlio”. Palermo: visite al carcere dell’Ucciardone, i detenuti fanno le guide La Repubblica, 10 ottobre 2018 Nell’immaginario collettivo è il carcere dei boss, il “Grand Hotel Ucciardone” dove i padrini in vestaglia di seta venivano serviti e riveriti. Ma in realtà il carcere più antico di Palermo, progettato dai Borboni come struttura “panottica”, a raggiera, e completata nel 1834 dopo alcune modifiche al progetto originario che ne ha cambiato volto. Dietro le sue sbarre c’è un mondo fatto di speranza, creatività e arte. Questo penitenziario, che è stato luogo dell’epopea mafiosa, dal caffè avvelenato di Gaspare Pisciotta alle aragoste e champagne con cui i boss brindavano ai delitti eccellenti, oggi è un istituto che brulica di attività imprenditoriali, artistiche, sociali. Per “Le vie dei tesori” è stato allestito un tour straordinario attraverso le vecchie celle, i cortili, gli orti. Il carcere è costituito da otto bracci e suddiviso in nove sezioni. Pare che abbia preso il nome dal siciliano u ciarduni, perché nel terreno dove fu edificato si coltivavano i cardi. Al suo interno Lollo Franco organizza e firma una visita guidata teatralizzata con la sua compagnia nata all’interno del carcere Ucciardone e formata da 25 detenuti (maschi): la visita racconterà (per bocca dei detenuti-attori e di Lollo Franco stesso nelle vesti di narratore) la vera storia dell’Ucciardone, cominciando dalle origini, dal 1862 quando i Borboni costruirono il nuovo carcere in cui vennero trasferiti i detenuti della Vicaria. Che invece si trovava alla fine del Cassaro, più o meno a piazza Marina (ex intendenza di Finanza). Con un gran finale: i detenuti che cantano in coro “Meglio un giorno da Borsellino, che 100 da Ciancimino”. Reggio Calabria: incontro dedicato alle problematiche della sanità penitenziaria di Ilaria Quattrone strettoweb.com, 10 ottobre 2018 Un incontro che partirà dalla morte di Stefano Cucchi per discutere delle problematiche della sanità penitenziaria. A conclusione del corso, la Direzione del Master in Criminologia e Sistema Penitenziario organizza un incontro pubblico che, a partire dalla tragica morte di Stefano Cucchi nel reparto protetto dell’Ospedale Pertini di Roma, è dedicato alla complesse problematiche della Sanità penitenziaria. Il caso Cucchi, però, non è il solo. Altre vicende, alcune delle quali molto vicine a noi, pretendono la nostra attenzione, come quella di Antonino Saladino, morto ad appena 31 anni nel carcere di Arghillà la sera del 18 marzo 2018. L’incontro pubblico avrà luogo Venerdì 12 ottobre alle ore 16:00 presso la Libreria Culture in via Zaleuco 8, Reggio Calabria. Intervengono Franco Corleone, già Sottosegretario alla Giustizia e Garante dei detenuti della Toscana; Luciano Lucania, Coordinatore Asp Rc e referente regionale Calabria dipartimento salute; Agostino Siviglia, Garante dei detenuti di Reggio Calabria e Vicedirettore del Master. Introduce e modera: Arturo Capone, Associato di Procedura Penale e Direttore del Master. L’incontro è aperto a tutti ed è previsto un spazio per il dibattito. Sono riconosciuti 2 Crediti Formativi per gli avvocati. Ferrara: autobus, abbonamenti agevolati anche per i detenuti estense.com, 10 ottobre 2018 Nuovi beneficiari per i contributi 2018, come le famiglie degli utenti dell’Emporio Solidale “Il Mantello”. Sono riservate alle persone con disabilità e ai cittadini con reddito non elevato ed età superiore ai 65 anni, oltre che a una serie di altre categorie di beneficiari individuate dalla Regione, le agevolazioni tariffarie previste anche per il 2018 per gli abbonamenti annuali al trasporto pubblico approvate oggi (martedì 9 ottobre) dalla giunta. Dal 2018 il Comune di Ferrara ha inoltre previsto l’introduzione di due ulteriori categorie di beneficiari: le famiglie degli utenti dell’Emporio Solidale “Il Mantello” e i detenuti coinvolti in attività esterne al carcere. A questi utenti verrà rimborsata la differenza fra l’abbonamento a prezzo pieno e quello agevolato, equiparandoli, di fatto, alle categorie previste dalla Regione. Per queste categorie si provvederà a raccogliere le richieste con una modulistica specifica che attesti il possesso dei requisiti, attraverso le organizzazioni di riferimento dell’emporio e del carcere. Rovigo: Centro Francescano di Ascolto, trent’anni controcorrente rovigooggi.it, 10 ottobre 2018 Due ospiti speciali per l’occasione: Luigi Ciotti e Gherardo Colombo saranno in città per celebrare i 30 anni dell’associazione di volontariato. Un appuntamento per celebrare un impegno trentennale verso chi ha bisogno, gli ultimi e coloro che stanno soffrendo. Il Salone del Grano della Camera di Commercio di Rovigo ospiterà giovedì 18 ottobre alle ore 17,30 il convegno celebrativo del trentennale dell’associazione di volontariato Centro Francescano di Ascolto dal titolo “Trent’anni controcorrente” e per l’occasione, accolti dal fondatore Livio Ferrari, saranno presenti due compagni di viaggio significativi: don Luigi Ciotti e Gherardo Colombo. In sintesi i numeri di questi trent’anni dell’associazione: 11.710 le persone incontrate in sede dal 1990 al 2017,senza contare tutti coloro incontrati nei luoghi della sofferenza: carceri, ospedale psichiatrico, reparti malattie infettive, comunità, scuole, strada, etc.; 200 sono stati i volontari che si sono avvicendati; servizi: ascolto, carcere, laboratorio di studi, senza dimora; sportelli: luna (vittime della tratta), pinocchio (minori autori di reato), accanto (studenti scuole superiori), ospita ed è di supporto per lo sportello di Avvocato di strada e del Coordinamento dei Volontari della Casa Circondariale di Rovigo. Ricerche effettuate sui minori, senza dimora, stranieri, prostituzione, transessuali; un centinaio di convegni organizzati, cosi di formazione, promozione di tavoli di confronto, etc. Un dispiegarsi di disponibilità incessante, mai venuta meno e sempre in essere. “Trent’anni a tenere aperta una porta” afferma Livio Ferrari - per accogliere chiunque bussa, e andare anche nei tanti luoghi dei nostri territori dove il sudore dell’esistenza lascia ferite pesanti, con alcune professionalità acquisite negli anni ma, spesso, anche inventando lì per lì, cercando in ogni caso di dare delle risposte, magari piccole, forse non bastevoli, ma non lasciando mai nulla di intentato nei confronti di vite umane che hanno già avuto troppi fallimenti e delusioni che uno in più potrebbe essere fatale!. Trent’anni è un tempo importante, per noi una fetta della vita trascorsa su strade di prossimità, nell’incontro con il dolore e la fatica delle persone?. Taranto: sottoscritto protocollo sul rapporto figli-genitori in carcere di Vittorio Ricapito Gazzetta del Mezzogiorno, 10 ottobre 2018 Il carcere “Carmelo Magli” di Taranto è il primo d’Italia a dotarsi di un protocollo per gestire il rapporto tra figli e genitori detenuti. Un’idea tutta al femminile, nata dopo un anno di sperimentazione dello “sportello famiglia” e sottoscritta ieri mattina dalla direttrice del carcere Stefania Baldassari, dal presidente del tribunale per i minori Bina Santella, dal procuratore della Repubblica per i minorenni Pina Montanaro, dall’assessore alle Politiche sociali del Comune di Taranto Simona Scarpati, dal presidente del tribunale di Sorveglianza Lydia De Iure e dal direttore dell’ufficio di esecuzione penale esterna Angela Intini. “Il protocollo nasce dall’ambizione di condividere informazioni e pratiche di lavoro tra casa circondariale e uffici giudiziari per migliorare la gestione dei rapporti genitori-figli specie nei casi di disagio familiare e sofferenza che spesso accompagnano bimbi che hanno il padre, la madre o entrambi i genitori in stato di detenzione” spiega la presidente Santella. “Gli obiettivi sono tre: implementare la comunicazione tra carcere e tribunale dei minori, fornire la massima tutela al minore, anche attraverso un presidio psicologico al genitore e al figlio e infine preparare il minore e il genitore alla ripresa dei rapporti con l’avvicinarsi della fine della detenzione”. “Nel protocollo - conclude la presidente Santella - non ci sono procedure dettagliate perché si tratta di una vera e propria sperimentazione che per primi avviamo in Italia. Inoltre ogni caso ha la sua storia e si deciderà il miglior comportamento da adottare di volta in volta collaborando”. Il protocollo siglato ieri, va a integrare quanto già previsto dall’ordinamento penitenziario circa le misure per coltivare la genitorialità. “Lavorare in sinergia ci consentirà di approfondire i casi evitando così le strumentalizzazioni che purtroppo spesso vengono operate proprio a danno dei figli” precisa la presidente del tribunale di Sorveglianza De Iure. Una sinergia che coinvolge anche l’amministrazione comunale e l’ufficio di esecuzione penale esterna insieme a diverse figure come psicologi e assistenti sociali. “Il servizio territoriale del Comune aiuterà a individuare le situazioni di disagio familiare, predisporre valutazioni psico-fisiche dei minori coinvolti e studiare caso per caso come far riavvicinare il minore al detenuto” spiega l’assessore Simona Scarpati. A fronte di circa 600 detenuti, attualmente il carcere tarantino ospita solo 28 donne. I detenuti comuni hanno la possibilità di vedere i figli una volta a settimana per una o due ore. C’è anche un’area verde dove genitori e figli possono trascorrere dei momenti all’aperto. Lucera (Fg): carcere; un pomeriggio in famiglia tra clown, bambini e supereroi pugliain.net, 10 ottobre 2018 Giochi, balli ed emozioni per i bambini dei ristretti, con i clown dottori. Il messaggio commovente letto dal portavoce Mario: “Accogliamo i nostri figli con il loro sorriso e con il rimpianto di aver commesso degli errori”. “Ancora una volta ringraziamo l’associazione Il Cuore Foggia, rappresentata qui oggi dai dottori clown, per aver accolto il nostro invito e permesso di regalare ai nostri piccoli un momento di gioia. È bello poter avere la possibilità di vederli sorridere. I volontari lo fanno con attenzione, senza esagerare con le dimostrazioni di gioia, per non urtare la nostra sensibilità, visto che accogliamo i nostri figli con il loro sorriso e con il rimpianto di aver commesso degli errori. Il loro sorriso vale molto più di 1000 parole, anche se parlare con loro non è mai difficile, è semplicemente bello”. Nella messaggio letto, con mani tremanti, dal loro portavoce Mario, i detenuti della Casa Circondariale di Lucera hanno voluto ringraziare i volontari che ieri pomeriggio hanno animato per due ore, con giochi e balli, un incontro con le famiglie fortemente desiderato. Un pomeriggio in famiglia - I clown dottori hanno accolto bambini e mogli nella sala colloqui con grandi applausi e abbracci, per poi accompagnarli nel cortile del carcere, dove i detenuti hanno ricevuto le proprie famiglie con una rosa e lacrime di commozione. Jole Figurella, presidente de Il Cuore Foggia, ha ringraziato i ristretti per la lettera e la donazione ricevute nel precedente incontro di giugno e stretto la mano a tutti i presenti, inaugurando un lungo pomeriggio di giochi, durante il quale tutti si sono mascherati da supereroi, per accogliere il regalo dell’associazione: l’arrivo trionfante di batman, spiderman e superman. Padri e figli, con il supporto delle mamme, si sono quindi sfidati a canestro, ruba bandiera, uno, due, tre stella e hanno ballato tutti insieme. Emozioni da donare - Commovente il momento delle “emozioni da donare”: i bambini, dopo aver scelto una paletta raffigurante una emoticon, hanno regalato abbracci, pizzicotti e carezze ai papà, secondo l’indicazione presente sul retro del disegno. Prima del rinfresco e del dono di palloni da parte dei detenuti ai propri figli, i ristretti hanno voluto ringraziare pubblicamente la Casa Circondariale per l’opportunità concessa. Targhe a volontari e al personale del carcere - “Nel ringraziare tutti, vogliamo dirvi che iniziative come questa ci fanno sentire ancora parte della società e parte importante della nostra famiglia e per questo, riprendendo una famosa cadenza, vi diciamo: grazie, grazie, grazie. I nostri ringraziamenti vanno alla Direzione, nella persona del direttore Dott. Giuseppe Altomare, e alla polizia penitenziaria tutta, rappresentata dal Comandante Daniela Occhionero. Ringraziamo il funzionario giuridico-pedagogico, la dottoressa Cinzia Conte, sempre sensibile e pronta a iniziative di apertura del mondo del carcere verso l’esterno. Infine, vogliamo porgere un particolare ringraziamento al personale di polizia penitenziaria preposto ai colloqui, che tutti giorni con professionalità, comprensione e grande senso di umanità, accoglie i nostri familiari, in particolare i nostri bimbi, con un sorriso e spesso con una carezza. Per ultimo, abbiamo voluto ricordare questo giorno con una targa ricordo ai dottori clown e un’altra alla Direzione, in segno tangibile di riconoscimento. A tutti voi va il nostro plauso”. La donazione - Dopo la consegna delle targhe, l’Ufficio ragioneria della Casa Circondariale ha consegnato a Jole Figurella la donazione che tutti i detenuti dell’Istituto hanno voluto fare all’associazione Il Cuore: 375 euro. Grandi le emozioni per i volontari, che hanno salutato con un applauso la generosità dei ristretti. “È stato un pomeriggio speciale - il commento rilasciato al CSV Foggia, presente all’iniziativa - ed è stato bello vedere come i bambini, anche quelli più grandi, riconoscendoci, si sono subito sciolti e hanno partecipato alle attività con grande entusiasmo. I padri, allo stesso modo, ci hanno dato fiducia e hanno strutturato insieme a noi il pomeriggio, creando un clima di complicità. Come sempre, è stato difficile il distacco, ma questa volta ci hanno dato una grande mano i nostri supereroi”. La nuova donazione sarà versata in un fondo cassa, con l’obiettivo di attivare progetti per i bambini meno fortunati. Massa Carrara: carcere, la porta della musica si apre con l’Ucebi di Redazione riforma.it, 10 ottobre 2018 Formazione musicale per i detenuti della Casa di reclusione. Il 25 settembre è stato ufficialmente inaugurato il progetto “La porta della musica”, un’iniziativa finanziata con l’8 per mille dell’Ucebi e rivolta a facilitare la formazione musicale dei detenuti ospitati nella Casa di Reclusione di Massa. Promotore del progetto è stata la chiesa evangelica “Acqua viva” di Massa con l’incoraggiamento ed il supporto del pastore Carlo Santarini. All’inaugurazione hanno partecipato oltre una ventina di detenuti, il direttore del carcere, dottor Paolo Basco, il comandante della Polizia penitenziaria, commissario capo Amalia Cucca, l’educatore Gino Paolini, oltre ad altro personale educativo e di vigilanza, il dottor Niccolò Ciuffi, maestro di coro in rappresentanza del Conservatorio Musicale “Niccolò Paganini” della Spezia, il pastore Massimo Torracca in rappresentanza delle chiese evangeliche di Sarzana e di Massa oltre ai diaconi della chiesa “Acqua Viva” di Massa che operano all’interno della Casa di reclusione. Il dottor Basco, appassionato cultore di musica, ha coinvolto i presenti sugli aspetti educativi e formativi della musica, ma anche alla responsabilità che ciascuno di loro, liberamente, si è assunto su una partecipazione costante ed attiva. L’utilizzo dei fondi 8xmille significa consapevolezza che sono denari che noi cittadini destiniamo a finalità sociali, culturali e umanitarie a cui si affianca il lavoro del volontariato, che nel caso delle chiese evangeliche coinvolte è prestato da persone che con proprie risorse personali impegnano tempo e denaro per essere presenti nel carcere. Il maestro Ciuffi non solo ha sottolineato come il corista acquisisca una maggiore conoscenza del proprio corpo attraverso la respirazione, ma anche un’interrelazione tra i coristi che supera la mera esecuzione di un brano: il coro è un corpo che si muove all’unisono e rafforza la condivisione tra le singole identità. Il pastore Torracca, che ha portato il saluto del pastore Santarini assente per inderogabili impegni, ha ringraziato per la consulenza tecnica sugli strumenti, offerta dal dottor Basco, tutto il personale che opera nel carcere per la costante disponibilità ed attenzione ai bisogni dei carcerati, ed il Conservatorio “G. Puccini” della Spezia per la stipula della Convenzione con cui è stata resa disponibile un’aliquota di docenti per consentire l’alfabetizzazione musicale, la formazione del coro e l’insegnamento all’uso degli strumenti attualmente disponibili (tastiera e chitarra). Un ringraziamento particolare è stato rivolto al prof. Paolo Baruffetti che ha profuso un forte impegno per la definizione del protocollo di intesa che regola la Convenzione. Il progetto si articolerà in tre mesi terminando con una valutazione delle attività nel mese di dicembre, periodo nel quale i reclusi coinvolti nell’iniziativa realizzeranno un momento musicale di chiusura corso. Con il finanziamento proveniente dall’8xmille Battista sono stati acquistati strumenti e acquisita docenza per un importo complessivo di € 5.000, ulteriormente integrato dalla chiesa evangelica “Acqua Viva”. La speranza è che il progetto abbia un buon risultato di partecipazione in modo da avere i presupposti necessari alla presentazione, per l’anno 2019, di analoghe attività aumentando le ore di docenza ed integrando la parte strumentale. Cresce “The Trust Project” per la fiducia nell’informazione di Anna Masera La Repubblica, 10 ottobre 2018 In un’azione concertata contro la disinformazione online, venti testate giornalistiche si sono aggiunte agli sforzi dei fondatori del Trust Project (www.thetrustproject.org) per aumentare la trasparenza e la fiducia nei mezzi di informazione, tra cui si contano le quattro più diffuse testate dei quotidiani italiani: dopo La Stampa e La Repubblica del gruppo GEDI (La Stampa fu la prima ad aderire al progetto fin dal suo concepimento), si sono uniti di recente anche Il Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore. “I nostri indicatori di fiducia raggiungono mediamente 217 milioni di persone al mese” dichiara Sally Lehrman, la giornalista americana che ha fondato il Trust Project presso il Centro Markkula per l’Etica Applicata dell’Università di Santa Clara in California, Usa, con il sostegno finanziario della Craig Newmark Philantropies, di Google, della Fondazione John S. e James L. Knight, del Democracy Fund e della Fondazione Markkula. Il risultato di tale crescita è che oggi più di 120 siti d’informazione in tutto il mondo utilizzano gli indicatori di fiducia messi a punto dal progetto, il primo standard di trasparenza per l’informazione che aiuta le persone a riconoscere serietà e competenza, che sono alla base del giornalismo affidabile. Altri siti di informazione online stanno aderendo. Come per le etichette dei prodotti alimentari, i “Trust Indicators” (indicatori di fiducia, appunto) chiariscono chi e che cosa ci sia dietro una notizia, in modo che la gente possa valutare facilmente se la fonte è credibile. E a quanto pare, stando a due indagini commissionate ad hoc, questi indicatori di fiducia soddisfano le aspettative degli utenti. Secondo Reach Plc (UK) la fiducia in The Mirror, la sua testata principale, è salita di otto punti percentuali dopo l’adozione dei Trust Indicator sul proprio sito Web. Mentre un esperimento condotto al Centro UT-Austin per l’Impegno dei Mezzi di Informazione ha riscontrato la miglior reputazione di una testata in presenza degli indicatori di fiducia. In entrambi gli studi, anche la fiducia nei singoli giornalisti è aumentata. “I lettori su Internet oggi ottengono informazione da moltissime fonti, spesso senza sapere nulla del fornitore di tali notizie. I media devono fare in modo che i lettori capiscano facilmente il loro valore e la loro credibilità” ha dichiarato Ann Gripper, direttrice esecutiva di The Mirror. “La nostra ricerca dimostra che ai lettori interessa sapere quali persone e quale testata forniscono le notizie. Se queste informazioni ci sono, il loro grado di fiducia aumenta”. A dar maggiore impulso al Trust Project ci sono i nuovi utilizzi degli indicatori di fiducia da parte dei partner del settore tecnologico: Google, Bing, Facebook, Nuzzel, PEN America e NewsGuard li utilizzano per portare in superficie, per presentare e per meglio etichettare il giornalismo sulle loro piattaforme. Quando una testata adotta gli indicatori di fiducia sul proprio sito Internet, sono visibili agli utenti sulle pagine Web dei media partner del Trust Project, integrati negli articoli e nel codice del sito e leggibili dalle macchine - fornendo così il primo linguaggio tecnico standardizzato relativo alle informazioni contestuali sull’impegno dei siti d’informazione in termini di trasparenza. Per esempio, l’indicatore “tipo di opera” specifica se un articolo è d’informazione standard, o se si tratta di un’opinione, di un approfondimento o di un articolo che spiega una notizia. La Stampa sta ancora implementandoli in fase sperimentale, anche perché serve tempo per diffonderne l’utilizzo da parte dei giornalisti della redazione. Ma - per fare un esempio - la rubrica Public Editor li adotta. Tra gli indicatori, la politica di correzione degli errori, la trasparenza sul trattamento delle fonti e l’impegno a dar voce a una pluralità di fonti. Quando Facebook ha lanciato il proprio processo di indicizzazione delle pagine di notizie, ha lavorato con il Trust Project per rendere più facile per gli editori aggiungere ulteriori informazioni sulla propria pagina, come per esempio link con le policy in materia di controllo dati, etica e correzione, che fanno parte dell’indicatore di fiducia “migliori pratiche”. “Le elezioni degli Stati Uniti hanno evidenziato in modo chiaro un problema globale: l’esigenza di avere notizie credibili, oneste e precise è ora più che mai urgente. Ora, con la crescita del Trust Project, milioni di persone possono utilizzare i Trust Indicators e sentirsi sicuri di poter riconoscere gli articoli affidabili che i giornalisti producono tutti i giorni” spiega Lehrman. “I nostri indicatori di fiducia stanno diventando sempre di più gli standard del settore a livello globale in termini di trasparenza nei media e non solo”. Migranti. Il piano sovranista: hotspot in Africa e Libia “porto sicuro” di Cristiana Mangani Il Messaggero, 10 ottobre 2018 Manovra, europee, migranti, candidato unico: Matteo Salvini presenzia al suo primo G6 da ministro dell’Interno a Lione, e traccia il presente e il futuro dell’Italia, ma anche dell’Europa. Il responsabile del Viminale replica a chi pensava che avrebbe dovuto fronteggiare discussioni infinite e con i rappresentanti degli altri Stati membri. E alla fine la scena è tutta sua. “Nessuno scontro sui migranti - dice a margine degli incontri bilaterali - l’Italia esce come un modello per gli altri. Durante la riunione è stato più volte evocato il sistema australiano per il governo dei flussi migratori, che è esattamente quello a cui sto lavorando io: fino a quattro mesi fa eravamo razzisti, egoisti, ora il modello italiano fa scuola”. Le ipotesi restano gli hotspot extra Ue, forse in Albania. E il salto in avanti della Libia che firma la Convenzione di Ginevra e può essere dichiarata “porto sicuro”. Un progetto ambizioso, strettamente collegato ai risultati elettorali di maggio 2019. Il ministro immagina una Ue dove socialisti e sinistra vengano sbaragliati dal voto per le Europee. E dichiara: “Finalmente 500 milioni di cittadini Ue potranno cambiare la storia”. Sull’ipotesi di un possibile candidato unico sovranista, un unico “spitzenkandidaten”, conferma: “Ci sarà, il nome ancora non lo abbiamo. Ci stiamo pensando. Sarà una vera rivoluzione”. Fin qui il vertice raccontato dal leader della Lega, dove il suo successo è stato confermato da decine di telecamere e di giornalisti al seguito. Ma è stata una attenzione tutta personale perché quello che non ha funzionato è proprio questo G6. Azzoppato, pieno di defezioni: un po’ come l’aria che si respira in Europa in questo periodo. Risultato: sembra proprio che gli attuali equilibri in Europa, stiano lentamente franando e che ogni decisione verrà rinviata a dopo le elezioni. A cominciare dalla questione dei migranti. Salvini visibilmente soddisfatto per i risultati ottenuti, ripete: “I ministri hanno ribadito che i migranti economici non possono essere accolti, condividendo la posizione italiana: in Europa si arriva seguendo le regole”. E allora quale potrebbe essere lo scenario se i sovranisti dovessero vincere in Europa? L’ipotesi è quella avanzata dagli austriaci che piace molto anche all’Italia: la creazione di hotspot extra Ue, tipo in Albania. Naturalmente - chiarisce il vicepremier - bisognerà trovare un accordo con loro. Ma sono certo che ci sarà”. E poi c’è la Libia. Ieri il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha ammesso che così com’è “la Libia non può essere considerata un porto sicuro, ma che Italia ed Europa sono molto impegnate nel processo di stabilizzazione”. Quindi, il passo successivo sarà di confermare il governo di Fayez al Serraj, ma soprattutto di convincere il paese africano a firmare la Convenzione di Ginevra, mai sottoscritta. Un insieme di trattati internazionali che permetterà alla Ue di dichiarare Tripoli e le altre località, un porto sicuro. Nel frattempo, il nostro governo ha ottenuto l’appoggio della Commissione europea per avviare una missione in Nigeria. Da lì, infatti, sono arrivati circa 60 mila migranti negli ultimi anni, e in mancanza di accordi, ne sono stati rimandati indietro poche centinaia. Il Viminale ha anche riavviato i corridoi umanitari, insieme con le comunità cattoliche. “Andrò personalmente ad accogliere donne e bambini che Fiumicino - annuncia ancora il ministro - Loro sì che hanno diritti a venire in Italia”. Tutto questo mentre il presidente della Camera Roberto Fico, in visita a Bruxelles, davanti all’ipotesi di coalizioni possibili, respinge: “M5S non siederà mai con la Le Pen. Non è un punto che mi interessa, questo appartiene alla politica della Lega delle alleanze, ognuno fa la sua strada, e quella non è la mia”. Migranti. Ricorso al Tar per le motovedette libiche di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 10 ottobre 2018 Governo Gentiloni sotto accusa per l’utilizzo di parte dei soldi del Fondo Africa per finanziare il funzionamento delle motovedette libiche. Oggi il Tar del Lazio esaminerà il ricorso presentato dall’Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, cui si sono unite Amnesty International, l’European Council on Refugees and exiles (Ecre) e l’International Commission of Jurists-European Institutions (Icj). Era stato il governo Renzi con la legge di bilancio 232/2016 a stanziare 200 milioni di euro “per interventi straordinari volti a rilanciare il dialogo e la cooperazione con i Paesi africani d’importanza prioritaria per le rotte migratorie”. Ma nel 2017 l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni insieme all’allora ministro dell’Interno Marco Minniti e a quello degli Esteri Angelino Alfano avevano deciso di destinare due milioni e mezzo di euro alle competenti Autorità libiche “per migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi la lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. In particolare gli aiuti italiani sono serviti a rimettere in efficienza quattro motovedette e ad addestrare l’equipaggio destinato a guidarle. Un uso inappropriato di quei soldi secondo i ricorrenti, soprattutto tenendo presente il fatto, come ha sottolineato Amnesty, che “le autorità libiche nella gestione dei migranti compiono gravi violazioni dei diritti” e l’Italia non dovrebbe quindi finanziarle. Anche perché, come ha ammesso ieri il ministro degli Esteri Enzo Moavero, “la Libia non può considerata porto sicuro”. Per l’avvocatura dello Stato, che difende il governo, il ricorso è inammissibile perché gli atti di governo non sono impugnabili davanti al Tar, per Asgi e Amnesty si tratta, invece, di atti amministrativi certamente discutibili davanti ad un giudice e non “atti di governo” per il solo fatto che hanno ad oggetto le politiche migratorie. Toccherà ai giudici del Tar sbrogliare la questione che ha assunto, inevitabilmente, un valore politico. Pena di morte, nel 2018 esecuzioni ancora in calo di Lucia Capuzzi Avvenire, 10 ottobre 2018 Forte mobilitazione per la Giornata mondiale. Nel 2017, 993 persone sono state portate di fronte al boia in ventitré Paesi del mondo. Le cifre, diffuse lo scorso aprile da Arnnesty International, non considerano la Cina, per cui le condanne capitali sono segreto nazionale. Quasi mille “morti di Stato” sono tante se, dietro i numeri, si vedono le vite spezzate. Al contempo, però, le statistiche mostrano un trend positivo verso l’abolizione. L’anno scorso, le esecuzioni sono calate del 4 per cento rispetto al 2016. E da un primo bilancio - ancora incompleto e provvisorio dato che spesso la “macchina della morte” è avvolta dalla segretezza - la diminuzione sembra proseguire nell’arco del 2018. Favorita anche da un cambiamento della legge iraniana che aumenta i quantitativi di droga detenuti per viene comminata la pena capitale. Un altro elemento importante è la crescita del fronte abolizionista. A cui, dallo scorso maggio, si è unito il Burkina Fase, il Paese numero 107 ad eliminare la pratica dal proprio ordinamento. Gli attivisti esortano, però, a non abbassare la guardia. Poiché la strada verso il bando totale è ancora lunga. Per fare il punto sulle possibili azioni, si è riunita ieri alla Farnesina la task force costituita ad hoc, di cui fanno parte, oltre al ministero degli Esteri, Amnesty International, la Comunità di Sant’Egidio, Nessuno tocchi Caino. Un forte appello per una moratoria generale è arrivato poi dall’Unione Europea e dal Consiglio d’Europa. In particolare, il messaggio si è rivolto alla Bielorussia, unico Paese del Continente a ricorrere al boia. Là, inoltre, alla crudeltà insita nella pena di morte, si somma il fatto del mancato preavviso al condannato. Non è l’unico caso, purtroppo. In varie nazioni le condizioni detentive nei bracci della morte sono dure. Su queste ultime hanno voluto attirare l’attenzione Amnesty e Sant’Egidio in occasione della Giornata mondiale contro la pena capitale che si celebra oggi. Amnesty ha lanciato una campagna per convincere i governi di Bielorussia, Ghana, Giappone, Iran e Malaysia, in cui le condizioni carcerarie sono considerate troppo dure, a rendere più umana la reclusione. In Ghana, ad esempio, i condannati a morte non ricevono cure mediche mentre in Giappone essi vengono tenuti in isolamento per lunghi periodi di tempo. Mentre l’iraniano Mohammad Reza Haddadi, condannato alla pena capitale a 15 anni, s’è visto fissare e rinviare l’esecuzione per sei volte negli ultimi 14 anni. Sant’Egidio, da anni vicina ai detenuti, oggi promuove le visite ai bracci della morte negli Stati Uniti, in Indonesia e in diversi Paesi africani. “Occorre tener vivo, a ogni livello della società, delle istituzioni e dei governi, questo impegno di civiltà e umanità”, spiegano dalla Comunità. In tal senso, contribuisce la crescente presa di coscienza della società. Dimostrata anche dal record di adesioni - mille in un anno - all’iniziativa di Sant’Egidio che fa corrispondere dei volontari con detenuti in attesa dell’esecuzione. Albania. Governo propone introduzione del “carcere duro” su modello italiano del 41bis Nova, 10 ottobre 2018 Il governo albanese del premier Edi Rama ha deciso di proporre alcune modifiche al codice penale, per rafforzare le misure nei confronti dei detenuti membri delle organizzazioni criminali: lo ha annunciato lo stesso premier. Il modello adottato sarà quello italiano del regime 41bis. “Il provvedimento tende a sottoporre ad un nuovo regime di isolamento e di monitoraggio, impedendo qualsiasi tipo di comunicazione sia all’interno dello stesso carcere che con il mondo esterno. Coloro che rientrano in questa categoria del mondo della criminalità avrà contatti ridotti con altre persone e saranno sorvegliati rigidamente”, ha detto Rama. Il governo di Tirana ha inoltre deciso di istituire una sala operativa di sorveglianza, attiva 24 ore su 24, per le carceri della massima sicurezza. La sala operativa sarà istallata presso la sede della task force “La forza della legge”, dedicata al contrasto alla criminalità organizzata. Inoltre un’altra sala operativa che monitorerà online tutte le carceri del paese dovrebbe essere istituita presso la Direzione penitenziaria. “Questi provvedimenti, portano la sicurezza nelle carceri a livelli mai visti prima ed anche la lotta alla corruzione nel sistema penitenziario. Il tempo in cui nelle carceri vengono fatti entrare anche telefoni cellulari è terminato. Il carcere è un luogo in cui viene scontata la pena e non da dove potrà essere gestita la criminalità”, ha dichiarato Rama. Afghanistan. La debole democrazia alle urne, non apre un seggio su tre di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 10 ottobre 2018 La situazione è delicata ma se ne parla pochissimo nei Paesi Nato che hanno tutt’ora i contingenti in teatro (anche l’Italia tra Herat e Kabul mantiene 500 soldati). Con migliaia di morti e feriti negli ultimi mesi per le violenze crescenti in tutto il Paese, con intere regioni fuori dal controllo dell’autorità di Kabul, con i continui attentati da parte di Isis e talebani contro gli operatori internazionali e le forze di sicurezza locali, le prossime elezioni parlamentari afghane del 20 ottobre rischiano di diventare l’ennesima prova del fallimento dei tentativi di normalizzazione dopo l’invasione americana sostenuta dall’Onu seguita agli attentati dell’11 settembre 2001. Se ne parla pochissimo nei Paesi Nato che hanno tutt’ora i contingenti in teatro (anche l’Italia tra Herat e Kabul mantiene 500 soldati). L’Afghanistan si dimostra lo specchio tragico della nostra impotenza collettiva. Sono trascorsi ben 17 anni dall’entrata dei marines a Kabul e lo sfascio del regime del Mullah Omar alleato ad Al Qaeda. È una delle operazioni più lunghe della storia militare moderno-contemporanea. Dopo la fase combattuta dei primi mesi, avrebbe dovuto trasformarsi in una grande missione umanitaria per pacificare e ricostruire. E in effetti così fu, almeno inizialmente. Le donne tornarono a scuola, si aprirono strade, canali per l’irrigazione, ospedali: tra il 2005 e il 2006 specie le zone urbane videro uno sviluppo economico e sociale senza precedenti. Ma da almeno un decennio i talebani hanno ripreso a combattere. Oggi fanno a gara con Isis, da tre anni più attivo che mai, nel contendersi il terreno e le simpatie tra i giovani pashtun più fanatici. Il risultato è che questo terzo scrutinio dal 2001 giunge con tre anni e mezzo di ritardo e rischia di venir esercitato solo in metà del Paese. A Kabul si ammette che un terzo dei 7.366 seggi elettorali resterà chiuso. I jihadisti minacciano. Almeno 5 sui 2.532 candidati (tra cui circa 400 donne) alle 249 poltrone parlamentari sono stati assassinati di recente. E nulla lascia credere che sarà meglio per le presidenziali previste ad aprile 2019. Russia. Oleg Sentsov, lo sciopero della fame interrotto a forza di Carlo Lania Il Manifesto, 10 ottobre 2018 Il regista ucraino Oleg Sentsov ha interrotto dopo cento quarantacinque giorni lo sciopero della fame iniziato lo scorso 14 maggio contro la condanna a vent’anni di carcere per terrorismo e traffico di armi decisa dal governo russo. Questo non vuol dire però che la sua situazione sia cambiata. Dal penitenziario di Labytnangui, dove è detenuto, Sentsov ha fatto sapere con un lettera alla stampa di avere preso questa decisione a fronte della minaccia di venire nutrito a forza. “Il mio stato di salute e la comparsa di danni irreversibili nei miei organi hanno spinto le autorità russe a impormi l’alimentazione forzata. Ciò che io penso non ha più nessun valore”. Sentsov, nato in Crimea, e tra gli oppositori della sua unione alla Russia, era stato arrestato nel 2014 con l’imputazione di avere coordinato le attività di uno dei gruppi ultranazionalisti ucraini. La direzione del carcere ha rilasciato ugualmente un comunicato sottolineando che i migliori nutrizionisti di Mosca hanno elaborato un programma per Sentsov con cui riabituarlo progressivamente ai cibi solidi. Appaiono invece preoccupati gli attivisti dell’associazione per i diritti dell’uomo in Ucraina che ha chiesto, per voce della sua rappresentante, Liudmila Denissova, alle autorità russe di incontrare subito Sentsov: “Uscire da uno sciopero della fame è ancora più difficile e terribile che lo sciopero della fame stesso” ha dichiarato Denissova. La militante e giornalista Zoia Svetova ha invece ricordato il caso del dissidente sovietico Anatoli Martchenko, morto due settimane dopo avere interrotto uno sciopero della fame n11 986. “Spero che la medicina di oggi sia migliore che all’epoca sovietica e che non lo lasceranno morire ha detto Svetova che aveva incontrato Sentsov lo scorso agosto. Le recenti fotografie del regista, diffuse dalle autorità russe, lo mostravano nel corso di una visita medica visibilmente dimagrito e provato. Venezuela. Oppositore arrestato muore nella sede dei Servizi segreti di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 10 ottobre 2018 Fernando Albán Salazar, consigliere del partito Prima la giustizia, era stato arrestato al suo arrivo in aeroporto di ritorno dagli Usa. L’Onu chiede chiarimenti. È un giallo la morte di un esponente dell’opposizione venezuelana, consigliere dell’area metropolitana di Caracas eletto tra le fila di Primero Justicia (Prima la Giustizia). Si chiamava Fernando Albán Salazar ed era stato arrestato venerdì scorso dai Servizi segreti bolivariani (Sebin) mentre sbarcava da un volo proveniente dagli Usa. Accusato di far parte del gruppo che lo scorso 4 agosto aveva organizzato un presunto attentato contro Maduro, con due droni che avevano sganciato delle granate su una sfilata militare, era stato rinchiuso nella sede dell’intelligence del regime. Ieri doveva essere trasferito in Tribunale per apparire davanti ad un giudice. Salazar si sarebbe lanciato da una finestra schiantandosi al suolo. Il ministro dell’Interno Néstor Reverol ha confermato la notizia sostenendo che “mentre si trovava nella sala di attesa per essere portato in Tribunale si sarebbe lanciato da una finestra del palazzo candendo nel vuoto”. Ma la versione non coincide con quella fornita successivamente dal Procuratore generale Tarek William Saab. “Il cittadino”, ha riferito, “aveva chiesto di andare al bagno e una volta entrato si è lanciato dalla finestra dal 10° piano dell’edificio”. L’opposizione parla di omicidio. Primero Justicia, la formazione guidata da Henrique Capriles, ha espresso “il suo profondo dolore e sete di giustizia per la morte di Fernando Albán assassinato per mano del regime di Nicolás Maduro nella sede del Sebin in piazza Venezuela”. Molti esponenti che sono stati arrestati e interrogati in quel tetro edificio spiegano che “è impossibile che Fernando sia stato lasciato libero di andare in bagno senza una scorta”. Altri che conoscono i locali aggiungono che “tutti i bagni usati per gli arrestati hanno le grate alle finestre”. L’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu ha chiesto “un’indagine trasparente per chiarire le circostanze della sua morte. “Fernando Albán Salazar era detenuto dallo Stato”, ha aggiunto la portavoce Ravina Shamdasani durante una conferenza stampa a Ginevra. “Lo Stato aveva l’obbligo di assicurare la sua sicurezza e la sua integrità personale”. Per il lancio delle granate sulla cerimonia a cui partecipava Maduro sono state arrestate finora 14 persone. Il governo accusa Julio Borges, ex presidente della Assemblea nazionale sciolta d’autorità nell’estate del 2017, di essere il mandante dell’attentato, con la complicità dei governi colombiano, cileno, Usa e messicano. La salma del consigliere comunale è stata restituita ai familiari che si rifiutano di cremarla come hanno sollecitato le autorità. La stessa Onu ha denunciato la presenza di 236 prigionieri politici nelle carceri del Venezuela e ha espresso preoccupazione per la detenzione di 59 espatriati colombiani, arrestati tra l’agosto e il settembre del 2016 perché accusati di una serie di agguati e attentati. “Tutti sono indicati come dei paramilitari”, ricorda l’Onu, “ma finora, a distanza di oltre due anni, non sono state fornite alcune prove a sostegno dell’accusa”.