Fiammetta Borsellino a tu per tu coi detenuti per mafia: “Potete ancora riparare” di Chiara Cacciani Gazzetta di Parma, 9 novembre 2018 Era accaduto solo altre due volte: in un carcere minorile e a maggio, quando ha chiesto di incontrare i fratelli Graviano, accusati della strage di via D’Amelio. E ieri la figlia più giovane di Paolo Borsellino ha varcato le porte dell’istituto penitenziario di via Burla per uno straordinario colloquio con i redattori-detenuti del giornale del carcere. Un dialogo intensissimo, non sempre facile e con momenti di grande commozione. Ma è vera questa cosa che l’abbiamo qui?”, si chiede sussurrando Antonello. “Sono commosso”, le dirà poco dopo, al suo turno nel giro di presentazioni. “Anche io”, risponde lei, voce e occhi. Lei che poi così si descrive, semplice e potente: “Mi chiamo Fiammetta, ho 45 anni e sono la terza figlia, la più piccola, di Paolo Borsellino, di cui voi certamente conoscerete la storia”. C’è un silenzio di attesa già ripagata e di attesa di qualcosa che certamente verrà, nella redazione. Che non è una redazione qualsiasi, come non lo è l’intervistata. Carcere di via Burla, comparto scuola, ultima stanza dopo l’infilata di controlli, muri, sbarre e scattare di porte che si aprono a distanza. È lì che ha sede “Ristretti Orizzonti”, il giornale nato in carcere e coordinato da due giornaliste, Ornella Favero e Carla Chiappini. In redazione, una decina di detenuti che hanno già scontato oltre 20 anni: c’è chi dietro le sbarre si è laureato, chi sta scrivendo la tesi, tanti i siciliani (“compaesani”, li accoglie - invertendo i ruoli - l’invitata), otto i condannati all’ergastolo ostativo. Fine pena mai, per loro, e mai un permesso d’uscita: lo sancirono proprio le leggi emergenziali varate dopo la strage di via D’Amelio, che seguiva di 57 giorni quella di Capaci. E in questo lungo dialogo tra vittima e colpevoli - di altre storie ma dallo stesso humus - emergerà anche quello: il legame percepito tra i destini, la distanza - anche - della rispettiva rielaborazione, la tentazione di risposte “facili”. E un altro finale possibile. Discretissimo, quasi pronto a scomparire, c’è anche un giovane assistente di polizia penitenziaria che ha chiesto di poter ascoltare. Parte dalle origini il racconto della figlia del riconosciuto eroe Paolo, da quel bambino che “arrivava da un quartiere malfamato, da cui sono usciti grossi personaggi criminali. Ce le raccontava, le partite a calcio in piazza coi figli dei boss. Ed è lì che è maturata la sua scelta”. Parla dell’insegnamento che ha tratto “da questa vicenda familiare dolorosa: il coraggio è andare avanti anche di fronte ai pericoli. Mio padre era consapevole dei rischi per se stesso e per noi, ma non si è mai nascosto e ha sempre camminato a testa alta. A differenza di chi - appostandosi, tramando, nel silenzio e nella copertura di tutti - ha organizzato la sua morte”. Sfilano le curiosità ben documentate dei redattori-detenuti (“Leggo tantissimo - dice Carmelo - Purtroppo ho iniziato solo dopo l’arresto…”), si parla di depistaggi, pentiti, processi da rifare, coinvolgimento di elementi deviati dello Stato. “La morte di suo padre - le dice qualcuno - noi l’abbiamo pagata due volte: perché ingiusta e perché quelle leggi speciali hanno avuto ripercussioni pesantissime anche su di noi”. “Vi chiedo di uscire da questa condizione vittimistica - risponde lei con lucida grazia. Questo regime l’avreste dovuto scontare comunque, per ciò che avete commesso. L’inasprimento delle condizioni, invece, purtroppo è dovuto al fatto che la violenza genera risposte violente, ed è per questo che va rifiutata a monte. Io non ho mai pensato che il dolore che provo sia diverso da quello del figlio di un mafioso ucciso”. Invita ad avere fiducia nelle istituzioni (“con tante persone che combattono per la verità, guardate il caso Cucchi”), a non affievolire nelle responsabilità dello Stato le proprie. E poi il passaggio che ferma per qualche secondo il respiro: “Mio padre ci ha insegnato che si può morire con dignità quando si vive con dignità. E si può morire con dignità anche quando, dopo aver fatto cose gravissime, si arriva a riconoscere i propri sbagli, a prendere le distanze e a cercare di riparare”. Riparare. È su questa parola che roteerà lo scambio successivo: non facile, non univoco, smussato proprio da questa figlia che racconta la spinta emotiva che a maggio l’ha portata per la prima volta in un carcere, ad incontrare i fratelli Graviano, accusati della strage di via D’Amelio. “E non è stato per la ricerca di una verità a cui comunque tutti dobbiamo aspirare, ma per il bisogno di raccontare loro tutte le sofferenze che ci hanno causato. Perché io credo nelle persone, nel cambiamento e nei miracoli”. “Cosa possiamo fare noi per aiutarla?”, è la domanda di Claudio che spalanca la strada. “Si combatte la mafia col cambiamento culturale, ciascuno nel proprio campo, e col rispetto delle regole. E poi c’è la riparazione concreta: ciascuno di voi ha una vittima a cui consegnare un pezzo di verità, a cui chiedere scusa”. C’è chi frena (“i familiari delle nostre vittime non sono come lei, dottoressa: sono come noi”), chi annuisce: “L’ho chiesto e spero di avere presto un incontro con loro”, si commuove Antonello; “Sto scrivendo un libro che racconti come sono finito così: spero serva a salvarne almeno uno”, continua Antonio. Nasce l’idea di una testimonianza a più voci in diretta video con una scuola del Sud. “Me ne vado da qui con grande serenità: per me sapere che oggi avete un’altra vita è una vittoria”, sorride loro Fiammetta Borsellino. “Non è un arrivederci per sempre, vero?” chiede Giovanni. “No: se partiamo con un progetto, io ci sono”. Concretamente. L’isolamento diurno per i detenuti è una vera tortura di Vittorio Feltri Libero, 9 novembre 2018 Oggi esco dal seminato riguardante le solite vicende politiche emi inoltro in un campo poco o mai scandagliato dalla categoria giornalistica, a cui non mi onoro di appartenere. Mi riferisco al codice penale che viene applicato dai giudici, nelle condanne inflitte ai reprobi, in modo formalmente corretto, ma sostanzialmente sbagliato in quanto certe pene aggiuntive sono mostri giuridici inaccettabili in un Paese normale, quale il nostro pretende di essere senza esserlo. Vado giù piatto come la pianura padana. Succede spesso che all’imputato di un grave delitto, per esempio un omicidio, venga inflitta la pena dell’ergastolo. È stato il caso di Massimo Bossetti e di Olindo e Rosa. Il primo considerato senza prove l’assassino di Yara, la ragazza di Brembate (Bergamo), e gli altri due blindati in carcere perché ritenuti autori della strage di Erba, avvenuta molti anni orsono. Personalmente sono convinto che tutti e tre costoro non meritassero la morte civile, poiché gli indizi di colpevolezza non erano affatto persuasivi. Tuttavia l’argomento l’ho già esposto, inutilmente, varie volte su Libero. Il punto è un altro. La giustizia ingiusta ti rifila l’ergastolo, cioè il castigo maggiore previsto dal nostro ordinamento. Va bene, anzi male, dato che per segregare a vita delle persone bisognerebbe avere in mano elementi concreti e non semplici congetture opinabili. Sorvoliamo malvolentieri. Mi vogliono spiegare i signori legislatori e coloro che ne applicano le disposizioni, per quale ragione un condannato in eterno debba subire un triennio di isolamento diurno, impedendogli di avere qualsiasi rapporto umano all’interno della prigione, che non è un Grand Hotel, bensì una porcilaia, per la durata di appunto 36 mesi? Si tratta di un supplemento di tortura che confligge con un minimo senso di umanità. Impedendo al detenuto di frequentare altri detenuti per un determinato periodo, cosa si pensa di ottenere se non la conferma che il sistema giudiziario si basa sulla vendetta sociale? Una sorta di crudeltà gratuita che non sortisce alcun effetto pratico sul piano espiatorio. La Costituzione recita che lo scopo della pena è emendativo, essa cioè dovrebbe tendere a rieducare chi ha commesso uno o più reati, non sottoporlo, oltre alla privazione della libertà, pure a una sorta di umiliazione per non dire di peggio. Che risultato si può ricavare dal punto di vista della riabilitazione da un soggetto obbligato non solo a starsene in galera fino alla morte, ma anche a non frequentare per un tot i compagni di sventura? Non esiste logica in una legge che dopo averti estraniato dal consorzio umano in libertà ti costringe a campare in solitudine per quasi un lustro. Ciò che sgomenta è il fatto che avvocati e magistrati non abbiano mai mosso un dito per eliminare dai codici italici questo schifo, e ancor di più ci indigna che i politici, di qualsivoglia partito, non abbiano pensato di correggere norme così assurde e crudeli. Ci appelliamo alla Lega di Salvini affinché si proceda presto alla cancellazione del descritto isolamento, relegandolo agli archivi delle vergogne della nostra disonorata e disonorevole patria. In carcere si muore sempre di più di Marco Magnano riforma.it, 9 novembre 2018 Il 2018 segna un netto aumento dei suicidi tra le persone detenute, un fenomeno legato non soltanto al sovraffollamento, ma all’idea stessa che abbiamo del carcere. L’inizio del mese di novembre ha confermato attraverso i numeri una sensazione: le carceri italiane stanno ritornando a una situazione di criticità che negli ultimi anni si pensava potesse essere contrastata, seppure con un lungo percorso. L’ultimo suicidio avvenuto nel carcere di Salerno il primo novembre ha segnato il sorpasso rispetto allo scorso anno: se nel 2017 erano state 52 le persone che si erano tolte la vita durante la detenzione, il 1 novembre del 2018 erano 53 e oggi già 55, dati molto vicini a quelli del 2012, prima che la Sentenza Torreggiani imponesse misure urgenti per migliorare le condizioni detentive. Proprio di fine del cosiddetto “effetto Torreggiani” parla l’associazione Antigone, che già nel maggio del 2018, nel suo XIV rapporto sulle condizioni di detenzione, sottolineava quanto il ricorso al carcere sia tornato a crescere e quanto la popolazione carceraria sia nuovamente tornata sopra i livelli di capienza nominale. Secondo i dati aggiornati al 31 ottobre, forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono 59.803 le persone detenute in Italia, contro una capienza regolamentare di 50.616 posti, una differenza di oltre 9.000 persone, in aumento rispetto a settembre, quando era pari a 8.653, e ad agosto, con i suoi 8.513 detenuti oltre i posti disponibili. Inoltre, i numeri reali del sovraffollamento sono superiori, perché nei dati ufficiali vengono comprese circa 5.000 celle oggi inagibili, un modo per ridurre la dimensione del problema a livello formale. Il sovraffollamento, quindi, non è soltanto grave, ma è anche destinato ad aumentare. Per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la “capienza regolamentare” prevede che in una cella per più persone debbano essere assicurati almeno 9 metri quadri a disposizione per il primo detenuto, più 5 metri quadri per ciascuno degli altri. Se la cella è per quattro persone i metri quadri in tutto devono essere almeno 24. Oggi siamo molto lontani da queste regole e la conseguenza è quella di una vita tra le mura di un carcere priva delle minime condizioni di igiene e riservatezza. Sarebbe facile obiettare che chi sta in carcere in fondo se lo merita e che la cella dev’essere una cella, non una suite di un hotel a cinque stelle, eppure è proprio l’articolo 27 della Costituzione italiana a ricordare lo scopo della detenzione: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. I suicidi in carcere sono il più evidente sintomo del fatto che la situazione sia critica e costituiscono non solo un indicatore, ma un necessario spunto di riflessione. Perché un detenuto, ovvero una persona affidata allo Stato per un percorso che è certamente punitivo, ma che ha lo scopo ultimo del reinserimento sociale, arriva al punto di togliersi la vita? Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà, spiega che “all’inizio dell’anno i suicidi e gli atti di autolesionismo erano spesso collegati alla tipologia di reato, per esempio reati di violenza, violenza sessuale, violenza su minori, che possiamo definire in qualche modo “infamanti” e che quindi possono determinare per la persona anche un momento di grave difficoltà rispetto alle relazioni, magari con la propria famiglia”. Tuttavia, la situazione sembra essersi evoluta, o involuta. “I suicidi più recenti - prosegue Palma - sono molto spesso persone al primo arresto, che erano entrate da poco, che in qualche modo forse sarebbe stato giusto accogliere in un modo un po’ diverso. Un tempo le sezioni dedicate ai cosiddetti “nuovi giunti” erano sezioni su cui era forte l’attenzione di tipo psicologico, perché il carcere è sempre un trauma. Oggi però è più l’aspetto burocratico che non l’aspetto psicologico a creare anomalie: a volte i “nuovi giunti” finiscono in sezioni di transito dove magari la persona è da sola, cosa che invece proprio una direttiva che era stata fatta due anni fa per contenere il fenomeno dei suicidi aveva detto di evitare. C’è un fattore di forte debolezza nel rapporto con l’istituzione: parliamo di persone giovani, persone che non hanno un curriculum detentivo molto forte e che hanno forse molto più bisogno di un impegno forte di assistenza nel primo momento dell’impatto carcerario”. Sovraffollamento da un lato, isolamento dall’altro: condizioni che sono soltanto all’apparenza contraddittorie, ma che invece aiutano a dipingere un quadro critico. A proposito della detenzione, la scorsa legislatura era stata segnata dall’attesa di importanti cambiamenti, un’attesa alimentata prima dagli Stati generali dell’esecuzione penale, un insieme di tavoli tematici sulla detenzione e le misure alternative al carcere convocato nell’estate 2015 dall’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e poi dallo schema di riforma dell’ordinamento penitenziario. Secondo Mauro Palma, questa attesa è stata “a volte anche eccessiva”, perché “forse qualche voce esterna che entrava in carcere creava più aspettativa, perché anche i decreti predisposti dal precedente governo, che a mio parere erano migliori di quelli poi adottati dal governo attuale, non rispondevano pienamente a tutto questo carico di attese”. Tuttavia, oggi quella stagione sembra essere conclusa: di fronte a quella che si può ritenere una nuova emergenza, anche se con tutte le caratteristiche di un fenomeno strutturale, l’attuale ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, risponde infatti con la proposta di costruire nuove strutture detentive, attaccando i governi precedenti che si erano macchiati, a suo parere, di “decreti svuota carceri” come scorciatoie per rientrare nei parametri dettati dalle convenzioni internazionali. Da anni il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, struttura del Consiglio d’Europa, sostiene che costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non sia però la strada giusta, perché “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”. Quella di costruire nuove carceri non è però una proposta estemporanea, ma discende da un più ampio e diffuso clima culturale. “Oggi - ricorda il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma - è subentrato un periodo quasi di ineluttabilità: il carcere è così e continuerà a essere così. La responsabilità non è solo dell’amministrazione giudiziaria, dell’amministrazione penitenziaria, ma è anche una responsabilità esterna. Sono molto forti attualmente le voci che chiedono più carcere e che, anche in programmi di grande pubblico televisivo, trattano per esempio le misure alternative come se fossero delle modalità per rendere meno efficace la pena. Sento frasi sul “marcire in carcere”, sul “buttare via la chiave”: è un linguaggio che costruisce una cultura della paura, una cultura che non centra la propria attenzione sul fatto che la maggiore sicurezza è data dalla capacità di recuperare delle persone, non di emarginarle”. Va detto che sarebbe possibile ridurre il sovraffollamento sin da subito, anche senza indulti o amnistie, oggi politicamente improponibili. Attualmente, infatti, sono 21.000 le persone in carcere che hanno una pena complessiva inferiore ai tre anni oppure che hanno un residuo di pena inferiore ai tre anni: per questi detenuti sarebbe formalmente possibile accedere alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale. Eppure questo spesso non avviene. “Molto spesso - chiarisce Mauro Palma - non succede perché, giustamente direi, il magistrato di sorveglianza non lo dà perché è davanti a persone connotate da una tale minorità sociale che magari fuori non hanno una casa, un posto dove stare, allora il carcere mi diventa un ricettacolo di tanti drammi che pongono quesiti anche al territorio esterno. In parte però non lo hanno perché non hanno per esempio una difesa che li sorregga, che inoltri la richiesta, che faccia capire ai detenuti di avere tale possibilità. Ecco, riflettiamo sul fatto che all’interno degli attuali 60.000 detenuti un terzo si trova in questa situazione: è la fotografia di altre contraddizioni che poi arrivano al carcere come momento terminale. Se non riflettiamo che lì bisognerebbe intervenire in altro modo, forse stiamo dando al carcere una funzione totalmente diversa, lo stiamo rendendo un ricettacolo della disperazione. E la disperazione porta anche a gesti estremi”. PolPen, nasce nucleo alle dipendenze del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo forlitoday.it, 9 novembre 2018 Il sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone, ha fortemente sostenuto questa proposta formulata dallo stesso procuratore nazionale e recepita nel maxi emendamento governativo su cui il Senato ha espresso il voto di fiducia. “Tra i motivi di soddisfazione per il voto favorevole del Senato al decreto Sicurezza, c’è anche quello che la sua approvazione dà il via libera alla costituzione di un apposito nucleo di personale del Corpo di Polizia penitenziaria assegnato alle dirette dipendenze funzionali del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo per supportare e coadiuvare le attività di polizia giudiziaria”. Lo afferma il sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone, che ha fortemente sostenuto questa proposta formulata dallo stesso procuratore nazionale e recepita nel maxi emendamento governativo su cui il Senato ha espresso il voto di fiducia. “Si tratta di un ulteriore misura per contrastare i fenomeni della criminalità organizzata, utile anche nella lotta al pericolo riconducibile al terrorismo interno e internazionale di matrice confessionale che possono trovare negli istituti penitenziari potenziali luoghi di reclutamento”, aggiunge Morrone. Nello stesso maxi emendamento approvato, sono anche previste risorse per il potenziamento degli standard di sicurezza e di funzionalità delle strutture penitenziarie. “Si tratta - viene spiegato dal sottosegretario alla Giustizia - di due milioni di euro per l’anno 2018, 15 per il 2019 e 25 annui dal 2020 al 2026, da destinare a interventi urgenti per il potenziamento, l’implementazione e l’aggiornamento di beni strumentali, per la ristrutturazione e la manutenzione degli edifici e per l’adeguamento dei sistemi di sicurezza. Altri 4 milioni e 635.000 euro per l’anno 2018 sono destinati alle esigenze del Corpo di Polizia penitenziaria”. Prescrizione, intesa col timer: “Un anno per la mega-riforma” di Errico Novi Il Dubbio, 9 novembre 2018 Lega e M5S: stop in primo grado dal 2020, e si rivede tutto il processo. Un anno di tempo. Obiettivo: fissare “i principi del nuovo processo”, come dice il guardasigilli. Un’impresa. Ma Lega e Cinque Stelle non hanno trovato alternative più semplici per mettersi d’accordo sulla prescrizione. Così l’intesa sancita ieri mattina a Palazzo Chigi dai vertici dei due partiti di governo prevede sì, che l’emendamento sullo stop alla prescrizione dopo il primo grado venga approvato subito, “all’interno del ddl Anticorruzione”, come annuncia sempre Bonafede. Con un dettaglio però: “Entrerà in vigore dal 2020”. Adesso “bisognava mettere un punto e definire intanto una legge delega di riforma dell’intero processo penale”. Ovviamente la delega andrà attuata un minuto prima che diventi efficace la “nuova” prescrizione, o i processi saranno eterni. Dentro dovrà trovare posto l’applicazione concreta del mantra di Salvini: “Tempi certi e rapidi, in galera i colpevoli e libertà per gli innocenti”. Versione pulp di quanto chiesto dall’avvocatura, in particolare dal Cnf, e da gran parte dei magistrati. “Non ci sono contrapposizioni tra l’obiettivo della Lega e quello del M5s: cammineranno in parallelo l’accelerazione dei processi da un lato, la prescrizione dall’altro”, è la sintesi di Giulia Bongiorno, ministra alla Pa ma coartefice dell’exit strategy. “La delega sul penale scade un mese prima rispetto l’entrata in vigore della prescrizione”. La ministra-avvocata leghista tralascia solo un dettaglio, pure importantissimo: la seconda gamba del progetto gialloverde, quella imponente della Grande Riforma, partirà dal Senato. E lì il presidente della commissione Giustizia è un leghista, Andrea Ostellari. Ulteriore garanzia per Salvini, che vuole disinnescare per via ordinamentale, e non solo con gli organici potenziati nei Tribunali, il rischio processi eterni. Esultano tutti. Il leader della Lega ma anche quello del Movimento, Di Maio, che dice: “Si cambia davvero, i furbetti si rassegnino”. La novità, per Bonafede, è che “non ci saranno più impuniti”. E il premier Conte, che ospita il match decisivo, tira un sospiro di sollievo al Congresso nazionale del Notariato (è il primo capo del governo a parteciparvi): “Certezza del diritto e dei tempi processuali sono i nostri obiettivi: come sempre ci confrontiamo e troviamo la soluzione migliore per gli italiani”. Tutto risolto? Non proprio. Certo, sui contenuti della riforma tutti sono pronti a dare una mano. Il presidente del Cnf Andrea Mascherin può rivendicare di aver chiesto per primo che qualunque intervento sulla prescrizione non arrivi se non dopo aver assicurato “tempi certi allo svolgi- mento dei giudizi con la fissazione di termini e decadenze processuali radicali”, fino alla estinzione del reato in caso di sforamento. Ed è sempre il vertice dell’avvocatura a proporre “un tavolo coi magistrati” (come illustra il documento pubblicato in altra pagina, ndr). Ci sarà di che discutere, se Bonafede vorrà ricorrervi prima di varare la sua legge delega. Se il Cnf chiede un limite di tempo per ogni fase del procedimento, indagini comprese, non tutti i magistrati la pensano così. È d’accordo Giovani Canzio, per esempio. Come la magistratura progressista: domani, nella riunione dell’Anm, le toghe di “Area” sposeranno in pieno l’idea di uno stop alla prescrizione vincolato ad altri paletti. Ma ci sono anche le priorità del presidente dell’Anm, Francesco Minisci: “Notifiche non più cartacee”, e fin qui tutti d’accordo; no alla “rinnovazione dibattimentale in caso di cambio del giudice”, e qui invece vacilla il principio dell’oralità nella formazione della prova; fino alla “abolizione del divieto di reformatio in peius”, che è il vero muro di Berlino tra difensori e pm. Tanto è vero che i margini sono stretti che l’Unione Camere penali assume una posizione assai critica e proclama tre giornate di astensione, con una “grande manifestazione per la giustizia penale liberale” programmata a Roma per il 23 novembre (come riferito in altro servizio, ndr). Il neo presidente Gian Domenico Caiazza vede nel progetto di una legge delega con scadenza dicembre 2019 “una “prospettiva minacciosa”. Ed è sul versante della Megariforma che si gioca la partita: la prescrizione inserita nel ddl Anticorruzione resterà ferma all’emendamento di poche righe depositato dai pentastellati a Montecitorio. “Ma la discussione in Aula viene spostata dal 12 al 19 novembre”, stabilisce il presidente della Camera Fico nella capigruppo pomeridiana. Una settimana in più: non è tanto, ed eventuali audizioni saranno liofilizzate. L’unica incognita riguarda il secondo punto della modifica proposta da Bonafede: il ritorno alla possibilità di far decorrere la prescrizione dal più recente di una serie “continuata” di reati. Un dietrofront rispetto alla ex Cirielli che rischia di rimettere in gioco delitti vecchi anche di qualche decennio. Un dettaglio di cui, misteriosamente, nessuno parla, neppure chi lo ha proposto. Il solo giustizialista scettico è Piercamillo Davigo: “La prescrizione è una norma sostanziale, riguarda solo i reati futuri e per questo la riforma avrà effetto quando sarò morto”. L’ex pm non risparmia battute. Ma certo se il blocco dopo il primo grado avesse avuto pure effetto retroattivo ci sarebbero voluti gli occhiali in 3D, quelli per i film di fantascienza. Prescrizione, “Che errore abbiamo fatto”. Il malessere tra i 5 Stelle che temono la fregatura di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 9 novembre 2018 Duello sui tempi. Fattori rilancia sospetti sui leghisti indagati. È una bandiera a mezz’asta quella che Di Maio può finalmente alzare, per provare a oscurare i vessilli conquistati da Salvini. L’accordo sullo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio c’è, ma il compromesso ha un retrogusto antico e il cavallo di battaglia del M5S sarà ai blocchi di partenza solo nel gennaio del 2020. Uno slittamento imposto dal Carroccio, che scatena delusione e rabbia tra i pentastellati. Nel vertice di Palazzo Chigi si è deciso di legare politicamente la prescrizione a una riforma complessiva. Ma che succede se la rivoluzione della giustizia slitta alle calende greche? Succede che salta anche lo stop alla prescrizione, come sperano in tanti nella Lega? È questo l’interrogativo che per tutto il giorno rimbalza nei capannelli dei deputati. Mentre Di Maio esulta con l’hashtag #bastaimpuniti, il M5S ribolle sui social. “C’è l’accordo ma andrà in vigore tra un anno”, ritwitta polemica Elena Fattori. La senatrice dissidente rilancia il sospetto (“a chi devono scadere i termini?”) che la Lega prenda tempo per salvare i suoi sotto inchiesta, come Edoardo Rixi e Riccardo Molinari. Insinuazione pentastellata che ha irritato non poco Salvini. La stretta di mano sotto gli occhi dell’arbitro Giuseppe Conte ha portato una tregua, ma non ha spazzato via le ombre. A Montecitorio le opposizioni scherzano sull’accordo come “un assegno postdatato”, che forse nessuno pagherà mai. Si fa la conta di vincitori e vinti. E quando Rai2 lo domanda a Di Maio, il leader del M5S distilla una goccia gelata: “Se Salvini è contento? Credo di sì... chiedetelo a lui”. Tra i dirigenti stellati c’è chi festeggia, chi lavora a un “pacchetto” di norme che comprenda la modifica della legge Severino e il conflitto di interessi nel cassetto del ministro Riccardo Fraccaro e chi fiuta un’altra “fregatura”. Prova ne sia la delusione gridata da un “faro” del Movimento come l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo, preoccupato perché gli effetti della prescrizione si vedranno tra molti anni, “quando sarò morto”. A trovare la quadra per “disinnescare la bomba atomica” e scongiurare una rottura irreparabile tra Salvini e Di Maioè stata la ministra leghista Giulia Bongiorno: slittamento di 14 mesi della prescrizione e legge delega al governo per la riforma del processo penale, a cui dovrà dedicarsi il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma qui sta il “busillis”, per dirla con il dem Stefano Ceccanti. Per la Lega la prescrizione entra in vigore “dopo la riforma del processo penale”, spiega il sottosegretario Jacopo Morrone. Per il M5S invece entra in vigore comunque, il 31 gennaio 2020. E lo scontro in atto rivela che non è questione di date, ma di opposte visioni. “Quello che Di Maio e Bonafede volevano non c’è - osserva Luca Paolini, il deputato e avvocato leghista che gira “con la bibbia di Davigo” in borsa - è meno di un pannicello caldo”. I leghisti lo dicono sottovoce. Se dopo le Europee il governo dovesse saltare, sarà facile gioco per Salvini trovare i voti nel centrodestra per cancellare lo stop alla prescrizione. Lo stellato Andrea Colletti, deputato e avvocato, non si premura di scandirlo nella lingua di Oxford: “È una cagata pazzesca farla entrare in vigore dopo, visto che gli effetti li vedremo nel 2024”. I ribelli sono furibondi e la Fattori lancia sul governo un’altra mina: “Congeliamo il decreto sicurezza, scritto malissimo, e lavoriamo insieme a una riforma complessiva”. Ma anche il senatore Nicola Morra ironizza sui “raffinati cultori della materia” che dovranno riformare il processo penale. Salvini adesso fa paura. I 5Stelle vedono i loro consensi erodersi e il malumore è un’onda destinata a gonfiarsi. Per esorcizzare il carissimo nemico, Gianluigi Paragone si affida a una metafora calcistica: “Ronaldo ha segnato un gran gol, ma la sfida tra Juve e Manchester-United è finita 2 a 1 per gli altri”. “La riforma della prescrizione non si farà mai”. L’ex magistrato Caselli non crede al governo di Fabio Luppino huffingtonpost.it, 9 novembre 2018 “Non siamo davanti ad una soluzione esaltante, non ci sono né vincitori, né vinti, né certezze che quel che dice Bonafede si farà”. L’ex magistrato Gian Carlo Caselli vorrebbe la riforma della prescrizione presto, così come l’epocale riforma del processo penale. Ma non crede al governo gialloverde, “non capisco come possano passare dalla tempesta al sereno in mezz’ora”. Dubita, e molto. “2020 dice il ministro Bonafede? Ma la riforma della prescrizione è tassativa o subordinata alla riforma del processo penale? Le variabili sono troppe. In ogni caso oggi il processo non è breve proprio perché la prescrizione non s’interrompe mai”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dice: “La riforma del processo penale sarà approvata nel dicembre 2019, prima dell’entrata in vigore della riforma della prescrizione”. Se ne riparla, se va bene, nel 2020. Si fida? Davvero avremo tempi certi? Fare previsioni non è mai facile, ma in questo caso diventa un azzardo. Le tensioni interne al governo gialloverde e le suggestioni esterne intrecciate con variabili continue, nazionali e internazionali, sono talmente numerose da rendere il quadro problematico e confuso. Stando alle prime notizie devo confessare che non ho capito molto bene come stanno le cose. Sembrerebbe che la riforma della prescrizione sia inserita nel ddl anticorruzione che è ancora in fase di approvazione, quindi non so rispondere con sicurezza alla domanda sui tempi certi. In ogni caso la riforma della prescrizione slitterebbe al gennaio 2020, dopo la cosiddetta riforma epocale del processo penale. Ma, mi chiedo, sarà davvero approvata? Ecco, cosa si risponde? In ogni caso è una legge delega. Anche approvata vuole tutto un iter di un paio d’anni per diventare codice di procedura penale. Ma mi chiedo anche: il 2020, è una data indicativa per la riforma della prescrizione, cioè, subordinata all’entrata in vigore del nuovo processo penale o è tassativa? Ma se è tassativa, e cioè se deve entrare in vigore a prescindere dalla riforma del processo penale, non si scatenerà di nuovo la bagarre? Difficile dire una data, perché mi sembra che si tratti soprattutto di promesse di fatti futuri con esito incerto. Dopo tante tensioni, mezz’ora per trovare la quadra non è una soluzione esaltante. Serve soprattutto a lanciare il messaggio che ci si è messi d’accordo sul problema, senza vincitori né vinti. Ma questa non è una gara, è un vero problema che andrebbe affrontato davvero senza preoccuparsi dei messaggi che si vogliono dare. Davigo obietta: “La prescrizione è una norma di diritto sostanziale, quindi si applica ai reati commessi dopo l’entrata in vigore della norma. Per questo se ne vedranno gli effetti solo tra molti anni, quando sarò morto”. È d’accordo? Per quel che ho detto, certamente. È più urgente dare certezza alla durata dei processi o fermare la prescrizione? La contrapposizione tra certezza della durata del processo e riforma della prescrizione è del tutto fuorviante. Oggi il processo non è breve proprio perché la prescrizione non s’interrompe mai. Se io fossi un avvocato nell’interesse del mio cliente utilizzerei la prateria di eccezioni possibili e la tirerei per le lunghe fino a che non interviene la prescrizione. Ma, attenzione, questo non vale per tutti. Solo i cittadini che sono in grado di pagarsi i migliori avvocati possono avvalersene, gli altri no, non hanno questo privilegio. L’esistenza stessa della prescrizione crea cittadini di serie A e di serie B, i secondi sono comunque stritolati dal processo. Quindi, chi appaia le due questioni sbaglia? La riforma della prescrizione non è una bomba atomica, è semplicemente un allineamento del nostro sistema a quello delle altre democrazie occidentali. Ovunque si interrompe, da noi no. La durata del processo, la sua brevità, si risolve con la riforma del processo penale, promessa ma tutta da vedere, mentre è necessaria. Soprattutto per quanto riguarda il sistema delle impugnazioni: in nessun altro paese ci sono tanti gradi di giudizio come da noi. Anche qui occorrerebbe un allineamento con le altre democrazie occidentali, soltanto che chi lo propone viene accusato di essere nemico delle garanzie. Come se tutti i paesi del mondo fossero giustizialisti, quando la vera garanzia è la durata certa del processo e non un processo che non finisce mai. Possiamo fare un esempio? Un imputato per un reato bagatellare, confesso, che patteggia e quindi viene condannato ai minimi dei minimi della pena, cosa fa? Ricorre in appello perché non c’è nessun filtro dove avrà la conferma della sentenza e ciononostante ricorre ancora in Cassazione. Così il processo non finisce mai perché si spera nella prescrizione senza interruzioni. Ma così il sistema implode, risolviamo questo prima di tutto. In questi anni, secondo la sua esperienza, l’attuale norma sulla prescrizione è stata utile per mandare assolti molti colpevoli? Allungare i tempi del processo conviene a chi è colpevole, la prescrizione va in loro soccorso, c’è poco da fare. Chi è innocente a giudizio ci va. Ma con la prescrizione non c’è soltanto il problema dell’imputato, si travolgono le aspettative di giustizia delle parti lese, delle vittime, dei familiari. È denegata giustizia. L’esito del processo Andreotti è uno dei casi più clamorosi? L’elenco delle prescrizioni è, se non infinito, lunghissimo: caso Eternit, Calciopoli, il processo sul doping alla Juventus, etc... Il processo Andreotti fu una prescrizione clamorosa. L’uomo più potente d’Italia durante la prima repubblica, sette volte presidente del Consiglio e quasi trenta volte ministro, dichiarato colpevole per aver commesso il delitto di associazione a delinquere con Cosa nostra fino al 1980, è un fatto di una gravità inaudita e se scatta la prescrizione non è il miglior regalo che si possa fare alla nostra democrazia. Che è scattata, anche perché i fatti per cui è stato dichiarato responsabile risalgono a una ventina d’anni prima dell’inizio dell’inchiesta, tra l’altro rapidissima. Un politico così potente che gode della prescrizione è una cosa che non va bene con la democrazia. Ma alla prescrizione si può rinunciare: solo rarissimamente accade. Andreotti non ha mai pensato di rinunciarvi. Attenzione: quando la corte d’Appello lo dichiara colpevole di quel reato fino al 1980, commesso ancorché prescritto, la sua difesa fece ricorso in Cassazione. Prova che parlare di assoluzione è un nonsenso. Riforma prescrizione. “Norma contro la Costituzione”, penalisti in sciopero di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 9 novembre 2018 Protesta degli avvocati dal 20 al 23: vogliono abrogare la prescrizione. Anm: giusto aspettare riforme più ampie. Quattro giorni di sciopero, dal 20 al 23 novembre, contro la “controriforma autoritaria” del governo, che vuole “abrogare la prescrizione”, e una grande manifestazione nazionale a Roma “in difesa della Costituzione”. Lo ha deciso ieri l’Unione delle camere penali, l’associazione a cui aderiscono più di 8 mila avvocati penalisti italiani, per protestare contro l’annunciata riforma della prescrizione (stop dopo la sentenza di primo grado per tutti i reati) in vigore dal gennaio del 2020. “La prescrizione nel nostro ordinamento è chiamata a svolgere la funzione di presidio del principio costituzionale della ragionevole durata del processo - così si legge nel documento che proclama l’astensione dalle udienze e indice la manifestazione del prossimo 23 novembre. Soppresso tale equilibratore, il tempo dell’accertamento diviene infinito, definitivamente trasformandosi il processo stesso in pena”. L’associazione nazionale magistrati, invece, incoraggia il governo a fare di più. Francesco Minisci, presidente dell’Anm, lo ribadisce: “Abbiamo sempre detto che la modifica della prescrizione si deve fare insieme a una riforma più ampia del processo penale. Ora il governo appare orientato ad operare nel percorso da noi sempre sostenuto, quello di non lasciare isolata la modifica della prescrizione che, di per sé, non sarebbe affatto utile. A questo punto, attendiamo di vedere quali saranno i progetti di riforma”. I penalisti, però, non ci stanno. “Questa riforma della prescrizione è pericolosa - dice l’avvocato Luca Petrucci, in prima linea nei processi Marta Russo, D’Antona, Mafia Capitale -. E una delle criticità più evidenti sarà che il cittadino assolto pagherà più di quello condannato. Perché se il pm farà appello contro la sua assoluzione, rischierà di restare sotto processo per un tempo indefinito. E poi non è giusto accusare sempre noi avvocati per le cosiddette tecniche dilatorie. Fesserie! I processi si rinviano a causa delle notifiche o perché cambiano i collegi e allora si deve ricominciare daccapo”. È critico anche Giosuè Bruno Naso, legale di Massimo Carminati per Mafia Capitale: “Questa riforma è peggiorativa. Il processo penale viene visto come strumento di tutela sociale, a scapito del principio di legalità. Ricordo però che la prescrizione è un istituto del codice! E poi l’avvocato ha sempre interesse a farli, i processi: perché se il processo langue, il cliente non paga...”. “Ora bisognerà preparare una riforma del processo penale all’altezza di uno Stato a civiltà avanzata - conclude Andrea Mascherin, presidente del Consiglio nazionale forense, l’organismo di rappresentanza dell’avvocatura italiana. Al tavolo del governo, perciò, dovranno partecipare avvocati e magistrati”. Il garantismo è come il coraggio, chi non ce l’ha non può darselo di Carlo Nordio Il Messaggero, 9 novembre 2018 Il compromesso raggiunto ieri tra i contraenti del governo sulla prescrizione può esser interpretato, dal punto di vista politico, in molti modi, tutti diversi. Ma una cosa è certa: che sotto il profilo giuridico è poco più che un’aspirazione metafisica che sa di scherzo, se non proprio di turlupinatura. La sospensione della prescrizione viene infatti rinviata al prossimo anno. E già questo è un pasticcio. Perché? Perché la nuova disciplina potrà valere solo per i reati commessi dal 2020 in poi; già con la legge attuale i reati si prescrivono, mediamente, in dieci anni; quelli più gravi in quindici, venti e anche più. Poiché le sentenze di primo grado interessate alla riforma interverranno, statisticamente, dopo il 2025, gli effetti della modifica saranno così dilazionali, diluiti e incerti da diventare platonici. Non per nulla il dottor Davigo, che si diceva l’avesse ispirata, ha detto sconfortato che ne vedrà gli effetti da morto. Naturalmente noi auguriamo all’amico Davigo che il Cielo gli consenta, come dice il Poeta, “pace e vecchiezza”. Ma temiamo che stavolta sia inciampato nella verità. Gli effetti concreti, rispetto alla normativa attuale, si vedranno fra trent’anni. Ma questo è niente. Essa (riforma) sarà - si dice- collegata (o subordinata?) alla riforma del processo penale, volto rendere i giudizi più rapidi, e le pene più certe. Qui siamo davvero nella vuota astrazione dell’intelletto speculativo. La stesura dell’attuale codice di procedura, firmato da Giuliano Vassalli trent’ anni fa, occupò due lustri di studi delle migliori menti giuridiche del Paese. Ne uscì, come sappiamo, un progetto modellato (in parte) sul processo accusatorio anglosassone, che peraltro fu subito demolito dalla Corte Costituzionale e dai forsennati e contraddittori interventi del legislatore. Ora si crede davvero che in un anno si possa elaborare e approvare un codice nuovo? Tanto vale credere all’asinello che vola. E infine: ammesso che questo nuovo codice veda la luce, di che tipo sarebbe? L’unica soluzione, se non vogliamo tornare al vituperato e fascistissimo codice Rocco de11930, sarebbe un vero codice accusatorio, che portasse a compimento il timido disegno di Vassalli. Insomma, un vero codice americano. Del resto, è proprio il sistema americano - sulla certezza della pena e l’inesistenza della prescrizione - quello patrocinato dai grillini e dai loro ispiratori. C’ è tuttavia un piccolo particolare: che il sistema americano - come quello di tutti gli altri Paesi di cultura anglosassone - si regge su principi che fanno inorridire le anime belle del nostro giustizialismo: la discrezionalità dell’azione penale, la rigorosa separazione delle carriere, la presenza della giuria popolare, la distinzione tra il verdetto e la sentenza, l’uso quasi spregiudicato, ma pragmatico, dei riti alternativi, il divieto assoluto della reformatio in peius e, non ultima, l’elettività dei pubblici ministeri e persino dei giudici. A queste condizioni, anche l’abolizione della prescrizione potrebbe andar bene. In caso contrario, avremmo per l’ennesima volta una Ferrari usata, con il motore di una cinquecento obsoleta. Un’ipotesi da far rizzare i capelli a chi abbia una minima sensibilità civile. Da ultima, una considerazione politica. Dei due contraenti di governo, la Lega ha fatto passi importanti sulla via del garantismo. Dopo aver esordito invocando il patibolo ed esibendo in Aula il cappio del carnefice, ha compreso i rischi di uno strapotere incontrollato della magistratura e dell’affievolirsi dei diritti individuali. Un po’ per assecondare Berlusconi, un po’ per sincera adesione ideologica, ha votato alcune riforme di stampo liberale. Sarebbe singolare se ora si adeguasse a programmi di estremismo giacobino. Ma anche i grillini si sono evoluti. Dopo aver sopportato sulla propria pelle i rischi di un’etica giudiziaria esasperata e autofagica, hanno convenuto che i primitivi proclami sugli effetti dell’informazione di garanzia e del rinvio a giudizio andavano mitigati e corretti. Il caso Raggi insegna, e noi siamo stati i primi a sostenere, impregiudicato il giudizio sulle capacità amministrative dell’interessata, la conservazione della sua carica fino al giudizio definitivo. Ora un minimo di coerenza richiederebbe che questi principi garantistici, lungi dall’esser smentiti, fossero consolidati e pienamente attuati nell’eventualità di una riforma globale. Sarà così? Ce lo auguriamo. Ma temiamo che tutta questa vicenda che di giuridico, ripetiamo, non ha assolutamente nulla, si risolva, o si dissolva, in una favola vuota, perché il tempo, oltre a esser portatore di prescrizione e di verità, è anche portatore di elezioni. Prescrizione come diritto o come regalo? di Paolo Pillitteri L’Opinione, 9 novembre 2018 Se ne parla ancora, come si evince dal nostro giornale la cui battaglia contro il giustizialismo & populismo non si ferma mai alle persone ma ai fatti (e alla Costituzione), perché la prescrizione non può e non deve mai essere considerata una sorta di riforma gentilmente offerta da chi ha il potere, ma una prescrizione della Costituzione oltre, e ovviamente, una garanzia per un cittadino alle prese con i processi e la loro durata. Perciò vale la pena riprenderne il tema anche rispetto a una sorta di ping-pong (ad essere buoni) fra, mettiamo, qualche magistrato autorevole e altri, non meno autorevoli, del Movimento 5 Stelle. Fra questi ultimi, come ricordava “Il Foglio”, spicca il parlamentare pentastellato Andrea Colletti, che può ben ritenersi colui che ha promosso la battaglia giustizialista nel suo movimento e che, fermo nella sua convinzione, ha affermato che proprio sulla prescrizione i suoi 5 Stelle sono stati persino troppo buoni, aggiungendo, peraltro, non poche critiche agli alleati di governo, tacciando i leghisti, che pure hanno il vicepresidente del Consiglio, né più né meno che di menefreghismo, e chi più ne ha più ne metta anche in riferimento a Salvini, Stefani e Bonafede. L’aspetto, secondo taluni curioso ma, a detta di non pochi, riflettente una situazione politica percorsa da un tanto robusto quanto inquietante filo antigarantista, sta nelle considerazioni di opposto tenore dei magistrati che non possono prescindere dalla consapevole certezza che snaturare le garanzie dei tempi di prescrizione significa purtroppo ignorare, con altrettanta consapevolezza, lo stato di diritto. Insomma, da qualsiasi parte (politica, associativa, ecc.) la si osservi e la si pratichi, la giustizia non può sempre e comunque ignorare, omettere, cancellare di fatto, la prescrizione perché il problema italiano di fondo, quello più incombente, sono i processi la cui durata è considerata dalla stragrande maggioranza, di eccessiva durata. Noi sappiamo benissimo che la snaturazione delle garanzie processuali, e dunque dei tempi della prescrizione, coincide con l’ignoranza, per di più cosciente, di quello che noi chiamiamo, in ascolto e in ossequio alla Costituzione di una democrazia democratica come la nostra, né più né meno che stato di diritto. E non a caso la stessa Anac ha affermato a tal proposito che la cosiddetta riforma della prescrizione non può essere per dir così “octroyé” gentilmente offerta dal sovrano (popolo), ma né più né meno che un istituto di garanzia tanto imprescindibile quanto irrinunciabile e, all’uopo, viene ricordato che processare uno qualsiasi per un fatto di vent’anni prima è semplicemte assurdo! Non solo, ma va ulteriormente ricordato ai tanti smemorati di comodo e ai non pochi giustizialisti politici “un tanto al kilo”, che esiste né più né meno un altro diritto, quello all’oblio, che trova il suo fondamento nel diritto costituzionale, precisamente in quella che viene chiamata, appunto, ragionevole durata di un processo per cui nessuno può essere messo sotto processo per un presunto caso, fatto, colpa o reato avvenuto chissà quando. E di già che ci siamo nelle cosiddette curiosità di questa vicenda e del suddetto ping-pong fra politica e magistratura, vale la pena ricordare una sorta di avvertenza da parte dei magistrati che ricordano senza molti fronzoli diplomatici che senza il loro benestare la prescrizione non si tocca. Un cenno finale alla questione, testé approvata, della fiducia. A non pochi distratti deve essere sfuggito ciò che accade di frequente, a cominciare da Luigi Di Maio e a qualche pentastellato nel passaggio dall’opposizione pura e dura di qualche tempo fa all’ascesa al governo con ministri, sottosegretari e posti di sottogoverno sulla cui distribuzione intepartitica (tuttora in atto) si sollevava un urlo di protesta definendola né più né meno come il mercato delle vacche. Ebbene, tanto per (non) fare nomi, la pentastellata Paola Taverna, che non è affatto una grillina dell’ultima ora, tre anni fa si scagliava, con parole a loro modo esplicative, contro il governo di allora che aveva deciso di ricorrere alla fiducia: “Fiducia di che? Provvedimento di merda!”. Deve aver cambiato idea. La legittima difesa? Deve assicurarla lo Stato di Mauro Leonardi Avvenire, 9 novembre 2018 La nuova strage negli Usa, le regole che si vorrebbero in Italia. Un uomo armato fino ai denti che ieri ha fatto irruzione a Los Angeles in una festa universitaria, sparando all’impazzata e causando almeno tredici morti, ci fa riflettere su chi pensa che crei più sicurezza l’importazione di questa specie di Far West anche da noi. Sabato scorso, questa volta il teatro era Litchfield Park in Arizona, un bambino di undici anni aveva trovato in casa, carica, la pistola del nonno e, per un futile litigio, aveva sparato alla nuca della nonna suicidandosi subito dopo. Scene così potranno accadere più facilmente anche da noi, Litchfield Park si chiamerà Cantù o Lavinio, se le armi potranno circolare nelle nostre abitazioni libere come alcuni vorrebbero. “Stai attento a non tagliarti” era quanto ci dicevano i nostri nonni quando eravamo piccoli e usavamo le forbici e i coltelli: e nonostante ciò ogni tanto ci scappavano le ferite, piccole e superficiali, al massimo qualche punto al pronto soccorso. La tragica conferma che a undici anni come a ogni altra età è da folli “giocare ai cowboy”, la dà proprio il bimbo americano che, quando si è reso tragicamente conto di aver distrutto la vita della nonna e della sua famiglia, si è sparato. È statisticamente certo che quando i civili portano armi con sé accadono incidenti come questo. Non perché sono cattivi, ma perché sono “civili”, cioè perché non hanno la preparazione, le precauzioni, la routine di un carabiniere, di un poliziotto, di un militare, ovvero di chi deve saper maneggiare un’arma per professione e, per questo, viene sottoposto a una rigida disciplina, a un addestramento rigoroso, a controlli severi. Avere un’arma in casa significa essere capaci di custodirla e di usarla, ma un cittadino normale non ha queste capacità, come dimostrano continuamente tanti avvenimenti, non ultimo la tragica rapina di fine settembre a Lanciano. Per alzare il livello di sicurezza di un Paese non bisogna distribuire armi ai cittadini, ma armare lo Stato e farlo stimare di più. In quasi sessant’anni di vita trascorsi interamente in Italia, non mi sono mai trovato con un estraneo in casa e questo significa che, finora, il mio è stato un Paese civile. È vero però che può accadere il contrario, può cioè avvenire di essere assaltati in strada o in casa, e che - nonostante i numeri in calo dei reati denunciati - tanti cittadini ritengono di vivere in condizioni di crescente rischio. È così vero che il racconto della mia “vita normale” diventa per qualcuno la narrazione di un’eccezione. Questo significa solo che lo Stato deve rafforzare la sicurezza, la polizia, i carabinieri, prendere opportune misure operative e legislative (anche se di leggi ne abbiamo sin troppe...), ma non può mai arrivare a dire al cittadino: prendi una pistola e difenditi pure da solo. Se dovesse dire un giorno: armatevi e imparate a sparare perché non si sa mai chi potrete incontrare nel corridoio di casa, lo Stato starebbe certificando la propria morte. È lo stesso principio per cui se l’insegnante d’inglese è scarso, la scuola non può dire alla famiglie: pagatevi le lezioni private. Se la metro o l’autobus non funzionano, il Comune non può chiedere al cittadino che paga le tasse e ha l’abbonamento di prendere il taxi; e, se l’ospedale non cura il malato, nessun medico può proporre al paziente il ricovero nella propria clinica privata: anzi, se lo fa, come ogni tanto avviene, va denunciato e condannato. Non si capisce perché queste verità così ovvie vengano comprese da tutti e invece, nel caso della sicurezza personale e collettiva, c’è chi preferirebbe avere una pistola in casa, come ogni altro (ogni altro!), invece che pretendere polizia forte, giustizia veloce e sicura, condanne giuste e certe, carceri capaci di degnamente detenere e di recuperare. La legittima difesa è un principio sacrosanto, anche del cristianesimo, ma prima di quella c’è il buon senso di far di tutto per non arrivare mai al tu per tu definitivo con il delinquente. Ci ricordiamo i fatti di Lanciano avvenuti poche settimane fa? Carlo Martelli, il 69enne sequestrato e massacrato di botte insieme alla moglie, appena poté parlare dal suo letto d’ospedale dichiarò: “Io comprare una pistola? No, è lo Stato che deve difenderci”. Ha ragione. Chi ci governa deve difendere i cittadini, non armarli e autorizzarli a difendersi da soli. Tutti sappiamo che gli Stati Uniti hanno una storia profondamente diversa dalla nostra, ma è assolutamente necessario riflettere su quali siano i rischi connessi col dare un sostanziale via libera a una più facile circolazione delle armi. La miglior legittima difesa è quella di non arrivare mai al punto di doversi difendere. Io non so neppure litigare per bene: figurarsi se so sparare. “Così ci hanno schedati mentre guardavamo il film su Cucchi” di Simona Musco Il Dubbio, 9 novembre 2018 È successo durante la proiezione del film “Sulla mia pelle” in Calabria. Qualcuno parla di una schedatura, qualcun altro di un normale controllo, simile ai tanti che l’Arma svolge quotidianamente. Certo è che la proiezione del film “Sulla mia pelle” a Siderno, in Calabria, si è trasformata in un caso. Perché, secondo quanto riportato da La Stampa, due carabinieri in divisa avrebbero chiesto l’elenco dei presenti alla proiezione della pellicola che racconta gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, morto in una stanza dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove era ricoverato da quattro giorni, dopo essere stato arrestato e, secondo l’accusa, pestato violentemente da alcuni dei militari presenti in caserma. Tutto accade una domenica d’ottobre, alla libreria “Calliope”, all’interno del Centro commerciale “La Gru”, nel cuore della Locride. Alla cassa si trova la titolare, Roberta Strangio. Tre file di scaffali la dividono dalla stanza dalle poltroncine rosse dove viene proiettato il film, alla presenza di un centinaio di persone, pronte a dibattere con la giornalista Maria Teresa D’Agostino sulle implicazioni sociali e morali di quanto appena visto. Tra la folla qualcuno riconosce qualche militare in borghese che, silenziosamente, assiste alla proiezione. Un particolare che, fino a ieri, non sembra avere alcuna importanza. Fuori, invece, due carabinieri in divisa si avvicinano a Roberta Strangio e si rivolgono a lei. “Mi hanno salutato e chiesto la lista dei partecipanti”, conferma anche al Dubbio la titolare della libreria. Una richiesta che non si era mai sentita rivolgere prima, confida, e che la lascia un po’ spiazzata. Un elenco dei partecipanti non c’è e tutto finisce lì. I militari ringraziano e si allontanano dalla cassa, facendo capolino, di tanto in tanto, nella sala in cui il film intanto viene proiettato. Fino al giorno stesso del dibattito, il 21 ottobre, la locandina dell’evento porta il nome della sorella di Stefano tra i relatori in collegamento. “Ilaria Cucchi, per pressanti impegni relativi al processo - scrive poi poche ore prima Roberta Strangio sulla pagina Facebook dedicata all’evento -, non potrà oggi essere in collegamento con noi. Ci sarà l’intervento in videoconferenza di Irene Testa, co- fondatrice dell’Associazione Stefano Cucchi Onlus”. Come da programma, la proiezione inizia alle ore 17. Poi il dibattito su una vicenda emblematica - spiega la D’Agostino -, “paradigmatica di altre vicende simili in cui il potere, ad un certo punto, da struttura che dovrebbe proteggere si trasforma in strumento di violenza”. Terminata la proiezione, parte il collegamento telefonico con Irene Testa e i carabinieri tornano da Roberta Strangio. “Credevano fosse Ilaria Cucchi e mi hanno chiesto come avessimo fatto a organizzare l’evento”, spiega. Finita la telefonata, la discussione si accende, alcuni usano toni più critici, altri si limitano all’analisi fredda di una questione spinosa, molti sono commossi e la voce si rompe. Si discute e tutto procede nella massima tranquillità, senza che la presenza dei due uomini in divisa sollevi dubbi o perplessità tra i presenti. “Nessun atteggiamento strano da parte dei due carabinieri né da parte del pubblico”, spiega Maria Teresa D’Agostino. Finisce il dibattito e tutti vanno via, compresi i militari. Che non chiedono altro a nessuno: né documenti, né ulteriori informazioni. Ma a luci spente cominciano a circolare le prime domande sulla loro presenza. La risposta della titolare è quella, secca, senza dietrologie: mi hanno chiesto l’elenco dei presenti. Nessuno ne vuole fare un caso nazionale, anche se sembra strano, ma la cosa sembra chiudersi lì. La voce però prende a circolare e arriva lontano, fino alle orecchie di un giornalista e, quindi, sulla carta stampata. Il colonnello Gabriele De Pascalis, comandante del Gruppo di Locri, chiarisce a “La Stampa” che non c’è stata alcuna intenzione di censire i presenti: “I carabinieri erano lì per attività di routine e hanno interloquito con gli organizzatori per sapere se c’era qualcuno delle istituzioni o autorità, in un’ottica di ordine e sicurezza pubblica. A noi non interessa alcun elenco, soprattutto in una manifestazione che non aveva alcun rischio di ordine pubblico. Noi siamo sempre tra la gente e non vogliamo che l’accaduto venga strumentalizzato, specie in una vicenda triste e delicata come quella di Stefano Cucchi”, spiega. Conferme che arrivano anche dal comando provinciale, dove il tutto si riduce ad una semplice attività di routine: l’intenzione, affermano, era quella di verificare la presenza di autorità o eventuali soggetti di interesse, in un posto - il centro commerciale - dove i controlli sono costanti e quotidiani per altre ragioni di interesse operativo. “Se ci fosse stato l’interesse di effettuare indagini su quell’evento - concludono -, non si sarebbero di certo presentati in divisa”. La Consulta dà potere assoluto alle procure di Claudio Cerasa Il Foglio, 9 novembre 2018 Così la sacrosanta indipendenza della magistratura si tramuta in ingerenza. Gli agenti di Pubblica sicurezza che svolgono indagini per conto delle procure non dovranno più informare in via gerarchica i loro dirigenti, come prescriveva una legge di due anni fa che la Corte costituzionale ha cassato ritenendola contraria al principio dell’esclusiva responsabilità dell’autorità giudiziaria nella condotta delle indagini. È vero che nel dispositivo (le motivazioni non sono ancora note) la Consulta riconosce che deve essere tutelata anche l’esigenza di coordinamento informativo delle attività della Polizia giudiziaria, ma ora questa tutela è stata abolita. L’impugnazione della norma era stata effettuata dal procuratore di Bari Giuseppe Volpe, che ha ravvisato un conflitto di attribuzione che a suo avviso può ledere la segretezza delle indagini penali. Come questa segretezza sia garantita dalle procure, per la verità, è noto a tutti, basta leggere i giornali. Naturalmente nessuno mette in dubbio che gli agenti che partecipano a indagini giudiziarie non debbano dare informazioni di merito nemmeno ai loro comandanti. Si tratta soltanto di informare sull’impegno richiesto in modo che si evitino doppioni e si possa garantire la distribuzione del lavoro ottimale all’interno del corpo. Ma anche questo sembra violare l’autorità assoluta delle procure, che non si servono di un corpo dello stato, appunto la Polizia giudiziaria, ma che dispongono direttamente dei singoli agenti. Al di là dei casi in cui questa collaborazione personale si è tramutata in qualcosa di meno limpido, è il principio che dovrebbe essere preso in esame in modo più approfondito. A che serve che ci sia una struttura di direzione della Polizia giudiziaria se non può neppure conoscere l’impegno dei suoi dipendenti per organizzare il lavoro dell’insieme? L’indipendenza della magistratura, sacrosanta, diventa così ingerenza nel campo della direzione di un altro corpo dello stato. Anche per questa via il potere già straordinario delle procure diventa strabordante ed è un peccato che la Corte costituzionale, che deve tutelare anche l’equilibrio tra i poteri dello stato, non si sia preoccupata di questo pericolo. Diffamazione, la veridicità dei fatti è incontestabile se non impugnata Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2018 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 8 novembre 2018 n. 28499. Nel reato di diffamazione la veridicità dei fatti riportati diventa giudicato intoccabile se chi si ritiene diffamato contesti in giudizio esclusivamente la sussistenza dell’interesse pubblico ai fatti riportati e la continenza delle espressioni utilizzate. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 28499 di ieri ha definitivamente chiuso una vicenda finalizzata al risarcimento del danno e che vedeva contrapposti un’azienda chimica del mantovano e una cittadina attiva politicamente nella zona la quale con una lettera pubblicata su ‘La nuova ecologià (la rivista di Legambiente) aveva criticamente fatto rilevare l’utilizzo di formaldeide all’interno di prodotti pubblicizzati sulle sue pagine. La lettera parlava genericamente di emissioni nell’ambiente di componenti pericolosi e non di immissioni inquinanti sottolineando comunque che quanto usciva dai camini delle fabbriche in questione non poteva ritenersi benefico. Diffamazione se lo stralcio dell’intercettazione è posizionata in modo strategico nell’articolo di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2018 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 8 novembre 2018 n. 28500. La pubblicazione di uno stralcio di una conversazione telefonica di un procedimento penale integra gli estremi della diffamazione. E questo a maggior ragione se il giornalista - con l’uso di virgolette o la collocazione strategica dell’estratto di un’intercettazione all’interno dell’articolo - metta in cattiva luce un soggetto (nel caso un tenente colonnello). La Cassazione con la sentenza n. 28500/18 ha così respinto il ricorso proposto da Rcs Quotidiano Spa nell’ambito di un procedimento che faceva capo alla procura di Velletri nell’incolpazione di turbativa d’asta e altri reati, relativi alle procedure di aggiudicazione di appalti nella base di Pratica di Mare. Il processo in appello si era concluso con la condanna di Rcs per la rifusione delle spese al danno non patrimoniale di un militare richiamato nell’articolo. Secondo i Supremi giudici è stato correttamente applicato il principio di diritto in tema di continenza formale che deve essere alla base dell’attività giornalistica. Il reato di diffamazione - si legge nella sentenza - potrebbe anche non apparire in prima battuta ma può emergere dopo un’operazione di lavorazione del pezzo con il sapiente uso del virgolettato o degli eufemismi che comunque stimolano nel lettore un giudizio negativo. Ad aggravare la posizione dell’articolista e del gruppo, poi, rilevano anche gli accostamenti suggestionanti, in cui l’articolo oltre a narrare il fatto attribuito al soggetto, richiama altri episodi che si riferiscono a soggetti diversi, creando tra il primo e il secondo un collegamento implicito senza esteriorizzarlo. Sarà, in definitiva, il lettore che metterà in relazione il primo con i secondi. Lombardia: malattie psichiatriche e tossicodipendenza, le emergenze nelle carceri di Alessandra Toni varesenews.it, 9 novembre 2018 Basso tasso di vaccinati, alto numero di persone con Aids o sieropositive in ambienti non sempre adeguati. Le priorità sanitarie nelle carceri sono diverse. I reclusi negli istituti di pena nella nostra regione sono 8.439 a fronte di 6.226 posti disponibili. Sovraffollamento, promiscuità e situazioni sanitarie complesse sono al centro delle attività di pianificazione della sanità penitenziaria lombarda. Tra i problemi principali c’è quello delle coperture vaccinali, statisticamente ben al di sotto di quanto prevedano le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità. Le celle in cui i detenuti trascorrono la vita sono spesso fatiscenti e sicuramente inadeguate. Se alle condizioni ambientali sommiamo le patologie che i singoli portano con sé e problemi di natura comportamentale, si comprende la complessità dell’attività medica negli istituti di detenzione. L’assistenza sanitaria nelle carceri è assicurata dalla presenza di medici del servizio sanitario pubblico: guardie mediche o specialisti delle Asst. La realtà penitenziaria è organizzato come una rete ci sono istituti specializzati in branche diverse della medicina con letti dedicati a certe patologie. La casa circondariale di Busto, per esempio, si è specializzata nel recupero funzionale ortopedico e cardiologico, anche se ci sono molti specialisti che assicurano assistenza alla popolazione reclusa attraverso l’asst Valle Olona. Le emergenze e i trattamenti psichiatrici, invece, vengono smistati in tre centri specializzati: San Vittore a Milano, Pavia e Monza che hanno con posti dedicati alla salute mentale, pochi rispetto alle necessità. Le principali emergenze sono legate proprio ai disturbi mentali: c’è un’alta correlazione tra malattia psichiatrica e neuropsichiatria infantile e l’attuazione di reati. Derive psicotiche sono sempre più alla base del delinquere. Con l’avvento delle droghe e delle nuove sostanze, inoltre, il rapporto tende a crescere. Secondo i dati resi pubblici dal responsabile della medicina penitenziaria regionale dr Roberto Ranieri, nell’istituto di pena di Opera, dove si ritrovano le persone con pene più lunghe, dei 1350 carcerati presenti il 56% ha l’aids e mentre il 2% è sieropositivo: di questa ultima percentuale il 18% è straniero con un’età media 47 anni. Nella casa circondariale di San Vittore, dove stazionano in attesa di giudizio o per condanne di breve durata, degli 890 reclusi presenti il 3,4% è sieropositivo mentre il 33% ha la malattia conclamata (un terzo dei malati è straniero ultraquarantenne). Nel carcere di Bollate, infine, su 1330 detenuti, il 29% è malato di Aids e il 17% è di origine straniera. Sicilia: suicidi nelle carceri, il Garante dei detenuti in visita al Pagliarelli Giornale di Sicilia, 9 novembre 2018 Il garante dei diritti dei detenuti, Giovanni Fiandaca e il dirigente dell’Ufficio, Pietro Valenti, si sono recati questa mattina in visita al carcere Pagliarelli-Lo Russo dopo che a distanza di pochi giorni, la scorsa settimana, due detenuti reclusi in questo istituto di pena, si sono tolti la vita. Tra i punti affrontati con la direttrice del carcere, quello più rilevante si riferisce alla contingente insufficienza dell’assistenza psichiatrica nei confronti dei detenuti affetti da patologie mentali o comunque da disturbi psichiatricamente rilevanti. “Dei sei psichiatri presenti sulla carta - dice Fiandaca - in atto al Pagliarelli sono disponibili e in servizio soltanto in due. Troppo pochi se si considerano le dimensioni del carcere Pagliarelli-Lo Russo”. L’istituto conta 1270 detenuti circa dei quali almeno 150 con patologie psichiatriche gravi, altri 250 bisognosi di assistenza psichiatrica bisettimanale, cui si aggiungono le necessità saltuarie di sostegno psicologico/psichiatrico del resto dei detenuti. “Il Pagliarelli - dice Fiandaca - è un grande carcere e la situazione è evidentemente grave. Occorre che le autorità sanitarie competenti si facciano carico al più presto di intervenire per garantire un servizio psichiatrico adeguato. L’ufficio del garante - aggiunge - si impegnerà a fornire un contributo di analisi e di proposte in vista di un auspicabile potenziamento dell’assistenza psichiatrica nelle carceri siciliane e di una più efficace prevenzione del rischio suicidario”. Già ad agosto l’Ufficio del garante aveva lanciato l’allarme sul rischio suicidi nelle carceri siciliane dopo aver scoperto un’impennata di atti di autolesionistici e di tentati suicidi nel mese di luglio. Da gennaio all’inizio di agosto (il dato è al 2 agosto 2018) nelle carceri siciliane ci sono stati 2 suicidi, 479 atti di autolesionismo e 54 tentati suicidi. Palermo: suicidio al Pagliarelli “escalation allarmante, il detenuto è considerato un rifiuto” di Nadia Palazzolo palermotoday.it, 9 novembre 2018 L’ultimo a compiere il gesto estremo, 2 giorni fa, un 29enne che si trovava in isolamento. La camera penale di Palermo: “È solo l’ultimo degli oltre 50 casi registrati nelle nostre carceri dall’inizio dell’anno”. Apprendi: “Basta indifferenza, si prendano provvedimenti”. “Un’allarmante escalation di suicidi dall’inizio dell’anno sta interessando l’istituto penitenziario Pagliarelli”. La denuncia è messa nero su bianco in un documento della commissione carcere della camera penale Bellavista di Palermo, che in una nota definisce “non più procrastinabile il momento in cui dalla mera riflessione sulle problematiche, si passi alla concreta attuazione di un intervento immediato per rimuovere le cause che determinano il forte malessere del vivere dei detenuti”. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”, diceva il filosofo francese Voltaire. E secondo quanto reso noto “dall’inizio di quest’anno, quello del 6 novembre è solo l’ultimo degli oltre 50 suicidi registrati nelle nostre carceri con espresso riferimento alle strutture penitenziarie complesse, i ‘grossi istituti’ dove il sovrannumero dei carcerati, l’inadeguatezza numerica del personale di polizia penitenziaria e del personale civile (educatori, assistenti sociali, personale medico) determinano criticità insostenibili”. L’ultimo detenuto a compiere il gesto estremo è stato un ventinovenne, con disturbi psichiatrici, che si trovava in isolamento al Pagliarelli. “Ormai è routine, non fa più notizia, tanto il detenuto é considerato un rifiuto”, il duro commento del presidente dell’associazione Antigone Sicilia Pino Apprendi. “Il ministero di Grazia e giustizia - dice Apprendi - non penserà nemmeno di fare un’ispezione, sarebbe una perdita di tempo inutile secondo qualcuno. Io dico basta, non è giusto che avvengano tanti suicidi nel carcere, qualcosa non funziona. Questo ragazzo ha ricevuto tutte le cure necessarie? Psicologi e gli educatori lo hanno incontrato? Ci sono le relazioni quotidiane dei medici che avevano l’obbligo di visitarlo? Quanti giorni é stato in isolamento e perché non era nel reparto di psichiatria? Possibile che non ci siano responsabili della vita di un uomo o di una donna che entra nel carcere? Non mi rassegnerò mai al silenzio, di fronte all’indifferenza per la morte di una persona che lo Stato avrebbe dovuto tutelare e rieducare”. La commissione cita i dati del sindacato Sappe: “Nel primo semestre del 2018, si sono verificati nelle carceri italiane 5.157 atti di autolesionismo, 585 tentativi di suicidi sventati dal personale di polizia penitenziaria e 24 suicidi portati a termine”. Gli episodi hanno riguardato prevalentemente i detenuti in attesa di giudizio e nel primo periodo di restrizione nella struttura penitenziaria. Secondo la commissione è necessario investire su progetti di accoglienza, sul potenziamento del personale sanitario e medico con particolare riguardo al sostegno psicologico perché “il silenzio su questi fatti è vera e propria complicità al disimpegno. Non possiamo rimanere indifferenti a questi drammi”, si deve “progettare e realizzare il cambiamento”. Richieste avanzate anche da Apprendi, per il quale “si deve potenziare l’assistenza psicologica e migliorare le condizioni delle carceri che, in molti casi sono disumane”. Proprio al Pagliarelli stamani sono andati il garante dei diritti dei detenuti Giovanni Fiandaca e il dirigente dell’Ufficio, Pietro Valenti. Ciò che è emerso, dopo un incontro con la direttrice del carcere, è “l’insufficienza dell’assistenza psichiatrica nei confronti dei detenuti affetti da patologie mentali o comunque da disturbi psichiatricamente rilevanti”. “Dei sei psichiatri presenti sulla carta - dice Fiandaca - in atto al Pagliarelli sono disponibili e in servizio soltanto in due. Troppo pochi se si considerano le dimensioni del carcere”. L’istituto conta 1270 detenuti circa dei quali almeno 150 con patologie psichiatriche gravi, altri 250 bisognosi di assistenza psichiatrica bisettimanale, cui si aggiungono le necessità saltuarie di sostegno psicologico-psichiatrico del resto dei detenuti. “Il Pagliarelli - aggiunge Fiandaca - è un grande carcere e la situazione è evidentemente grave. Occorre che le autorità sanitarie competenti si facciano carico al più presto di intervenire per garantire un servizio psichiatrico adeguato. L’ufficio del garante si impegnerà a fornire un contributo di analisi e di proposte in vista di un auspicabile potenziamento dell’assistenza psichiatrica nelle carceri siciliane e di una più efficace prevenzione del rischio suicidario”. Pordenone: nel carcere del Castello oltre metà dei detenuti senza condanna definitiva di Ilaria Purassanta Messaggero Veneto, 9 novembre 2018 Visita in carcere della radicale Rita Bernardini, reduce da uno sciopero della fame I reclusi sono 62, la capienza regolamentare è di 38. Pochi i posti di lavoro interni. Un carcere sovraffollato, con “gravi carenze strutturali”, ma una “dimensione umana e familiare”: è la fotografia del Castello di Pordenone restituita da Rita Bernardini, esponente del Partito radicale, già deputata della XVI legislatura. Reduce da uno sciopero della fame di tre settimane, Bernardini ha ottenuto infine un incontro con il ministro della giustizia per parlare della situazione penitenziaria in Italia, “sempre più allarmante”. Rispetto ad altre carceri della penisola, a Pordenone si sta meglio. Chi ha visto le carceri del sud le ha raccontato: “Voglio stare qui, perché non ci sono paragoni”. Al Castello sono ospitati 62 detenuti, quasi il doppio della capienza regolamentare, che ne prevedrebbe 38. Solo 27 stanno scontando una sentenza definitiva, tutti gli altri sono in custodia cautelare. Più della metà, dunque, è dietro le sbarre in attesa della sentenza. Condividono i letti a castello a tre piani nelle celle 36 italiani e 26 stranieri. Le nazionalità estere più rappresentate? Pakistani, afghani, romeni, nigeriani. Ci sono 40 protetti, ovvero che hanno commesso reati a riprovazione sociale: sex offender, collaboratori di giustizia o ex appartenenti a forze dell’ordine. L’esponente del Partito radicale ha sottolineato che si tratta di “una vecchia struttura riadattata a carcere, molto fatiscente, con pochi spazi per le attività finalizzate alla rieducazione del condannato”. Bernardini ha elencato le carenze: wc alla turca nelle celle, docce esterne, bocche di lupo alle finestre che impediscono all’aria e alla luce di entrare. Ci sono solo 11 posti di lavoro in carcere. Un detenuto iracheno che si è inferto ferite sulle braccia ha raccontato che da due anni chiede di lavorare: gli servono i soldi per chiamare il bimbo all’estero. Spende 10 euro per dieci minuti. “Comincia la scuola e mi ha chiesto un paio di pantaloni, perché non li ha. E io non glieli posso regalare”, il padre era disperato. Anche il Castello patisce un problema comune a tutte le carceri: la necessità di dare una sistemazione adeguata ai casi psichiatrici, divenuti tali durante la detenzione. L’onorevole ha intenzione di sollecitare un “piantone” (il detenuto che aiuta un altro non autosufficiente e viene pagato per tale lavoro) per un anziano costretto a letto dalla sua malattia. Fra le note positive il buon rapporto con gli agenti e con l’ispettore superiore, “una persona straordinaria”, lo spazio infermeria, le associazioni di volontariato, l’impegno del cappellano Piergiorgio Rigolo, l’umanità, le celle aperte fino alle 18. Alla visita, promossa dal Lions club Pordenone Naonis hanno partecipato gli avvocati Pierfrancesco Scatà (presidente del club), Rosanna Rovere (Ordine degli avvocati) e Roberto Lombardini (Camera penale), Giovanni Parisi (Pr) e soci del Lions. Dopo il carcere la delegazione ha visitato la mostra dei quadri dei detenuti nel carcere di Tolmezzo allestita al day hospital di Pordenone. “L’iniziativa - ha raccontato Scatà - nasce dalla volontà della nostra associazione di rendere un servizio alla collettività, stimolando e mantenendo alta l’attenzione sulla realtà delle nostre carceri, troppo spesso dimenticata nel dibattito politico e pubblico”. Napoli: “Uno spazio per noi”, dove bimbi e papà detenuti si incontrano per giocare di Paola Ciaramella comunicareilsociale.com, 9 novembre 2018 Uno luogo protetto tra le mura della Casa Circondariale di Secondigliano, dove i bambini, guidati da un educatore, si preparano all’incontro con i papà detenuti realizzando oggetti e disegni. Un ambiente ludico-espressivo per attenuare l’impatto potenzialmente traumatico del carcere sui bimbi in tenera età, sostenendo allo stesso tempo le loro famiglie e le mamme, attraverso uno sportello di ascolto in cui operano un’assistente sociale e un avvocato. Si chiama “Uno spazio per noi” ed è uno degli interventi del progetto S.P.E.R.A. (Spazi Educativi e Ricreativi Aperti), selezionato dall’impresa sociale Con i Bambini - interamente partecipata dalla Fondazione con il Sud - nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Nato in risposta al Bando Prima Infanzia, per la fascia da 0 a 6 anni, S.P.E.R.A. racchiude una serie di attività che intendono dare ascolto al bisogno di aiuto delle famiglie residenti nei quartieri napoletani di Ponticelli, Forcella e Scampia e nel comune di Mercato San Severino (Salerno), in particolare nella zona di Piazza del Galdo: territori vulnerabili, dove spesso le mamme e i papà non riescono a garantire cure adeguate allo sviluppo psico-affettivo dei loro piccoli, sia per la carenza di strumenti genitoriali che per la difficoltà di accedere ai servizi. Il progetto, partito il 30 marzo scorso, di durata triennale, è il frutto di un approccio condiviso che ha messo insieme realtà diverse, dalle parrocchie alle associazioni, fino alle scuole, coinvolgendo numerosi soggetti in partenariato: l’Istituto delle Suore delle Poverelle, detto Istituto Palazzolo (soggetto responsabile), le associazioni Anima, Chirom e Chino Onlus, Maestri di Strada Onlus e Terra Prena, la Casa Circondariale di Secondigliano, gli istituti comprensivi Pertini - 87° D. Guanella, Adelaide Ristori e Aldo Moro, la cooperativa sociale Obiettivo Uomo Onlus, le parrocchie Maria SS. del Buon Rimedio e San Rocco. Per rafforzare il rapporto tra mamma e bimbo - Le azioni sono indirizzate ai bambini ma anche agli adulti di riferimento, ai quali viene offerta la possibilità di trascorrere del tempo di qualità con i figli e di seguire percorsi di riflessione e formazione che li rendano più consapevoli del proprio ruolo. “Officina del Gusto”, per esempio, è un laboratorio che favorisce la diffusione della cultura del cibo sano tra i piccoli partecipanti e i genitori, fornendo a questi ultimi - grazie alla presenza di un cuoco esperto e di un educatore - consigli pratici per cucinare pasti salutari e gustosi per tutta la famiglia. Poi c’è lo “Spazio libero gioco”, pensato per rafforzare la relazione tra le mamme e i figlioletti tra i 18 e i 36 mesi, mediante attività ludiche, educative e laboratoriali. E ancora, il percorso di supporto domiciliare “Home visiting”, rivolto alle giovani madri durante il periodo della gravidanza, del parto e nella fase delicata del post partum, seguite da un’ostetrica e da un educatore per vivere la maternità in modo consapevole, nel rispetto dei propri diritti ed esigenze. Pisa: “Malaspina”, il noir realizzato dai detenuti La Nazione, 9 novembre 2018 Il romanzo collettivo “Malaspina”, realizzato dai detenuti, sarà presentato venerdì 9 novembre alle 15 nella sala Fermi al Pisa Book festival, Palacongressi, via Matteotti 1 a Pisa. Interverranno, oltre ai curatori Michele Bulzomì (che ne è anche l’illustratore) e Antonia Casini e i direttori del carcere Francesco Ruello e Fabio Prestopino, alcuni detenuti scrittori e l’assessore alla Politiche Sociali di Palazzo Gambacorti Gianna Gambaccini. “Malaspina” parla di carcere. Di vita in gabbia; di amori dietro le sbarre. Quello verso la famiglia che si lascia fuori; quello nei confronti del partner; ma soprattutto di amore per se stessi dopo aver fatto un errore (a volte più di uno) riconosciuto e punito dalla società. Da dove ripartire? Se lo chiedono i protagonisti che raccontano spesso in prima persona e che a volte sono parte della trama. Un romanzo scritto a dieci mani: otto detenuti, guidati da due insegnanti, si sono cimentati in un giallo tutto pisano con un forte sentimento di identità. Anche se, quando si è reclusi, si è sospesi. Difficile sentirsi parte di una città. “Malaspina”, titolo dai molti risvolti (ma la spina? o maledetta spina ma anche un richiamo a uno dei più famosi cognomi di famiglie italiane storiche e intricate) è il terzo libro realizzato durante il corso di scrittura tenuto da quattro anni all’interno della casa circondariale Don Bosco da Mds, che ha pubblicato il volume, e da Michele Bulzomì e Antonia Casini. “In tutto questo tempo, abbiamo ascoltato tante storie, ci siamo commossi e arrabbiati. Alcuni dei nostri studenti hanno trovato la morte, qualcuno (per fortuna pochi, è tornato a delinquere) e c’è stato anche chi ha abbandonato tutto, anche le conquiste fatte, approfittando della libertà appena conquistata. Ma molti lottano per riacquistare un posto nel mondo. E anche se uno solo ci riesce per noi è un piccolo miracolo”, commentano i due giornalisti. “Il più delle volte ci ritroviamo, dopo il lavoro, a dover scaldare una pentola per poterci togliere da dosso quella puzza di fatica e di stanchezza che ogni sera ci portiamo dietro. Un tegame pieno d’acqua, intiepidito su un fornello comprato nel magazzino a nostra disposizione: le docce non funzionano e spesso sono talmente gelate da toglierci il fiato”, uno dei passaggi del brano di Andrea. Due le introduzioni: dell’ex direttore del carcere pisano Fabio Prestopino (ora a Sollicciano) e dell’attuale, Francesco Ruello. La trama: tutto ha inizio da un articolo di giornale in cui si parla di una sparizione nella chiesa della Spina, sul lungarno. Un mistero che coinvolge e unisce chi è dentro (a volte non per molto) a chi è fuori (non per sempre). Malaspina (che ha i patrocini di Comune, Camera penale e consiglio dell’ordine degli avvocati di Pisa) sarà presentato venerdì 9 novembre alle 15 nella sala Fermi al Pisa Book festival, Palacongressi, via Matteotti 1 a Pisa. Interverranno, oltre ai curatori Bulzomì e Casini, alcuni detenuti scrittori e l’assessore alla Politiche Sociali di Palazzo Gambacorti Gianna Gambaccini. I diritti d’autore saranno devoluti a progetti di reinserimento dei detenuti nella società. Civitavecchia (Rm): il teatro come cura del disagio in carcere trcgiornale.it, 9 novembre 2018 Approvato il progetto Fortezza dalla Asl Rm4, promosso dall’Associazione Sangue giusto, rivolto ai detenuti dei due complessi penitenziari cittadini, per contrastare l’insorgere di disagi psichici durante la reclusione. Particolarmente utile l’utilizzo del potenziale terapeutico dell’arte teatrale come strumento di prevenzione e riabilitazione del disagio mentale piuttosto ricorrente in tali casistiche. Il progetto prevede un laboratorio teatrale permanente per i detenuti della Casa di Reclusione di Civitavecchia; un laboratorio teatrale nel settore maschile della Casa Circondariale di Civitavecchia N.C., un laboratorio interculturale di teatro, canto popolare e narrazione nella sezione femminile della Casa Circondariale di Civitavecchia N.C.. L’esperienza teatrale, infatti, non svolge una semplice funzione ricreativa e di stimolo intellettuale, poiché permette lo sfogo, la canalizzazione e la trasformazione in atti costruttivi di emozioni potenzialmente distruttive. Trattasi di fatto di interventi di prevenzione primaria, secondaria e terziaria in ambito psicologico e psichiatrico. Alessandria: il convegno “Detenuti e carcere, rapporti con la comunità del territorio” culturaesviluppo.it, 9 novembre 2018 Nell’ambito dei Giovedì Culturali, l’Associazione Cultura e Sviluppo, unitamente all’Associazione Don Angelo Campora, organizza un’iniziativa per riportare l’attenzione sulla realtà carceraria, troppo spesso dimenticata e non considerata al pari di altre istituzioni che operano sul territorio come l’Ospedale, l’Università o il Sindacato. In un momento storico in cui si tende a separare e allontanare piuttosto che ad unire e avvicinare, l’incontro - andando controcorrente - si pone invece in linea con il tracciato già a suo tempo indicato dalla Riforma Penitenziaria del 1975, i cui principi ispiratori e le cui finalità oggi devono essere confermati e, se necessario, difesi. Troppo spesso considerata una “città nella città”, slegata dal contesto che la circonda, Alessandria convive con una realtà carceraria composita, composta da due istituti con peculiarità differenti, la Casa Circondariale di piazza don Soria e l’Istituto Penitenziario di San Michele. L’iniziativa del prossimo 15 novembre, dunque, auspica di poter dare un contributo all’abbandono della concezione delle “due città”, per discutere, ragionare e progettare senza più tenere separate le Istituzioni Carcerarie dalla città dove sono ubicate. A collaborare a questa operazione di inclusione sociale sono chiamate le Istituzioni, gli Enti, le Associazioni, i Volontari, i mass media ed ogni altra Agenzia ed Organismo, a vario titolo interessati. Interverranno nel corso della serata, quali relatori Livio Pepino, già Magistrato ed oggi Direttore Editoriale di “Edizioni Gruppo Abele”; Riccardo De Vito, Magistrato al Tribunale di Sorveglianza di Sassari e presidente di Magistratura Democratica; Bruno Mellano, Garante dei Detenuti per il Piemonte e membro del Consiglio Regionale del Piemonte; Elena Lombardi Vallauri, Direttrice del complesso penitenziario di Alessandria. Arricchiranno il dibattito alcuni interventi qualificati di volontari e operatori. Di questi temi si parlerà appunto giovedì 15 novembre alle 19 (con pausa buffet alle 20,30 e termine alle 22,30) all’incontro dal titolo Detenuti e carcere. Rapporti con la comunità del territorio. Volontariato in carcere oggi. Migranti. Il decreto sicurezza rende legali le criticità degli hotspot di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 novembre 2018 Pubblicato il report del progetto “In Limine” sulla situazione della struttura di Lampedusa. Applicazione parziale delle garanzie a tutela dei minori, condizioni materiali problematiche, scarsa informazione su status legale e accesso alla procedura di protezione internazionale, limitazione della libertà personale e differenziazione arbitraria tra richiedenti asilo e cosiddetti migranti economici che ora viene normata dal decreto sicurezza voluto dal ministro degli Interni Matteo Salvini. Parliamo degli aspetti critici del monitoraggio dell’hotspot di Lampedusa realizzato nell’ambito del progetto pilota In Limine, nato nel marzo 2018 da una collaborazione tra Asgi, Cild, Indiewatch e ActionAid e presentato nel report “Scenari di frontiera: l’approccio hotspot e le sue possibili evoluzioni alla luce del caso Lampedusa”. Si legge nel report di 32 pagine che la delegazione ha osservato una profonda ambiguità rispetto alla natura detentiva o meno dell’hotspot: il cancello del centro era infatti chiuso per i migranti e non erano previsti meccanismi per regolare ingresso e uscita dalla struttura. Tuttavia delle aperture nella rete, ciclicamente riparate dall’amministrazione del centro e riaperte dai migranti, consentivano, a chi ne aveva la possibilità, di uscire dalla struttura. Le condizioni di vita all’interno del centro erano gravemente degradate e uomini, donne e minori condividevano spazi fatiscenti in condizioni di promiscuità. L’accesso alla domanda di protezione internazionale era limitato, in particolare per le persone provenienti da paesi, come la Tunisia, considerati sicuri in base a una valutazione informale. Venivano attuati respingimenti differiti senza garantire ai cittadini stranieri un adeguato accesso alle informazioni e negandogli il diritto di attivare rimedi effettivi per opporsi alle procedure di rimpatrio. Le denunce circa le condizioni del centro, i ricorsi presentati alla Corte Europea dei Diritti Umani dal progetto In Limine, il rinnovato interesse mediatico sull’isola, unitamente all’incendio, hanno portato alla decisione del Viminale di chiudere parzialmente il centro che, nei mesi successivi, ha lavorato a regime ridotto. Gli avvenimenti di marzo hanno svelato una situazione preoccupante: sull’isola di Lampedusa vigeva di fatto uno stato di eccezione in cui la deroga alle norme relative alla gestione dei flussi migratori costituiva la regola. L’isolamento geografico e mediatico di Lampedusa e l’abbandono dell’isola da parte di molte Ong aveva permesso l’instaurarsi di un sistema segnato dalla normalizzazione degli abusi, nonostante alcune organizzazioni locali e nazionali continuassero - e continuino - a fornire servizi di base durante gli sbarchi, quali la distribuzione di coperte, di cibo e bevande calde, e ad aprire spazi di accoglienza e incontro quali internet point e sportelli di ascolto. Per quanto riguarda la classificazione dei migranti, il rapporto evidenzia che in molti casi lo status giuridico di richiedente asilo o di persona destinataria di provvedimento di respingimento sembra essere definito, contrariamente a quanto previsto nella normativa italiana e comunitaria, unicamente in ragione del paese di origine. I cittadini provenienti da paesi considerati non sicuri sembrerebbero quindi essere incanalati in maniera tendenzialmente automatica nelle procedure per il riconoscimento del titolo di protezione. Al contrario, i cittadini che provengono da paesi considerati sicuri sarebbero spesso destinatari di provvedimenti di respingimento differito. In questo modo gli hotspot funzionerebbero come strumento di differenziazione e selezione di richiedenti asilo e dei cosiddetti migranti economici. Il decreto norma tutto ciò e, inoltre, ridefinisce il funzionamento degli hotspot attraverso il trattenimento fino a 30 giorni per la determinazione e verifica dell’identità e della cittadinanza per i richiedenti asilo a cui si sommano altri 180 giorni in un Cpr in caso di mancata identificazione. Guerra. La fabbrica sarda che rifornisce i sauditi triplicherà la produzione di bombe di Madi Ferrucci e Eleonora Savona Il Manifesto, 9 novembre 2018 Rwm verso l’ampliamento. Il comitato di riconversione e Italia Nostra Sardegna in piazza per protestare: “Il comune di Iglesias non ci ascolta”. L’azienda tedesca investe sulle sue filiali all’estero per aggirare il blocco di forniture a Riyadh imposto da Angela Merkel. La Rwm, la fabbrica di bombe situata a Domusnovas in Sardegna, triplicherà la sua produzione e amplierà le sue strutture su un territorio che rientra sotto il comune di Iglesias. È prevista la costruzione di due nuovi reparti produttivi; a giorni verrà pubblicata l’autorizzazione sull’albo pretorio comunale. Secondo Italia Nostra Sardegna, la richiesta di autorizzazione all’ampliamento è stata formulata in modo che i due reparti impiegati nel processo di miscelazione, caricamento e finitura di materiali esplodenti non vengano inquadrati come impianti chimici, così da eludere le valutazioni di Impatto ambientale e il coinvolgimento della Regione Sardegna. Con i due nuovi reparti la produzione passerà da 5 mila a 15 mila bombe l’anno. La Rwm è tristemente famosa per le forniture all’Arabia Saudita, che utilizza gli ordigni per bombardare i civili in Yemen nella guerra contro i ribelli sciiti Houthi che ormai va avanti dal 2015. La fabbrica è una filiale dell’azienda tedesca di armamenti Rheinmetall, il cui presidente Papperger già a maggio scorso dichiarava durante il consiglio di amministrazione il rinnovo di investimenti per il sito di Domusnovas. Gli investimenti sono arrivati e l’ampliamento ha ricevuto l’autorizzazione. In circa 18 mesi i lavori dovrebbero essere conclusi: a dare la tempistica approssimativa era stato proprio l’amministratore delegato di Rwm, Fabio Sgarzi, in un’intervista a La Nuova Sardegna lo scorso luglio. Proprio in quel periodo, infatti, la società aveva presentato la richiesta di ampliamento per la quale lo scorso 3 novembre è scaduta la prima fase autorizzativa. “Non possiamo essere complici di una tale sciagura” dichiara Arnaldo Scarpa, portavoce del Comitato di riconversione, che giovedì 8 novembre era in piazza assieme all’associazione Italia Nostra Sardegna per un sit in di protesta. Lo scorso luglio le due associazioni si sono costituite nella Conferenza dei Servizi, in cui vengono presi in considerazione gli interessi pubblici, per richiedere la necessità di una valutazione di impatto ambientale. Ma questa volta non sono stati ascoltati: in assenza di pareri contrari, la procedura di ampliamento va avanti. “Diventa così ancora più importante la protesta” continua Scarpa “Stiamo valutando gli estremi per un ricorso al Tar”. È dal 2016 che la Rwm prova ad ampliarsi nel territorio di Iglesias: due anni fa, infatti, la società aveva richiesto l’autorizzazione per la costruzione di un nuovo campo per i test. Ma questa richiesta è al momento bloccata in fase istruttoria presso la regione Sardegna, in attesa di una Valutazione di impatto ambientale, istanza fortemente voluta dall’associazione Italia Nostra Sardegna. Fino ad ora, denunciano le associazioni, la politica locale non ha preso una posizione, sostenendo che l’approvazione o il rigetto delle autorizzazioni di ampliamento siano questioni puramente tecniche di competenza del Suap (Sportello unico per le attività produttive). “Ci siamo rivolti direttamente al Sindaco di Iglesias, al responsabile del Suap e al responsabile del procedimento del comune di Iglesias, speriamo che in questi giorni la situazione possa essere ribaltata” conclude Scarpa “la lotta non violenta continua e con maggiore motivazione”. I progetti di espansione peraltro vanno nella direzione contraria a quella indicata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, che in relazione al caso Kashoggi ha minacciato di sospendere il commercio di armi con l’Arabia Saudita. Di fatto però la Merkel sa benissimo che in mancanza di una regolamentazione definita sulle filiali all’estero, le grosse aziende tedesche di armi possono continuare a commerciare impunite. La Rheinmetall infatti sta implementando gli investimenti sulle sue due più grosse succursali all’estero: da un lato procede all’ampliamento della sarda Rwm e dall’altra ha appena ricevuto una grossa offerta dalla compagnia della difesa saudita Sami (Saudi Arabian Military Industries) per la sudafricana Rdm (Rheinmetall Denel Munition). Secondo una fonte anonima riportata dalla Reuters l’offerta ammonterebbe a un miliardo di dollari e riguarderebbe Denel, l’azienda che dal 2008 si è legata in una join venture con la Rheinmetall Waffe Munition tedesca e che attualmente detiene il 49% della filiale sudafricana. In tale modo i sauditi, con una quota di minoranza, entrerebbero di diritto nel consiglio di amministrazione e riuscirebbero ad impossessarsi di una grossa parte della fabbrica. Se nelle dichiarazioni politiche viene messa in discussione la possibilità di commerciare con l’Arabia Saudita, nei fatti quando si parla di affari milionari, la solidarietà tra i vari paesi coinvolti risulta più compatta che mai. (hanno collaborato Flavia Grossi e Roberto Persia) Stati Uniti. La cultura delle armi inizia dai videogiochi di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 9 novembre 2018 Dopo la strage in California, si parla ancora di prevenzione. Forse si possono prevenire guai ancora peggiori provando a incidere su una cultura delle armi sempre più diffusa e distorta. In passato si è discusso, senza risultati, del boom dei videogiochi violenti. Ora dalla finzione della playstation o del telefonino si passa al realismo dei maxischermi. Ennesimo massacro di ragazzi. Smarrimento, tentativi di spiegare l’inspiegabile. Difficile parlare di prevenzione o di risposte più pronte della polizia quando il killer entra e, senza dire una parola, comincia a sparare. Qualcuno, intanto, forse già studia gli interni del locale californiano della strage per trasformarli in un altro scenario offerto da bar e ristoranti dotati di lounge per il virtual shooting: poligoni di tiro virtuali nei quali, mentre aspetti il cibo, puoi sparare a bersagli che sembrano veri, realizzati con una tecnologia fino a poco tempo fa riservata ai simulatori delle forze armate, ma ormai sdoganata anche per usi “ricreativi”, come spiega la pubblicità del produttore, Modern Round, che promette ai clienti di questi locali una serata adrenalinica: “Sparate e mangiate”. Mentre in tv scorrono le immagini di parenti e amici delle vittime, disperati e increduli, Carl Bernstein, uno che per mezzo secolo ha usato il giornalismo per sviscerare i grandi problemi nazionali (sua l’inchiesta sul Watergate, condotta con Bob Woodward, che costò la Casa Bianca a Richard Nixon), scuote la testa scoraggiato: “Queste stragi sono una grave patologia nazionale che anche noi giornalisti dovremmo esaminare più a fondo. Ma non so da dove si possa cominciare”. Con la Camera in mano ai democratici si tornerà a parlare di controllo delle armi, come già fatto inutilmente da Obama nei suoi otto anni di presidenza. Difficile che le cose cambino, ma, anche se la vendita di fucili e pistole fosse limitata, nessuno potrà disarmare un popolo che nelle sue case ha accumulato 300 milioni di armi da fuoco. Forse, però, si possono prevenire guai ancora peggiori provando a incidere su una cultura delle armi sempre più diffusa e distorta. In passato si è discusso, senza risultati, del boom dei videogiochi violenti. Ora dalla finzione della playstation o del telefonino si passa al realismo dei maxischermi. Succede anche a New York: in un locale del West Side, mentre brindi con gli amici, puoi affittare per qualche decina di dollari la replica di un’arma vera e sparare raggi laser contro un bersaglio in movimento in uno scenario reale. I locali della catena Lucky Strike offrono questo divertimento, insieme a biliardi e bowling, in molte città d’America. Con qualche dollaro in più si può ottenere un upgrading e sparare a bersagli umani in scenari classici: una banca assaltata, un rapimento per strada e, perché no?, anche una sparatoria in una scuola. Arabia Saudita. Imminenti 12 condanne a morte di Michele Giorgio Il Manifesto, 9 novembre 2018 L’allarme lanciato da Amnesty. La Lega Calcio italiana intanto farà disputare la Supercoppa a Gedda incurante delle critiche piovute sul regno dei Saud per l’assassinio del giornalista Khashoggi e i bombardamenti in Yemen che prendono di mira i civili. La Lega Calcio italiana farà giocare a Gedda il prossimo 16 gennaio la Supercoppa tra Juventus e Milan, incurante del macabro assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi fatto a pezzi da agenti sauditi giunti apposta in Turchia lo scorso 2 ottobre per ammazzarlo e farlo sparire. Non solo. I vertici del calcio italiano non trovano affatto sconveniente raggiungere un accordo con la controparte a Riyadh mentre si avvicina l’esecuzione di 12 uomini, appartenenti alla minoranza sciita perseguitata in Arabia Saudita, condannati a morte con l’accusa di aver spiato per l’Iran. Eppure Amnesty International su questo ha lanciato un allarme globale. Le condanne a morte, ha scritto in un comunicato, sono già state ratificate dalla Corte suprema saudita e trasferite alla Presidenza di sicurezza dello Stato che fa riferimento a re Salman, chiamato a dare il via libera alle esecuzioni. “Data la segretezza che circonda i procedimenti giudiziari in Arabia Saudita, temiamo che questo sviluppo segnali l’imminente esecuzione dei 12 uomini. Le famiglie dei condannati sono terrorizzate da questo sviluppo e dalla mancanza di informazioni sui loro cari. Non è troppo tardi per salvare le vite di questi uomini”, esorta Heba Morayef, direttrice per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty, sottolineando che “L’Arabia Saudita è uno dei boia più solerti del mondo e usa regolarmente la pena di morte come strumento politico per schiacciare il dissenso”. I 12 facevano parte di un gruppo di 15 uomini condannati a morte il 6 dicembre 2016 dopo un processo, a dir poco sommario, che vedeva sul banco degli imputati 32 persone arrestate nel 2013 e 2014 per “spionaggio a favore dell’Iran”. Accusa spesso rivolta dalle autorità agli sciiti, considerati dei “nemici” al servizio di Tehran è più di tutto degli apostati ed infedeli. Amnesty ricorda che 34 sciiti, compresi quattro minorenni, sono al momento nel braccio della morte con l’accusa di aver messo a “rischio la sicurezza nazionale”. All’inizio del 2016 è stato giustiziato un importante religioso sciita, Sheikh Nimr Baqir al Nimr, insieme ad altre 46 persone, tra cui diversi attivisti sciiti della provincia orientale del regno. L’anno scorso in Arabia Saudita sono state eseguite almeno 146 condanne a morte. Il governo M5S-Lega deve prendere atto delle politiche saudite all’interno del paese e nella regione. Nella città portuale di Hodeidah, in Yemen, sotto attacco della coalizione a guida saudita, siamo ormai al massacro deliberato di civili. Le agenzie di stampa riferiscono di corpi dilaniati nelle strade della città da quattro giorni sottoposta a bombardamenti incessanti e da mesi sotto assedio delle forze “lealiste” sostenute da Arabia Saudita ed Emirati. Save The Children riferisce che dall’inizio dell’inasprimento dei raid aerei, lo scorso 4 novembre, sono almeno 150 le persone uccise. Ieri un attacco ha colpito un ospedale causando danni a una delle farmacie che fornisce medicinali salvavita. A Hodeidah ci sono ancora mezzo milione di civili, rimasti intrappolati nell’assalto militare lanciato dell’Arabia Saudita e dagli Emirati per stanare gli insorti sciiti in apparenza sostenuti da Tehran. Dal porto della città peraltro passa l’80% degli aiuti umanitari per lo Yemen dove le condizioni di vita sono disastrose. Trentaquattro Ong e associazioni umanitarie internazionali ieri hanno rivolto un appello per un cessate il fuoco immediato ma sul piano diplomatico è fermo tutto. Dei negoziati inter-yemeniti di Ginevra non si sa più nulla e l’Amministrazione Trump, alleata di Riyadh, è ora impegnata a trovare la “soluzione” che le permetta di mantenere i rapporti stretti che ha con l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, ritenuto il mandante dell’assassinio di Khashoggi. Lo sventurato giornalista peraltro sarebbe stato sorvegliato con spyware israeliano. Almeno così ha detto ieri la gola profonda del “Datagate” Edward Snowden. I sauditi, secondo Snowden, hanno utilizzato Pegasus, il software prodotto dalla Nso Group Technology con sede a Herzliya (Tel Aviv), già in uso in molti paesi, inclusi quelli arabi, per seguire dissidenti e oppositori. Tajikistan. Detenuto membro dell’Isis avvia una rivolta carceraria, 27 morti sicurezzainternazionale.luiss.it, 9 novembre 2018 Almeno 25 detenuti e 2 ufficiali sono morti nel corso di una rivolta scoppiata in una prigione di alta sicurezza in Tajikistan, a Khujand, città situata a 300 km dalla capitale Dushanbe, nel tardo pomeriggio di mercoledì 7 novembre. Secondo quanto riportato da al-Jazeera English, il Ministero dell’Interno del Paese dell’Asia Centrale ha reso noto che tutto ha avuto inizio quando un detenuto, ritenuto essere un membro dell’ISIS, ha assalito una guardia carceraria, strappandogli il fucile. Al momento, le autorità del Tajikistan si sono rifiutate di fornire il suo nome. Nel giro di qualche ora, gli ufficiali hanno riportato la calma presso la prigione, con l’aiuto di rinforzi inviati dal governo. Il carcere di Khujand, situato nella zona Nord della città, è noto per detenere al suo interno individui accusati di estremismo religioso, tra cui alcuni membri dello Stato Islamico. Lo scorso 4 luglio, l’Isis ha rivendicato quello che è stato definito dagli analisti il suo primo attacco in Tajikistan, nell’ambito del quale sono morti 4 ciclisti investiti da un’auto. Secondo la ricostruzione effettuata grazie a un video rilasciato dalle autorità del Tajikistan Radio free Europe, il guidatore, dopo aver investito i ciclisti, è sceso dalla macchina per sparare addosso ai sopravvissuti. Le vittime erano originarie di Stati Uniti, Olanda e Svizzera. Nel messaggio di rivendicazione dell’Isis l’assalitore è stato descritto essere un “soldato dello stato Islamico”, che ha agito in risposta all’esortazione dei terroristi di attaccare i cittadini dei Paesi della coalizione internazionale a guida americana. Di seguito, il Ministero dell’Interno del Tajikistan rese noto di aver ucciso 4 sospettati, tutti originari del Paese dell’Asia centrale, e di aver arrestato una quinta persona. La polizia locale riferì inoltre di aver rinvenuto un’auto danneggiata, che sembrava essere esattamente quella che appariva nel video dell’attacco. Secondo un report del Souphan Group dell’ottobre 2017, sono stati almeno 1.300 i cittadini dei Tajikistan che hanno raggiunto la Siria e l’Iraq per unirsi all’ISIS nel corso degli anni precedenti. I Paesi dell’Asia centrale, sempre secondo il documento, hanno prodotto circa 5.000 foreign fighter. Nel corso dei due anni passati, numerosi cittadini di tale regione hanno preso parte a diversi attacchi terroristici. Il 28 giugno 2016, 3 attentatori originari dell’Uzbekistan e del Kirghizistan attaccarono l’aeroporto internazionale di Istanbul, uccidendo 45 persone e ferendone altre 230. Il primo gennaio 2017, Abdulgadir Masharipov, cittadino uzbeko, uccise 39 persone e ne ha ferite altre 70 presso il Reina nightclub di Istanbul. Il 3 aprile 2017, il cittadino russo di etnia uzbeka e nato in Kirghizistan Akbarzhon Jalilov, un cittadino russo di etnia uzbeka nato in Kirghizistan, posizionò un ordigno su un vagone della metropolitana di San Pietroburgo, facendolo esplodere tra le fermate Sennaya Ploshad e Teknologhiceskij Institut, causando la morte di 13 persone e il ferimento di quasi 50. E ancora, il 7 aprile 2017, l’uzbeko Rakhmat Akilov, ha investito i pedoni lungo una strada di Stoccolma, causando la morte di 4 persone. A questi incidenti, si è aggiunto quello del 31 ottobre 2017 a New York, causato dal 29enne uzbeko Sayfullo Saipov, il quale ha ucciso 8 persone e ne ha ferite altre 11 travolgendole alla guida di un camion. Il Tajikistan, ex Stato sovietico, ha combattuto una guerra contro gli insorti islamista nel corso degli anni Novanta e, da allora, continua a fare i conti con violenza diffusa e reti criminali legate al contrabbando dell’oppio con l’Afghanistan. Il 30 agosto 2016, un’autobomba si scagliò contro i cancelli dell’ambasciata cinese a Bishkek, ferendo 3 dipendenti. L’attacco fu rivendicato da un gruppo legato ad al-Qaeda formato da uiguri, etnia originaria della Cina occidentale. Panama. Gmg, i detenuti al lavoro per costruire i confessionali per il Papa La Stampa, 9 novembre 2018 Trentacinque carcerati del penitenziario di La Joya impegnati nel “laboratorio libertà”. Trentacinque detenuti del penitenziario La Joya di Panama stanno costruendo i 250 confessionali che saranno utilizzati in quello che sarà chiamato “Parco del perdono” durante la Giornata mondiale della gioventù di Panama con Papa Francesco, in programma a fine gennaio 2019. I detenuti, riferisce l’agenzia Sir, chiamano questa attività “laboratorio libertà”. Grazie anche a questo lavoro, che svolgono dalle 8 alle 16, hanno ottenuto dei benefici penitenziari, oltre alla soddisfazione di sentirsi inclusi nella festa della Gmg, molto importante per tutto il Paese. Durante la giornata lavorativa i detenuti svolgono diverse attività di taglio, rifinitura, verniciatura e pittura sui confessionali, che avranno così un significato del tutto speciale. “Anche se non potremo essere presenti - dichiara uno dei detenuti che sta lavorando ai confessionali - sentiamo che stiamo facendo qualcosa di importante; e ringrazio Dio per l’opportunità che è stata data a noi, persone private della libertà, di portare il nostro contributo a una missione così importante come la Gmg”.