Più lavoro e volontariato nelle carceri, ma giustizia riparativa e affettività restano al palo Avvenire, 8 novembre 2018 La recente Riforma dell’ordinamento penitenziario (Decreto legislativo. n. 124 del 2 ottobre scorso) ha esteso il campo d’azione del volontariato già attivo presso le carceri, grazie alle opportunità insite nelle nuove disposizioni in materia di lavoro carcerario. Come premessa, il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato. Per questo, la funzione rieducativa del lavoro negli ambienti di pena viene sviluppata dal Decreto 124 favorendo la partecipazione dei detenuti e degli internati a corsi di formazione professionale che ne agevolino il reinserimento nella società. I corsi, le lavorazioni e i servizi svolti dai detenuti possono essere organizzati e gestiti, oltre che alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, anche da enti privati, cooperative sociali ed enti pubblici. A loro volta gli stessi detenuti possono chiedere di esercitare attività artigianali, intellettuali, artistiche o di essere ammessi a lavorare a titolo volontario e gratuito in progetti di pubblica utilità, gestiti da enti pubblici, di assistenza sociale e di volontariato. Presso ogni penitenziario, è istituita una apposita commissione (che opera senza compensi né rimborsi) che coordina le attività lavorative dei detenuti tenendo conto dell’anzianità di disoccupazione, dei carichi di famiglia e delle abilità lavorative possedute. Inoltre, insieme a tutte le ordinarie garanzie che accompagnano un rapporto di lavoro nella società libera in materia di orari, riposi festivi, ferie annuali retribuite, assicurazioni Inps e Inail ecc., l’amministrazione penitenziaria deve favorire, attraverso apposite convenzioni, un servizio di assistenza specialistica ai detenuti nelle loro pratiche con la previdenza (pensioni, sussidi ecc.) e per le misure di avviamento al lavoro o di ricollocazione. Sono esclusi dal lavoro penitenziario i detenuti e gli internati sottoposti al regime di sorveglianza particolare (detto “art. 14 bis”). Le deleghe non attuate - Non tutte le deleghe per la riforma dell’ordinamento penitenziario, conferite al Governo dalla legge n. 103 del 2017, sono state esercitate. In particolare, con il cambio di legislatura, la nuova maggioranza ha ritenuto di non esercitare la delega per la revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, nell’ottica di una loro più ampia applicazione (art. 1, comma 85, lett. b) e la delega per la revisione del sistema delle preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari (lett. d) ed e). Non sono state, inoltre, esercitate le deleghe relative: alla giustizia riparativa e alla mediazione reo-vittima, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative (lett. f). Sullo schema di decreto legislativo A.G. n. 29, trasmesso dal Governo Gentiloni il 21 maggio 2018, la Commissione Giustizia della Camera aveva infatti espresso - il 10 settembre 2018 - parere contrario; all’affermazione del diritto alla affettività (lett. n); alla tutela del rapporto tra detenute e figli minori (let. s); alla tutela della libertà di culto (lett. v). È pericoloso barattare sicurezza e benessere con i diritti e la nostra libertà di Francesco Petrelli Il Dubbio, 8 novembre 2018 “Quando la gente ci applaude, applaude se stessa”, diceva Saverio Borrelli in piena Tangentopoli, affermando ingenuamente l’idea che, nel momento del sovvertimento, ciò che conta non è la mediazione del magistrato, ma l’immedesimazione. Quello che non poteva prevedere il dottor Borrelli è che la furia dell’immedesimazione avrebbe potuto travolgere tutto ciò che si sarebbe trovato davanti. Non poteva immaginare che anche la magistratura sarebbe risultata, così, un ostacolo alla immedesimazione con il potere di cambiare il mondo. Troppo legata a formule, troppo lenta e troppo sottoposta alla legge, per rispondere all’incontenibile onda del cambiamento. Meglio identificarsi con chi ha invece il potere di sbarazzarsi delle norme e dei giudici stessi, identificarsi con chi offre direttamente benessere e sicurezza al popolo, e che non agisce solo “nel nome” del popolo. Benessere e sicurezza sono, tuttavia, ideali che come scriveva Huizinga, nella prima metà del secolo scorso, preoccupato dalle “ombre del domani”, l’abitante delle caverne già conosceva molto bene, e non è su tali ideali che può fondarsi oggi una moderna democrazia. Se fossimo disposti infatti a barattare sicurezza e benessere in cambio della nostra libertà, dei nostri diritti e delle nostre garanzie, non potremmo certo dirci democratici e saremmo nuovamente schiavi come lo furono i nostri antenati. Ma far riflettere la collettività sul proprio destino politico è, in questo momento, come pretendere che un naufrago si interroghi sul principio di Archimede, mentre gli pare che già lì, a pochi metri, vi sia un approdo sicuro. Perché soffermarsi sulla complessità del reale, porre questioni, domandarsi di diritti dimenticati, se la salvezza è a portata di mano? Nella nostra realtà politica è “venuta meno - come ricorda Giovanni Orsina - la mediazione di identità collettive stabili e robuste”, si è definitivamente verificata quella progressiva disintermediazione che ha consentito la nascita (o rinascita) di una politica a “presa diretta” fra governante e governato, nella quale - come acutamente preconizzava Ortega y Gasset - i “luoghi comuni da caffè” chiedono di essere mutati in norma. I partiti sono oramai ridotti a semplice cornice del politico- governante, ed assieme ai partiti si è eclissata la memoria come “dispositivo sociale”, e si è vaporizzato tutto ciò che mediava intellettualmente i rapporti fra l’elettore e la politica: cultura, ideologia, il valore stesso del pensiero e della parola. L’identità - nella metafora dell’applauso a sé stessi - rende superflui sia il pensiero che la verità, perché l’identità del singolo con il politico che promette di debellare il mondo, è essa stessa l’espressione diretta della verità. Tutte le forme, le strutture e gli organismi di garanzia che le costituzioni del dopoguerra avevano forgiato, proprio al fine di evitare il ritorno alle degenerazioni delle iper-democrazie ed al precipitare dell’uomo- massa verso le esperienze dei totalitarismi, sono tornate in odio al popolo ed ai nuovi partiti populisti, che hanno assunto la parole d’ordine dello smantellamento di tutto ciò che si frappone all’avanzata del cambiamento, che dovrebbe consentire al cittadino di riappropriarsi di ciò che gli è stato tolto (dall’Europa, dagli stranieri, dalla globalizzazione, dalle élite politico finanziarie, dai poteri forti …), attraverso strumenti vecchi e nuovi di ricostruzione della democrazia diretta, dal referendum propositivo senza quorum, alla deliberazione in rete, alla politica che ingloba le virtù giurisdizionali. Il ritorno dell’uomo- massa non presuppone un nuovo avvento dei totalitarismi, ma certamente implica un pericoloso azzeramento valoriale che mette a rischio le basi della nostra stessa libertà di giudizio, e della conseguente capacità di operare nel mondo. Venute meno queste due categorie, nulla più consente di comprendere quali diverse e contraddittorie strade possa percorrere la storia del Paese, di percepire quali pericoli si corrano, e quali siano i destini del processo e della democrazia nelle mani di ingenui luddisti della politica che pensano di poter demolire le mura della città senza aver costruito nulla di diverso che possa proteggere le nostre vite e le loro vite, così come sino ad oggi ha fatto quel nucleo di diritti, di garanzie e di libertà civili che le democrazie occidentali hanno sino ad oggi, ad ogni modo, ragionevolmente preservato. Processo e democrazia sono nate insieme ed il nesso che le unisce, piuttosto che allentarsi nel tempo, si è sempre più rafforzato. Smantellare l’uno, significa demolire l’altra. Significa tagliare quel ramo sul quale noi tutti, in fin dei conti, siamo seduti. Il diritto penale va adattato ai tempi di Andrea R. Castaldo Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2018 Il diritto penale si muove secondo uno schema classico poco funzionale che fronteggia il reato attraverso un apparato repressivo disancorato dalla realtà. La tradizione (della norma e della teoria che la giustifica) contro l’evoluzione (della criminalità). Ricorda le battaglie navali di un tempo: un gran dispiego di cannoni la cui modesta gittata non impensieriva il nemico. E nel campo del diritto penale economico lo scollamento è ancora più vistoso. Per questo andrebbero create le basi per una serena discussione e una costruttiva riforma. Il diritto penale classico è rimasto fedele a un’architettura di interni modellata sull’autore del reato persona fisica, sull’azione dolosa, sull’evento di danno, sulla lesione di un bene materiale. Il tutto all’interno di confini nazionali sovrani. Non è difficile notare l’obsolescenza, persino culturale, dell’impronta genetica. Specie nel campo economico-finanziario ciascuno dei pilastri indicati ha visto erose in profondità le iniezioni di cemento, poggiando su fragili fondamenta virtuali. Il soggetto attivo trasla sul versante della persona giuridica, combinandosi con fattispecie che risentono di una défaillance nell’organizzazione gestionale d’impresa, la colpa soppianta il dolo, perché così esigono la società del rischio e il principio di precauzione. Il che, come immediata conseguenza, comporta l’anticipazione del baricentro dell’incriminazione dal danno al pericolo. Della materialità, così, resta ben poco. Il mercato delle merci si muove con transazioni liquide, la borsa scambia secondo parametri di volatilità e la criptovaluta cancella definitivamente il dogma della banconota frusciante, per affermare il paradigma della finanziarizzazione della ricchezza. Sarebbe ingeneroso negare che nel frattempo nulla sia stato fatto; nel campo ad esempio della lotta al riciclaggio e alla corruzione si è insistito (condivisibilmente) sul versante preventivo, accentuando il controllo a monte. Tuttavia si è trattato di interventi spot, privi di un filo conduttore e di un respiro comune unificante, che hanno finito per creare disarmonia all’interno di un sistema riformato a spicchi. Ma il vero tallone d’Achille è nel processo: qui l’impianto complessivo annaspa in codici linguistici superati. A partire dal rito, disegnato secondo un copione unico che si ripete in modo ossessivo e monotono per bagatelle e stragi, refrattario all’importanza degli interessi in gioco. Proseguendo con formalismi esasperati, solo apparentemente figli delle garanzie, di fatto principali responsabili del loro tradimento. Fino ad arrivare alla comunicazione, vero protagonista sul banco degli imputati: nell’epoca del tweet la motivazione è inutilmente lunga e ripetitiva. Non meravigliano allora i tempi biblici della giustizia, le polemiche sugli organici e i capitoli di spesa. E neppure il paradosso della prescrizione da dilatare (tema tristemente tornato di attualità), dove il rimedio è curiosamente l’affermazione del male (appunto, allungare ancor più la durata del processo). Si rende necessaria dunque un’operazione di svecchiamento. Tra l’altro a costo zero, anzi creando un risparmio da destinare a investimento, contrastando l’ulteriore effetto degenerativo della burocrazia. È una questione di buona volontà, magari da sollecitare con un nudge, la spintarella gentile. Via libera del Senato al Decreto sicurezza, cosa prevede il testo tg24.sky.it, 8 novembre 2018 È uno dei provvedimenti bandiera del ministro dell’Interno Salvini. Contiene, tra le altre cose, strette su asilo e permessi di soggiorno, un Daspo urbano più severo e stanziamenti per la polizia. Ok di Palazzo Madama con voto di fiducia, ora il dl passa alla Camera Stretta sul diritto d’asilo per i migranti, Daspo urbano più severo, stanziamenti per polizia e vigili del fuoco. Sono alcuni dei punti del decreto sicurezza, uno dei provvedimenti bandiera del ministro dell’Interno Matteo Salvini e della Lega, approvato dal Senato con 163 sì, 59 no e 19 astenuti. I presenti sono stati 288, i votanti 241. Il decreto, che è stato approvato con il voto di fiducia, passa ora al vaglio della Camera. Il testo del provvedimento si articola in tre parti in materia di immigrazione, sicurezza pubblica, e organizzazione del ministero dell’Interno e dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati o confiscati alla criminalità organizzata. Nel maxiemendamento che, con qualche correzione, sostituisce il decreto legge originario, ci sono novità tra l’altro sulla videosorveglianza, gli sgomberi degli immobili occupati abusivamente, il Fondo per la sicurezza urbana, l’utilizzo dei droni. Il procuratore antimafia userà la polizia penitenziarie per raccogliere informazioni nelle carceri. Immigrazione: stretta su asilo e permesso di soggiorno - In materia di immigrazione si va dall’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari (sostituito da permessi speciali temporanei, prolungati per motivi sanitari) all’allungamento da 3 a 6 mesi del trattenimento nei Centri per i rimpatri; dalla possibilità di trattenere gli stranieri da espellere anche in strutture della pubblica sicurezza, in caso di indisponibilità dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), alla possibilità di revocare la cittadinanza italiana per terrorismo. Ma il fulcro del testo è sui richiedenti asilo: per quelli che compiono gravi reati è prevista la sospensione dell’esame della domanda di protezione ed è possibile l’obbligo di lasciare il territorio nazionale. In caso di condanna in primo grado è previsto che il questore ne dia tempestiva comunicazione alla Commissione territoriale competente, “che provvede nell’immediatezza all’audizione dell’interessato e adotta contestuale decisione”. Il decreto riserva esclusivamente ai titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati i progetti di integrazione ed inclusione sociale previsti dallo Sprar (Sistema protezione e richiedenti asilo e rifugiati). Questi ultimi, la cosiddetta accoglienza diffusa nei Comuni, sono ridimensionati. I richiedenti asilo troveranno invece accoglienza nei Cara. Sicurezza pubblica: dal taser al Daspo urbano - Il testo presenta poi una serie di misure sulla sicurezza pubblica: dal taser anche ai vigili urbani alla stretta sui noleggi di auto e furgoni per evitare che vengano usati dai jihadisti contro la folla, come avvenuto a Nizza, Londra e Berlino. Vengono stanziati quasi 360 milioni fino al 2025 per “contingenti e straordinarie esigenze” di polizia e vigili del fuoco “per l’acquisto e potenziamento dei sistemi informativi per il contrasto del terrorismo internazionale”, compreso il rafforzamento dei nuclei Nbcr (nucleare, biologico, chimico e radiologico). Dei 360 milioni stanziati, 267 sono per la pubblica sicurezza e 92 per i pompieri. I Comuni con più di 100 mila abitanti potranno dotare 2 poliziotti municipali di taser in via sperimentale per un periodo di sei mesi. I poliziotti locali, inoltre, se “addetti ai servizi di polizia stradale” e “in possesso della qualifica di agente di pubblica sicurezza” possono accedere al Centro elaborazione dati (Ced) delle forze di polizia. Il testo prevede inoltre un Daspo urbano più severo. Il decreto amplia le zone dove può scattare, includendo i “presidi sanitari”, le zone di particolare interesse turistico, le “aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati pubblici spettacoli”. Previsto anche il Daspo per coloro che sono indiziati per reati di terrorismo e una stretta sulle occupazioni. I blocchi stradali tornano ad essere sanzionati penalmente e non più in via amministrativa. E ancora, l’utilizzo del braccialetto elettronico sarà possibile anche nei confronti degli imputati dei reati di maltrattamento in famiglia e stalking. Potenziamento agenzia dei beni confiscati alla criminalità organizzata - Infine il potenziamento dell’Agenzia per i beni confiscati. Il provvedimento estende di ulteriori 70 unità la pianta organica e individua le aziende confiscate “di rilevante interesse socio-economico” che necessitano di supporto per il proseguimento dell’attività. Viene liberalizzata anche la vendita dei beni sequestrati ai mafiosi, ampliando la platea dei possibili acquirenti. In particolare, potranno essere venduti anche a soggetti privati, superando l’obbligo di vendere i beni confiscati solo a enti pubblici, alle associazioni di categoria e alle fondazioni bancarie. I beni potranno essere ceduti al miglior offerente, con diritto di prelazione comunque riservato ai soggetti pubblici citati. Primo sì al dl sicurezza. Sindaci e associazioni minacciano la rivolta di Carlo Lania Il Manifesto, 8 novembre 2018 Via libera del Senato al provvedimento. Escono dall’aula cinque senatori pentastellati. Salvini esulta: “Una giornata storica”. Matteo Salvini esulta ma in realtà il ministro degli Interni ha pochi motivi per cantare vittoria. Certo, il decreto sicurezza al quale ha legato il suo nome alla fine è riuscito a passare al Senato grazie ai voti di una maggioranza che nonostante i dissidenti grillini, cresciuti nel frattempo da quattro a cinque, sarà anche tentennante ma per ora tiene. Per ora, appunto. Il problema è proprio questo. Perché se lo scontro in corso tra Lega e 5 Stelle sulla prescrizione non si risolverà presto, la prossima settimana, quando il provvedimento che riscrive le politiche sull’immigrazione arriverà alla Camera potrebbe scontrarsi con l’ostruzionismo dei pentastellati. Deciso a godersi il successo, Salvini ieri ha comunque voluto mostrarsi ottimista, e si è detto sicuro che il decreto passerà anche a Montecitorio. Nonostante un’evidente freddezza tra alleati, ieri tutto è filato come da copione. Il decreto è passato con 163 voti a favore, dei quali non hanno facevano parte quelli dei senatori 5 Stelle Gregorio De Falco, Paola Nugnes, Elena Fattori, Matteo Mantero e Virginia La Murgia, usciti dall’aula al momento del voto. 59 i contrari (Pd, LeU e Svp) e 19 gli astenuti (FdI e Forza Italia). Appena il tempo di tirare le somme, e tra i 5 Stelle comincia la resa dei conti. Il capogruppo Stefano Patuanelli annuncia infatti di aver segnalato i cinque senatori dissidenti ai probiviri per la loro scelta di non essere presenti in aula. “Si tratta di un comportamento particolarmente grave, visto che si trattava di un voto di fiducia al governo”, spiega Patuanelli. “Non ho fatto niente di male, per cosa dovei essere condannato?”, replica De Falco. Tra le norme licenziate ieri sono molte quelle che suscitano preoccupazione e critiche. A partire dall’abrogazione della protezione umanitaria, proseguendo con la decisione del governo di stilare una lista dei Paesi di origine sicuri per velocizzare l’esame delle richieste di asilo. Ma fa discutere anche la possibilità di prolungare fino a 30 giorni il trattenimento dei migranti negli hotspot per le procedure di identificazione e fino a 180 nei Centri per il rimpatrio. O, ancora, la drastica riduzione del sistema di accoglienza dei migranti. “Il decreto peggiora sia il livello dei diritti per i richiedenti asilo e rifugiati, che l’efficacia del sistema stesso”, denuncia il direttore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) Mario Morcone, che ricorda anche come una domanda di asilo possa essere respinta per il solo fatto di non essere stata presentata subito oppure perché a richiedere la protezione internazionale è una persona entrata illegalmente in Italia. Il centro Astalli, il servizio dei Gesuiti per i rifugiati, è invece critico per la scelta del governo di procedere con un decreto e con il voto di fiducia, scelta che “rivela l’incapacità di uscire da una logica emergenziale”. Ma ad alzare la voce sono anche i sindaci italiani, preoccupati per le conseguenze che potrà avere sui territori la decisione di tagliare il Sistema Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, a favore di strutture più grandi dove concentrare i migranti. Scelta che, denuncia l’Anci, non farà altro che aumentare il numero degli immigrati irregolari (calcolati in 50 mila solo nel 2019) e dei costi sociali a carico delle amministrazioni. La tensione è tale che Virginio Merola, primo cittadino di Bologna, è a un passo dal chiamare i suoi colleghi alla rivolta: “Il decreto non prevede il parere dei Comuni su dove insediare i centri di accoglienza: sappiano che sarà contrario - ha avvertito ieri Merola. Se il testo del decreto sicurezza no cambia chiamerò a raccolta Comuni, associazioni e volontariato: un altro modo è già possibile”. Prescrizione. Conte teme il no del Colle, norma passata ai raggi X di Marco Conti Il Messaggero, 8 novembre 2018 Il blitz è fallito, ma la riforma della prescrizione che il M5S pretende, resiste nel ddl corruzione. Dopo un giornata di tensione e silenzi, solo nella tarda serata di ieri Giuseppe Conte riesce a mettere d’accordo Di Maio e Salvini per un vertice che si terrà di prima mattina a palazzo Chigi. Di Maio, in attesa di ricevere segnali concreti dall’alleato, per tutta la giornata di ieri si è reso irreperibile da Salvini che ha continuato a tenere i contatti con il ministro della Giustizia Bonafede spendendosi in rassicurazioni. Ma il leader del M5S mai come in questo momento ha bisogno di fatti concreti e non di promesse per uscire dall’angolo dove si è cacciato. Mentre il M5S al Senato perde pezzi, la Lega incassa il decreto sicurezza e continua a volare nei sondaggi. Tornare a gridare “onestà-onestà” può quindi tornare utile anche in previsione di una manovra di bilancio che rischia di dare molto meno delle attese. Stavolta il leader grillino non intende mollare “anche a costo di far saltare tutto”, dice a Conte ad inizio mattina dopo essersi riunito con i ministri Bonafede e Fraccaro per un vero e proprio consiglio di guerra. Quando Salvini, parlando dal Viminale, pensa di gettare acqua sul fuoco dicendo che con “Di Maio tutto a posto” e che il governo farà una “storica riforma della giustizia, in sede penale e civile”, Di Maio va su tutte le furie. Evocare una “storica riforma” significa per i grillini non voler far nulla. Di Maio irrigidisce ancor più la sua posizione e fa sapere a Salvini che “il ddl sicurezza passerà a Montecitorio solo insieme al ddl “spazza-corrotti”. Prescrizione compresa. All’ennesimo tentativo telefonico fallito di raggiungere l’alleato, Salvini dà il via libera e a Montecitorio arriva il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi. Il segnale che i grillini aspettavano è arrivato. Ovvero via libera all’ampliamento del ddl dove rientrerà anche la prescrizione. Come? È ancora tutto da vedere, ma per ora per il M5S è importante che l’alleato “accetti il confronto”. Il resto lo fanno il presidente della Camera Roberto Fico e i presidenti delle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia Giuseppe Brescia e Giulia Sarti pronti a dare il via libera all’emendamento che riscrive il titolo del ddl. Immediata l’ira delle opposizioni che accusano Fico di “pronunciamento sudamericano” (Stefano Ceccanti, Pd), di ennesimo “favore a Casaleggio” e di “retromarcia della Lega” (Enrico Costa FI). La trattativa per cercare l’intesa sul nuovo emendamento che dovrà riformare la prescrizione, va avanti tutta la notte e dovrebbe concludersi stamattina quando a palazzo Chigi si ritroveranno Conte, i due vice e il Guardasigilli. Insieme dovranno licenziare l’emendamento che sostituirà quello contestato e avvierà il dibattito. Ma se il M5S non molla, la Lega non è da meno. Specie ora che avverte le difficoltà del vice premier grillino che anche ieri è dovuto ricorrere ad Alessandro Di Battista per sostenere la sua leadership che traballa anche per le sempre più vistose contrapposizioni interne. Spedire ai probiviri i cinque senatori ribelli - “io non l’avrei fatto” ha sostenuto malignamente Salvini - è segno di debolezza. Così come cercare sponde in Giuseppe Conte. Il premier ieri, vista la reazione contraria anche dei vertici della Cassazione alla riforma della prescrizione pensata da Bonafede, ha compreso che l’inedita saldatura tra magistrati e i suoi colleghi avvocati non può non far scattare un segnale d’allarme anche al Quirinale su una riforma contestata da fronti opposti e che impatta con i principi costituzionali e la carta dei diritti dell’uomo. Come sempre Sergio Mattarella segue con attenzione l’iter legislativi senza ovviamente interferire con il Parlamento. In questo caso le sollecitazioni e le critiche risultano già forti al punto da far dubitare il premier stesso dell’opportunità di una riforma che il Quirinale guarderà con quattro lenti e che molti suoi colleghi delle università già criticano. Malgrado le parole di circostanza il rapporto tra Di Maio e Salvini si è rotto e il contratto di governo è talmente evaporato che ognuno lo recita a modo suo. Uno scontro che difficilmente permetterà al ministro Tria di spuntare il via libera a concessioni da offrire a Bruxelles sulla manovra. Prescrizione, i grillini preparano un’offensiva social anti-leghisti di Amedeo La Mattina e Mario Lombardo La Stampa, 8 novembre 2018 “Difendono solo i loro imputati”. Ora la questione si inzuppa di veleno. Perché contro le resistenze leghiste sulla prescrizione i 5 Stelle sono pronti a scatenare l’artiglieria web. Luigi Di Maio è a un passo dal dare l’ok a una campagna social per riesumare tutte le inchieste che coinvolgono gli uomini del Carroccio. “A partire dal capogruppo alla Camera Riccardo Molinari e dal viceministro Edoardo Rixi” sussurrano maliziosi i grillini. Molinari è stato condannato in appello a Torino per Rimborsoli. Su Rixi, a Genova pende invece la richiesta di condanna a 3 anni e quattro mesi per peculato. Un primo assaggio delle intenzioni bellicose, i 5 Stelle lo hanno dato qualche giorno fa con Stefano Buffagni, quando su Facebook ha volutamente ricordato, tra tanti casi, proprio quello “del leghista Fabio Rizzi, arrestato per le tangenti sulle dentiere”. Nei piani del M5S tutti i reati, anche quelli minori come quelli che hanno riguardato le spese pazze e i rimborsi in Regione, rientrerebbero nella sospensione della prescrizione dopo il primo grado, sia in caso di condanna sia che si esca assolti. È il cuore dell’emendamento alla legge Anticorruzione che ha fatto infuriare il Carroccio e sul quale non c’è ancora un’intesa. L’accordo di metodo ottenuto ieri sera, grazie alla sponda del presidente della Camera Roberto Fico, non ha risolto nulla. “Perché sul merito ancora non ci siamo” spiega Igor lezzi, capogruppo leghista in commissione Giustizia. Per levare i propri compagni di partito dall’impiccio di aver arbitrariamente cambiato un titolo di legge per rendere omogeneo l’inserimento della prescrizione in un disegno di legge sulla corruzione, che è ben altra materia, il presidente della Camera ha riaperto alla possibilità di emendare il testo. Fico non ha ritenuto di dover coinvolgere la Giunta per il regolamento e ha confermato la competenza delle stesse commissioni per ampliare la materia del ddl. Per questo motivo ai deputati di Giustizia e Affari Costituzionali toccherà una levataccia per essere a Montecitorio alle otto, dove in seduta congiunta i leghisti voteranno assieme ai grillini per l’estensione, e lo faranno prima del vertice tra Di Maio, il premier Conte e Matteo Salvini. Al di là dei tecnicismi, la soluzione offerta da Fico serve a prendere tempo. I grillini ottengono che lo stop ai processi rimanga dov’è, nel ddl Anticorruzione. La Lega però acquista una decina di giorni in più, perché il testo non arriverà in aula il 12 novembre, come previsto, ma slitterà. Dopo due giorni di faccia a faccia rinviati, ripicche e dichiarazioni indispettite, toccherà a Di Maio e Salvini trovare un compromesso. Tutti e due i leader hanno disertato il vertice sulla Libia. “Meglio far calmare i bollenti spiriti” spiega ai suoi il leghista: “Speriamo che I 5 Stelle abbiano alzato la voce solo per oscurare il nostro successo sul decreto sicurezza”. La distanza politica è tanta. Perché entrambi non sembrano intenzionati a cedere. “Sulla nave Diciotti e sulla sicurezza noi siamo stati leali - è quello che dirà Di Maio a Salvini. Potevamo opporci, non lo abbiamo fatto e ne stiamo pagando anche un prezzo elettorale. Sui nostri temi più identitari in seduta congiunta i leghisti voteranno assieme ai grillini per l’estensione, e lo faranno prima del vertice tra Di Maio, il premier Conte e Matteo Salvini. Al di là dei tecnicismi, la soluzione offerta da Fico serve a prendere tempo. I grillini ottengono che lo stop ai processi rimanga dov’è, nel ddl Anticorruzione. La Lega però acquista una decina di giorni in più, perché il testo non arriverà in aula il 12 novembre, come previsto, ma slitterà. Dopo due giorni di faccia a faccia rinviati, ripicche e dichiarazioni indispettite, toccherà a Di Maio e Salvini trovare un compromesso. Tutti e due i leader hanno disertato il vertice sulla Libia. “Meglio far calmare i bollenti spiriti” spiega ai suoi il leghista: “Speriamo che I 5 Stelle abbiano alzato la voce solo per oscurare il nostro successo sul decreto sicurezza”. La distanza politica è tanta. Perché entrambi non sembrano intenzionati a cedere. “Sulla nave Diciotti e sulla sicurezza noi siamo stati leali - è quello che dirà Di Maio a Salvini - Potevamo opporci, non lo abbiamo fatto e ne stiamo pagando anche un prezzo elettorale. Sui nostri temi più identitari pretendiamo lo stesso comportamento. Leali sì, ma non fessi”. Detto questo, dopo la concessione della Lega sull’ampliamento, i 5 Stelle sono anche disposti a ragionare su una riformulazione. Ma senza spingersi fin dove vuole Salvini. Il leader della Lega oggi porterà tre proposte: delega al governo per una riforma complessiva della giustizia; eliminazione dell’udienza preliminare per accorciare i tempi dei processi; sospensione della prescrizione solo per i reati gravi, escludendo quelli contro la Pa. Il primo punto sarebbe lo stralcio, il terzo vorrebbe dire graziare chi è accusato di corruzione: entrambi sono inaccettabili per i grani. Non sembra invece fattibile dal punto divista costituzionale concentrare lo stop della prescrizione solo su chi è condannato, escludendo chi viene assolto dal primo grado. Salvini spera in un ripensamento di Di Maio e cita l’intervista della Stampa al presidente dell’Anm: “Pure i loro amici magistrati hanno grossi dubbi”. L’obiettivo del leghista è una riforma più organica e su questo cercherà di far leva sul mediatore ed esperto di diritto Conte per cercare un equilibrio: “Dopotutto è un avvocato”. Perché la sospensione della prescrizione è contraria alla Costituzione di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 novembre 2018 “La sospensione della prescrizione dopo una sentenza di primo grado avrebbe l’effetto, contrario alla volontà della nostra Costituzione, di tenere sotto ricatto processuale il cittadino a tempo indeterminato. Prima di turbare gli equilibri costituzionali, il governo dovrebbe affrontare questo tema delicato in maniera tecnica, ascoltando tutti, gli avvocati come i magistrati, e prendendosi tutto il tempo necessario. Perché se si fa in due ore un’operazione chirurgica che richiederebbe otto ore, forse risparmieremmo alcuni medicinali, ma avremo ammazzato il paziente”. A dirlo, intervistato dal Foglio, è Andrea Mascherin, presidente del Consiglio nazionale forense (Cnf), l’organismo che rappresenta a livello istituzionale gli avvocati italiani, in fibrillazione di fronte alla proposta avanzata dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, di bloccare il decorso della prescrizione dopo solo una sentenza di primo grado. A mettere benzina sul fuoco delle polemiche è stato lo stesso Guardasigilli, che sabato scorso ha celebrato la sua “riforma epocale della giustizia” sostenendo che “è finita l’era dei furbi e dei loro azzeccagarbugli che mirano solo a farla franca”. Una definizione che non è piaciuta agli avvocati, individuati paradossalmente come i responsabili dell’incredibile lentezza della giustizia. Travolto dalle critiche, Bonafede ha poi chiesto scusa, aprendo al confronto con le categorie sulla riforma e incontrando lunedì pomeriggio proprio Mascherin, che nel colloquio ha sottolineato “l’esigenza di rimettere al centro del processo penale l’imputato e la presunzione di non colpevolezza”, nonché di “importanti investimenti economici e di interventi procedurali che conservino e rafforzino le garanzie difensive e che scongiurino il rischio di sottoporre l’imputato a un processo infinito”. Tutto ciò poco prima che il M5s ritirasse in Commissione alla Camera il discusso emendamento al ddl anticorruzione e lo ripresentasse con lo stesso contenuto e un titolo diverso. “La prescrizione non è un argomento tabù - aggiunge il presidente del Cnf al nostro giornale - ma non si può affrontarlo se prima non si rende il sistema giudiziario efficiente e i tempi processuali ragionevoli”. Chiediamo così a Mascherin di spiegarci quali riforme occorrerebbero: “Primo, bisogna equilibrare il potere della magistratura con quello del legislatore. Oggi il caos normativo fa sì che il giudice sia anche un “legislatore”, cioè costruisce delle vere e proprie norme. Se consegniamo alla magistratura anche il potere di tenere sotto processo il cittadino a tempo indeterminato violiamo il principio di separazione dei poteri”. Secondo: “Bisogna dare forza all’avvocatura, l’elemento equilibratore del sistema. Per questo abbiamo chiesto l’inserimento dell’avvocatura in Costituzione e l’affermazione del principio di autonomia e di libertà dell’avvocato”. Terzo: “Occorrono dei paletti tecnici, come la non impugnabilità di una sentenza di assoluzione di primo grado, e la fissazione di termini perentori per il magistrato, che se non rispettati possono attivare anche sanzioni processuali, come l’obbligo di archiviazione”. Infine, spiega Mascherin, servono le risorse per ampliare l’organico della magistratura e del personale amministrativo. I 500 milioni di euro annunciati da Bonafede bastano? “La giustizia avrebbe bisogno di molti più soldi. E anche se l’investimento fosse mirato dovremmo aspettare di vederne gli effetti prima di intervenire sulla prescrizione”, nota il presidente del Cnf, che comunque si dice ottimista: “Bonafede ha garantito il confronto. L’importante è che sia un confronto tecnico, perché si tratta di argomenti delicatissimi che riguardano la tenuta dello stato di diritto, e anche perché a noi le polemiche e gli slogan non interessano”. A preoccupare, però, è l’approccio giustizialista mostrato dalla maggioranza di governo sulla giustizia, che trova espressione in un linguaggio e in un programma di governo dal forte taglio populista: “Questo humus è preoccupante - dichiara Mascherin. Le norme ipotizzate, dalla legge spazza-corrotti all’aumento delle pene per gli evasori, connotano una mancanza di fiducia nei confronti del cittadino, ritenuto inaffidabile e dedito all’illegalità. Così si pensa che i rimedi debbano essere repressivi, ma bisogna invertire questa idea di fondo e puntare sulla prevenzione, eliminando quegli ostacoli (come la burocrazia o l’elevata pressione fiscale) che favoriscono la corruzione e la criminalità”. Caro ministro Bonafede, ma lei sa che la colpa delle prescrizioni è quasi tutta dei pm? di Maurizio Tortorella Panorama, 8 novembre 2018 I grillini vogliono bloccare l’estinzione dei processi dopo la sentenza di primo grado. È un errore, perché così i tempi della nostra giustizia si allungherebbero ancora di più. E soprattutto perché oggi quasi sette inchieste su dieci finiscono nel nulla già durante le indagini preliminari. Qualcuno prima o poi dovrebbe dirlo, al ministro della Giustizia Alfonso Buonafede. Se non lo faranno al ministero, dove tra consulenti e funzionari i magistrati sono forse troppi per garantire vera netutralità sul tema, per lo meno un consigliere esterno dovrebbe comunque avvisare il Guardasigilli che l’emendamento sulla prescrizione proposto dal suo Movimento 5 stelle nel decreto “spazza-corrotti” non è soltanto un grave errore giuridico, come protestano i penalisti e le opposizioni, ma sarebbe soprattutto un clamoroso buco nell’acqua. Per rendersene conto, del resto, basta un’occhiata ai dati della tabella che vedete a destra. Dalle stesse statistiche ufficiali del ministero della Giustizia, affiancate a quelle della Procura generale preso la Cassazione, emerge infatti che il 69,8 per cento delle prescrizioni, cioè delle sentenze che estinguono un procedimento penale per colpa del troppo tempo trascorso dal reato, avvengono durante le indagini preliminari, cioè all’inizio del processo stesso: quindi prima del rinvio a giudizio dell’indagato e ancora prima che il processo vero e proprio abbia avuto inizio. Insomma, la stragrande maggioranza dei processi finisce in prescrizione già un bel po’ di anni prima di arrivare alla sentenza di primo grado, proprio il momento che il M5s oggi considera il traguardo da cui partire con la riforma. Insomma, se anche l’emendamento grillino riuscisse a superare la negatività mostrata dall’alleato leghista (a partire dal ministro Giulia Bongiorno, che da esperta penalista descrive la riforma come “una bomba atomica sui processi”, fino a Matteo Salvini, che invita Bonafede a una seria riflessione), alla fine non risolverebbe gran che, perché riguarderebbe meno di un terzo delle prescrizioni. Per l’esattezza, dal gennaio 2005 (l’anno di partenza della riforma della materia, varata con la controversa legge Cirielli) i procedimenti dichiarati prescritti sono stati 1.594.414 fino al 31 dicembre 2016. Di questi, però, quelli che si sono arenati per sempre già durante le indagini preliminari sono stati 1.112.608: quasi sette su dieci. Va detto che purtroppo a questi due totali manca un dato, quello delle prescrizioni intervenute durante le indagini preliminari nel 2015, che inspiegabilmente non è rintracciabile negli archivi ministeriali. Così, per coerenza, i totali della tabella riguardano soltanto 11 anni su 12, con l’esclusione per l’appunto del 2015. Anche con questo strano “buco” temporale, che peraltro non potrebbe modificarne molto il segno, la statistica è comunque sorprendente e (soprattutto) viene incredibilmente sottaciuta nella polemica che dal 30 ottobre si è aperta sulla proposta grillina. Eppure si tratta di una verità incontrovertibile, che porta con sé molti corollari importanti, dal punto di vista sia giudiziario sia politico. Durante le indagini preliminari, infatti, l’attività investigativa non trova alcuna forma di contrasto da parte dell’indagato o del suo avvocato difensore. In quella fase, che può durare anche più di due anni, è il pubblico ministero che fa tutto, dialogando da una parte con la polizia giudiziaria e dall’altra con il Gip, per l’appunto il giudice delle indagini preliminari. Quindi questo 69,8 per cento di prescrizioni “precoci” non può assolutamente essere imputato alle diaboliche strategie dilatorie delle difese. La sua responsabilità ricade sui soli pm. Che evidentemente assolvono al compito costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale a modo loro, scegliendo quali fascicoli siano meritevoli di procedere più o meno speditamente, e quali invece debbano restare in un cassetto (a volte in una cassaforte) o coprirsi di polvere. Se si volesse ampliare il discorso, è evidente che da questa statistica emerge con forza che proprio l’obbligatorietà penale è sempre più una finzione scenica, un feticcio ideologico senza alcuna concretezza. E forse se ne potrebbe dedurre addirittura l’esistenza di un grave problema di controllo democratico sull’operato dei magistrati della pubblica accusa, resi praticamente liberi di fare e di non fare, di rallentare e di accelerare le indagini a loro piacere. L’unico ostacolo a questa loro discutibile sovranità totale sulla giurisdizione è attribuito dai codici ai Gip, che però ai pm possono soltanto rifiutare richieste di archiviazione e chiedere supplementi d’indagine, ma non hanno alcun potere di sindacare sui tempi e sui modi delle indagini. Il nuovo presidente dell’Unione delle camere penali, Gian Domenico Caiazza (che fu tra i difensori di Enzo Tortora), ha denunciato che “l’eventuale approvazione dell’emendamento, che nemmeno distingue tra sentenza assolutoria e sentenza di condanna, alla fine del giudizio di primo grado darebbe luogo a una pendenza teoricamente infinita sia della sentenza di condanna, sia dell’impugnazione da parte del pm della sentenza di assoluzione”. Ha ragione, Caiazza. Ma il problema d’immagine dei penalisti italiani è che da sempre sono accusati dai pm di essere i responsabili delle troppe prescrizioni italiane. Se volessero, hanno in mano una statistica ufficiale, che ribalta la colpa sulla loro controparte. Vendita dei beni sottratti al boss: no all’uso a-sociale di Antonio Maria Mira Avvenire, 8 novembre 2018 “Cosa più brutta del sequestro dei beni non c’è”, diceva il boss siculo-americano Francesco Inzerillo in una conversazione intercettata nel febbraio 2008. Lo aveva capito bene il vecchio mafioso quanto male facesse quello strumento - nato nel 1982 dall’intuizione di Pio La Torre, che pagò con la vita il suo impegno - e che venne rafforzato ne11996 dalla legge 109, sostenuta da un milione di firme raccolte da “Libera”. Una legge che prevedeva l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie. E che oggi coinvolge nella loro gestione quasi ottocento associazioni, cooperative sociali, diocesi, parrocchie, gruppi scout. Ieri, purtroppo, l’approvazione da parte del Senato del cosiddetto “decreto sicurezza”, apre una strada opposta, e questo non faciliterebbe il rafforzamento di tante belle esperienze. Il provvedimento, infatti, all’articolo 37 liberalizza la vendita a privati, con aste pubbliche, dei beni confiscati ai boss. Un’ipotesi che era stata avanzata dieci anni fa dal ministro dell’Interno Maroni, governo Berlusconi IV, stagione di respingimenti ciechi e in massa di richiedenti asilo e migranti. Le proteste documentate del mondo associativo e dell’antimafia sociale, che “Avvenire” sostenne con idee e documentazione giornalistica, bloccarono la proposta del ministro leghista. L’ha ritirata fuori il nuovo ministro leghista dell’Interno Salvini, una coincidenza che colpisce. E la maggioranza gialloverde l’ha approvata, nonostante il forte appello contrario firmato da associazioni e sindacati, da laici e da cattolici. Alla vendita, si legge nel documento, “si deve ricorrere come extrema ratio e non come scorciatoia per evitare le criticità che si riscontrano nella destinazione e assegnazione dei beni”. Peraltro la vendita era già possibile, ma proprio come scelta residuale e, infatti, molto poco utilizzata. I rischi sono evidenti. C’è, infatti, la concreta preoccupazione che i beni messi all’asta non solo siano venduti a prezzi svalutati (chi in certe zone avrà il coraggio di partecipare all’asta per la villa del boss locale?), ma che l’acquisto possa essere realizzato attraverso quella “area grigia” composta da professionisti, imprenditori, faccendieri, che agiscono formalmente nella legalità, ma che in realtà operano per il riciclaggio del denaro sporco. Se non ci sono cautele e vincoli adeguati, e nel decreto non ci sono, le maglie si allargano. Non sono solo ipotesi. Alcune inchieste giudiziarie hanno smascherato i tentativi delle mafie di reimpossessarsi dei beni confiscati. E, poi, se nessuno si fa avanti per ottenere il bene in comodato d’uso gratuito, come prevede la legge, perché lo dovrebbe fare pagando? Il mafioso lo farebbe, perché i soldi certo non gli mancano. Non è solo una questione di soldi ma anche di immagine. Per i mafiosi perdere i beni è una perdita di credibilità, di autorità, di controllo del territorio. Soprattutto se poi questi beni vengono utilizzati a fini sociali, dando lavoro pulito, favorendo il sostegno delle marginalità, educando i giovani alla legalità, alla responsabilità e all’accoglienza. Sono il “sogno che diventa segno”, come hanno scritto sui loro prodotti i giovani della cooperativa calabrese Valle del Marro, nata dalla collaborazione tra “Libera” e la diocesi di Oppido-Palmi, e vittima di decine di attentati e intimidazioni, come tante altre realtà che gestiscono i beni non più “cosa loro”. La conferma che queste iniziative proprio non piacciono alle cosche, che le colpiscono per metterle in difficoltà. Per questo andrebbero sostenute anche economicamente, favorendo l’acquisizione dei beni, e la loro gestione, e non mettendoli all’asta. Oltretutto il decreto prevede che i proventi della vendita siano utilizzati solo per il 20% per sostenere il funzionamento dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, mentre la gran parte finirebbe nel calderone della casse del ministro, alla ricerca spasmodica di fondi, proprio come i soldi che Matteo Salvini intende ricavare dai drastici tagli all’accoglienza dei richiedenti asilo. Una strategia che ritorna, ancora più dura di dieci anni fa. La privatizzazione dei beni mafiosi che la confisca aveva fatto tornare “beni comuni”. E la convinzione che la sicurezza sia soprattutto quella della faccia feroce e delle ruspe. La sicurezza, invece, è frutto del prezioso lavoro delle Forze dell’ordine, ma anche dell’altrettanto prezioso lavoro di chi ogni giorno riempie di vita e di futuro i beni strappati a cosche, clan e ‘ndrine. La soluzione alle criticità non si avrà con la vendita, ma soltanto favorendo e dando continuità a questi progetti. Che oltretutto piacciono agli italiani. Secondo una recente ricerca di “Libera” il 31% pensa che i beni confiscati dovrebbero essere destinati in misura prioritaria a cooperative orientate all’inserimento lavorativo dei giovani, il 23,5% alla realizzazione di luoghi pubblici di aggregazione e di educazione alla cittadinanza, il 18% a progetti di volontariato e di promozione sociale. Nel resto d’Europa, seguendo proprio l’esempio dell’Italia, si sta andando in direzione opposta a quella del salviniano “decreto sicurezza”. La Francia sta per discutere un progetto di legge per l’utilizzo a fini sociali dei beni sequestrati alla malavita, mentre Belgio e Portogallo lo hanno già fatto. Sarebbe assurdo che chi ha aperto la strada ne imboccasse davvero un’altra, quella del rischioso “uso asociale” dei beni sottratti ai boss. Mille uffici di prossimità nel 2019, la giustizia più vicina al territorio studiocataldi.it, 8 novembre 2018 È il ministro della giustizia Bonafede ad illustrare il progetto che prevede di aprire nel 2019 ben 1000 uffici di prossimità. Mille uffici di prossimità in arrivo nel 2019. “C’è un progetto che prevede di aprire nel 2019 ben 1000 uffici di prossimità che permetteranno al cittadino di sentire la giustizia vicina al territorio”. È quanto ha annunciato il ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, rispondendo a un’interrogazione della Lega sulle modifiche della “geografia giudiziaria” al question time alla Camera. “Nel contratto di governo c’è un espresso riferimento alla rivisitazione della geografia giudiziaria”, ha ricordato il ministro, premettendo di “condividere le preoccupazioni e le perplessità sulla riforma” e precisando che il dicastero “si è attivato per un controllo delle esigenze rappresentate sul territorio, in particolare nelle zone dove c’è stata soppressione di sedi”. “Sono convinto che l’estensione e le peculiarità delle zone di cui è composta Italia e la densità demografica debbano rivestire un ruolo centrale e ineludibile nella valutazione della geografia giudiziaria - ha sottolineato ancora Bonafede - che va strutturata tenendo conto dell’esigenza di garantire una razionale e capillare rete di presidi, anche a garanzia della sicurezza e della legalità”. Ma, ha assicurato, “la redistribuzione degli uffici non ha determinato incrementi dei carichi di lavoro perché negli uffici accorpanti sono confluiti non solo i procedimenti delle sedi soppresse ma anche le unità di personale giudiziario e amministrativo”. Il guardasigilli ha richiamato quanto già fatto: “col Milleproroghe 2018 c’è stato il ripristino delle sezioni distaccate di Ischia, Portoferraio e Lipari ed è stato inoltre deciso di non chiudere le sezioni fallimentari” e ha ricordato infine il progetto che prevede l’istituzione degli sportelli di prossimità per garantire la vicinanza della giustizia al territorio. Caso Cucchi, l’infermiere racconta: vedevo tanti detenuti con segni di percosse globalist.it, 8 novembre 2018 Dalla testimonianza di Giuseppe Flauto il sospetto che i pestaggi fossero la norma. Il dubbio, legittimo, è il seguente: Stefano Cucchi è morto e, anche se dopo anni di depistaggi e omertà, è stato scoperto il pestaggio. Ma quanti altri, che non sono morti, non hanno denunciato per paura, sono stati riempiti di botte dopo l’arresto? “Stefano si lamentava per il dolore, gli chiesi cosa gli fosse successo e lui mi disse che era caduto dalle scale, d’altronde ne vedevo tanti di detenuti con segni di percosse e nessuno diceva di essere stato picchiato”. Lo ha detto Giuseppe Flauto, l’infermiere che ebbe in cura all’ospedale Pertini, chiamato a testimoniare oggi in Corte d’Assise a Roma al processo sulla morte di Stefano Cucchi, il geometra 31enne deceduto il 22 ottobre del 2009 sei giorni dopo essere stato arrestato per detenzione di stupefacenti. Flauto, assolto in via definitiva nel primo processo per la morte di Cucchi, è l’infermiere che troverà il 31enne ormai senza vita. “La mattina del 22 entrai in cella, lo chiamai, ma lui non rispondeva: era di lato, con una mano sotto la guancia e sembrava dormisse, poi mi accorsi che era morto e inizia fargli un massaggio cardiaco perché il corpo era ancora caldo”. In aula oggi sono stati ascoltati vari infermieri che ebbero in cura Cucchi ma anche Amalia Benedetta Cerielli, la volontaria alla quale il giovane, il giorno prima di morire, chiese di chiamare la famiglia perché voleva incontrare il cognato. La donna ha ricordato quando vide il 31enne per la prima volta: “Aveva il viso tumefatto e con lividi” ha detto in aula rispondendo alle domande del pm Giovanni Musarò. Le parole del carabiniere - “Il 23 ottobre (2009), cioè il giorno del decesso di Stefano Cucchi, è stata pubblicizzata la notizia, perché io mi sono ricordato che in quel periodo c’era pure il caso Marrazzo, manco a farlo apposta, in quei giorni scoppiò il boom della Trionfale. Dopo due, tre giorni, ci chiedono le annotazioni allora, oggi il comandante del Gruppo dell’epoca era il colonnello Casarsa, lanciatissimo, che adesso lo capisco, con il senno di poi, e sai cos’è oggi Casarsa?”. Così ha detto Massimiliano Colombo, comandante Tor Sapienza al fratello Fabio nel corso di una delle conversazioni depositate agli atti del processo. “Il comandante dei Corazzieri, al Quirinale sta - continua Colombo - è quel Generale dei Carabinieri che si vede sempre con l’uniforme dei Corazzieri vicino al Presidente della Repubblica, che ha fatto carriera, e poi il generale Tomasone è di Corpo d’Armata, della Ogaden... e chi si trova indagato? il sottoscritto”. Colombo, comandante della stazione di Tor Sapienza (dove Stefano Cucchi venne portato, dopo essere stato picchiato, secondo la prospettazione accusatoria), intercettato il 26 settembre scorso con il fratello Fabio comunica di essere indagato per falso ideologico e materiale. Alcuni giorni dopo Colombo viene sentito in Procura dal pm Giovanni Musarò che sta indagando sui depistaggi interni all’Arma per nascondere il pestaggio subito da Cucchi e alterare le note di servizio sulle sue condizioni di salute dopo l’arresto per droga avvenuto la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. “Io quella notte - si sfoga il comandante della stazione nel ricostruire i fatti col fratello - stavo in alloggio, il piantone manco mi ha avvisato che avevano portato il detenuto, che il detenuto aveva problemi, tutte ste cose qua, non mi ha detto niente. Alla luce dei fatti di oggi quello (Cucchi, ndr) non voleva stare in camera di sicurezza, perché durante il foto-segnalamento, in un ambiente riservato, sembrerebbe sia stato picchiato, te lo dico non perché ho assistito, ma sempre per le versioni apprese nel tempo o da giornali o a sentire la radio... E che cosa c... c’entro in tutto questo io. Sto talmente arrabbiato e nervoso che tu non puoi immaginare... io vorrei strillare ai quattro venti e dire ‘ma vi rendete conto... ma che c... c’entro io’“. Mancato risarcimento dopo l’ingiusta detenzione, petizione pro-Petrilli vicina alle 900 firme di Monica Pelliccione Il Centro, 8 novembre 2018 Ha raggiunto quota 866 firme la petizione avviata, sulla piattaforma on line change.org, dal farmacista e musicista aquilano Piergiovanni Battibocca in favore di Giulio Petrilli, che rivendica ancora, dopo sei anni di ingiusta detenzione, il risarcimento dallo Stato. Petrilli scontò dal 1980 al 1986 sei anni di reclusione, di cui parte trascorsi in isolamento, con l’accusa di partecipazione a banda armata e di far parte di Prima Linea. “Accusa da cui sono stato assolto, con sentenza definitiva della Cassazione, nel 1989”, spiega Petrilli. “Da allora, nonostante la richiesta di risarcimento danni, non mi è stato riconosciuto alcun indennizzo”. Una vicenda che Petrilli ha portato persino all’attenzione degli organismi sovranazionali tra i quali la Corte Europea. “Lo scorso 3 ottobre”, racconta ancora Petrilli, “sono stato a Strasburgo per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di abolire il comma 1 dell’articolo 314 del codice di procedura penale, che non prevede alcun risarcimento “per dolo o colpa grave”. Sei anni di ingiusta detenzione sono un marchio profondo, che segna l’esistenza. Il risarcimento, oltre che di natura economica, è soprattutto morale per i sei anni di vita che mi sono stati annullati”. Nella sua trasferta Petrilli ha incontrato tanti parlamentari, a iniziare da Eleonora Forenza e Sergio Cofferati, oltre a Miguel Urban Crespo (Spagna), Marie-Christine Vergat (Francia), Neokis Shliktis (Cipro) e alcune deputate tedesche. Nella petizione che è stata avviata on line da Battibocca si fa riferimento anche al pagamento, a cui è stato condannato Petrilli, “di 160mila euro, in via definitiva, dalla Corte dei conti per aver stabilizzato quattro lavoratori precari dell’Agenzia regionale per l’edilizia territoriale, che sarebbero stati licenziati, pur essendo necessari al normale svolgimento delle molteplici attività dell’ente. Paradossale”, prosegue il testo della petizione, “se si pensa che per la privazione ingiusta della libertà personale Petrilli non ha ricevuto neppure un euro”. La Consulta “blinda” il segreto investigativo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2018 Corte costituzionale - Comunicato del 7 novembre 2018. La Corte costituzionale blinda il segreto investigativo. Con un comunicato diffuso ieri, la Consulta dichiara di avere accolto il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal procuratore di Bari nei confronti del Governo. Nel mirino la previsione, da subito assai discussa (tanto da avere convinto il procuratore di Torino Armando Spataro a emanare indicazioni per sterilizzarne gli effetti),inserita nel decreto legislativo 177 del 2016, che stabilisce, in buona sostanza, che ogni rappresentante delle Forze dell’ordine (poliziotto, carabiniere o finanziere) deve trasmettere al proprio superiore gerarchico le notizie relative alle informative di reato all’autorità giudiziaria “indipendentemente dagli obblighi prescritti dal Codice di procedura penale”. Con buona pace del segreto investigativo, eccepirono da subito in molti. In questo modo, spiegava Spataro, si stabilisce “attraverso un’evidente forzatura, che un atto non ancora valutato dal pm finisce sul tavolo di strutture direttamente dipendenti dal potere esecutivo. Così il segreto investigativo rischia di diventare carta straccia”. Secondo Spataro, si tratta di “un’ulteriore evoluzione della generale tendenza a spostare ogni attività verso l’esecutivo, persino la guida della polizia giudiziaria”. E tra i nettamente contrari anche il Csm che invitò, poco più di un anno fa, l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando a intervenire. Per il Consiglio, infatti, la norma introdotta, oltre che di discutibile coerenza con i principi di delega, era in totale disarmonia con uno dei cardini del sistema processuale penale italiano, appunto il segreto investigativo, oltre che con i principi costituzionali della disposizione della polizia giudiziaria da parte della magistratura e dell’obbligatorietà dell’azione penale. Infatti, sottolineava la delibera del Csm del giugno 2017, la comunicazione in via gerarchica delle informazioni, prevista dalla legge senza alcun filtro o controllo del pubblico ministero, rivolte fra l’altro anche a soggetti che non rivestono la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria e che, per la loro posizione di vertice, vedono particolarmente stretto il rapporto di dipendenza dal Governo, appariva non essere in linea con le prerogative riconosciute al pubblico ministero nell’esercizio dell’attività d’indagine, visto che le stesse sono portate a conoscenza di soggetti esterni al perimetro dell’indagine stessa. Senza tenere conto poi del fatto che l’obbligo del segreto investigativo è, nella lettura del Csm, strumentale all’attuazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ora la Corte costituzionale, nell’attesa di leggere le motivazioni della sentenza che saranno note solo tra qualche settimana, rende evidente la condivisione delle perplessità, visto che, recita il comunicato, pur riconoscendo che “le esigenze di coordinamento informativo poste a fondamento della disposizione impugnata sono meritevoli di tutela, ha ritenuto lesiva delle attribuzioni costituzionali del pubblico ministero, garantite dall’articolo 109 della Costituzione, la specifica disciplina della trasmissione per via gerarchica delle informative di reato”. La Cassazione: “Nessuna attenuante a chi uccide un malato per pietà” La Repubblica, 8 novembre 2018 Uccidere la moglie perché stanchi di vederla soffrire a causa dell’Alzheimer non può essere considerato “condotta di particolare valore morale” e non ha nulla a che vedere con il dibattito sul fine vita. A dirlo la Cassazione perché “nell’attuale coscienza sociale il sentimento di compassione o pietà è incompatibile con la soppressione della vita umana verso la quale si prova il sentimento”. Così la Cassazione spiega perché ha confermato la condanna a 6 anni e mezzo di reclusione per Vitangelo Bini, l’ex vigile urbano 88enne che nel 2007 uccise con 3 colpi di pistola la moglie, malata di Alzheimer, ricoverata all’ospedale di Prato. La difesa aveva presentato un ricorso in cui rilevava che “secondo il sentire la partecipazione all’altrui sofferenza può essere vissuta, in casi estremi, anche con la soppressione della vita sofferente”. Una tesi non condivisa dai giudici della prima sezione penale, secondo i quali questa “nozione di compassione è attualmente applicata agli animali da compagnia: è ritenuta espressione di civiltà la pratica di determinarne farmacologicamente la morte in caso di malattie non curabili”. Ma “nei confronti degli esseri umani operano i principi espressi dalla Costituzione, finalizzati alla solidarietà e alla tutela della salute”. Sottolineando il rifiuto alla violenza contro gli indifesi. Il patteggiamento non salva dal pagamento delle spese di custodia cautelare di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2018 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 7 novembre 2018 n. 50314. Il patteggiamento non evita all’imputato di pagare le spese per il suo mantenimento in carcere durante la custodia cautelare. I benefici sono, infatti, limitati alle spese del procedimento. La corte di cassazione, con la sentenza 50314, respinge il ricorso dell’imputato secondo il quale la condanna a pagare le spese della custodia cautelare in carcere era in contrasto con l’articolo 445 comma 1 del codice di rito penale, che prevede “l’esenzione” dalle spese del procedimento per chi sceglie l’applicazione della pena su richiesta delle parti, nel caso la pena irrogata non sfori i due anni. Dalla sua il ricorrente citava diversi precedenti di legittimità. La Suprema corte ammette il contrasto ma sceglie l’indirizzo più “penalizzante” per l’imputato. I giudici danno conto di un primo orientamento, secondo il quale, a prescindere dalla durata della sanzione concordata, l’imputato è tenuto a pagare le spese di custodia cautelare, vista la diversa natura di queste rispetto alle spese processuali alle quali si riferisce la norma. Diverso il punto di vista della giurisprudenza invocata dal ricorrente, che considera invece il “beneficio”, previsto dal codice di rito, estensibile anche alle spese di custodia cautelare se la condanna non supera i due anni. La Cassazione sceglie la prima via, facendo un distinguo tra le spese processuali penali e le spese di mantenimento dei detenuti basato proprio su quanto stabilito dal testo unico in materia di spese di giustizia (Dpr 115/2002). Secondo la norma, infatti, si procede al recupero delle spese di mantenimento in carcere dei detenuti, oltre che delle spese per la custodia dei beni sequestrati anche in caso di patteggiamento. Per la Suprema corte dunque gli oneri di mantenimento in carcere non rientrano “nel novero dell’esenzione previsto dalla disciplina premiale in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, che è limitato ai soli esborsi sostenuti per lo sviluppo dell’iter processuale”. La bancarotta fraudolenta “impropria” può essere aggravata di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 7 novembre 2018 n. 50489. La bancarotta fraudolenta cosiddetta “impropria”, cioè commessa attraverso reati societari, può essere “aggravata” dalla circostanza di una pluralità dei fatti che hanno determinato il dissesto. La Corte di cassazione con la sentenza n. 50489 di ieri ha aderito all’orientamento che afferma l’applicabilità dell’aggravante prevista dall’articolo 219 della legge fallimentare anche nell’ipotesi prevista dalla stessa legge all’articolo 223. La vicenda - Nel caso specifico le false comunicazioni sociali che avevano determinato il dissesto e la conseguente richiesta di ammissione al concordato preventivo avevano nascosto l’esistenza di costi a carico della società determinando la falsa rappresentazione di utili, in base alla quale la società continuava a ottenere prestiti e fidi. Aumentando così la propria esposizione debitoria. La circostanza che alla falsificazione del bilancio sia seguita la richiesta di ammissione al concordato non esclude la volontà colpevole di portare al dissesto la società. Volontà rinvenibile - nel caso specifico - sicuramente in capo all’amministratore di fatto, ma anche all’amministratore di diritto per non aver posto alcuna azione di controllo sulle risultanze contabili. Questi avrebbero chiaramente agito in concorso visto il decorso di circa quattro anni dell’attività di falsificazione del bilancio. I due amministratori imputati sostenevano che dopo la riforma fallimentare alla base del concordato preventivo non vi è il dissesto societario come per la dichiarazione di fallimento, bensì una mera crisi aziendale alla quale con atteggiamento collaborativo la società tenta di porre rimedio. Le motivazioni della Suprema corte - La tesi difensiva della mancanza dell’elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta impropria aggravata non era sostenibile - per i giudici di legittimità - perché i reati societari erano molteplici e proseguiti nel tempo. Reati che hanno consentito la prosecuzione dell’attività di impresa evitando la ricapitalizzazione o la liquidazione con accumulo di ulteriori perdite. Per la Cassazione l’apparente solidità della Srl fallita aveva determinato nei suoi confronti la prosecuzione di rapporti commerciali con terzi e a nulla vale affermare che ciò ha in primis determinato la crisi perché ne è comunque derivato il pieno dissesto “fallimentare”. Chiarisce poi la Corte che non era ravvisabile l’attenuante di “speciale tenuità” prevista sempre dall’articolo 219 della legge fallimentare in quanto sussisteva un danno patrimoniale di particolare gravità che emergeva dall’entità obiettiva del danno rapportata alla diminuzione patrimoniale a danno dei creditori. Evasione fiscale, il Gip deve tenere presente quanto concordato con l’Erario di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 50157/2018. In caso di evasione fiscale e nell’ipotesi in cui il contribuente abbia stretto con il Fisco una rateazione di quanto dovuto, la misura cautelare deve necessariamente tenere conto di quanto già definito dal privato. Se così non fosse - precisa la Cassazione con la sentenza n. 50157/2018 - il contribuente sarebbe doppiamente svantaggiato, con la presenza di una misura cautelare che andrebbe paradossalmente a colpire quella parte di imposta ormai concordata con l’Erario. La posizione del Gip. Alla base del principio un provvedimento del gip di Brindisi che aveva rigettato la richiesta di riduzione dell’ammontare dell’importo pari a circa 2,3 milioni di euro, corrispondenti alla differenza tra la maggiore imposta evasa, come oggetto di contestazione provvisoria, e quella definita a seguito di tre accordi conciliativi con il Fisco. Il Tribunale cautelare in accoglimento della conclusioni del gip ha ritenuto che l’articolo 12-bis comma 2 del Dlgs 74/2000, non precludesse l’adozione del sequestro e né della confisca, dovendo unicamente ritenersi inefficace la misura cautelare in relazione alle rate eventualmente versate. I ricorrenti si sono lamentati che il Tribunale avrebbe erroneamente escluso la riduzione del sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, in presenza di accordi conciliativi con conseguente ridimensionamento della somma originariamente contestata. La Cassazione ha chiarito - alla luce di quanto disposto dall’articolo 12-bis del Dlgs 74/2000 - (secondo cui la confisca diretta o di valore dei beni costituenti profitto e prodotto del reato “non opera per la parte che il contribuente sui impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro”) che la confisca così come il sequestro preventivo a essa preordinato ossa essere adottato anche a fronte dell’impegno di pagamento assunto producendo tuttavia effetti solo ove si verifichi il successivo mancato pagamento del debito. A riguardo il giudice penale ben può discostarsi dalla quantificazione del profitto come risultante dagli accordi conciliativi con le Entrate, ma nell’esercizio di tale autonomo potere deve darne congrua argomentazione. Il principio affermato. È stato affermato, quindi, il principio secondo cui in caso di accordi conciliativi con l’Erario, deve attribuirsi rilevanza alla quantificazione del profitto operata in sede amministrativa, ma che il giudice penale, in forza dell’inesistenza di una pregiudiziale tributaria, ben possa discostarsi dalla determinazione dell’ammontare del profitto come risultante dell’accordo, ma di ciò deve darne congrua motivazione. Genova: il giudice costituzionale Viganò incontra i detenuti di Marassi bizjournal.it, 8 novembre 2018 L’incontro fa parte del progetto “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”, per parlare della rieducazione. Il giudice della Corte costituzionale Francesco Viganò incontrerà i detenuti del carcere di Marassi, nell’ambito del progetto “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”, venerdì 9 novembre, a partire dalle 10. Nel teatro del carcere il giudice terrà una lezione che si svilupperà attorno al frammento di Costituzione “Tendere alla rieducazione”. Successivamente risponderà alle domande che i detenuti vorranno rivolgergli. Dopo l’incontro, il giudice Viganò visiterà gli spazi detentivi. Il progetto “Viaggio nelle carceri” è stato deliberato dalla Corte l’8 maggio scorso e, in continuità con il “Viaggio nelle scuole”, risponde anzitutto all’esigenza di aprire sempre di più l’Istituzione alla società per diffondere e consolidare la cultura costituzionale. L’incontro “fisico” con porzioni del Paese reale esprime poi l’esigenza di uno scambio di conoscenze e di esperienze in funzione di una piena condivisione e attuazione dei valori costituzionali. Con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la “cittadinanza costituzionale” non conosce muri perché la Costituzione “appartiene a tutti”. Il progetto - grazie alla collaborazione del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del dipartimento della Giustizia minorile e di comunità - prevede un ciclo di incontri in diverse carceri italiane. Brescia: colletta alimentare per i detenuti quibrescia.it, 8 novembre 2018 La Garante dei Detenuti del Comune di Brescia, in collaborazione con l’Associazione Carcere e Territorio Onlus, l’Associazione Volca Onlus, L’Associazione Uisp, Il Centro Culturale Islamico di Brescia la Coop. Bessimo e la Coop. Alborea, organizza una raccolta di generi alimentari da destinare ai detenuti dei due istituti di pena cittadini, in occasione delle festività natalizie. Il gesto vuole essere espressione fisica di una vicinanza emotiva a chi, per una serie di ragioni, si trova a scontare una pena in carcere, lontano dai propri affetti e spesso in situazioni di difficile gestione, determinate dal crescente e preoccupante livello del sovraffollamento degli istituti di pena italiani. Per la persona detenuta, infatti, risulta spesso difficoltoso poter acquistare beni dall’esterno a causa delle serie ristrettezze economiche nelle quali versa la maggioranza dei reclusi. Rendere, per certi versi, la carcerazione più umana, oltre ad essere un doveroso tentativo di conformarsi al dettato costituzionale, rappresenta una possibile strategia di abbattimento della recidiva, in un’ottica illuminata di gestione della pena che individua nel tempo della sanzione un laboratorio di ricostruzione di percorsi di legalità, piuttosto che un dannoso e inutile strumento di vendetta. Il senso del coinvolgimento della collettività in questa iniziativa si muove, dunque, proprio verso questa direzione: avvicinare sempre più il mondo “libero” a quello privato della libertà, affinché il modello di una giustizia equa possa esprimere al meglio i suoi frutti in termini di riacquisizione di prezioso capitale sociale, al termine della pena. La raccolta riguarda i seguenti generi alimentari: • Pasta (Possibilmente in formato da 500gr) • Riso (Possibilmente in formato da 500 gr) • Zucchero (Possibilmente in formato da 1 Kg) • Sale (Possibilmente in formato da 1 Kg) • Farina (Possibilmente in formato da 1 Kg) • Latte (Possibilmente in cartoni da 1Lt, lunga conservazione) • Biscotti • Cioccolata (Possibilmente in tavolette) • Caffè (Possibilmente in confezioni da 500gr.) Sarà possibile effettuare le consegne ogni giorno (dal lunedì al venerdì) presso la sede • dell’Associazione Carcere e Territorio Onlus, Via Borgondio 29, dalle ore 9.30 alle ore 12.00, info@act-bs.it (030291582) • dell’Ufficio del garante, via del Carmine 20, il lunedì dalle ore 9.30 alle ore 12.30 LRavagnani@comune.brescia.it, 3371619000 • della Coop. Alborea, Via della Ziziola, 91B - info@alborea.net (0303541579) Sarà possibile effettuare le consegne in tempi e luoghi diversi, previo accordo telefonico o via email. La raccolta si chiuderà il giorno 5 dicembre 2018. Velletri: “Pene alternative al carcere, sicurezza e giustizia”, convegno in Tribunale ilcaffe.tv, 8 novembre 2018 È in programma venerdì 9 novembre alle 16, presso l’aula polifunzionale del tribunale di Velletri, in piazza Falcone, il convegno “Verso una giustizia di comunità”, a cura delle Caritas delle diocesi di Albano e Velletri-segni e dell’associazione Vol.a.re Onlus (che dal 2005 si occupa di accompagnare e sostenere i detenuti del carcere di Velletri e le loro famiglie), con il patrocinio della camera penale di Velletri. Un incontro per parlare della realtà dei detenuti, delle pene alternative al carcere, di riparazione del danno, sicurezza e giustizia. “L’evento - spiegano gli organizzatori - è tra gli impegni presi nel documento “Per l’inclusione delle persone detenute” sottoscritto dalle Caritas diocesane di Velletri-Segni e Albano insieme a Vol.a.re ed è rivolto a legali, operatori della giustizia, associazioni di volontariato e a tutti cittadini interessati alla piena applicazione delle norme costituzionali in materia di esecuzione penale”. L’incontro, a ingresso libero, sarà coordinato da Carlo Condorelli, presidente della Onlus Vol.a.re e sarà introdotto dal vescovo di Velletri- Segni, Vincenzo Apicella. Dopo il saluto delle autorità presenti prenderanno la parola i relatori, che saranno Daniela De Robert, membro dell’Autorità garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, con un intervento su “Misure alternative al carcere - o di comunità - e modalità alternative di definizione del processo: tutela delle garanzie, sicurezza e giustizia nell’attuale contesto sociale”, Roberta Ribon, avvocata del Foro di Bergamo e mediatrice penale presso il Centro di giustizia riparativa della Caritas di Bergamo che affronterà “La giustizia riparativa: principi, attualità e prospettive nel processo e nell’esecuzione penale” e Giorgio Innocenti, dell’equipe della Caritas di Velletri-Segni, referente dell’area “Carcere” con un intervento sul tema “La buona misura, progetto per il sostegno alle persone detenute in esecuzione penale esterna sul territorio”. Questo progetto, “Buona Misura” è destinato ad accogliere sette detenuti, ammessi ai benefici di legge, alloggiati in una residenza ristrutturata dalla Caritas diocesana di Velletri, per formarli e avviarli al lavoro presso aziende del territorio. È in programma venerdì 9 novembre alle 16, presso l’aula polifunzionale del tribunale di Velletri, in piazza Falcone, il convegno “Verso una giustizia di comunità”, a cura delle Caritas delle diocesi di Albano e Velletri-segni e dell’associazione Vol.a.re Onlus (che dal 2005 si occupa di accompagnare e sostenere i detenuti del carcere di Velletri e le loro famiglie), con il patrocinio della camera penale di Velletri. Un incontro per parlare della realtà dei detenuti, delle pene alternative al carcere, di riparazione del danno, sicurezza e giustizia. “L’evento - spiegano gli organizzatori - è tra gli impegni presi nel documento “Per l’inclusione delle persone detenute” sottoscritto dalle Caritas diocesane di Velletri-Segni e Albano insieme a Vol.a.re ed è rivolto a legali, operatori della giustizia, associazioni di volontariato e a tutti cittadini interessati alla piena applicazione delle norme costituzionali in materia di esecuzione penale”. L’incontro, a ingresso libero, sarà coordinato da Carlo Condorelli, presidente della Onlus Vol.a.re e sarà introdotto dal vescovo di Velletri- Segni, Vincenzo Apicella. Dopo il saluto delle autorità presenti prenderanno la parola i relatori, che saranno Daniela De Robert, membro dell’Autorità garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, con un intervento su “Misure alternative al carcere - o di comunità - e modalità alternative di definizione del processo: tutela delle garanzie, sicurezza e giustizia nell’attuale contesto sociale”, Roberta Ribon, avvocata del Foro di Bergamo e mediatrice penale presso il Centro di giustizia riparativa della Caritas di Bergamo che affronterà “La giustizia riparativa: principi, attualità e prospettive nel processo e nell’esecuzione penale” e Giorgio Innocenti, dell’equipe della Caritas di Velletri-Segni, referente dell’area “Carcere” con un intervento sul tema “La buona misura, progetto per il sostegno alle persone detenute in esecuzione penale esterna sul territorio”. Questo progetto, “Buona Misura” è destinato ad accogliere sette detenuti, ammessi ai benefici di legge, alloggiati in una residenza ristrutturata dalla Caritas diocesana di Velletri, per formarli e avviarli al lavoro presso aziende del territorio. Matera: si chiude Sham Lab, il laboratorio teatrale con i detenuti sassilive.it, 8 novembre 2018 A Palazzo Lanfranchi il panel La “vergogna” e il ribaltamento del suo significato - da Matera all’Europa. Il carcere potrebbe essere considerato il luogo simbolo della vergogna. Quella individuale, indissolubilmente legata al tema della colpa ma anche quella collettiva e sociale, in relazione alle condizioni del sistema carcerario in Italia. E ancora quella riflessa, che riguarda i familiari di chi sta scontando una pena. Ed è proprio per queste ragioni che il progetto teatrale di Matera Capitale Europea della Cultura 2019 “La poetica della vergogna”, co-prodotto da #reteteatro41, network di quattro compagnie teatrali lucane, e Fondazione Matera Basilicata 2019 in partnership con Accademia Mediterranea dell’Attore di Lecce, Artopia (Fyrom), Qendra Multimedia (Kosovo). non poteva che partire dalla Casa Circondariale di Matera. È qui che si svolgeranno prove e debutto della nuova produzione dal titolo “Humana vergogna”, performance di teatro e danza prevista a marzo 2019, con la regia della coreografa Silvia Gribaudi ed un cast selezionato tra i partecipanti nazionali ed internazionali al Workshop diretto da Radoslaw Rychcik (Campi Salentina 3-7 novembre 2018) e alla residenza artistica di Skopje (26 novembre-15 dicembre 2018) diretta da Sharon Fridman, Silvia Gribaudi e Jeton Neziraj. Ed è sempre qui che si sta svolgendo il laboratorio Shame Lab, ideato e condotto da Antonella Iallorenzi, fondatrice della Compagnia Petra ed esperta in teatro sociale e drammaterapia, da tempo desiderosa di aprire al pubblico i luoghi teatrali nei carceri della Basilicata dove da anni lavora. “Devo ringraziare l’amministrazione penitenziaria di Matera, il provveditore Cantone e il direttore Ferrandina, - spiega - che mi hanno dato la possibilità di lavorare su questo progetto a noi tanto caro e continuare il processo di sensibilizzazione che vuol trasformare i luoghi del carcere in luoghi di cultura. Un’idea che si è alimentata attraverso lo studio del teatro in carcere in Italia sviluppatosi dagli anni 80 fino ad oggi e che si è concretizzata con la nostra adesione al coordinamento nazionale del teatro in carcere che oggi coinvolge più di 80 realtà sul territorio nazionale”. Sono 15 i partecipanti al laboratorio e tutti hanno messo a disposizione la loro specificità. Il lavoro laboratoriale non parte dalle loro storie ed esperienze (di cui peraltro non si viene messi a conoscenza e non si fa riferimento) per scoprire così che la “vergogna” in carcere è identica a quella che coinvolge tutti noi: ha a che fare con l’amore, con l’esporsi pubblicamente, con il mettersi in gioco. Una riflessione intensa, condivisa e raccontata attraverso gli scatti fotografici del Web Team di Matera 2019 che documenta gli incontri di Antonella Iallorenzi con i detenuti. “Abbiamo seguito gli spunti di riflessione dei partecipanti - spiega Antonella Iallorenzi - e attraverso suggestioni personali abbiamo giocato con gli stereotipi legati alla parola vergogna, perché proprio da qui dal carcere possa nascere una nuova visione che rompa gli schemi e liberi il pensiero”. Il progetto - partito a metà settembre - si concluderà il 23 novembre con un esito finale aperto al pubblico, un’ulteriore tappa della ricerca sulle declinazioni della vergogna, tema del dossier di Matera Capitale Europea della Cultura 2019. È previsto in tal senso l’otto novembre nella Sala Levi di Palazzo Lanfranchi a Matera, alle ore 17, un panel internazionale per approfondire il tema “vergogna” e il ribaltamento del suo significato da Matera all’Europa attraverso le riflessioni del critico teatrale Mario Bianchi, dello scrittore Mario Desiati, l’intellettuale albanese Fatos Lubonja, il critico letterario ed esperto di letteratura del sud est Europa, Giuliano Geri, Stephanie Schwandner Sievers, antropologa esperta di Europa sud-orientale, la poetessa giapponese Misumi Mizuki e Cristina Amenta, architetto impegnato nel progetto di Matera 2019 “Architecture of shame”. Ad intervenire sarà anche Antonella Iallorenzi. Modererà Rossella Vignola, dell’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa. Dati, intelligenza artificiale e processo: non cadiamo nella morsa “apocalittici o integrati” di Daniela Piana* Il Dubbio, 8 novembre 2018 Nel maggio 2018 l’adozione della normativa europea in materia di protezione dei dati personali ha provocato una onda (non anomala) di attenzione istituzionale e mediatica che si è declinata a seconda dei casi e dei contesti in denuncia dei rischi di furto dei dati, di preoccupata rilevazione dei rischi di utilizzo distorto o lesivo della privacy dei dati che gli utenti dei social network hanno inserito per poter fruire degli spazi virtuali ad essi connessi, in promozione di standard di tutela dei dati personali ed in particolare delle policy di anonimizzazione che interessano i settori della Pubblica amministrazione dove i servizi e gli atti vengono resi disponibili on line. Di più. L’incontro fra esperti della tecnologia ed esperti del diritto si è trovato quanto mai necessario in virtù della attuazione della normativa europea. Quali siano i profili normativi e quale il grado di tutela - se incardinata nell’assetto costituzionale o se piuttosto attinente al perimetro della legislazione primaria o ancora se meglio gestito attraverso griglie di standard aventi la natura della soft law - costituisce un primo, ineludibile aspetto di cui tutti gli operatori dei sistemi giustizia si devono occupare e di fatto si stanno occupando. Non sfugge che la Conferenza organizzata dalla Ccbe (Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa) a Lille a fine novembre sarà dedicata al macro tema della intelligenza artificiale. Non sfugge nemmeno che il Consiglio d’Europa abbia dedicato uno stream di discussione e di elaborazione di standard alla tematica degli algoritmi. Ma occorre evitare trappole da apocalittici o da integrati. I dati resi disponibili per via della digitalizzazione non sono di per sé alcuna cosa se non sono prima strutturati in architetture organizzanti e intelligenti e in seconda battuta analizzati avendo in mente domande, correlazioni, punti focali. Gli algoritmi non analizzano atti, analizzano la trascrizione in codici dei contenuti digitali di quegli atti. Affinché si possa parlare di conoscenza a partire dai dati digitali occorre che i passaggi siano fatti tutti e siano fatti con una strategia condivisa. I dati sono un common good, una risorsa alla quale l’accesso di un attore ulteriore non fa che aumentarne il valore poiché è in grado di valorizzare la cognizione sociale che gli atti della giustizia portano al loro interno. Sul fronte della elaborazione delle strategie di mercato nel mondo della professione forense ovvero della rappresentanza legale all’interno delle imprese, le cosiddette legaltech costituiscono un universo all’interno del quale la componente relativa alla raccolta, classificazione, codifica e analisi dei dati costituisce un vero e proprio mercato dagli sviluppi inattesi quanto rapidi nel dispiegarsi. Secondo Susskind, avvocato e opinion leader nel settore di fama mondiale, l’impatto della intelligenza artificiale nella analisi delle banche dati e della case law cosi come nella elaborazione di strategie di mercato per le law firm raggiungerà il suo apogeo nel 2020. È evidente che la modalità con la quale sono redatti gli atti giuridico- giudiziari è cruciale ai fini della efficacia e della verosimiglianza delle inferenze probabilistiche che un algoritmo può da essi trarre in merito alla correlazione fra tattica forense, argomentazione e negoziazione versus risposta della parte antagonista ovvero della pubblica accusa o ancora in merito alla “mediabilità” di un contenzioso. La rilevanza della qualità redazionale dei testi a partire dai quali sono costruite le banche dati non deve sfuggire nemmeno a chi noti il potenziale di riduzione della conflittualità - ossia di prevenzione della litigiosità - in materia di diritto societario e di diritto delle imprese: come sottolinea correttamente Celestina Tinelli, componente del Cnf, l’applicazione delle strumentazioni messe a disposizione nell’elaborazione dei dispositivi contrattuali può avere uno straordinario potenziale nella prevenzione di costi che per le imprese sono sia di ordine materiale, sia di ordine reputazionale, nella fase di elaborazione dei contratti. È tuttavia fondamentale interrogarsi su quale tipo di conoscenza viene resa fruibile dagli operatori del settore giustizia nello scenario prospettato dalla tecnologia digitale. Molto spesso l’utilizzo acritico di termini come dato, informazione, conoscenza, verità, comporta non solo l’emergere di una Babele semantica che disorienta il cittadino e rende opaco il processo decisionale e i suoi aspetti critici, ma induce anche un effetto distorto sulle scelte di politica pubblica. Se infatti John Austin aveva un punto di ragione forte nell’affermare che con “le parole si fanno” le cose, allora è necessario che vi sia una consapevolezza condivisa, frutto di un dibattito esperto i cui risultati sono diffusi sul nesso che intercorre fra dato, informazione, conoscenza e verità nel settore giustizia. Partiamo dal tema del dato. I processi non nascono come riti che si interessano a dati. I processi nascono come riti che costituiscono spazi regolati e simbolicamente connotati dove le evidenze su fatti e su comportamenti sono combinate in una logica dialogica, attraverso passaggi standardizzati da una procedura, per puntare al raggiungimento di una soluzione di una controversia. Che questa soluzione sia qualificabile come “vera” in senso giudiziario è questione che affronteremo nei termini in cui essa si trova ridefinita dalla giustizia algoritmica nel prossimo paragrafo. Al momento da un lato la questione è come si passi dall’evidenza e dalla “evidenza processualmente significativa” al dato. Dall’altro lato, essa consiste nel modo con cui i comportamenti giudiziari - ossia il decreto del giudice, l’articolato di una sentenza, la risposta del giudice alla richiesta di una misura cautelare della pubblica accusa, ecc. - sono trasformati in dati. La trasformazione di fatti in dati non è un passaggio scontato. Esso necessita quantomeno di un linguaggio che trascriva il fatto in una formulazione che possa essere “compresa” dall’algoritmo. Ma per noi che ci occupiamo di giustizia il tema ancora più problematico ha a che vedere con il momento della scrittura, ossia quella scelta del linguaggio con cui vengono scritti, ossia formalizzati i fatti in evidenze processualmente rilevanti e giuridicamente “processabili”. Il passaggio dal testo di una sentenza al testo digitale alla base di dati su cui lavora il software di analisi semantica del discorso è esattamente lo snodo dove interviene l’intelligenza umana nel suo interfacciarsi con quella artificiale. Diversi aspetti incideranno qui sulla qualità del risultato di analisi dei dati: la relativa omogeneità della struttura argomentativa dei testi, la relativa omogeneità della ricorrenza dei termini o di loro sinonimi, la relativa omogeneità dell’uso di cifre e non parole per esprimere entità numeriche (se scrivo 4 e non quattro per un elaboratore digitale non è la stessa cosa), ecc. Il passaggio dai dati alla informazione rappresenta un secondo momento in cui l’intelligenza subentra nello scenario della giustizia digitale. L’informazione è infatti il risultato di una prima azione di elaborazione del dato. Estrarre regolarità da una base di dati è costruire informazione. Riconoscere che nel quadro delle sentenze di primo grado in materia di successione il 54% dei casi sono risolti con una decisione di tipo x è estrarre una informazione. L’informazione può essere estratta e poi comunicata, condivisa, archiviata o codificata in una base dati che ci permettere di avere un nuovo punto di partenza per una ulteriore elaborazione, ad esempio statistica. Soprattutto l’informazione diventa conoscenza nel momento in cui è oggetto di un atto di comprensione. Insomma ha ragione Knuth, noi non stiamo cercando informazione, noi stiamo cercando il senso. Cerchiamo comprensione. Di un fenomeno complesso, strutturalmente scaturito dalle più profonde e consolidate interdipendenze sociali ed economiche: l’incontro fra domanda ed offerta di giustizia. Questo deve essere il dato. *Professore di Scienze politiche dell’Università di Bologna Antisemitismo ed hate speech, un vizio “social” di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 8 novembre 2018 Le piattaforme social non hanno ideologia se non quella del mercato. Non conta chi sei o come la pensi, contano i numeri che fai - like, fan, follower - insieme alla capacità di spesa nota dall’incrocio di fattori e informazioni anche esterne alla piattaforma. Per questo motivo le policies dei social mettono meno vincoli possibili al comportamento degli utenti, spesso sotto la bandiera di una presunta libertà d’espressione. “The Intercept”, il giornale online fondato da Glenn Greenwald, Laura Poitras e Jeremy Scahill, ha dimostrato che Facebook vendeva pubblicità razziste e antisemite ai suoi utenti. Proprio nei giorni del massacro alla sinagoga di Pittsburgh. L’autore dell’omicidio di 11 persone era convinto dell’esistenza di un complotto per decimare la “razza bianca”, noto come “White genocide”. Si tratta di una teoria complottista secondo la quale “i negri” cospirerebbero per cacciare i bianchi dalle loro terre. Nonostante gli sforzi internazionali per smascherare la falsa tesi di un “Genocidio bianco”, Facebook vendeva agli inserzionisti la teoria complottista a un “target dettagliato” di un gruppo di interesse di 168.000 utenti che avevano espresso il favore per contenuti simili. L’azienda, contattata per un commento, ha eliminato la categoria di targeting, si è scusata e ha affermato che non avrebbe mai dovuto esistere. Quante pagine e quante inserzioni di questo tipo esistono ancora su Facebook? Non ci piace ammetterlo, ma i social, non solo Facebook, sono diventati una fogna. Nati per i motivi più diversi, il loro modello di business si basa sulla vendita dei dati personali degli utenti e sulla capacità di indirizzare la loro attenzione verso specifici target pubblicitari. Più utenti hanno, maggiore è il volume di traffico che possono generare e maggiore il loro valore per gli inserzionisti. Maggiori gli utenti, maggiori i profitti, maggiore il valore delle azioni, maggiori i dividendi per gli azionisti. Per ampliare la platea degli iscritti ai social il primo obbiettivo è di renderli fruibili attraverso interfacce semplificate e sistemi di ricompensa. Gli stessi dispositivi digitali che usiamo per accedervi sono già predisposti per farlo grazie alle app, software dedicati a prova d’incapace. No, non offendetevi. Siti web, app, social e i dispositivi sono ingegnerizzati come i comandi di una lavatrice per essere usati senza capire come funzionano per davvero. Grazie alla logica del design centrato sull’utente, devono poter essere usati da tutti e perciò fanno leva su abilità umane comuni: coordinamento percettivo, linguaggio e memoria. Ma i social sono luoghi d’interazione che retroagiscono non solo su quelle abilità ma sui nostri “frame” comportamentali, modificandoli. Ad esempio: perché sui social si litiga tanto? Perché l’assenza fisica dell’interlocutore elimina il timore di rappresaglie fisiche. Perché le opinioni sui social sono tanto polarizzate? Perché gli utenti possono approfittare dell’anonimato e si sentono meno responsabili di quello che pubblicano. Perché odiano tanto? Perché veniamo assegnati a categorie di utenti simili a noi che vedono e leggono le stesse cose, rafforzando conformismo e group thinking. Le piattaforme social non hanno ideologia se non quella del mercato. Non conta chi sei o come la pensi, contano i numeri che fai - like, fan, follower - insieme alla capacità di spesa nota dall’incrocio di fattori e informazioni anche esterne alla piattaforma. Per questo motivo le policies dei social mettono meno vincoli possibili al comportamento degli utenti, spesso sotto la bandiera di una presunta libertà d’espressione. L’effetto è che persone che non avrebbero mai ammesso in pubblico di essere antisemite e razziste verso i neri, i gay, o altre “minoranze”, lo fanno di frequente nei social. Se a questo aggiungiamo la rabbia sociale di una società bloccata come la nostra, quarta al mondo per analfabeti funzionali (Oecd, 2017) capiamo il successo dell’odio online. Migranti. Il Decreto sicurezza spiegato in 10 punti Avvenire, 8 novembre 2018 Confermate la cancellazione della protezione umanitaria in caso di condanna di primo grado e la revoca della cittadinanza per terrorismo. Cambia il modello di accoglienza 1. Via la protezione umanitaria Viene cancellato il permesso di soggiorno per motivi umanitari che aveva durata due anni. Al suo posto vengono introdotti i permessi per “protezione speciale” (un anno), per “calamità naturale nel Paese d’origine” (sei mesi), per “condizione di salute gravi” (un anno) “per atti di particolare valore civile” e “per casi speciali” (vittime di violenza grave o sfruttamento lavorativo). 2. I centri di permanenza La durata massima del trattenimento degli stranieri nei Centri di permanenza per il rimpatrio viene allungata (articolo 2) dagli attuali 90 a 180 giorni, periodo ritenuto necessario all’accertamento dell’identità e della nazionalità del migrante. 3. Revocato l’asilo con condanna definitiva Il diniego della protezione internazionale scatta nel caso di condanna definitiva (articolo 7) anche per i reati di violenza sessuale, spaccio di droga, rapina ed estorsione. Tra i reati di “particolare allarme sociale” sono inclusi la mutilazione dei genitali femminili, la resistenza a pubblico ufficiale, le lesioni personali gravi, le lesioni gravi a pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico, il furto aggravato dal porto di armi o narcotici. 4. Revoca della protezione per chi rientra nel Paese d’origine Il decreto (articolo 8) dispone la revoca della protezione umanitaria ai profughi che rientrano senza “gravi e comprovati motivi” nel paese di origine, una volta presentata richiesta di asilo. 5. Meno Sprar e più Cas L’articolo 12 ridisegna lo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (gestito con i Comuni): vi avranno accesso solo i titolari di protezione internazionale e i minori stranieri non accompagnati. 6. Esame domande più celeri Per accelerare l’esame delle domande di protezione internazionale, il questore dà comunicazione alla Commissione competente nel caso in cui il richiedente sia indagato o sia stato condannato, anche con sentenza non definitiva, per uno dei reati riconosciuti di particolare gravità. L’eventuale ricorso non sospende l’efficacia del diniego. 7. Revoca della cittadinanza italiana e tempi raddoppiati La revoca della cittadinanza italiana (articolo 14) scatta anche per i colpevoli di reati con finalità di terrorismo o eversione dell’ordinamento costituzionale. Tempi raddoppiati (4 anni) per la concessione della cittadinanza per matrimonio e per residenza. 8. Daspo per terrorismo Gli articoli 20 e 21 disciplinano l’applicazione del cosiddetto “Daspo” (Divieto di accedere alle manifestazioni sportive) che viene esteso anche agli indiziati per reati di terrorismo, anche internazionale, e di altri reati contro lo Stato e l’ordine pubblico e sarà applicabile anche in aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati e pubblici spettacoli, oltre che negli ospedali e nei presidi sanitari. 9. Reato di blocco stradale e occupazione edifici Viene reintrodotto il reato di blocco stradale (compresa anche l’ostruzione o l’ingombro dei binari), oggi sanzionato come illecito amministrativo, mentre “l’invasione di terreni o edifici” viene punita con la reclusione fino a 2 anni, raddoppiati a 4 se commessa da cinque o più persone. 10. Vendita a privati dei beni confiscati alla mafia Vengono incrementate (di 5 milioni di euro) le risorse per le Commissioni incaricate di gestire gli enti sciolti per mafia (articolo 29) e viene rivista l’organizzazione dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (articolo 37), che potrà avere fino a quattro sedi secondarie. L’articolo 37 invece liberalizza la vendita dei beni sequestrati ai mafiosi anche ai privati (con rigorosi controlli a garanzia che il bene non torni in mani sbagliate). Viminale, tagli dell’accoglienza per i migranti da 35 a 20 euro a giorno di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 novembre 2018 Solo per i rifugiati previste spese ulteriori ai fini dell’integrazione. “Chi vedeva l’immigrazione come un mangiatoia da oggi è a dieta. Mafia, ‘ndrangheta, pseudo-coop non troveranno più conveniente interessarsi dei migranti e a lavorare nel mondo dell’accoglienza rimarranno i veri volontari”. Subito dopo l’approvazione del decreto sicurezza al Senato Matteo Salvini porta a casa il nuovo capitolato d’appalto che riduce da 35 a 20 euro al giorno a migrante la spesa per l’accoglienza tagliando soprattutto i costi dell’integrazione per i richiedenti asilo. Il ministro lascia al prefetto Gerarda Pantalone, capo del Dipartimento Libertà civili e immigrazione, il compito di spiegare le nuove regole che - si affretta a sottolineare - “garantiscono i servizi primari e la dignità della persona secondo le regole europee” e tagliano gli sprechi che anche la Corte dei Conti ha stigmatizzato, a cominciare dall’erogazione dei servizi non essenziali ai richiedenti asilo. La filosofia del provvedimento, a parte il risparmio della spesa a carico del contribuente, è quella di non utilizzare denaro pubblico per integrare nel tessuto sociale immigrati che non resteranno in Italia visto che la maggior parte dei richiedenti asilo non ottiene poi lo status di rifugiato. A tutti verrà garantito vitto, alloggio, kit igienico-sanitario, il pocket money e una scheda telefonica di 5 euro, “quanto basta per telefonare a casa e dire alla mamma : sono arrivato”. I servizi saranno poi differenziati a seconda del tipo di struttura di accoglienza: via servizio mensa o lavanderia o servizi amministrativi a chi è ospitato in piccole strutture come gli appartamenti dove i migranti si cucineranno da soli. E soltanto ai rifugiati verranno garantite lezioni di italiani e corsi di formazione professionale. Salvini ha poi cercato di rassicurare i sindaci, in massima parte contrari e preoccupati dalle ricadute sul territorio del decreto sicurezza e di questo nuovo provvedimento, e ha annunciato che nessuna decisione sui centri di accoglienza verrà presa senza il loro consenso. Quanto ai rimpatri il ministro ha ammesso che procedono a rilento ma ha ribadito: “Lasciatemi lavorare, spero di portare a casa nei prossimi mesi quattro nuovi accordi”. Migranti. Niente scuola e formazione: così si tagliano i 35 euro della diaria di Antonio Maria Mira Avvenire, 8 novembre 2018 Dove saranno tagliati i 35 euro al giorno per l’accoglienza dei richiedenti asilo? Eliminando i servizi per l’integrazione e l’inclusione sul territorio dei migranti. Per loro solo vitto, alloggio e assistenza sanitaria. Niente scuola di italiano, niente iniziative di vita sociale, niente attività di volontariato, niente avviamento o formazione al lavoro. Così il ministro dell’Interno, Matteo Salvini intende cambiare l’attuale sistema di accoglienza, garantendo i servizi di integrazione e inclusione solo a chi ha già ottenuto il riconoscimento di rifugiato, cioè una limitatissima minoranza. Lo spiegherà oggi il ministro in una conferenza stampa dopo la riunione del Tavolo di coordinamento nazionale. Avvenire è in grado di anticipare cifre e linee di questa involuzione dell’accoglienza. Vediamo in primo luogo le cifre proposte per le prossime gare. Per quanto riguarda i Cas ad accoglienza diffusa fino a un massimo di 50 posti la cifra sarà di 21,35 euro, compreso un kit di ingresso per singolo migrante, una scheda telefonica e il pocket money. Per i Cas ad accoglienza collettiva (unico fabbricato) si sale a 26,35 euro fino a 50 posti, e 25,25 fino a 300 posti. Per i centri più grandi, cioè oltre i 300 posti, c’è una divisione della gara in tre lotti, ma poi si fanno comunque delle cifre totali e si torna a scendere, e anche molto: si passa, infatti, dai 20,84 euro per una prima fascia 300-600 euro, fino ai 19,33 euro per la fascia dei megacentri con 1.800-2.400 posti (come il Cara di Mineo). Stranamente sono, invece, molto più alte le cifre per Cpr e Hotspot. Infatti per i primi, i Centri per i rimpatri, si va dai 32,15 euro per quelli fino a 150 posti ai 24,65 di quelli tra 151 e 300 posti. Per i secondi, i cosiddetti Punti di crisi, dove i migranti appena sbarcati dovrebbero restare pochissimi giorni, le cifre sono le più alte, e vanno dai 41,83 euro fino a 50 posti, ai 29,63 euro tra 301 e 600 posti. Ma cosa viene garantito con queste cifre? Per i centri ad accoglienza diffusa, nei quali i migranti dovranno occuparsi da soli della cucina e delle pulizie, viene prevista la fornitura del cibo, di beni monouso, di utensili per la cottura, di attrezzature e prodotti per la pulizia; c’è poi l’affitto della struttura, il pagamento del personale, il servizio di trasporto, lenzuola e coperte, prodotti per l’igiene personale. Per i centri ad accoglienza collettiva, cambia la tipologia perché è previsto il servizio di preparazione dei pasti, quello di lavanderia, e quello di pulizia. Stesse condizioni per Cpr e Hotspot. Non compare nulla, invece, per quanto riguarda i servizi di integrazione, un tempo previsti anche per i richiedenti asilo ospiti nei Cas e nei Cara. Niente scuola di italiano e altre attività di inclusione sociale. Così i migranti passeranno le giornate a non fare nulla, ed essendo liberi di uscire dai centri (non si tratta di carceri) gireranno per città e paesi che li ospitano, col rischio di finire in mano al lavoro nero, allo sfruttamento o peggio, creando anche occasioni di tensioni con la popolazione locale. Un rischio che sale ovviamente per i grandi centri, quelli che la nuova linea di Salvini sembra privilegiare. Una situazione che i sindaci temono molto, denunciando da giorni le nuove scelte del governo, e che ora vengono confermate dalla cifre e dagli altri contenuti dei nuovi bandi. Senza contare con l’eliminazione dei servizi dei servizi all’integrazione inclusione, si taglieranno molti posti di lavoro di italiani, giovani e specializzati. Nella nuova tipologia di bando dell’era Salvini, scompare dunque un intero capitolo, intitolato, appunto, ‘Servizi per l’integrazionè. Restano per la tutela delle vulnerabilità, ma molto carenti. Ad esempio lo psicologo e l’assistente sociale in un centro con 300 posti, potranno dedicare solo 30 minuti al mese a ogni persona, praticamente nulla. E peggiora anche l’assistenza sanitaria. Nei centri fino a 50 posti è previsto un infermiere tutti i giorni, e il mediatore linguistico 24 ore a settimana, in quelli tra 150 a 300 posti l’infermiere resta uno, mentre le ore di mediazione linguistica salgono a 48. Evidentemente all’aumento dei posti non c’è un incremento proporzionale dei servizi. E questo è sicuramente un danno per i richiedenti asilo ospiti e un risparmio per i gestori dei grandi centri. Un’ulteriore conferma della scelta a favore di questi ultimi. Grandi centri e nessuna integrazione. Accoglienza che peggiora e sicurezza a rischio. Migranti. I salvataggi fantasma che non arrivano alla “Mare Jonio” di Fabio Tonacci La Repubblica, 8 novembre 2018 Salvini e Toninelli annunciano sui social centinaia di soccorsi ad opera dei libici, ma alla nave della piattaforma Mediterranea non viene diramato nessun comunicato. Hanno messo la Mare Jonio sotto una campana di vetro. Alla nave della piattaforma Mediterranea, che dal 5 novembre sta pattugliando le zone Search and Rescue maltese e libica, fino ad oggi non è arrivato neanche un avviso della presenza di imbarcazioni di migranti. Eppure soltanto ieri, nel silenzio di tutti i canali di comunicazione dove di norma rimbalzano i “messaggi ai naviganti”, il governo libico ha fatto sapere di aver recuperato 320 persone nella propria zona di competenza, senza però indicarne il luogo esatto e l’orario. E la marina di Malta ha diffuso la notizia di aver effettuato, a 60 miglia nautiche dall’isola, il salvataggio di un gommone con 149 migranti a bordo. Quattro interventi (tre in Sar libica e uno in Sar maltese) nell’arco di ventiquattr’ore, mentre in plancia di comando della Mare Jonio la radio, il servizio internazionale automatico Navtex, e i telefoni satellitari, tacevano. Una anomalia diventata prassi. La sospensione delle segnalazioni di distress, come tecnicamente sono definite quelle che riguardano gommoni e barconi in condizioni di emergenza e rischio di naufragio, rende questo pezzo di Mediterraneo un bacino ovattato e silente. Dove sembra che niente si muova. E invece molte cose accadono. Ieri, appunto, quattro interventi di soccorso. Stando a quanto è filtrato da un profilo arabo di Facebook sempre ben informato sugli eventi nella Sar libica, due dei tre recuperi fatti dalle motovedette libiche sono avvenuti a 65 miglia dalla costa di Zuwara: due piccole imbarcazioni con 94 migranti, partite da Zuwara, sono state raggiunte, affiancate e riportate indietro. Il punto in cui sarebbe avvenuto il contatto si trova assai vicino all’area dove stavano incrociando la Mare Jonio, e il veliero d’appoggio. Che niente hanno visto. “Nella giornata di martedì 6 novembre - sostengono gli organizzatori della missione Save Humans della piattaforma Mediterranea, appoggiata da una vasta rete di associazioni civili (Ya Basta Bologna, Arci, la web radio I Diavoli, Esc, Moltivolti) e da quattro esponenti di Sinistra Italiana - abbiamo operato in stretto coordinamento con l’aereo Moonbird (della ong Sea-Watch, ndr) il quale sorvola un’area anche più a ridosso alle coste libiche. Fino al tramonto, Moonbird ci ha comunicato di non avere individuato nessuna imbarcazione in difficoltà. Non abbiamo pertanto nessun riscontro del recupero di quelle 320 persone”. In Italia ad annunciare la notizia degli interventi è stato prima il ministro dell’Interno Matteo Salvini attraverso un post su Facebook (“280 migranti salvati e recuperati dalla Guardia costiera libica. Bene, avanti così, stop al traffico di esseri umani”), poi il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli con un tweet in cui ha fornito cifre diverse rispetto a quelle diffuse da Salvini (“Oggi 320 persone soccorse dalla Guardia costiera libica che noi stiamo contribuendo a rafforzare. Altri 120 naufraghi recuperati da navi maltesi. Nel Mediterraneo si torna a rispettare la legge del mare”). Medici senza Frontiere: “Ora rifugiati e richiedenti asilo senza cure mediche” di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 8 novembre 2018 Dall’appello alla denuncia. L’ong esprime un fortissimo allarme per l’esclusione dal Servizio sanitario nazionale delle persone che finora godevano del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ora soppresso dal decreto-sicurezza. Il decreto “regalato” da Salvini produrrà, e già produce, un magma infernale di regole arbitrarie e oscure, tendenzialmente inapplicabili, e di nuova irregolarità, ricacciando in un limbo centinaia di migliaia di rifugiati e richiedenti asilo. Un limbo di invisibilità, di marginalità sociale, una zona grigia da sans-papiers, dove non viene garantito neanche l’accesso ai servizi socio-assistenziali a persone spesso minate nella mente e nel fisico dalle vicissitudini del viaggio. È questa la denuncia su cui torna Medici senza Frontiere, ong che - prima di partecipare alla missione di soccorso sulla nave Aquarius - da oltre un decennio fornisce il primo soccorso agli sbarchi, gestisce due centri a Tripoli in Libia e un ambulatorio a Roma per i sopravvissuti ad abusi e torture. Msf insiste nell’esprimere “fortissima preoccupazione” perché - ricorda - si tratta di persone estremamente vulnerabili, che ora verranno gettate in mega strutture - i Cas - sovraffollate e spesso mal tenute, dove è facile che se si è manifestato un disagio mentale, non venga curato e si aggravi. L’abrogazione, non solo dei progetti di accoglienza Sprar, ma dello stesso permesso di soggiorno per motivi umanitari contenuta nel decreto-sicurezza allarma moltissimo Msf. Quello era un titolo che dava diritto alla permanenza in Italia per due anni e, al pari della richiesta d’asilo, consentiva il normale accesso all’anagrafe, anche senza residenza, quindi alla registrazione nel servizio sanitario nazionale. Oltre 140 mila rifugiati si trovavano in questa condizione. E con loro, quelli che avevano presentato domanda prima dell’entrata in vigore del famigerato decreto che ora il governo, a colpi di fiduce, intende trasformare in legge. Già con la circolare del Viminale di luglio, che prescriveva di limitare la concessione dei permessi umanitari, le questure hanno stretto i criteri di ammissione e il tasso di riconoscimento della protezione è scivolato dal 26-28 % degli ultimi anni al 17%. Ora con il dl le tipologie di permesso, sempre della durata massima di un anno, diventano tre - per “calamità naturale”, in quanto “vittime di violenza o di grave sfruttamento lavorativo” e infine “per cure mediche”. Ma in quest’ultimo caso ci deve essere una attestazione di “gravità”, che non si sa quale autorità medica debba emettere e in base a quali criteri. Il testo del decreto - che Msf voleva emendare e ancora spera venga corretto nella conversione in legge - non dice niente in merito al Ssn mentre viene esplicitamente limitato l’accesso alle prestazioni sociali, come le abitazioni di edilizia economica e popolare. Per i rifugiati e i richiedenti asilo non restano che le prestazioni residuali del circuito Stp (ambulatori per “stranieri temporaneamente residenti”) e le cure mediche considerate “urgenti ed essenziali”, di fatto quelle di pronto soccorso ospedaliero. Inoltre sempre Msf fa notare la gravità, anche per gli italiani, dell’inserimento dei luoghi di cura nelle procedure di “daspo urbano”, prima esplicitamente esclusi. L’Europa non è solo burocrazia di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 8 novembre 2018 Insicurezza e paure non sono scomparse, ma la stragrande maggioranza dei cittadini europei ha recuperato fiducia nella Ue. E a dispetto delle varie tempeste quella che potremmo chiamare l’”Europa di tutti i giorni” ha continuato imperterrita a funzionare. Le elezioni europee del prossimo maggio avranno luogo alla fine di un vero e proprio “decennio orribile” per la Ue. Prima il terremoto finanziario importato dagli Usa, poi quello del debito sovrano. La Grande Recessione, con i suoi costi sociali. E, ancora, gli attentati terroristici, la crisi dei rifugiati, lo tsunami dell’immigrazione, la Brexit. Un’inedita sequenza di choc, che hanno fatto vacillare le fondamenta dell’Unione. Eppure l’edificio non è crollato. Al contrario, sono stati intrapresi alcuni passi verso una maggiore integrazione economica, avviando un delicato percorso di condivisione dei rischi. Non si è fatto abbastanza, certo, e su alcuni fronti (ad esempio la dimensione sociale) si è persino tornati un po’ indietro. Ma nel suo complesso l’Unione ha saputo resistere alle enormi tensioni. Anche se insicurezza e paure non sono scomparse, la stragrande maggioranza dei cittadini europei (Regno Unito escluso) ha recuperato oggi fiducia nella Ue. A dispetto delle varie tempeste, quella che potremmo chiamare l’”Europa di tutti i giorni” ha continuato imperterrita a funzionare. Un fenomeno contro-corrente del tutto trascurato. Fra il 2010 e il 2017 il volume di merci scambiate nel mercato unico è aumentato del 7 per cento. Sono cresciuti i flussi di mobilità per ragioni di lavoro così come la quota di lavoratori trans-frontalieri. I trenta milioni e passa di europei che risiedono in un Paese diverso dal proprio non hanno smesso di pagare tasse e contributi e di usare il welfare del luogo in cui vivono, alle stesse condizioni dei nativi. La piattaforma online Eures - che elenca i posti di lavoro disponibili nei vari Paesi - ha assistito milioni di persone, soprattutto giovani, nel trovare impiego nel proprio o in altri Paesi. Milioni di europei hanno beneficiato dei fondi strutturali messi a disposizione da Bruxelles. Gli Stati Uniti d’Europa non esistono (ancora?), ma chi si è spostato nell’area Schengen ha continuato a non accorgersi delle frontiere, mentre chi è atterrato al di fuori dell’area si è messo in coda seguendo i cartelli “Eu citizens” e ha tirato fuori il passaporto color porpora. Ci sono aspetti dell’Europa di tutti i giorni che sono più integrati rispetto agli stessi Stati Uniti d’America. Per tutti i minorenni Ue, i musei europei sono gratuiti, negli Usa chi è “out of State” (ad esempio, un residente della California che si trova in Oregon) deve pagare il biglietto. Lo stesso dicasi per le tasse universitarie: nessuna discriminazione sulla base della nazionalità nella Ue, mentre in America gli studenti che provengono da altri Stati (americani) pagano tasse molto più alte nelle università pubbliche. E che dire di Erasmus? Nell’ultimo trentennio, il programma ha interessato circa 4 milioni di studenti, quasi un milione di insegnanti e altrettanti apprendisti, mezzo milione di giovani nel volontariato. Forse ancora pochi sul totale della popolazione Ue. Ma uno scambio Erasmus segna per la vita, così come un soggiorno di lavoro. A contar male, più di un terzo degli europei di oggi sono stati coinvolti direttamente o indirettamente (tramite i figli, ad esempio) in periodi di studio o lavoro al di fuori del proprio Paese nativo. La popolazione del nostro continente è sempre più europeizzata e il fenomeno è destinato a crescere con il ricambio generazionale. Nel grande dibattito sulla Ue, nessuno considera questa Europa di tutti i giorni. La ragione è semplice: fa così parte del nostro mondo che abbiamo smesso di percepirla. Siamo diventati come i “bambini viziati” di cui parlava il filosofo spagnolo Ortega y Gasset negli anni Trenta del secolo scorso. Così come la democrazia liberale, diamo ormai per scontata anche l’Europa integrata: i suoi benefici, le sue opportunità quotidiane. Della Ue i media e i politici parlano in genere come un’entità astratta e lontana, tendono a vederne gli aspetti che non funzionano. Per sentire parole di apprezzamento e ammirazione dobbiamo attraversare i confini esterni, entrare in contatto con chi vive sotto un regime oppressivo. Pochi mesi dopo l’invasione russa della Crimea, nel 2014, al mercato di Odessa due musicisti di strada intonarono l’Inno alla Gioia di Beethoven, simbolo della Ue. A poco a poco si formò una folla che con il canto esprimeva il proprio desiderio di Europa, cioè di libertà e benessere, e al tempo stesso la condanna dell’autoritarismo di Putin. Nacque un movimento e nei giorni successivi l’inno Ue fu intonato contemporaneamente a una certa ora in tutti gli aeroporti della Crimea. In una recente visita a Mosca, Matteo Salvini ha detto che lì si sente a casa sua, cosa che non gli succede quando viaggia nella Ue. È sinceramente difficile immaginare cosa abbia spinto il nostro vicepresidente del Consiglio a fare una simile dichiarazione. Sottolineare la vitalità e i pregi dell’Europa di tutti i giorni non significa disconoscerne i difetti come sistema istituzionale. Al contrario, è una ragione in più per dispiacersene e per spronare chi ci governa a correggerli. Ortega y Gasset diceva che sono proprio le élite a dover difendere tutto ciò che i “bambini viziati” danno per scontato. I sondaggi rivelano che esiste ancora un vasto potenziale elettorale per un rilancio del progetto d’integrazione. Le indagini sugli orientamenti delle classi politiche nazionali sono meno confortanti. A questo livello prevale una percezione “strumentale”: la Ue è un bene solo se è vantaggiosa per il proprio Paese, è un sistema di regole da usare finché conviene. Non lo dicono solo i leader sovranisti (che giocano a fare i “bambini arrabbiati”) ma anche segmenti importanti dei popolari e, seppur in misura inferiore, di socialisti e democratici. Le prime comunità europee furono create da Padri Fondatori responsabili e lungimiranti. La Ue di oggi sembra invece un’orfana lasciata a se stessa. L’infrastruttura dell’Europa di tutti i giorni ha dato prova di robustezza e può procedere col pilota automatico. Ma non a lungo. In vista delle elezioni di maggio, abbiamo un disperato bisogno di élite capaci di far leva sul tessuto “banale” di connessioni a livello economico e sociale per smorzare i conflitti politici. Servono nuovi leader che emergano dal basso, espressione di quelle maggioranze silenziose che si trovano a proprio agio in una Unione sempre più stretta. E che proprio per questo vorrebbero che la Casa Europa diventasse meno litigiosa, più solida e resistente alle inevitabili intemperie della globalizzazione. Stati Uniti. “Fatemi morire con il gas-azoto” italiastarmagazine.it, 8 novembre 2018 Detenuto del Missouri soffre di un tumore alla gola e chiede al neo-giudice Kavanaugh di convertire le modalità dell’esecuzione. L’iniezione non assicura una morte rapida. E altri 4 reclusi vogliono essere fucilati. Il nuovo giudice della Corte Suprema Brett Kavanaugh sembra avere recepito le argomentazioni di un detenuto del Missouri nel braccio della morte che ritiene la sua condizione medica fonte di gravi dolori se venisse eseguita per iniezione letale. Accade mentre quattro reclusi hanno chiesto di essere uccisi da un plotone di esecuzione, ritenendo che sedia elettrica e inizeione letale non siano metodi in grado di garantire una morte rapida e indolore. Russell Bucklew, nel braccio della morte per un omicidio del 1996, soffre di un tumore in fase avanzata alla gola potrebbe aprirsi durante la procedura, facendolo soffocare sul proprio sangue. Tra le domande a cui Kavanaugh voleva una risposta c’era se Bucklew sarà sdraiato durante l’esecuzione, cosa che gli avvocati di Bucklew ritengono problematica. Tradizionalmente, le piattaforme di esecuzione letali sono infatti orizzontali. Kavanaugh ha chiesto anche se si può definire il tipo di dolore associato all’esecuzione. La giustizia ha anche rivolto tutte le sue domande all’avvocato che rappresenta il Missouri, l’autorità statale che si occupa dell’esecuzione di Bucklew. Le autorità del Missouri hanno stabilito che i detenuti che contestano un metodo di esecuzione devono dimostrare che esiste un’alternativa meno dolorosa. Bucklew ha proposto di respirare gas azoto puro attraverso una maschera, invece di iniettargli una dose letale di pentobarbital, sperando di morire entro 20,30 secondi. La legge del Missouri prevede ancora l’opzione del gas letale, ma lo stato non ha più usato quel metodo dal 1965 e non ha più una camera a gas operativa. Lo Stato replica però che Bucklew non soffrirebbe un forte dolore durante un’iniezione letale perché pentobarbital lo renderebbe incosciente entro 20-30 secondi, o probabilmente prima. Il condannato è nel braccio della morte per l’omicidio del 1996 di Michael Sanders, che viveva con l’ex fidanzata di Bucklew. Dopo essere entrato in una roulotte dove i due vivevano con i loro figli, Bucklew sparò a Sanders e costrinse la donna a salire su un’auto rubata, poi, puntandole una pistola alla testa, la violentò. Italiano detenuto in Tailandia. Lettere dagli scrittori a Denis Cavatassi di Anna Bredice radiopopolare.it, 8 novembre 2018 Ci sono quasi tremila prigionieri italiani nelle carceri straniere, ma il caso di Denis Cavatassi in carcere in Tailandia è ancora più drammatico, perché rischia la pena di morte. La famiglia, gli avvocati, le istituzioni che si sono mobilitati per la sua scarcerazione sono convinti della sua innocenza e chiedono che venga liberato. Gli appelli si fanno ancora più insistenti perché si avvicina la pronuncia della Corte Suprema thailandese, che deve confermare o annullare le sentenze precedenti. E per questa ragione la famiglia ha ottenuto un incontro con il presidente della Camera Roberto Fico, che si conferma coerente con una sua personale linea politica in difesa dei diritti umani, in questo caso nel tentativo di evitare che un cittadino italiano possa finire nel braccio della morte in Tailandia. Denis Cavatassi, ha 50 anni, è originario di Tortoreto e si trova nelle prigioni thailandesi dal 2011 con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del suo socio in affari, Luciano Butti, ucciso a Phuket dove entrambi gestivano un ristorante. Si è sempre dichiarato innocente e i suoi avvocati sostengono e sono convinti che non ci siano mai stati prove della sua colpevolezza. Inizialmente era stata pagata una cauzione e Cavatassi sarebbe potuto tornare in Italia, allontanandosi da un nuovo arresto, ma ha preferito rimanere in Tailandia, dove ha una moglie e una figlia piccola, convinto di poter provare la sua innocenza. Dopo la sentenza di primo grado è stato arrestato e da allora si trova in prigione, dove il sovraffollamento produce condizioni di vita e detenzione durissime. La famiglia gli è molto vicina, la sorella l’ha incontrato varie volte, anche per fargli sentire e percepire la mobilitazione che si è attivata in sua difesa, dalla comunità di origine a Tortoreto, dove ad agosto si è svolta una fiaccolata molto partecipata, fino all’incontro con alcuni parlamentari che si occupano del suo caso e ora con il Presidente Fico. Insieme a questo c’è un’azione diplomatica da parte dell’ambasciata italiana a Bangkok. “Denis - racconta la sorella Romina - vuole essere ottimista, studia il thai, legge molto, si interessa di ciò che accade in Italia, non ha mai perso la speranza di vedere riconosciuta la propria innocenza”. E da oggi si aggiunge un’altra iniziativa importante: “In questi mesi ha ricevuto molte lettere di solidarietà e visto che non può ricevere molti libri”, dice ancora la sorella, “allora abbiamo chiesto agli scrittori di mandare delle lettere a Denis, invece dei libri”. E questa proposta ha già un’adesione: si tratta di Moni Ovadia che ha deciso di scrivere a Denis, in attesa di tornare ad essere un uomo libero. Armi russe a Cuba, quando la politica estera ritorna al passato di Franco Venturini Corriere della Sera, 8 novembre 2018 La notizia fa tornare alla mente la crisi dei missili del 1962, che portò il mondo sull’orlo della guerra nucleare prima che Kennedy e Krusciov trovassero un compromesso per far tornare in Urss i 42 missili a medio raggio che Mosca aveva destinato all’isola. La Russia vende armi a Cuba. La notizia è secca, è ufficiale, e in un fulmineo amarcord fa tornare alla mente immagini e situazioni drammatiche. La crisi dei missili del 1962, che portò il mondo sull’orlo della guerra nucleare prima che Kennedy e Krusciov trovassero un compromesso per far tornare in Urss i 42 missili a medio raggio che Mosca aveva destinato all’isola. E ancora, la valanga di miliardi che ogni anno l’Unione Sovietica spendeva a sostegno del regime anti-americano di Fidel Castro. E quando le cose si misero male per l’Urss, nel marzo del 1989, il difficile viaggio di Gorbaciov all’Avana per dire ai “barbudos” che i soldi erano finiti e i tempi erano cambiati. In effetti, è cambiato tutto. La Russia di Putin non sembra aver voglia di sfidare militarmente l’America nel suo “cortile di casa”. E soprattutto, le armi che saranno vendute al nuovo presidente cubano Miguel Diaz-Canel non sono missili nucleari, bensì carri armati moderni, mezzi per il trasporto truppe, e un numero limitato di elicotteri. Eppure certe somiglianze con il passato non vanno via. I militari dell’Avana vogliono fare acquisti, ma Cuba non ha soldi e la sua economia va male da quando va malissimo in Venezuela. Allora cosa fa la Russia? Apre una linea di credito di 50 milioni di dollari per consentire ai cubani di fare il loro shopping. Come una volta. L’accordo sarà perfezionato nei prossimi giorni, a Mosca. E comprenderà anche l’impegno russo a costruire a Cuba una stazione terrestre del sistema Glonass, l’equivalente del sistema Gps usato in Occidente. Nulla di cui preoccuparsi. Eppure una stranezza c’è. Nel comunicato sulla visita di Diaz-Canel al Cremlino, si chiede fermamente a Trump di riconsiderare il suo annunciato ritiro dal trattato Inf (quello che abolì i missili nucleari a corto e medio raggio). Nulla di nuovo, si dirà. A meno che Putin, per rispondere a Washington, voglia abbandonarsi anche lui a un amarcord, sul modello di quel terribile 1962. Pakistan. Asia Bibi scarcerata: “Ha già lasciato il Pakistan con la famiglia” Corriere della Sera, 8 novembre 2018 La donna pakistana cristiana era stata condannata a morte per un’accusa di blasfemia. La Bbc: “In volo con la famiglia verso una destinazione sconosciuta”. Asia Bibi, la donna cristiana che ha passato 8 anni nel braccio della morte, in Pakistan, dopo una condanna per blasfemia, e che è stata assolta dalla Corte suprema, è stata liberata. Secondo quanto riferito dalla Bbc, ha già lasciato il Pakistan ed è in volo con i familiari verso una destinazione sconosciuta. Nei giorni scorsi, la Farnesina si era interessata al caso. Dopo la sentenza della Corte suprema, i musulmani integralisti hanno protestato violentemente per tre giorni bloccando il Paese mentre i partiti dell’opposizione hanno stretto d’assedio il governo accusandolo di aver ceduto alle pressioni internazionali e di non aver saputo gestire le rivolte. Nelle scorse settimane numerosi sono stati gli appelli provenienti da tutto il mondo per la liberazione della donna. “Asia Bibi ha lasciato il carcere ed è stata trasferita in un luogo sicuro! Ringrazio le autorità pachistane. La aspetto appena possibile, insieme a suo marito e alla sua famiglia, al Parlamento europeo”, ha twittato ieri il presidente dell’Europarlamento, Antonio Tajani.