Allarme per record di suicidi nel 2018 e celle strapiene fino al 74% in più Vita, 7 novembre 2018 Solo 1 carcere su 3 in Italia rispetta la capienza prevista per i detenuti mentre nel 67,6% dei casi le strutture sono sovraffollate e hanno più reclusi di quelli che in teoria potrebbero ospitare creando situazioni di disagio e a volte di tensione nelle realtà più gremite. È quanto emerge da un’analisi dell’Unione europea delle cooperative Uecoop su dati del Ministero della Giustizia in relazione all’allarme lanciato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, per il picco di 53 detenuti suicidi dall’inizio del 2018. Il mondo dietro le sbarre - sottolinea Uecoop - è uno dei più complessi da gestire sia per quanto riguarda la vita dei reclusi che per il rapporto con l’esterno e i percorsi di reinserimento sociale sui quali la cooperazione sociale è da sempre in prima linea. In Italia - rileva Uecoop - a fronte di una capienza di 50.622 posti ci sono 59.275 detenuti dei quali 1 su 3 straniero. Gli istituti di pena più grandi quelli con maggiori problemi di sovraffollamento sono quelli di Napoli con Poggioreale dove si trovano 2.286 detenuti il 37,8% in più della capienza prevista e Secondigliano con 1.394 reclusi pari al 37,7% di “esuberi”, mentre un vero e proprio boom si registra nel carcere di Lecce con quasi il 74% in più dei detenuti previsti: 1.061 contro i 610 previsti dalla capienza. Ma i problemi sono anche al nord con San Vittore a Milano che ha 1.103 detenuti con il 22,3% in più rispetto alla disponibilità e Opera dove con 1.352 reclusi lo sforamento supera il 47% e alle Vallette a Torino con 1.383 reclusi si arriva al 30% in più. La cooperazione è uno strumento strategico per la gestione dei detenuti negli istituti di pena dove si paga il proprio debito con la giustizia ma dove in alcuni casi si può anche avere la possibilità - sottolinea Uecoop - di ricrearsi un percorso nella legalità attraverso progetti di istruzione, reinserimento lavorativo e sociale come già avviene per oltre 50mila persone alle quali si applicano misure alternative al carcere. In Italia infatti - spiega Uecoop - ci sono oltre 16mila condannati che hanno l’affidamento in prova ai servizi sociali, quasi 4 mila in libertà vigilata e controllata e più di 7mila impiegati in lavori di pubblica utilità. “Il percorso di reinserimento - conclude Gherardo Colombo il Presidente di Uecoop - è importante per ridurre il rischio di recidiva e per dare una prospettiva di futuro e quindi di vita non solo ai detenuti ma anche alle loro famiglie e per indicare ai figli la via delle regole e del rispetto della società piuttosto che la legge della strada”. Con il ddl “spazza-corrotti” la pena sospesa sarà una chimera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 novembre 2018 Si prevede la restituzione dei soldi indebitamente percepiti o anche promessi. Il giudice potrà anche disporre che non sia estesa alle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. La sospensione della pena viene subordinata al pagamento di una somma equivalente non solo all’ammontare di quanto indebitamente percepito, ma anche quando non vi sia stata un’effettiva percezione indebita: basta la promessa. Quando il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, tempo fa, scrisse su Facebook che il cosiddetto decreto “spazza corrotti” avrebbe reso difficile l’applicazione della pena sospesa, non si era sbagliato. La pena sospesa è un istituto giuridico di grande importanza, soprattutto nei confronti di coloro che per la prima volta affrontano in qualità di imputati le aule di Giustizia per reati non eccessivamente gravi, e rappresenta una grande opportunità per la limitazione degli effetti negativi del processo penale. Questa possibilità è lasciata allo stesso imputato che, in un certo senso, è messo alla prova dal giudice per un preciso lasso di tempo a seguito del quale, se la “prova” è superata, il reato è estinto. In realtà la sospensione condizionale della pena pre- vede che la pena rimanga sospesa per cinque anni per i reati o tre anni per le contravvenzioni, a condizione che il reo non commetta un altro reato. Se egli si macchia di un altro reato, a determinate condizioni, sconterà sia la vecchia pena sospesa sia quella inflitta per il secondo fatto illecito. Ricordiamo che la pena sospesa si può concedere quando la condanna inflitta non è superiore a due anni di reclusione. Il precedente governo, attraverso la “Legge Grasso” del 2015, aveva già modificato tale istituto per quanto riguarda i reati di corruzione attraverso la subordinazione alla restituzione del denaro percepito indebitamente, ma esclusivamente per i funzionari pubblici. Viene pensare che se un soggetto, il quale riveste una posizione apicale nella pubblica amministrazione, avendo sicuramente disponibilità economica, ha la possibilità di accedere alla sospensione della pena (essendo in questo caso una condanna entro i due anni, la cifra da restituire è irrisoria per chi ha il denaro) mentre il piccolo dipendente pubblico con uno stipendio medio, difficilmente avrà la possibilità di restituire la somma percepita indebitamente. La pena sospesa, quindi, se la potranno permettere coloro che possono pagare. Una evidente disparità di trattamento. Lo “spazza corrotti” prevede un ulteriore allargamento dell’obbligo del pagamento della somma a titolo di riparazione pecuniaria: si aggiunge la corruzione attiva (art. 321 c. p.), cioè la corruzione da parte del privato. Ma non finisce qui la modifica della sospensione della pena per quanto riguarda i reati di corruzione. Come sappiamo, lo “spazza corrotti” prevede una specie di Daspo dai pubblici uffici per chi ha commesso il reato. Si tratta dell’inasprimento delle pene accessorie. Per una serie di reati (dal peculato, concussione a istigazione alla corruzione), la legge stabilisce una durata tra 5 e 7 anni dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, per condanne fino a 2 anni di reclusione e il divieto in perpetuo di contrattare con la pubblica amministrazione - salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio - per condanne superiori a due anni di reclusione. Sempre nell’ottica di ampliamento e inasprimento delle sanzioni accessorie per reati contro la pubblica amministrazione, anche in questo caso la legge introduce modifiche in materia di sospensione condizionale della pena. “Il giudice - si legge nel dossier del Parlamento - può disporre che la sospensione non estenda i suoi effetti alle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione”. Quindi la pena sospesa, in questo caso, può anche non sospendere l’interdizione ai pubblici uffici. Oltre a restituire i soldi (compreso quelli promessi), quindi, c’è il rischio di rimanere senza lavoro. È costituzionale? Bonafede riceve Rita Bernardini e lei sospende lo sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 novembre 2018 Il Ministro della giustizia la incontrerà il 22 novembre. Rita Bernardini, dopo tre settimane di sciopero della fame, sarà ricevuta il 22 novembre dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Dopo tre settimane di sciopero della fame - ha annunciato l’esponente del Partito Radicale, decido di sospenderlo fino a quella data. Scelta che confermerò se, come mi auguro, l’incontro si svolgerà all’insegna dell’ascolto reciproco e delineerà un rapido e preciso percorso che porti le nostre carceri e la nostra giustizia ad uscire fuori dallo stato permanente di illegalità costituzionale, condizione che viola i diritti umani fondamentali sia dei detenuti che dei cittadini che si servono del sistema giustizia del nostro Stato. Ringrazio, per il momento, - prosegue Rita Bernardini tutti coloro che mi hanno sostenuta “incatenandosi” a me con alcuni giorni di sciopero della fame, decine di compagni e cittadini i quali, a partire da Mauro Toffetti di Milano che ha organizzato la mobilitazione, mi hanno fatto sentire meno sola. Un ringraziamento particolare va anche al professor Aldo Masullo, a Luigi Manconi e a Carlo Nordio che, ancora una volta, hanno manifestato piena solidarietà e vicinanza con le iniziative nonviolente del Partito Radicale”. Rita Bernardini aveva iniziato lo sciopero della fame martedì 16 ottobre, a partire dalla mezzanotte, per sollecitare un dialogo con il governo e per far presente che è lo Stato a essere fuorilegge e, con le sue mancate riforme, a dichiarare di voler permanere in questa situazione di totale illegalità nella quale i trattamenti inumani e degradanti (già condannati nel 2013 dalla Corte Edu) sono all’ordine del giorno, a partire da coloro che non sono curati e che muoiono in carcere. “Per comprendere meglio di cosa parliamo quando denunciamo lo stato di illegalità dei nostri istituti penitenziari - sottolinea l’esponente del Partito Radicale -, può essere utile riflettere sui dati che seguono, da me elaborati sulla base di quelli forniti dallo stesso Ministero della giustizia sul suo sito istituzionale e che si riferiscono al sovraffollamento attuale partendo dalla sentenza Torreggiani, che nel gennaio 2013 condannò l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione (tortura e trattamenti inumani e degradanti)”. Rita Bernardini ha quindi elencato dei dati che cristallizzano il crescente aumento dei detenuti, nonostante - dati Istat - i reati siano diminuiti: “Nel corso dell’anno 2013 i detenuti sono passati da 65.704 a 62.536 cioè a - 3.168. Nel 2014, da 62.536 a 53.623 cioè a - 8.913. Nel 2015, da 53.623 a 52.164 cioè a - 1.459. Nel 2016, da 52.164 a 54.653 cioè a + 2.489. Nel 2017, da 54.653 a 57.608 cioè a + 2.955. Nel 2018, nei 10 mesi trascorsi, i detenuti sono passati da 57.608 a 59.803, cioè a + 2.195”. Con l’aumentare del sovraffollamento, come conseguenza, aumentano anche i suicidi. Un numero enorme che per il garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma desta preoccupazione come recentemente ha denunciato tramite un comunicato. Decreto sicurezza, oggi la fiducia al Senato di Barbara Fiammeri Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2018 Improvvisa accelerazione al Senato sul decreto sicurezza. La fiducia sarà approvata questa mattina. Il maxiemendamento da blindare ha ricevuto il parere favorevole della commissione Bilancio, poi ha passato il vaglio dell’ammissibilità. Dopodiché una capigruppo è stata convocata per fissare l’orario del voto. Infine un consiglio dei ministri ha autorizzato la fiducia, che sarà votata questa mattina. Si tratta del primo voto di fiducia chiesto dal governo Lega-M5S su un provvedimento a Palazzo Madama dopo quello ricevuto, lo scorso 5 giugno, in occasione del suo insediamento. “Dopo mesi di lavoro, arriva il voto finale al Senato sul Decreto Sicurezza e immigrazione, con il quale vorrei regalare a questo Paese un po’ di regole e un po’ di ordine” esulta il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Le parole di Fraccaro e di Molteni - “Il governo presenta un emendamento interamente sostitutivo del testo del decreto, sul quale, previa autorizzazione del Consiglio dei ministri, intende porre la questione di fiducia” ha detto nel frattempo il ministro per i Rapporti con il parlamento, Riccardo Fraccaro, parlando nell’Aula di Palazzo Madama. Stesso orientamento è stato poi confermato dal sottosegretario leghista all’Interno Nicola Molteni: “Il governo presenta un emendamento interamente sostitutivo del testo del decreto, sul quale, previa autorizzazione del Consiglio dei ministri, intende porre la questione di fiducia”. Forza Italia, intanto, annuncia che non parteciperà al voto. Il partito di Silvio Berlusconi, che si era detto favorevole al provvedimento, rifiuta quindi di approvarlo con il voto di fiducia. Anche il gruppo di Fdi, pur condividendo i contenuti del decreto, si asterrà sul voto. Vertice M5S - Ieri sera anche un vertice M5S. Il nodo principale da sciogliere è quello della prescrizione, l’emendamento al Ddl anticorruzione fonte di scontro con la Lega. Intorno al tavolo il vicepremier Luigi Di Maio - di rientro dalla Cina - i ministri del M5S e i capigruppo al Senato e alla Camera del Movimento. Poi, nella giornata di domani, un vertice di governo dovrebbe trovare una soluzione a quello che è diventato il vero caso politico. La Lega infatti non condivide lo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio, proposto dai Cinque stelle come emendamento al Ddl cosiddetto “spazza-corrotti”. In queste ore si lavora ad una mediazione. Prescrizione. Canzio: “Più peso al giudice nelle indagini preliminari” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2018 Rafforzare il peso del giudice nella fase delle indagini preliminari. Predeterminare la durata ragionevole di ogni grado di giudizio. Ma prima di tutto, partire dall’analisi dei dati. L’opinione di Giovanni Canzio, Primo presidente emerito della Cassazione, che ha guidato sino a pochi mesi fa, per affrontare il tema del giorno, la prescrizione, è a basso tasso di ideologia in un momento invece di forte tensione dentro e fuori dal Parlamento. Presidente, la stragrande maggioranza delle prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari. Non pare che la riforma 5 Stelle, ma neppure quella Orlando già in vigore, entrambe centrate sulla pronuncia di primo grado per il blocco dei termini, possano incidere in maniera significativa. Appunto. Il problema esiste ma, per affrontarlo, bisognerebbe partire dai dati, con una corretta analisi economica del fenomeno. Tenendo sempre presente che, negli anni, il numero delle prescrizioni è andato diminuendo: dalle oltre 200.000 di poco più di 10 anni fa, alle 145.000 attuali. E sono sempre i numeri a dire che il tema delle indagini preliminari è cruciale. Propone allora di allungare la loro durata? Assolutamente no. Serve piuttosto un ruolo diverso e più incisivo del giudice. Oggi il controllo sulla durata delle indagini preliminari è assolutamente blando e circoscritto. Il giudice interviene solo al momento della richiesta di proroga dei termini; non esercita, per esempio, alcuna funzione di controllo sull’iscrizione nel registro degli indagati. La stessa recente ipotesi di avocazione per inerzia del pubblico ministero non rappresenta uno strumento efficace: si tratta di un controllo gerarchico e tutto interno al sistema della pubblica accusa. Spesso sono le procure stesse a temperare l’obbligatorietà dell’azione penale con una selezione di fatto delle notizie di reato. Però, almeno di solito, senza trasparenza sui criteri scelti. Piuttosto che a un forma di amnistia occulta sarebbe meglio pensare allora a un chiaro e serio intervento di depenalizzazione, mirato su alcuni reati. E su appello e Cassazione? In Cassazione la prescrizione di fatto non esiste, viene dichiarata solo quando il procedimento arriva già prescritto; altrimenti si fissa il giudizio in tempi rapidissimi: la durata media del processo è di 7-8 mesi. In appello il discorso è diverso. Ma il punto veramente centrale è che serve un’organizzazione dei tempi del processo, con una durata ragionevole per ogni fase di giudizio. Con le dovute deroghe per i casi di maggiore complessità. È importante che i cittadini possano prevedere la durata dei procedimenti nei quali potrebbero essere coinvolti. Ma poi servirebbero delle sanzioni per farli rispettare... Si potrebbe pensare a tre conseguenze per l’accertata violazione dei termini, la cui scelta è riservata al legislatore. Una sanzione disciplinare a carico del magistrato che non rispetta i termini, ma si tratta di una strada che non garantisce i diritti del cittadino. Oppure una diminuzione della pena proporzionale alla concreta violazione dei termini, sulla falsariga di quanto avviene in Germania. Infine, la prescrizione vera e propria, con l’estinzione del processo. Ma i vertici degli uffici giudiziari sarebbero in grado di affrontare una riforma così delineata? Oggi le prescrizioni hanno una distribuzione assai disomogenea: il 50% di quelle che maturano in appello sono concentrate in sole 4 Corti (Roma, Napoli, Torino e Venezia). Forse più che una riforma servirebbe una migliore distribuzione delle risorse... Qualche considerazione. Innanzitutto è opportuno un buon funzionamento del regime delle impugnazioni e, in particolare, dei filtri di ammissibilità. Poi, sul piano organizzativo, eventuali risorse aggiuntive, scarse per definizione, andrebbero utilizzate nelle sedi in difficoltà. Con un’assunzione di responsabilità da parte di ministero e Csm. I capi degli uffici dovrebbero comunque utilizzare con la massima attenzione i mezzi a disposizione. Ad esempio, la corte d’appello di Milano ha ridotto i giudizi penali pendenti, dal 2011 al 2014, da 18.000 a 8.000. Indispensabile infine è una stretta collaborazione con l’avvocatura con la quale insieme vanno individuati i rimedi necessari per fronteggiare il problema centrale, che è la ragionevole durata. Lei ha presieduto l’ultima commissione per la riforma del processo penale, i cui contenuti sono in larga parte confluiti nella legge Orlando in vigore da poco più di un anno. Un rimpianto per qualche proposta trascurata? In generale, i riti alternativi andrebbero potenziati. Lo schema accusatorio che abbiamo adottato per il nostro processo penale è impegnativo. E allora, il patteggiamento, l’abbreviato, il decreto penale di condanna rappresentano in qualche modo soluzioni obbligate (e su questo punto, un nota critica sull’approvazione ieri alla Camera del disegno di legge che impedisce il ricorso all’abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo è evidente, ndr). Prescrizione. De Vito (Md): “Così si fa a pezzi il principio di non colpevolezza” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 7 novembre 2018 Il presidente di Magistratura democratica: in nome dell’interesse dello Stato viene violato l’articolo 27 della Costituzione. Così la proposta del M5S è sbagliata nel metodo e pericolosa nel merito. Meglio sarebbe stato attendere i risultati della riforma già fatta e concentrarsi sui tempi del processo. Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica, qual è il suo giudizio sulla proposta di interrompere la prescrizione dopo il primo grado di giudizio? La corrente di Davigo chiede che Csm e Anm si schierino a sostegno dell’iniziativa del M5S... Non condivido, ma è legittimo che una corrente della magistratura possa chiederlo. Così come sarebbe giusto che Csm e Anm prendessero posizione sui punti critici e pericolosi del decreto sicurezza. Sulla prescrizione le posizioni nella magistratura sono diverse, ed è giusto ricordare che l’Anm si è sempre espressa per l’interruzione dopo il primo grado. Non è però la mia opinione. Io penso che gli interventi sulla prescrizione debbano marciare di pari passo con quelli sulla ragionevole durata del processo. Altrimenti per garantire l’effettività del processo penale si sacrifica l’interesse della persona a non rimanere sotto processo all’infinito. C’è l’interesse dello stato a non sprecare le risorse investite nell’amministrazione della giustizia, ma c’è anche l’interesse della persona a non rimanere sotto processo per sempre. Anzi, in un’ottica garantista questo diritto deve venire prima. Diceva di posizioni differenti nella magistratura, per la verità sono pochi quelli che hanno criticato la proposta... Il dibattito è condizionato dall’esperienza dei colleghi. Io faccio il magistrato di sorveglianza, lavoro sul carcere, e credo che non sia tollerabile vedere le condanne diventare effettive a distanza di molti anni dal fatto. L’esperienza quotidiana dice anche dopo 12 o 15 anni. Intervenire solo sulla prescrizione scarica tutto il peso sulla parte più debole del processo penale, l’imputato. E lancia il messaggio che si possono dilatare i tempi del processo con totale sacrificio del principio di non colpevolezza, tutelato dall’articolo 27 della Costituzione. Per questo mi pare una riforma non solo incompleta, ma anche estremamente pericolosa. Una riforma che peraltro arriva a poca istanza da un’altra. È possibile valutare l’impatto della legge Orlando? Non ancora, è questo il paradosso. Quella legge ha già modificato in maniera consistente i tempi della prescrizione del reato, interrompendoli per complessivi tre anni dopo il primo grado. Naturalmente può riguardare solo i reati commessi dopo l’entrata in vigore (3 agosto 2017). In attesa di una serena valutazione meglio sarebbe stato lavorare per cercare di ridurre i tempi del processo, per esempio rivedendo le impugnazioni e le notifiche, consentendo un accesso diffuso accesso ai riti abbreviati. La maggioranza non sta facendo il contrario? Un disegno di legge approvato ieri alla camera esclude i riti alternativi per i reati punibili con l’ergastolo... Proprio così. Anzi, peggio di così perché è lo stesso disegno di legge anti corruzione, quello nel quale si vuole infilare una riforma epocale della prescrizione - con un metodo inaccettabile - che impedisce il ricorso ai riti alternativi per tutta una serie di reati. E ne scarica il peso sul rito ordinario, ingolfando ulteriormente. L’interruzione della prescrizione dopo il primo grado è però prevista in altri paesi europei... È vero, per esempio in Spagna o in Germania. Che però hanno sistemi processuali diversi dal nostro. Ad esempio, nel caso il processo non si concluda in tempi ragionevoli è previsto il rimedio compensativo della riduzione della pena. In Italia la maggior parte dei reati si prescrive in fase di indagini, è una responsabilità della magistratura? Influiscono certamente le scelte delle procure che, a fronte di risorse scarse, tendono a sacrificare alcuni processi per garantire quelli più importanti. Ma si prescrivono soprattutto i reati di più difficile accertamento che sono poi quelli commessi dai colletti bianchi. Mentre arrivano a conclusione i processi per i poveracci. È una selezione che lede il principio di uguaglianza e che avviene ben prima delle sentenze di primo grado. Se il compromesso tra Lega e 5 Stelle prevedesse l’interruzione della prescrizione dopo il primo grado solo per i reati più gravi? Quale sarebbe la differenza? I reati più gravi sono anche quelli che hanno anche la prescrizione più lunga, dunque in pratica parliamo della stessa cosa. Fiducia sulla sicurezza, caos sulla prescrizione di Giulia Merlo Il Dubbio, 7 novembre 2018 Tensione altissima nella maggioranza, vertice tra Salvini e Di Maio. Dopo una giornata di rinvii, la decisione arriva a metà pomeriggio: sul dl sicurezza il governo “intende porre la questione di fiducia”. Salvini non si cura dell’esito del voto di stamattina ed esulta su Facebook: “Dopo mesi di lavoro, arriva il voto finale al Senato sul decreto Sicurezza e immigrazione, con il quale vorrei regalare a questo Paese un po’ di regole e un po’ di ordine”, scrive. “Un passo in avanti per la sicurezza non solo dei cittadini italiani ma anche dei tanti immigrati regolari e perbene che non devono essere mischiati con stupratori, scippatori, spacciatori, gente che non scappa dalla guerra ma che la guerra ce la porta in casa”. Ma nonostante l’entusiasmo, la tensione tra alleati resta molto alta. In ballo resta l’emendamento sulla prescrizione che ha fatto saltare i nervi ai leghisti. Sulla norma in discussione alla Camera, la decisiva riunione fra il premier Conte e i suoi due vice Di Maio e Salvini. La Cina non è poi così vicina, e nemmeno il Ghana. L’emendamento sulla prescrizione infilato nel ddl Anticorruzione che ha fatto saltare i nervi ai leghisti e il via libera al dl Sicurezza che minaccia di far scoppiare la rivolta dei pentastellati al Senato sono stati entrambi congelati, in attesa del rientro in Italia dei due vicepremier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Solo su questo punto, le dichiarazioni dei parlamentari pentaleghisti si sono incontrate: il nodo lo devono sciogliere i due leader e senza prima un loro vertice non si procede. Tutto fermo, dunque, fino all’incontro politico fissato per oggi, con il premier Conte a tentare la mediazione. Intanto, la giornata di ieri è stata particolarmente concitata, soprattutto alla Camera. Se il decreto legge Sicurezza è già in Aula (e il ministro Riccardo Fraccaro ha annunciato la fiducia), il disegno di legge sull’Anticorruzione e l’emendamento prima ritirato e poi ripresentato sulla prescrizione sono ancora al vaglio delle Commissioni congiunte Giustizia e Affari costituzionali della Camera. Risultato: si è scatenata la bagarre tra Movimento 5 Stelle e Pd a causa dei ritardi nei lavori. Il deputato Stefano Ceccanti ha lamentato l’irritualità nella gestione della Commissione, documentando minuto per minuto lo svolgimento: prima la convocazione alle 11 del mattino, ma i presidenti Giulia Sarti e Giuseppe Brescia entrambi M5s - non si presentano per più di due ore; i deputati delle opposizioni li vanno a cercare e scoppia la rissa tra il dem Emanuele Fiano e la grillina relatrice dell’emendamento sulla prescrizione, Francesca Businarolo. I lavori cominciano all’ 1 ma l’intoppo è dietro l’angolo: i presidenti fanno sapere di non aver ancora deciso sull’ammissibilità dell’emendamento. Infine, nuova convocazione delle Commissioni alle 20 di ieri, “ma non daremo pareri sull’ammissibilità”, ha anticipato la presidente Sarti, pur scusandosi per i due rinvii. E proprio questo ha scatenato ulteriormente le opposizioni: senza il parere le commissioni non possono lavorare e, dietro la dilazione, i deputati dem e di Forza Italia vedono il tentativo di aspettare gli esiti del vertice tra Salvini e Di Maio. “Così piegano il loro ruolo istituzionale alle esigenze del loro partito”, ha tuonato l’ex ministro e responsabile forzista della Giustizia, Enrico Costa: “Fornire i pareri di ammissibilità è un obbligo e non una scelta e non può essere dettato dai litigi nella maggioranza e dai tempi necessari per risolverli”. Sarti, però, ha smentito qualsiasi escamotage: più ampia”. Intanto, sono all’opera gli abili tessitori della mediazione. Mentre il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, sta continuando i suoi incontri con associazioni forensi e magistrati nel tentativo di ricucire il dialogo, a rischiarare il cielo sul ddl ci pensa Giancarlo Giorgetti. “Come spesso accade bisogna incontrarsi e discutere. Quando tornano Salvini dal Ghana e di Maio dalla Cina può darsi che si incontreranno e troveranno soluzione”, ha detto con toni concilianti il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E, a lavorare di cesello sulla norma, la Lega a chiamato Giulia Bongiorno. La ministra per la Pubblica amministrazione è prima di tutto una tra le penaliste più note d’Italia e proprio da lei era arrivato lo stop all’emendamento. Ora, la ministra è andata temporaneamente in aiuto di via Arenula e del sempre più accerchiato Bonafede: “Sono in contatto con lui, lo sento prima e dopo i pasti” e “stiamo cercando una soluzione che si vede all’orizzonte”. Mentre dalle stanze dei 5 Stelle si sussurra che “la soluzione sulla prescrizione è a portata”, Bongiorno ha assicurato che “non esiste una contrapposizione tra chi vuole l’impunità e chi non la vuole, anzi. L’unica preoccupazione che abbiamo manifestato è di evitare che una persona condannata non vada in carcere”, poi ha spiegato le sue perplessità tecniche: “Se una persona viene condannata in primo grado e viene eliminata la prescrizione il processo non ha un secondo grado e un terzo grado perché, attualmente, vengono fissati in base alla prescrizione, e allora faremmo restare in circolazione un delinquente”. Tradotto: l’emendamento per come è formulato rischia di creare disastri. La riforma Orlando, infatti, ha sospeso la prescrizione tra i gradi di giudizio, indicando i tempi di fissazione dell’udienza d’Appello e di Cassazione sulla base di questi stop, dunque sospendendo dopo il primo grado la prescrizione senza ulteriori chiarificazioni si rischia di mandare in tilt la macchina processuale. Le trattative, dunque, proseguono senza sosta. Tra le possibili soluzioni sul tavolo, quella più gradita alla Lega sarebbe quella di diversificare i termini della prescrizione in base al tipo di reato, dunque non eliminandola ma gradandola (rimettendo mano all’impianto attuale senza raderlo al suolo). Come questo possa conciliarsi con lo stop alla prescrizione dopo il primo grado chiesto dai 5 Stelle e ispirato da Piercamillo Davigo, è difficilmente comprensibile. Eppure, trapela cauto ottimismo. “I nodi politici sono una cosa, altra cosa è la questione della ammissibilità di un emendamento che amplia la materia del ddl: dobbiamo verificare, è una questione connessa all’ampliamento della materia e serve una valutazione Le norme eccessive sull’eccesso di difesa di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 7 novembre 2018 Le leggi consentono già di assolvere chi commette un omicidio per legittima difesa, come avvenne molti anni fa nel caso del calciatore Re Cecconi. Perfino l’orefice che quarantuno anni fa uccise il calciatore Luciano Re Cecconi (anche se c’è chi per ragioni di bottega finge di dimenticarlo) fu assolto. Lo ricorda il Corriere di quel lontano 1977: “Bruno Tabocchini, il gioielliere che la sera del 18 gennaio scorso uccise nel suo negozio il calciatore della Lazio Re Cecconi, che si era finto un rapinatore, è stato assolto dalla V Sezione penale del tribunale (presidente Santiapichi, pubblico ministero Marrone) dall’accusa di omicidio colposo per eccesso di legittima difesa. Egli ha agito, è detto nella sentenza (...) “in stato di legittima difesa putativa”. La sentenza è stata accolta da un applauso dal numeroso pubblico presente in aula”. Eppure furono 2.165, quell’anno, gli omicidi volontari in Italia. Sei volte abbondanti più di oggi, visto che dopo anni di calo costante siamo scesi (ultimo dato 2017) a 343 morti nonostante cinque milioni di abitanti (di cui buona parte immigrati) in più. Insomma, in condizioni nettamente peggiori di oggi, con una legge non ancora inasprita dalle norme fortissimamente volute dalla destra nel 2006, la magistratura aveva già allora a disposizione tutti gli strumenti per mandare assolto un negoziante romano digiuno di calcio che si era sentito in pericolo per l’ingresso nella gioielleria d’un calciatore famosissimo a Roma (e riconoscibilissimo dai capelli lunghi quasi albini) che aveva gridato per scherzo “Fermi tutti, è una rapina”. Di più: il pubblico ministero Franco Marrone non fece neppure il ricorso in appello. Fu una sentenza giusta? Può darsi. Fa effetto, però, sentire Matteo Salvini sbandierare le “sue” nuove norme ancora più securitarie: “Non esiste eccesso di legittima difesa: se entri a casa mia in piedi sai che puoi uscirne steso”. Come se vivessimo in un Far West dove i bravi sparatori civici sono sempre perseguitati da inesorabili pm con la bava legalitaria alla bocca. Tutti esenti dall’”eccesso”? Tutti? Anche quel padovano che cinque anni fa sparò dalla finestra a un bandito (da sbattere in galera, sia chiaro) che cercava di rubargli la macchina e poi scese in strada, caricò il ferito sulla propria auto e andò a buttarlo sanguinante in un campo lontano da casa? Mah... La lezione di Beccaria che il Guardasigilli ignora di Francesco Forte Il Giornale, 7 novembre 2018 Sembra che il ministro della Giustizia Bonafede ignori ciò che sostiene Cesare Beccaria, nel capitolo 13 del suo famoso libro Dei delitti e delle pene, circa la necessità della prescrizione, ai fini della prontezza e certezza della pena. Questa svanisce se il processo tarda a concludersi. Solo per delitti atroci come l’omicidio essa deve esser lunga, perché la atrocità del reato desta a lungo un turbamento sociale, ma dovrebbe essere breve per i reati di minor gravità. Beccaria circa i processi che durano all’infinito, nel capitolo 19 dedicato a “La prontezza della pena”, scrive: “Il processo deve esser finito nel più breve tempo possibile. Qual più crudele contrasto che l’indolenza di un giudice e le angosce di un reo? I comodi e i piaceri di un magistrato da una parte e dall’altra le lacrime e lo squallore di un prigioniero?”. E aggiunge: “La prontezza delle pene è più utile perché quanto è minore la distanza nel tempo che passa fra la pena e il misfatto, tanto più forte e durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee delitto e pena”. “La certezza della pena, benché moderata - scrive Beccaria nel capitolo 20 - farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile castigo unito alla speranza dell’impunità”. Beccaria, in generale, ritiene che il peso della pena in conseguenza di un delitto, deve esser sempre il più efficace per gli altri e il meno duro per chi ne soffre, perché “non si può chiamare legittima quella società dove non sia principio infallibile che gli uomini si siano voluti assoggettare ai minori mali possibili”. Prontezza e certezza della pena, in connessione con una prescrizione più che proporzionale alla gravità dei delitti, onde minimizzare il danno, a parità effetto di deterrenza dei reati, cui si riferisce Beccaria, è fondamentale per quelli che riguardano l’economia, come i fallimenti. La durata lunga del processo genera un grosso danno economico non solo ai falliti ma anche ai loro creditori, banche, imprese, cittadini che hanno diritto a un risarcimento. Accade, spesso, purtroppo, nel caso dei crediti delle banche, garantiti da immobili e aziende, che questi beni, a causa della lunga durata dei processi, in cui rimangono bloccati, si deteriorino. Nel caso delle opere pubbliche, i processi per irregolarità negli appalti e connessi reati, che si prolungano nel tempo, possono, a loro volta, determinare il fallimento delle imprese, che hanno preso in appalto i lavori e si sono indebitate per fare i progetti e apparecchiare i cantieri e si vedono sospesi i pagamenti, mentre i lavoratori perdono il posto o vanno in cassa integrazione. Spesso, il blocco delle opere avviene prima che siano iniziate; e non ci sono fallimenti delle imprese appaltatrici, ma c’è, comunque, un danno grave per il mancato avvio delle opere, che genera una carenza di investimenti, necessari all’economia e all’ambiente. Il fine delle pene, insegna Beccaria, non è di tormentare un essere sensibile, ma di minimizzare i danni arrecati dai reati ai cittadini che compongono la società. “La giustizia non può rinunciare alla prescrizione”, dice Cantone di Annalisa Chirico Il Foglio, 7 novembre 2018 Parla il presidente dell’Anac: “Il problema in Italia sono i processi lunghi”. Idee per intervenire dove il meccanismo si inceppa. “La prescrizione è un istituto di garanzia, non si può rinunciarvi. Il problema della giustizia italiana sono i tempi lunghi dei processi, non della prescrizione”. A parlare è il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone. “Ha senso processare qualcuno per un fatto avvenuto vent’anni prima?”, è l’interrogativo che il magistrato pone. “Esiste il diritto all’oblio che trova fondamento nel diritto costituzionale della ragionevole durata del processo: una persona non può essere messa sotto processo per un presunto atto criminoso accaduto con una tale distanza temporale. Devi essere giudicato per quello che sei, non per la tua storia”. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, insiste sulla necessità di sospendere la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, sia in caso di condanna che di assoluzione. “Per paradosso, un sistema così congegnato produrrebbe processi infiniti. Oggi l’esistenza dei termini per la prescrizione è uno stimolo a fissare udienze ravvicinate, la loro abolizione diventerebbe l’alibi per non celebrare più i processi. La prescrizione è innanzitutto una questione organizzativa: bisogna capire dove e perché i processi muoiono”. Siamo all’eterno dilemma: ai tempi elefantiaci dei processi si rimedia con l’allungamento ipertrofico della prescrizione o accelerando l’attività degli uffici giudiziari? “Non ho dubbi circa la risposta-replica Cantone -Un paio di anni fa l’allora guardasigilli Orlando fece realizzare una mappatura dettagliata dei tempi medi di estinzione dei procedimenti per prescrizione. Dai risultati, venne fuori che, a parità di norme e risorse, anche a distanza di pochi chilometri, esistono vistose differenze da un tribunale all’altro”. Erano dati risalenti al 2016: si passava dal 51 per cento di casi estinti, a processo avviato, a Tempio Pausania fino allo 0,2 di Aosta, dal 33 per cento di Spoleto al 2 di Milano. “È comunque necessario affrontare il tema prescrizione: le sembra ragionevole che tutti i reati fino a sei anni si prescrivano in sette anni e mezzo? Quasi nessuno viene condannato per truffa o appropriazione indebita, crimini che si prescrivono esattamente come una diffamazione”. L’ex procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, propone di far partire il computo dei tempi dall’esercizio dell’azione penale, e non dal tempus convissi delitti. “Non sono d’accordo, mi sembra un’idea meno garantista di quella ipotizzata dal governo. Così potrei essere chiamato a rispondere di fatti accaduti vent’anni fa, si pone un problema sostanziale ancor prima che processuale: una persona, ripeto, va giudicata per quello che è, non per la sua storia”. Soltanto in Italia puoi patteggiare e poi ricorrere in Cassazione. “Tale previsione deriva da un principio costituzionale. È indubbio però che il ricorso ai riti speciali sia disincentivato dai tempi brevi della prescrizione. Se so che il reato andrà probabilmente prescritto, difficilmente decido di patteggiare”. Il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, della corrente davighiana di Autonomia e indipendenza, plaude alla riforma gialloverde, e sostiene che andrebbe superato il divieto di reformatio in peius. “Va detto che esiste soltanto nel nostro ordinamento, per cui in appello non avrai mai una condanna superiore a quella di primo grado. Ma non è un divieto assoluto: esiste l’impugnazione incidentale, uno strumento, in verità poco utilizzato dai pm, che consente di ottenere una pena più severa”. Secondo l’ex procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, contrario alla riforma, bisogna rivedere i criteri per le impugnazioni in Cassazione al fine di scongiurare quelle a scopo dilatorio. “È un problema reale, ma il vero imbuto è rappresentato dal secondo grado. Il giudice d’appello è il ruolo meno appetito dai magistrati, che infatti ci vanno solo a fine carriera. Dopo una condanna in primo grado, il procedimento in seconda istanza dovrebbe chiudersi con una decisione in camera di consiglio nel giro di due giorni”. Per il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, bisogna puntare sulla tecnologia per evitare le perdite di tempo legate a notifiche e cambi di giudice. “Le pare normale che, in caso di sostituzione di un giudice, si debba ricominciare daccapo, con centinaia di testimoni, che vanno avanti da anni? Sentire una testimonianza non è come viverla ma un giudice ha davvero il vivido ricordo di un testimone esaminato in aula tre anni prima?”. Troppi reati e troppi processi, il governo per giunta annuncia una inversione a U sul fronte depenalizzazioni. L’Italia è l’unico paese con processo penale di tipo accusatorio e azione penale obbligatoria. “Negli stati dove l’azione penale è facoltativa- conclude Cantone - è la politica a decidere. Non so se ci convenga”. Ma la giustizia è lo spartiacque tra i due partiti di Marco Gervasoni Il Messaggero, 7 novembre 2018 La politica si regge sulla mediazione e sul compromesso, due parole fondamentali se non si vuole trasformare la contesa civile in guerra. Molto, quasi tutto, può diventare oggetto di compromesso tra forze politiche, comprese le misure economiche, attorno alle quali spesso si costruiscono muri ideologici che invece sono delle semplici staccionate. Quello che è però difficile da mediare è la questione della giustizia, cioè il peso attribuito alle garanzie degli individui e dei cittadini di fronte allo Stato e alla macchina giuridica. Lì no, se un soggetto politico è nel profondo, in modo identitario, giustizialista, difficilmente potrà convivere a lungo con quelli che perseguono un approccio liberale nel rapporto tra individui e Stato. E questo perché la concezione della giustizia ci rivela la visione del mondo di una forza e il senso che essa attribuisce ala lotta politica. Per questo l’incontro tra proposte giustizialiste e proposte più equilibrate appare molto difficile in natura, anche se vi sono contratti che sembrano aver trovato la leva di Archimede. Il lettore ha compreso che stiamo parlando dello scontro tra 5 stelle e lega sul blocco della prescrizione dopo la condanna di primo grado. Questo emendamento è solo il caso più clamoroso tra i tanti, visibili nel decreto legge anti corruzione, di distanza culturale tra le due forze di governo. Tanto che lo stallo su tali questioni rischia di incidere sul decreto legge sicurezza e poi sulla stessa manovra economica. I 5 stelle sono costituzionalmente giustizialisti. Per almeno tre ragioni: sono nati, allo stesso tempo dal basso (i movimenti) e dall’alto (Grillo e Casaleggio) sulla spinta della ondata di scandali politici che, nei primi anni del nuovo secolo, hanno attraverso il nostro paese. Diversamente da quelli della Prima Repubblica, che investirono il finanziamento illecito ai partiti e solo raramente l’arricchimento personale, la questione giustizia nella Seconda Repubblica ruotò quasi esclusivamente attorno a Berlusconi: tanto che i 5 stelle nacquero come costola del più radicale antiberlusconismo. In secondo luogo i 5 stelle, in quanto forma compiutamente populista né di destra né di sinistra, sposa la mitologia della casta vs il popolo, dei pochi contro i molti, dei corrotti contro gli onesti: in modo assai più radicale e conseguente rispetto alle cosiddette forze populiste di destra e di sinistra. In terzo luogo i 5 stelle sono giustizialisti perché hanno ereditato dalla filiera post comunista Pci-Pds-Ds il ruolo di forza politica di riferimento delle frange più militanti della magistratura - anche se non sempre riescono a controllarle, come si è visto nell’elezione del vice presidente del Csm. Difficile, quasi impossibile, che i 5s possano, almeno nel breve periodo, discostarsi da questo identikit: se sono duttili e malleabili su quasi tutto, non lo sono sui temi della giustizia. La Lega, al contrario, è la dimostrazione che chi parte giustizialista può anche diventare garantista. La Lega fu, durante Tangentopoli, il partito del cappio in parlamento. Tuttavia, i lunghi anni di governo nel centro destra e soprattutto nelle regioni più ricche d’Italia, hanno fatto maturare un atteggiamento più garantista, soprattutto nei confronti dei reati compiuti in settori come l’impresa, la pubblica amministrazione e la gestione della cosa politica in senso lato. Qualche maligno dirà che la Lega di Salvini è più tollerante nei confronti dei colletti bianchi e degli imprenditori rispetto che ai criminali comuni e ai clandestini. Ma in realtà il decreto Salvini è severo sul piano legge e ordine perché il tema della sicurezza dei cittadini è una delle grandi questioni a cui un politico oggi deve rispondere. Si può essere law and order e garantisti: anzi si deve. Al contrario, i 5 stelle sono giustizialisti ma non law and order: basta vedere i loro dubbi sul decreto sicurezza. Come se avessero ereditato dalla lunga storia della sinistra extraparlamentare l’idea della giustizia come “lotta di classe”, una lascito del peggior estremismo. Nonostante le difficoltà, è auspicabile che Salvini e Di Maio trovino anche sul tema giustizia un punto di incontro: ma toccherà alla Lega vigilare sulla questione della prescrizione, magari con il sostegno delle forze politiche contrarie a questo emendamento - cioè, tutte, a parte i 5 stelle. Intercettazioni valide anche senza il nome del traduttore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 6 novembre 2018 n. 50017. L’omessa trascrizione del norme dell’interprete utilizzato dalla polizia giudiziaria nel verbale delle intercettazioni non le rende inutilizzabili: sia perché non è espressamente prevista dal codice di rito civile, sia perché non viola il diritto di difesa. La Corte di cassazione, con la sentenza 50017, respinge il ricorso teso a far affermare la nullità dei verbali delle conversazioni telefoniche ed ambientali, in lingua albanese, uniche e determinanti fonti degli indizi di reità a carico del ricorrente, in quanto prive del nome del traduttore. Ad avviso della difesa, era stato violato l’articolo 89 delle disposizioni di attuazione del Codice penale. La Cassazione dopo aver precisato che i dialoghi intercettati, confermano solo altri indizi del reato di sfruttamento della prostituzione, affermano l’utilizzabilità dei verbali, pur ammettendo che, sul punto, esiste in effetti un contrasto. Tuttavia i giudici della terza sezione penale aderiscono all’orientamento più recente (Sentenza 5197/2017) ormai prevalente. Il principio “prescelto” esclude, infatti, qualsiasi invalidità delle intercettazioni per l’omessa indicazione delle generalità dell’interprete di lingua straniera “che abbia proceduto all’ascolto, traduzione e trascrizione delle conversazioni”. E questo perché la sanzione dell’inutilizzabilità è prevista solo per i casi indicati tassativamente dall’articolo 271 del Codice di procedura penale. Inoltre, precisano i giudici, “la trascrizione integrale delle registrazioni (e la loro tradizione) con le forme e garanzie previste per l’espletamento delle perizie è necessaria solo per l’inserimento nel fascicolo per il dibattimento e per la conseguente loro utilizzazione come prove in sede di giudizio e non anche per valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ai fini dell’applicazione delle misure cautelari (articolo 273 del Codice di procedura penale) anche in relazione al diritto del difensore di chiedere e ottenere dal Pm copia dei supporti magnetici o informatici delle registrazioni utilizzate per adottare il provvedimento cautelare”. La prova dei fatti - sottolinea ancora la Cassazione - rappresentati dalle registrazioni non deriva, infatti, dal riassunto o dall’ interpretazione fatta negli atti di polizia giudiziaria, anche con l’aiuto dell’interprete, ma dal contenuto stesso documentato nei relativi supporti. Di conseguenza l’assenza del nome dell’interprete non fa scattare la nullità dei verbali. Reato ambientale: è sufficiente che il sito sia potenzialmente contaminato di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2018 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 6 novembre 2018 n. 50018. La Cassazione - con diversi chiarimenti espressi in materia ambientale - ha finito per assicurare un grado di protezione del verde ancora più elevato. La Corte, infatti, con la sentenza n. 50018/2018,ha chiarito che il concetto di danno ambientale non è integrato unicamente nelle ipotesi più gravi di inquinamento, quelle cioè dove c’è compromissione addirittura delle falde acquifere. Ci sono, anche, delle situazioni intermedie da tutelare penalmente. Danno ambientale e l’applicazione della misura cautelare - Nel caso concreto il Tribunale di Napoli ha condannato un soggetto per il reato di inquinamento ambientale (ex articolo 452-bis del cp). A tal proposito, all’imputato era stata irrogata la sanzione del divieto di dimora (quale misura cautelare personale) a seguito di accertamento su un’area nel comune di Sant’Agata dè Goti in cui diversi operai erano stati sorpresi a scaricare e movimentare, con mezzi della società, rifiuti speciali. Erano stati depositati in quell’area in maniera del tutto illecita - senza autorizzazione - in ingenti quantità. A seguito di ciò la magistratura aveva già disposto una consulenza tecnica, nella quale si era concluso che il sito fosse potenzialmente contaminato. Le motivazioni della Suprema corte - Sul concetto di inquinamento ambientale i Supremi giudici hanno puntualizzato che la lettura corretta da dare all’ articolo 452-bis è quella secondo cui va riconosciuta una tutela ancorata alla tutela penale dell’ambiente secondo i limiti di rilevanza della nuova norma incriminatrice, che non richiede la prova della contaminazione. Pertanto ai fini dell’integrazione del reato non è richiesta la tendenziale irreversibilità del danno essendo sufficiente un evento di danneggiamento dell’ambiente - che nel caso di deterioramento consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso - ovvero da rendere necessaria per il ripristino, un’attività non agevole, mentre nel caso di compromissione ci si trova di fronte a uno squilibrio funzionale che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo e ai bisogni o interessi che il bene stesso deve soddisfare. È evidente come la Cassazione abbia voluto sensibilizzare l’attenzione sul concetto di ambiente, di pericolosità e di estrema facilità per arrivare a situazioni dapprima critiche e poi irreversibili nelle quali diverse regioni italiani si trovano a fare i conti. Napoli: carceri sovraffollate, a Poggioreale e Secondigliano record di detenuti di Guido Pianese internapoli.it, 7 novembre 2018 Solo un carcere su 3 in Italia rispetta la capienza prevista per i detenuti mentre nel 67,6% dei casi le strutture sono sovraffollate. È quanto emerge da un’analisi dell’Unione europea delle cooperative Uecoop su dati del Ministero della Giustizia. In relazione all’allarme lanciato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, per il picco di 53 detenuti suicidi dall’inizio del 2018. In Italia a fronte di una capienza di 50.622 posti ci sono 59.275 detenuti dei quali 1 su 3 straniero. Gli istituti di pena con maggiori problemi di sovraffollamento sono quelli di Napoli con Poggioreale dove si trovano 2.286 detenuti, il 37,8% in più della capienza prevista e Secondigliano con 1.394 reclusi pari al 37,7% di “esuberi”. Mentre un vero e proprio boom si registra nel carcere di Lecce con quasi il 74% in più dei detenuti previsti: 1.061 contro i 610 previsti dalla capienza. Ma i problemi sono anche al nord con San Vittore a Milano che ha 1.103 detenuti con il 22,3% in più rispetto alla disponibilità e Opera dove con 1.352 reclusi lo sforamento supera il 47% e alle Vallette a Torino con 1.383 reclusi si arriva al 30% in più. A oltre 50mila persone si applicano misure alternative al carcere e ci sono oltre 16mila condannati che hanno l’affidamento in prova ai servizi sociali, quasi 4 mila in libertà vigilata e controllata e più di 7mila impiegati in lavori di pubblica utilità. “Il percorso di reinserimento - conclude Gherardo Colombo, presidente di Uecoop - è importante per ridurre il rischio di recidiva e per dare una prospettiva di futuro e quindi di vita non solo ai detenuti ma anche alle loro famiglie”. Milano: “al Beccaria serve una svolta decisa, progetti e più rapporti con l’esterno” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 7 novembre 2018 Carcere minorile, parla la nuova direttrice: incontri con gli studenti milanesi e aumento delle messe in prova “È urgente imprimere una svolta decisa al Beccaria, dare un segnale forte. Il carcere ha enormi potenzialità, per farle emergere lavoreremo sulle relazioni”. Cosima Buccoliero, vice direttrice a Bollate, lunghissima esperienza nei penitenziari (ma nessuna nel minorile), è appena stata nominata direttrice reggente in via Calchi Taeggi. Dottoressa Buccoliero, si dividerà tra Beccaria e Bollate? “Starò quattro giorni a settimana al Beccaria. Il passaggio è delicato, è ripartita finalmente la ristrutturazione dell’edificio e non possiamo permetterci ulteriori ritardi: nel giro di un anno massimo dovrà esserci posto per almeno ottanta detenuti, rispetto ai 37 attuali. Dobbiamo costruire una visione chiara, aumentare l’osmosi tra “dentro” e “fuori”. Da gennaio ci sono stati 7 episodi di grave disordine. I suoi primi passi? “Voglio coinvolgere il personale di tutte le aree, impostare un piano comune. Parlare a lungo con i ragazzi, capire le storie, i sogni. Instaurare un rapporto con ognuno di loro. Devono vedermi come figura autorevole, portatrice di progetti per la loro quotidianità e la loro vita futura. Il percorso degli adolescenti nelle mura dovrebbe essere il più breve possibile”. Il 10 novembre entra in vigore la riforma dell’ordinamento penitenziario e per la prima volta si parla di misure alternative ah hoc per i minori. Cosa ne pensa? “Il carcere minorile deve operare a braccetto con le comunità. Il percorso rieducativo deve essere condiviso, per il bene dei ragazzi. Dovrebbe essere aumentata poi la percentuale di imputati cui viene concessa la messa alla prova (con cui si sospende il processo penale e - se l’esito della prova è positivo - il reato si estingue, ndr). Oggi è solo al 15 per cento ma in sette casi su dieci dà esito positivo perché i ragazzi si responsabilizzano. Intendo far rete con chi di minori si occupa da tempo, per capire quali percorsi risultano più efficaci”. C’è chi dice che i membri della polizia penitenziaria sono troppo giovani ed inesperti. “E perché mai dovrebbe essere un fattore negativo? Anzi, coi detenuti che sono ragazzi, avere giovani poliziotti può essere un vantaggio”. Per il periodo della detenzione, come pensa di impostare la quotidianità? “Ho in mente il modello Bollate, con un grande benefico scambio con l’esterno. Il Beccaria deve aprirsi molto di più. Penso all’istruzione e alla formazione professionale: ci sono già lezioni e insegnanti, favoriremo gli incontri con studenti delle scuole milanesi. Per i ragazzi è cruciale frequentare coetanei, per prepararsi a quando si reinseriranno nella società”. Con quali associazioni collaborate? “Puntozero ad esempio sta raccogliendo fondi per aprire ai milanesi il teatro del penitenziario: mancano 50 mila euro, poi la loro idea diventerà realtà. E il Centro sportivo italiano organizza tornei, anche tra polizia e detenuti. Sono arrivata da pochi giorni e già stiamo mettendo in circolo nuove energie”. Al Beccaria ora ci sono 37 ragazzi, meno della metà sono minorenni e qualcuno ha persino più di 21 anni. Come vede questa convivenza? “Possiamo ospitare detenuti fino ai 25 anni come prevede la legge, ma dobbiamo avere spazi adatti e ampi per creare ambienti separati. Un quattordicenne non può vivere costretto di fianco a un venticinquenne. Quando finiranno i lavori sulla struttura, saremo pronti a gestire al meglio la situazione”. Milano: tra rabbia, caos e rivolte, gli ultimi anni infuocati. Don Rigoldi: ora c’è speranza di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 7 novembre 2018 “Da dieci anni aspettavamo un direttore che mettesse fine all’interregno spesso degenerato nel caos con rivolte, risse, incendi. L’arrivo di Cosima Buccoliero è per noi promessa e speranza di rivincita”. Don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria, aveva lanciato moltissimi appelli, tra numerosi episodi di grave disordine (sette dall’inizio dell’anno, l’ultimo pochi giorni fa, quando alcuni agenti sono stati aggrediti con pugni e morsi). Ed evocava proprio il nome della Buccoliero, “persona di grandissima competenza, sensibilità e autorevolezza”, dice. Unico neo, l’incarico al momento è in reggenza: “Il direttore ha garantito presenza costante. Confidiamo che il suo sarà un impegno di lungo periodo e che presto le venga riconosciuta la qualifica di dirigente - auspica il cappellano. Per i carceri minorili i direttori hanno un trattamento meno vantaggioso rispetto ai penitenziari per adulti. Così difficilmente accettano un incarico in esclusiva. Ma è questo quello di cui il Beccaria ha bisogno”. Serve qualcuno che “con visione, creatività e intelligenza riesca a interessare i ragazzi rilanciando progetti culturali e incontri con i coetanei, la biblioteca, il teatro”, continua. Bisogna far venire loro la voglia di ricominciare a vivere in modo sano e soprattutto “fugare il pericolo della noia: quando subentra quella, arrivano i disordini”, assicura. Il rifacimento dell’edificio, più volte ritardato, avrebbe dovuto essere terminato entro quest’anno e non è arrivato ancora neanche a metà. “Insieme al direttore del Centro di giustizia minorile Francesca Perrini vegliamo affinché vengano rispettati i tempi di completamento dei lavori. Dovranno essere finiti nel più breve tempo possibile, ritardi non sono più ammessi - afferma dal canto suo la presidente del Tribunale per i minorenni Maria Carla Gatto -. Già da un anno la capienza del Beccaria è dimezzata impedendo il rispetto del diritto alla territorialità”, dice la presidente. In sostanza i ragazzi in detenzione e misura cautelare, imputati o indagati, vengono smistati in altri carceri in giro per la penisola, anche lontano dalle famiglie, visto che al penitenziario di competenza non c’è spazio. La struttura dovrà essere adeguata per accogliere ragazzi fino ai 25 anni (secondo il decreto del 2014, chi viene condannato per reati commessi prima dei 18 anni viene recluso insieme a chi maggiorenne non è ancora, ndr). “I giovani adulti non sono un problema, anzi, pensano al loro futuro con una maturità interessante e possono ispirare gli adolescenti”, lancia l’appello don Gino. E l’altro cappellano, don Claudio Burgio: “Il Beccaria è stato negli anni un esempio per l’offerta di attività e laboratori, c’è lavoro di squadra. Ma la quotidianità, con gli spazi così compressi e l’aumento dei detenuti con disagio psichico, diventa difficile per tutti”. Napoli: una petizione per chiudere il carcere di Poggioreale napolitoday.it, 7 novembre 2018 L’iniziativa di Sud Protagonista. Parte la raccolta firma per la chiusura e dismissione della casa circondariale partenopea e per la costruzione di una nuova struttura nel nolano. Una petizione popolare per chiudere il carcere di Poggioreale in tempi rapidi, attraverso la procedura di dismissione e vendita alla Cassa Depositi e Prestiti per ottenere il finanziamento per la costruzione del nuovo carcere a Nola. Questa l’iniziativa presentata questa mattina a Napoli dal movimento politico “Sud Protagonista”, con la contestuale raccolta delle firme finalizzate a sottoporre la richiesta al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro della Giustizia. Presenti alla conferenza stampa il Segretario federale Salvatore Ronghi, il portavoce cittadino, Luigi Ferrandino, il Presidente del Comitato ex Detenuti Organizzati Napoletani Pietro Ioia ed il Presidente della Cooperativa “Fiamma” Antonio Arzillo. Ecco il testo della petizione, pubblicata sulla nota piattaforma Change.org: Premesso che: - il Carcere di Poggioreale di Napoli fu inaugurato nel lontano 1914 ed è tra i più vetusti d’Italia; - da anni, esso risulta strutturalmente inadeguato, con celle non a norma, carenza di spazi vitali, che privano i detenuti della dignità e del rispetto dei diritti fondamentali di ogni essere umano, ancorché sottoposto a detenzione; - a fronte di una capienza di 1659 posti, le presenze arrivano fino a 2400 detenuti e quasi mai al di sotto dei 2000 e, pertanto, regna una grave condizione di sovraffollamento; - quotidianamente si effettuano oltre 400 colloqui, che vedono l’accesso di oltre mille familiari in spazi limitati che creano grandi difficoltà ai parenti dei detenuti e al lavoro della Polizia Penitenziaria; - a fronte di una pianta organica della Polizia Penitenziaria, prevista di 915 unità, già insufficienti, si riscontra una carenza organica di oltre 200 unità; - tale oggettiva situazione di inadeguatezza strutturale determina l’impossibilità a realizzare attività ed azioni per la rieducazione e il reinserimento sociale dei detenuti, sancito dalla Costituzione italiana; Considerato che: - solo nel 2018 si sono verificati nel carcere di Poggioreale ben cinque suicidi e che nel 2017 gli agenti di Polizia Penitenziaria hanno sventato almeno 70 suicidi; - l’assistenza sanitaria risulta fortemente carente, non soltanto per le disfunzioni organizzative dovute alla gestione sanitaria territoriale, ma anche per la oggettiva impossibilità a dedicare i già risicati spazi a reparti sanitari debitamente attrezzati e assistiti; - per tali motivazioni, il carcere di Poggioreale è oramai definito unanimemente il “mostro di cemento”, che contravviene a tutte le norme italiane ed europee tanto che, nel 2013, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani per le carceri inadeguate e sovraffollate, in primis quello di Poggioreale. Inoltre, nel 2017, il Consiglio D’Europa ha richiamato l’Italia per non aver rimosso le problematiche già oggetto di condanna; - nel 2016 l’allora Ministro della Giustizia, on. Andrea Orlando, per evitare altre condanne, attivò le procedure per la vendita del carcere di Poggioreale alla Cassa Depositi e Prestiti, procedute che si sono “arenate” senza alcun valido motivo. Ritenuto che: - per le su descritte motivazioni, il carcere Poggioreale sia indegno di un Paese civile e che violi l’articolo 27 della Costituzione, in quanto, a causa delle condizioni disumane in cui versano i detenuti, non garantisce la funzione rieducativa della pena; I sottoscritti cittadini fanno appello affinché: - il carcere di Poggioreale di Napoli venga chiuso in tempi rapidi; - venga dato seguito alla avviata procedura di dismissione e vendita del carcere di Poggioreale alla Cassa Depositi e Prestiti allo scopo di ottenere il finanziamento per la costruzione del nuovo carcere a Nola; - la metà del carcere di Poggioreale possa essere riconvertito in “carcere-museo” gestito dalla Cassa Depositi e Prestiti attraverso apposite cooperative di Personale della Polizia Penitenziaria in pensione ed ex detenuti. Padova: lievitati in carcere di Lara Mariani informazionesenzafiltro.it, 7 novembre 2018 Un panettone prodotto in carcere che vince un premio Gambero Rosso? A Padova si può: merito dei detenuti che lavorano per la pasticceria Giotto. “Dentro il carcere di Padova si producono panettoni buonissimi”. “Scusami Giampietro, credo di non aver capito”. “Hai capito benissimo” mi dice Giampietro, uno dei nostri storici collaboratori padovani che strizzandomi l’occhio aggiunge “dentro il carcere c’è una pasticceria e il panettone fatto dai detenuti ha persino vinto il premio Sua Eccellenza Italia del Gambero Rosso”. Eravamo a Padova alla riunione preparatoria di questo reportage e tra i tanti spunti che sono emersi quel pomeriggio non potevo non approfondire questo. Prima di tutto per golosità. Poi perché, di solito, le notizie sulle carceri riguardano sempre e solo il sovraffollamento e le insostenibili condizioni di vita dei detenuti. Qui evidentemente si poteva raccontare qualcosa di diverso. Così mi sono attivata immediatamente per chiedere permessi e autorizzazioni, per vedere e assaggiare di persona. Purtroppo mi sono dovuta arrendere perché per questioni di sicurezza la mia presenza all’interno del carcere non è stata autorizzata. Però ci è stato concesso un incontro con Matteo Marchetto e Roberto Polito, rispettivamente il presidente e il direttore commerciale della cooperativa Work Crossing che gestisce la pasticceria Giotto all’interno del carcere. La cooperativa si occupa da molti anni di ristorazione, ma l’idea di entrare nel carcere è nata nel 2005 dopo che la legge Smuraglia del 2000 ha permesso il lavoro intramurario. Prima i detenuti potevano lavorare soltanto per l’amministrazione penitenziaria con lavori interni, le aziende private non potevano attivare una produzione dentro le mura. “A Padova - spiega il presidente Marchetto - avevamo l’esempio della cooperativa Giotto che aveva già iniziato a lavorare con i detenuti e anche noi abbiamo voluto provare questa esperienza trasferendo la nostra pasticceria dalla sede storica in città all’interno del carcere”. E, quando gli ho chiesto le ragioni di un investimento che sulla carta poteva essere rischioso, ha risposto senza esitazioni. “Perché il lavoro dà dignità ai detenuti, dà loro la possibilità di impegnarsi, di imparare qualcosa che serve nel quotidiano per migliorare la vita dentro il carcere, ma che può essere anche un veicolo di riscatto per il futuro. Il lavoro è il principale strumento di rieducazione e il risultato è l’abbattimento della recidiva, un vantaggio per tutta la comunità”. E in effetti le statistiche gli danno ragione. Se normalmente il tasso di recidiva a livello nazionale varia dal 70 al 90 per cento, i detenuti che lavorano con un “lavoro vero” hanno un tasso di recidiva che sta sotto il 5 per cento e quelli della Pasticceria Giotto stanno sotto il 2 per cento. Marchetto lo chiama “lavoro vero” perché l’attività deve mantenersi sul mercato con prodotti di eccellenza ed essere economicamente sostenibile. “Potevamo scegliere di fare altre cose spiega - ma la produzione di eccellenza ha un risvolto formativo ed educativo più importante perché i detenuti si scoprono in grado di fare un prodotto buonissimo, anzi scoprono che qualcuno può addirittura assegnare un premio a qualcosa che loro stessi hanno fatto. La ricerca della soddisfazione personale è stata una scelta precisa, perché aiuta più di tutto il resto nel percorso di rieducazione”. Oggi i detenuti che lavorano in pasticceria sono 40. Il laboratorio è organizzato con 6 dipendenti della cooperativa (chiamiamoli civili) che tutti i giorni entrano e lavorano dentro il carcere. Tra questi ci sono 3 maestri pasticceri, un responsabile qualità e un responsabile della logistica e tutti formano, affiancano e coordinano costantemente i detenuti supervisionando ogni passaggio. Il percorso di scelta del personale è lungo, spiega Marchetto: “Inizia dall’input dell’amministrazione penitenziaria che segnala chi, secondo i loro criteri, è idoneo a lavorare. Successivamente i nostri psicologi vagliano la situazione e, se dopo i colloqui e le visite del medico del lavoro la persona è ritenuta idonea, comincia un periodo di tirocinio che è pagato con una quota fissa. Se alla fine del periodo di tirocinio tutte le valutazioni comportamentali e attitudinali sono superate, si passa all’assunzione con il contratto collettivo nazionale delle cooperative sociali”. I turni di lavoro sono volutamente brevi (4 o 6 ore) per dare la possibilità a più detenuti di lavorare. Ma queste poche ore cambiano completamente la percezione della vita in carcere. “In primis - continua il presidente - i detenuti invece di stare chiusi in cella cominciano a sottostare a delle regole di lavoro e questo è fondamentale perché tante di queste persone non hanno mai lavorato in vita loro. Imparare a rispettare gli orari, le regole e le indicazioni del responsabile cambia la modalità di relazione con le persone e questo inevitabilmente viene trasferito in sezione, nel rapporto con gli altri detenuti. Perché la persona, quando è trattata bene, cambia. Inoltre avere un’indipendenza economica all’interno del carcere ha la sua importanza soprattutto se si considera che quasi tutti i detenuti hanno moglie e figli e spesso tengono poco per loro e preferiscono mandare i soldi alla famiglia. In questo modo possono sentirsi utili. La trasformazione è lunga perché i detenuti partono da disagi e situazioni difficili, ma grazie al lavoro vivono una sorta di allenamento alla libertà”. La durata del rapporto di lavoro dipende da molte variabili. “La questione disciplinare è fondamentale. Se la persona, una volta aiutata, tradisce la fiducia, allora si procede con dei richiami e degli allontanamenti. Poi altre variabili dipendono dall’amministrazione penitenziaria che può decidere il trasferimento in un altro carcere. Poi c’è anche il caso di chi finisce la pena. Tanti sono stranieri e tornano nella loro patria, c’è anche chi è uscito e tornato in Albania e si è aperto una pasticceria sua”. A questo punto è Roberto Polito, direttore commerciale della cooperativa, a prendere la parola. Ci tiene a precisare che la pasticceria non fa solo panettoni. “Per garantire il lavoro tutto l’anno e non solo in maniera stagionale realizziamo gelati, praline di cioccolato e a Pasqua le colombe. Questa diversificazione ci aiuta anche nello scopo formativo perché, potendo far lavorare le persone per anni, è bello insegnare cose diverse”. Finora ci siamo concentrati sul lavoro dei detenuti e sui vantaggi che possono trarre da questa esperienza, ma la realtà è che i benefici di questa attività non procedono in direzione univoca. In tanti egoisticamente potrebbero pensare “con tutto il bisogno di lavoro che c’è, perché fanno lavorare i detenuti?”. L’obiezione sarebbe anche ragionevole, se non si considera però il risparmio sociale che questo progetto garantisce. Prima abbiamo parlato dell’abbattimento quasi totale del tasso di recidiva, ma non c’è solo quello. “Gestire il detenuto - spiega Roberto Polito - per l’amministrazione penitenziaria è una spesa enorme che ricade sul bilancio dello stato. Il lavoro in carcere abbatte questa spesa”. Eppure in Italia le carceri che offrono la possibilità di lavorare sono solo 10 su 200, un numero veramente irrisorio. Viene da chiedersi perché, ma la risposta è fin troppo semplice. “Prima di tutto - riprende la parola Matteo Marchetto - il carcere deve avere lo spazio. Il carcere di Padova è stato costruito progettando spazi definiti per portare dentro il lavoro perché c’era già un’esperienza simile in città, ma nel resto d’Italia la situazione è ben diversa. Poi quando ci sono gli spazi, l’amministrazione penitenziaria deve accettare di aprire le porte e far entrare i privati. E, quando queste due condizioni sono soddisfatte, bisogna trovare gli imprenditori che si prendano l’onore e l’onere di investire”. Purtroppo le tre variabili messe una in fila all’altra rendono il modello difficilmente replicabile, nonostante i grandi risultati ottenuti. Non voglio però concludere con le solite malinconie innescate dai problemi irrisolti e irrisolvibili del nostro paese. Qui c’è un esempio di lavoro positivo, un risparmio sociale evidente e “la concreta speranza che il lavoro possa dimostrare che una persona non sempre coincide con il proprio errore”. Anzi c’è la concreta possibilità che il detenuto faccia “qualcosa di buono”. Pavia: al via il progetto “Chance”, per reinserire gli ex detenuti La Provincia Pavese, 7 novembre 2018 Si chiama “Chance” ed è un progetto per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. La giunta ne ha appena approvato la realizzazione, che dovrebbe vedere i primi atti concreti già nell’imminente mese di dicembre, a cura del Centro servizi formazione. Il programma sarà rivolto ai detenuti delle tre carceri (Pavia, Voghera e Vigevano) ed ha due obbiettivi principali: facilitare l’inclusione sociale, realizzare interventi formativi e attivare azioni specifiche per il riconoscimento di competenze formali e informali; sensibilizzare il territorio e il mondo del lavoro a una maggiore apertura della comunità in tema di accoglienza in contesti sociali e produttivi. L’attuazione di questa iniziativa non comporterà spese a carico del bilancio comunale. Il progetto “Chance” è stato presentato in giunta dall’assessore alle politiche sociali, Alice Moggi ed è stato discusso e approvato. Firenze: la Regione acquista materassi nuovi per i detenuti di Sollicciano di Paola Ferri ilreporter.it, 7 novembre 2018 Materassi, cuscini e kit per l’igiene personale, acquistati grazie a uno specifico finanziamento della giunta regionale, sono stati recapitati in mattinata. A seguire l’operazione personalmente il presidente della Regione. “Tutti i cittadini, liberi o detenuti, hanno diritto alla dignità personale. E questa passa anche dal rispetto per le più elementari regole di igiene personale e degli ambienti dove si vive - ha detto Rossi. Le carceri sono la misura della civiltà di un paese e noi siamo una regione civile. Io sono per l’ordine e la sicurezza e per applicare la Costituzione, che all’articolo 27 dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “A chi mi ha chiesto perché inizio la presidenza con questo gesto - continua il neopresidente della Regione - rispondo perché partire dagli ultimi ci aiuta meglio a capire la società nel suo complesso. Quando a novembre sono entrato a Sollicciano e il giorno dopo al Don Bosco di Pisa mi sono reso conto di poter fare subito una cosa semplice ma importante, assicurare a queste persone un letto decente e il minimo per tenersi puliti. È un segnale concreto, che si aggiunge ad altri provvedimenti di carattere più strettamente sanitario che abbiamo deciso nei mesi scorsi”. Nel dettaglio sono stati acquistati 2.300 materassi, di cui 412 per Sollicciano e gli altri da distribuire nei vari istituti penitenziari della regione, 2.700 guanciali (di cui 717 per Sollicciano) 3.600 fodere per materassi (di cui 581 per Sollicciano) e 4350 fodere per guanciali (di cui 981 per Sollicciano). Inoltre sono stati acquistati e distribuiti 15mila kit per l’igiene orale e personale (ognuno composto da 1 spazzolino, 1 dentifricio, e 2 saponette). Solo a Sollicciano ne sono stati consegnati 5.250. Roma: storia di Stefano Pesce, “povero ignoto” morto in una clinica di Annalisa Grandi Corriere della Sera, 7 novembre 2018 La storia di Stefano, con problemi psichiatrici, morto in una clinica. Ma morto, si legge nel post che racconta la sua storia “di sfratto, povertà, solitudine e sofferenza”. E il messaggio viene condiviso da centinaia di persone. È “morto di sfratto. Di povertà, di solitudine, di paure e di sofferenza”. Inizia così il post pubblicato su Facebook e condiviso da centinaia di persone che racconta una di quelle morti di cui di solito non si parla. La morte di un emarginato, di una persona con problemi psichiatrici. Stefano Pesce aveva 52 anni, e come si legge nel messaggio pubblicato da Fabrizio Ragucci, segretario dell’Unione Inquilini della capitale “è morto solo, nel letto di una clinica psichiatrica in cui era stato trasferito giorni fa dalla Asl e dai servizi sociali”. “Per la città, Stefano non era un uomo. Era pratica inevasa, una delle tante e delle migliaia e delle decine di migliaia che riempiono i cassetti di impiegati ed assessori. Un nome-cognome-data-di nascita nella lista d’attesa delle case popolari, un utente X che chiede appuntamento ai servizi sociali. Relitti-umani, Roma ne è piena. Li notiamo solo raramente, uno su mille e comunque mentre affondano”. La storia di Stefano, ci spiega Fabrizio, è una storia “normale”, una storia che potrebbe toccare tutti noi. E tutti, aggiunge “dobbiamo sentirci un po’ responsabili”. “Ragazzone depresso, senza una lira in tasca, solo. Era finito sotto sfratto: dalla casa bella in cui era nato e cresciuto, alle pendici del Gianicolo, al freddo di febbraio sulle panchine di Villa Pamphili. Ho provato ad aiutarlo. Siamo riusciti a fargli avere una piccola pensione di invalidità e ad ottenere per lui il “privilegio” d’un posto letto in un centro di accoglienza. Prendete nota, perché è ciò che vi sarebbe concesso nelle sue condizioni: un punteggio nella graduatoria case popolari, elevato ma praticamente inutile (perché case non se ne costruiscono da decenni), una promessa di contributo economico a sostegno dell’affitto (ma qual è il proprietario privato che affitterebbe casa a uno sfrattato matto e povero?). E poi basta, punto e cavatela da te”. “La morte di Stefano - conclude Fabrizio - è importante perché è esemplare. Abbiamo reso omaggio al milite ignoto. Oggi vi scrivo di un povero ignoto, che potrei essere io come chiunque altro. Morto perché povero, solo e malato”. Salerno: il bar della speranza chiuso dai burocrati a Battipaglia di Carmine Landi La Città di Salerno, 7 novembre 2018 L’attività aperta nei locali confiscati dava lavoro a ex detenuti e volontari. Il Comune non rinnova il bando: serrande giù da sette mesi. C’era una volta il “Caffè 21 Marzo”. Era il “bar della speranza”, come l’aveva definito don Luigi Ciotti, fondatore di “Libera”, quando nel 2015, sotto il sole rovente di una mattinata di inizio luglio, venne a Battipaglia, a via Gonzaga, per il taglio del nastro. C’è chi dice che la speranza è l’ultima a morire, ma a volte, per ucciderla, basta la burocrazia. Lo sanno bene gli ex detenuti che in quel bar, nato in un immobile confiscato alla camorra, avevano trovato un posto di lavoro, una speranza per ricominciare, un sogno per una nuova vita. E lo sanno pure i ragazzi che gestivano il locale: sono gli attivisti di “Libera”, gli scout del gruppo Battipaglia 1, i soci di “Back to life”, di “Mariarosa”, di Legambiente e della coop “Lazzarelle”, che s’erano federati nell’associazione “P’o ben r’o Paes”, e che il 20 aprile scorso, dopo tre anni di attività, si sono visti costretti a tirare giù le serrande e a lasciare tutto. Chiusi per burocrazia: erano scaduti infatti i tempi dell’affidamento triennale, sancito da quei tre commissari straordinari che a Battipaglia, manco a dirlo, erano arrivati dopo uno scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni camorristiche. E a Palazzo di Città, negli ultimi mesi, ci sarà stato così tanto da fare da non poter neppure pensare di predisporre per tempo il nuovo bando per l’affido dei locali confiscati alla camorra. Il bando fotocopia. L’agognato avviso è stato pubblicato solo ai primi di giugno. Stavolta sono mutati i tempi previsti per la durata dell’affidamento, che passano da tre a sei anni, ma si tratta dell’unica novità rispetto al 2015: per il resto, le sudate carte del 2018 sono un avviso fotocopia, tant’è che pure il numero di ore di formazione dei collaboratori e dei volontari, che le associazioni avrebbero dovuto presentare a corredo della domanda, avrebbe dovuto far riferimento alle annate 2012 e 2013. Le candidature andavano protocollate entro l’11 luglio, e alla fine ne è arrivata soltanto una: è quella della cooperativa “Freedom”, costituita dagli stessi ragazzi di tre anni e mezzo fa. Il fallimento e la farsa. Bando scaduto da quasi quattro mesi, ma della determina d’assegnazione non c’è ancora traccia. Inizialmente c’era chi pensava che i ritardi fossero causati dal caldo, visto che a Palazzo di Città, tra luglio e agosto, i comunali hanno lavorato a mezzo servizio, soltanto di mattina, a causa dell’afa. Sono passate le stagioni, ma le saracinesche restano ancora chiuse. “C’è chi, a questo punto, crede che il bar sia fallito - tuona il referente cittadino di Libera, Angelo Mammone - ma in realtà è l’amministrazione guidata dal sindaco Cecilia Francese che ha fallito, dimostrando scarsissima sensibilità sulla tematica, anche perché una chiusura di sei mesi annulla la fase di start-up e ci mette in seria difficoltà”. Gli orti sociali nella palude. Pure gli attivisti del circolo “Vento in Faccia” di Legambiente attendono cenni dalla giunta per quel che riguarda gli orti sociali di via Parmenide, suoli confiscati ed affidati al “cigno verde” nel 2015. A maggio scadeva tutto, ma l’affidamento è rinnovabile: “Gli uffici hanno preparato tutto - fa sapere il presidente del gruppo, Alfredo Napoli - ma attendiamo che la giunta dia l’ok al rinnovo del contratto; abbiamo le carte in regola, quindi non so perché non ne discutano”. Coi fondi del “Consorzio La Rada”, invece, dovrebbe aprire i battenti a breve il social market di via Belvedere, affidati ad aprile 2017. Il record confische. A Battipaglia c’è un bene confiscato ogni 450 metri quadri: 124 immobili sottratti ai clan, ma i decreti di destinazione sottoscritti dall’Anbsc, l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, sono soltanto 45. Troppo pochi. L’altra sera il Consiglio comunale ha preso atto dell’assegnazione di una villetta a via Moncharmont, che finora accoglieva i mormoni, ed un appartamentino a via Monfalcone: locali confiscati all’ex geometra municipale Fernando Ferrara. Dovrebbero ospitare un centro per la disabilità ed uno sportello antiviolenza. Burocrazia permettendo, ovviamente. Cremona: al Cine Chaplin il cortometraggio svela il volto umano dei detenuti di Francesca Morandi La Provincia di Cremona, 7 novembre 2018 Proiettato giovedì sera il docu-film sulla rappresentazione teatrale dello scorso giugno in cattedrale “La periferia sociale è stata portata nel cuore della città”. E ora il “modello Cremona” è da esportare. Hanno sempre recitato nel teatro del carcere di Cà del Ferro davanti ai familiari. Stavolta, i detenuti hanno avuto un palcoscenico straordinario, inedito: il duomo. Stavolta, “la periferia sociale” ha raggiunto il cuore della città. Ed è stata “una esperienza bellissima”. Così bella da diventare un docu-film. Lo ha realizzato il regista Alessandro Scillitani, su un’idea di Giorgio Brugnoli, l’anima del Cine Chaplin, e grazie al sostegno dell’amministrazione provinciale con il presidente Davide Viola. Giovedì sera, sullo schermo del cinema di via Antiche Fornaci è stata proiettata una “chicca” sul lavoro di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti. Sala gremita per il cortometraggio “Cremona e il suo carcere” che ha raccontato il dietro le quinte, la preparazione della “Storia di Edimar”, la pièce teatrale del regista Alfonso Alpi in vista dell’esibizione in cattedrale, lo scorso 20 giugno. Soprattutto, la pellicola ha scavato nell’anima e svelato l’umanità dei ragazzi che hanno sbagliato e che stanno pagando il loro debito, ma pronti a riscattarsi. Ed allora per Davide, “il trascinatore” del gruppo di detenuti-attori, poco importa “se magari la battuta non la diremo perfettamente come se l’aspetta il pubblico”. Per lui che è stato “classificato delinquente”, conta “l’emozione, quello che siamo veramente”, perché “non siamo detenuti, siamo umani, abbiamo un cuore, delle emozioni, la voglia di vivere e di comunicarla. Che poi possiamo sbagliare, ma recuperare”. Ed anche se in carcere, “mi sento bene, realizzato con me stesso, non tanto perché ho fatto questa cosa, ma perché ho riscoperto un lato dime che non pensavo di avere”. “Quello che è accaduto in duomo è uno degli obiettivi centrali di tutti noi operatori penitenziari e dei detenuti del carcere di Cremona - spiega la direttrice Maria Gabriella Lusi. Siamo tutti parte di una squadra” che in una cattedrale affollata “ha voluto rendere pubblico un volto diverso dell’istituto penitenziario, che è un volto fatto di persone, di umanità, di capacità di fare e di volontà. Questa è una tappa di un percorso più ampio che la Cappellaneria, con il mondo del volontariato e con la Diocesi ha realizzato, partendo dall’idea del penitenziario quale periferia sociale per arrivare al cuore della città, tutt’altro che periferia”. E con l’obiettivo, raggiunto, “di riqualificaci in termini di parte integrante di questo tessuto sociale ed istituzionale”. Al Cine Chaplin c’era il vescovo Antonio Napolioni: “Siamo rimasti male, perché è finito subito. Quindi lo prendiamo come mi antipasto. Vi auguriamo di sviluppare il menti, non solo attraverso il canale del teatro, ma anche altre finestre su quello che si vive nella casa circondariale raccontato così bene alla collettività che può far bene a tutti”. E c’era Gian Antonio Girelli, presidente della Commissione speciale sulla condizione carceraria del consiglio regionale, così entusiasta da voler esportare il “modello Cremona”. Il Magistrato di Sorveglianza: i carcerati “come persone, non come un fascicolo” “Questa esperienza in duomo è stata bellissima. Sono sensazioni forti anche per il magistrato che deve comunque mantenere un distacco, un ruolo istituzionale rispetto al detenuto e, quindi, il coinvolgimento emotivo viene messo da parte”, ha detto il magistrato di Sorveglianza Marina Azzini, di Cremona. Una esperienza bellissima, perché “vediamo il detenuto non più come un fascicolo, ma come una persona che si materializza con le sue emozioni, con il suo entusiasmo”. Da qui, il grazie del magistrato di Sorveglianza Azzini “a tutti, agli educatori, agli agenti, alla direttrice, al regista che ha davvero reso, in modo esemplare, quello che è uno spaccato della vita del carcere che anche a noi magistrati non è dato di conoscere, perché i momenti della loro vita quotidiana noi non li vediamo”. Perché i magistrati incontrano i detenuti “durante il colloquio” ed “è sempre un momento formale, istituzionale”. E allora, vederli sotto quest’altra luce, “vedere il lato umano di queste persone, di questo mondo di sofferenza che però può avere momenti di serenità, è davvero bello”. Ed è, anche, “una crescita professionale ed umana”. Pisa: “Malaspina”, il romanzo scritto dai detenuti del carcere Don Bosco pisanews.net, 7 novembre 2018 Venerdì 9 novembre la presentazione al Pisa Book festival. “Malaspina” parla di carcere. Di vita in gabbia; di amori dietro le sbarre. Quello verso la famiglia che si lascia fuori; quello nei confronti del partner; ma soprattutto di amore per se stessi dopo aver fatto un errore (a volte più di uno) riconosciuto e punito dalla società. Da dove ripartire?. Il libro sara presentato venerdì 9 novembre alle ore 15 nella Sala Fermi nel corso del Pisa Book Festival. Se lo chiedono i protagonisti che raccontano spesso in prima persona e che a volte sono parte della trama. Un romanzo scritto a dieci mani: otto detenuti, guidati da due insegnanti, si sono cimentati in un giallo tutto pisano con un forte sentimento di identità. Anche se, quando si è reclusi, si è sospesi. Difficile sentirsi parte di una città. “Malaspina”, titolo dai molti risvolti (ma la spina? o maledetta spina ma anche un richiamo a uno dei più famosi cognomi di famiglie italiane storiche e intricate) è il terzo libro realizzato durante il corso di scrittura tenuto da quattro anni all’interno della casa circondariale Don Bosco da Mds, che ha pubblicato il volume, e da Michele Bulzomì e Antonia Casini. “In tutto questo tempo, abbiamo ascoltato tante storie, ci siamo commossi e arrabbiati. Alcuni dei nostri studenti hanno trovato la morte, qualcuno (per fortuna pochi, è tornato a delinquere) e c’è stato anche chi ha abbandonato tutto, anche le conquiste fatte, approfittando della libertà appena conquistata. Ma molti lottano per riacquistare un posto nel mondo. E anche se uno solo ci riesce per noi è un piccolo miracolo”, commentano i due giornalisti. “Il più delle volte ci ritroviamo, dopo il lavoro, a dover scaldare una pentola per poterci togliere da dosso quella puzza di fatica e di stanchezza che ogni sera ci portiamo dietro. Un tegame pieno d’acqua, intiepidito su un fornello comprato nel magazzino a nostra disposizione: le docce non funzionano e spesso sono talmente gelate da toglierci il fiato”, uno dei passaggi del brano di Andrea. Due le introduzioni: dell’ex direttore del carcere pisano Fabio Prestopino (ora a Sollicciano) e dell’attuale, Francesco Ruello. La trama: tutto ha inizio da un articolo di giornale in cui si parla di una sparizione nella chiesa della Spina, sul lungarno. Un mistero che coinvolge e unisce chi è dentro (a volte non per molto) a chi è fuori (non per sempre). Malaspina (che ha i patrocini di Comune, Camera penale e consiglio dell’ordine degli avvocati di Pisa) sarà presentato venerdì 9 novembre alle 15 nella sala Fermi al Pisa Book festival, Palacongressi, via Matteotti 1 a Pisa. Interverranno, oltre ai curatori Bulzomì e Casini, alcuni detenuti scrittori e l’assessore alla Politiche Sociali di Palazzo Gambacorti Gianna Gambaccini. I diritti d’autore saranno devoluti a progetti di reinserimento dei detenuti nella società. Foggia: “Sportivamente”, tra applausi e coppe si conclude il torneo calcistico del carcere foggiatoday.it, 7 novembre 2018 Premiati i ristretti che si sono distinti nella competizione sportiva e gli studenti che hanno partecipato a un concorso letterario internazionale, ricevendo una menzione speciale. Un pomeriggio di calcio e condivisione. Due ore all’insegna dei valori della pratica sportiva e non solo. Il 6 novembre, presso la Casa Circondariale di Foggia, si è svolta la finale di “Sportivamente”, il torneo organizzato da Luigi Talienti che vede sfidarsi in campo le squadre delle diverse Sezioni dell’istituto penitenziario foggiano. Il calcio di inizio è stato affidato a una delegazione del Foggia Calcio, che ha portato i saluti dell’intera squadra, impegnata negli allenamenti. La premiazione dei detenuti talentuosi - A seguire, alla presenza delle Autorità comunali e scolastiche, della Direzione, della Area Trattamentale, della Polizia Penitenziaria del Carcere e degli assistenti volontari sono stati premiati sia i detenuti che si sono distinti nella competizione sportiva che coloro che hanno partecipato a un concorso letterario internazionale. I ristretti scrittori, studenti del Geometra “Masi”, hanno ricevuto uno dei premi speciali del concorso, quello per l’originalità, per una versione drammaticamente realistica della novella pirandelliana “Canta l’epistola”, divenuta “Canta Cosimo!”, con la supervisione della loro insegnante, Maria Rita Caserta. Per la stessa novella hanno ricevuto anche il premio del contest, che li ha visti vincitori sulla rete. Un pomeriggio di festa - Alla cerimonia sono intervenuti l’Assessore Comunale all’Istruzione, Claudia Lioia; il Consigliere Comunale Leonardo Iaccarino; Italo Scrocchia in vece di Maria Aida Episcopo, insieme con una delegazione dell’Ufficio Scolastico Provinciale; Antonia Cavallone, Dirigente Scolastico del Cpia 1 Foggia; Maria Rita Caserta e una delegazione dell’Istituto “Masi”; Antonio Vannella, preposto per la Capitanata del Garante dei diritti delle persone sottoposte a limitazioni della libertà per la Regione Puglia e Annalisa Graziano del CSV Foggia. Il ringraziamento dei ristretti - I detenuti hanno voluto ringraziare con una targa il Direttore, Mariella Affatato “in segno di stima e gratitudine per la gradita autorizzazione e la squisita ospitalità” e tutto il personale della Casa Circondariale “che rende possibile l’organizzazione del torneo, come di tutte le altre attività”. Il Direttore Affatato ha sottolineato l’importanza dello sport, in particolare in un contesto come quello carcerario e il valore del volontariato, che rende possibile - con il supporto degli operatori penitenziari - la realizzazione delle attività trattamentali. La seconda possibilità - “L’intera manifestazione sportiva - ha sottolineato l’avvocato Luigi Talienti - ha visto un elevato coinvolgimento di tutta la popolazione detenuta, che ha contribuito a rendere speciale il torneo, come ha precisato il Direttore. Attraverso lo sport si affermano i valori fondanti del senso civico, del rispetto del proprio prossimo e del valore della regola. Anche per questo motivo abbiamo deciso di consegnare per ricordo alle sezioni partecipanti coppe e medaglie. La finale del Progetto rappresenta una giornata di festa, a cui hanno voluto partecipare tutti coloro che, a vario titolo, hanno contribuito alla buona riuscita della iniziativa e che è importante ringraziare. Un plauso particolare - ha continuato - va all’Acsi di Foggia e al suo Presidente, Giuseppe Chiappinelli per lo spirito di abnegazione nel mettere a disposizione l’intero comparto arbitrale. La popolazione detenuta - ha concluso - ha un cuore che pulsa che non merita di essere emarginato ma, al contrario deve essere considerato parte integrante della comunità civile: solo così si concede una effettiva seconda possibilità ai ristretti e alle loro famiglie.”. Il volontariato dentro - “Abbiamo aderito con piacere a questa iniziativa in cui lo sport è strumento valoriale e di socializzazione. Lo sport è spesso presente nelle iniziative di volontariato - il commento del Presidente del Csv Foggia, Pasquale Marchese - sia a livello amatoriale che agonistico, perché aiuta a superare le barriere sociali. Ha un ruolo educativo e formativo e, proprio grazie ai valori che lo animano, svolge una funzione di traino nei processi di integrazione e contribuisce in modo efficace a diffondere la cultura del rispetto e della convivenza”. “L’uomo bianco”, di Ezio Mauro. Metamorfosi di un Paese recensione di Marco Imarisio Corriere della Sera, 7 novembre 2018 Un libro necessario. Partendo da Macerata e da Luca Traini, l’ex direttore di “Repubblica” racconta per Feltrinelli l’Italia del 2018. Il gesto di un folle diventa strumento per capire come siamo. Alle undici del 3 febbraio 2018, Luca Traini ha salito l’ultimo gradino. Quello decisivo, che separa il prima dal dopo. Ha compiuto il passo che molti altri, privi della sua follia da clinicamente sano ma pur sempre follia, non hanno per fortuna il coraggio di fare. Certo, la persona che per vendicare Pamela, una ragazza che non conosceva, vittima di un crimine orribile, salì sulla sua auto e percorse Macerata sparando ad altre persone che non conosceva, unite solo dal colore “diverso” della loro pelle, aveva davvero segni particolari, persino caricaturali, a cominciare da quelli tatuati sulla pelle, simboli celtici e incisioni naziste. Le copie del Mein Kampf custodite in casa, il saluto romano avvolto nel tricolore con il quale ha concluso la sua scorribanda, hanno reso possibile una lettura quasi rassicurante di quei fatti. Il matto del villaggio, il fascista reietto e solitario. L’eccezione. La cronaca serve a restituire la portata morale, sociale, emotiva, di un evento. La cronaca ha il dovere di raccontare quel che si agita nella pancia di un Paese, deve o dovrebbe anticiparne le tendenze per meglio comprendere lo spirito del tempo. Ne L’uomo bianco (Feltrinelli), il nuovo libro di Ezio Mauro, i dettagli dell’attentato e la ricostruzione della vita di Traini, diventano lo strumento che consente di allargare lo sguardo. E nel farlo, l’ex direttore di “Repubblica” prova a rispondere a domande legittime in questa Italia del 2018, in questo periodo così confuso, anche a livello sociale. Cosa ci sta succedendo, cosa stiamo diventando, in quale preciso momento abbiamo smesso di auscultarla, la famosa pancia del Paese. Piaccia o non piaccia, sono in molti a chiederselo. Perché qualcosa è davvero cambiato, negli ultimi anni dove sotto ai nostri occhi ha preso corpo ed egemonia un grande risentimento nazionale che tutto sembra avvolgere, dalla chiacchiera da talk show a quella da bar, fino a un discorso che si vorrebbe politico. “Tra le macerie, cammina lui: un superstite solitario, prima scartato dalla crescita, poi ferito dalla crisi, comunque deluso dalla rappresentanza, convinto di aver accumulato un credito che essendo inesigibile ha finito per trasformarsi in una lunghissima cambiale di rancore privato, da spendere o almeno da ostentare in pubblico. Poiché ciò che è accaduto nell’ultimo decennio ha fiaccato le istituzioni, ha reso impotenti i governi, ha spinto ancor più lontano gli organismi internazionali e ha finito addirittura per indebolire la democrazia, l’uomo che si sente solo scopre che nell’improvvisa fragilità del sistema la sua rabbia può diventare un surrogato della politica, potente”. La natura politica de L’uomo bianco consiste nell’individuazione del modo con il quale questa rabbia degli uomini dimenticati è stata veicolata, facendola diventare consenso, ai danni di chi è ultimo tra gli ultimi. È un processo che arriva da lontano, da quando, per assuefazione davanti a tante tragedie dell’immigrazione, si è cominciato a ridurre le donne e gli uomini che morivano in mare a semplici numeri. Fino al momento in cui è arrivato qualcuno che ha autorizzato una inversione morale, “scommettendo su una sorta di brutalità programmatica (...), perché oggi l’impietoso è un plusvalore e la ferocia delle parole produce un sicuro reddito al banco di una politica impazzita”. Una lettura a senso unico e con un unico responsabile del mito rinnovato dell’uomo bianco porterebbe solo a un altro vicolo cieco. Le pagine più desolate sono invece quelle dedicate agli altri. A una rappresentanza politica e sociale silente, a chi avrebbe dovuto impedire il cedimento dell’argine. “Smuoviamo ogni giorno il limite del consentito a noi stessi: un po’ più in là. Il limite del tollerato. Ciò che fino a ieri non ci permettevamo e non concedevamo agli altri. Contribuiamo a cambiare l’atmosfera, l’ambiente, il carattere stesso della nostra società. Con il silenzio, con l’assenso, con la mancanza di un dubbio, di una posizione forte di minoranza, di una critica, di un’obiezione capace di raccogliere un problema indicando una diversa via di soluzione. Ciò che si chiamava una volta l’opposizione”. Ezio Mauro fa un riassunto di vicende simili a quella di Macerata, cominciando dall’uccisione del migrante Sacko Soumaili, avvenuta a Rosarno dove già nel 2010 erano stati gambizzati quattro immigrati. Altri, meno gravi, ugualmente indicativi, sono sopraggiunti dopo l’uscita del libro, dalla mensa di Lodi alla signora che su un autobus non vuole sedere accanto “a una negra”. Gesti isolati, certo. “Ma che non nascono per caso e non vengono dal nulla. Al contrario, possono contare su un clima di legittimazione strisciante, su una banalizzazione crescente e quotidiana dei troppi episodi di intolleranza razziale”. Adesso si può, o almeno sembra sia così. Quel che prima era un pensiero innominabile del quale vergognarsi può diventare senza alcun rimorso parola, nei casi più estremi farsi azione. La semplice pietà o la rivendicazione di un’identità diversa che ha radici nella nostra storia sono diventate buonismo, politicamente corretto, ormai categorie negative, insulti riservati agli intellettuali delle odiate élite, lasciando spazio alla cattiveria esibita, al linguaggio della ruspa. Proprio per questo, quello di Ezio Mauro non è un atto di accusa. È il racconto di una mutazione genetica in corso che riguarda tutti noi. Perché la cronaca non deve assegnare il torto o la ragione. La cronaca è il canarino nella miniera. Piaccia o non piaccia, L’uomo bianco è un libro necessario. Sui migranti uno sfregio alla Costituzione di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 7 novembre 2018 Dl sicurezza. Il decreto è una summa di incostituzionalità che potrebbe essere portato ad esempio di ciò che non può essere fatto in materia di migrazioni. Il voto del Senato sul decreto sicurezza è uno sfregio alla costituzione. Il governo, scegliendo di porre la fiducia, ha persino impedito al Parlamento di discutere delle palesi incostituzionalità delle norme che si dovranno obbligatoriamente votare nella versione imposta dal Consiglio dei ministri. Se neppure alla Camera verrà concesso di discutere modifiche al testo predisposto, sarà evidente la crisi del nostro sistema parlamentare. Che accadrà dopo la conversione in legge del decreto? Spetterà prima al capo dello Stato, in sede di promulgazione, poi alla Consulta, in sede di sindacato incidentale, esprimersi sulla manifesta incostituzionalità delle norme. Non è detto dunque che la ferita inferta dal Senato alla costituzione non possa essere almeno in parte riassorbita, sempre che i garanti sappiano far sentire con coraggio e rigore la loro voce. Rimane in ogni caso il fatto inquietante che l’attuale maggioranza non sembra preoccuparsi minimamente dei limiti che la costituzione impone. Eppure il decreto sicurezza è una summa di incostituzionalità che potrebbe essere portato ad esempio di ciò che non può essere fatto in materia di migrazioni. Anzitutto lo stesso strumento prescelto vìola la costituzione e la giurisprudenza costituzionale in materia. Illegittimo è infatti l’uso del decreto legge per regolare fenomeni - quali le migrazioni - di natura strutturale che non rivestono alcun carattere di straordinarietà ed urgenza. Né può farsi valere in questa materia un’interpretazione estensiva dei presupposti costituzionali, che altre volte ha portato ad abusare dello strumento del decreto legge, poiché i dati relativi al calo dell’80 % degli sbarchi, vanto dell’attuale governo, in caso dimostrano la cessazione dell’emergenza. Si deve anche dubitare che siano stati rispettati due altri caratteri ritenuti essenziali dalla Corte costituzionale e dalla legge 400 del 1988: l’omogeneità e l’immediata applicabilità di tutte le disposizioni del decreto. Ma è nel merito del provvedimento che si riscontrano le più insidiose incostituzionalità. In materia di migrazioni la nostra costituzione pone un principio fondamentale che non può essere in nessun caso disconosciuto: l’articolo 10 assicura allo straniero il diritto d’asilo. Secondo la consolidata giurisprudenza dei giudici ordinari esso si configura come diritto soggettivo perfetto attribuito direttamente dalla costituzione. Un Parlamento costituzionalmente orientato dovrebbe dare la massima attuazione del principio costituzionale, ma con i tempi che corrono ci si accontenta di molto meno. Ecco perché, in assenza di una normativa adeguata, la Cassazione ha indicato nella misura del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie la “forma di attuazione” del principio costituzionale (da ultimo sez. I, n. 4445/18). Una soglia minima, dunque. Non si può certo impedire che la normativa vigente sia precisata e, magari, migliorata; quel che si deve però senz’altro escludere è che essa possa essere eliminata. Ebbene il primo articolo del decreto sicurezza invece proprio questo fa: abroga la protezione umanitaria, sostituita da casi tassativi di permessi di protezione speciale. In tal modo si viola l’articolo 10. Quante volte abbiamo sentito ripetere da esponenti politici di ogni tendenza che un’indagine giudiziaria non può essere pregiudizievole. La presunzione di non colpevolezza è un principio di civiltà, prima ancora che giuridico, di enorme valore, scolpito nel testo della nostra legge suprema all’articolo 27. E la nostra costituzione non fa certo differenza tra cittadini e stranieri (si riferisce in generale all’”imputato”). Il decreto, invece, in evidente violazione con la richiamata disposizione costituzionale, permette la lesione dei diritti degli stranieri relativi alla difesa e impone l’obbligo di lasciare il territorio nazionale qualora essi siano sottoposti a procedimento penale per una serie di reati. Come se si fossero riscritti in un colpo solo tre articoli della costituzione (24, 27 e 113) ritenendo che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, senza poter essere considerati colpevoli prima della sentenza definitiva e senza limitazioni particolari per determinate categorie di atti. Tutti, salvo gli stranieri. D’altronde la discriminazione nei confronti degli stranieri nel decreto non viene meno neppure quando questi abbandona il proprio status. Anche qualora riuscisse ad ottenere la cittadinanza italiana, non sarà mai considerato alla pari degli altri, a rischio di revoca nei casi di condanna definitiva per alcuni reati. Questa previsione appare in contrasto con due principi. Quello d’eguaglianza, introducendo nel nostro ordinamento una irragionevole discriminazione tra cittadini, e contravvenendo all’espressa indicazione di divieto della perdita della cittadinanza per motivi politici (articoli 3 e 22) Potrei continuare a lungo, esaminando tutte le altre disposizioni del decreto, dal prolungamento della detenzione amministrativa nei centri di permanenze per il rimpatrio in contrasto con le garanzie legate alla libertà personale, alle diverse previsioni che confliggono con il principio di solidarietà, che vengono spazzate via dalla cancellazione dei sistemi di accoglienza pubblica (Sprar). Lo spazio di un articolo non consente di andare oltre. Il tempo della democrazia lo pretende. “Diversi i profili di incostituzionalità del dl sicurezza, aumenteranno le azioni giudiziarie” di Adriana Pollice Il Manifesto, 7 novembre 2018 Le critiche dell’Asgi. “L’abrogazione della protezione umanitaria è una norma contraria alla nostra Costituzione e al diritto internazionale” mette in guardia Salvatore Fachile, avvocato dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione ha analizzato il dl Sicurezza, provvedimento bandiera per la Lega di Matteo Salvini, sottolineando i tantissimi profili di incostituzionalità: “L’abrogazione del permesso di soggiorno umanitario aprirà lo spazio ad azioni giudiziarie, destinate a successo in base all’articolo 10 della Costituzione. Per questure e ministero dell’Interno, come titolari del potere di riconoscimento dei permessi di soggiorno speciali, comporta un eccessivo dilatarsi della discrezionalità amministrativa”. E ancora: “Quanto al trattenimento dei richiedenti asilo per determinarne l’identità, viola la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato”. Salvatore Fachile, avvocato dell’Asgi esperto di diritto dell’immigrazione, dettaglia i punti più critici. Cominciamo dall’abrogazione della protezione umanitaria... Si tratta di una norma contraria alla nostra costituzione e al diritto internazionale. Il dl autorizza una forma di protezione molto limitata per casi speciali valevole un anno e non è convertibile in un permesso di soggiorno se si trova una sistemazione stabile. Si può solo chiedere il rinnovo per un altro anno. Solo chi ha già il permesso per motivi umanitari ha tempo fino alla sua scadenza per dimostrare di avere un contratto di lavoro ottenendo così la regolarizzazione. Stiamo parlando di circa 50mila, 60mila persone che rischiano di diventare irregolari. Molti di loro magari sono integrati ma hanno un impiego al nero, saranno inesorabilmente spinti verso l’illegalità. Il sistema di accoglienza disegnato dal dl si basa su grandi Cas e taglia gli Sprar... Nei Cas ci sarà un’accoglienza essenziale: un tetto, cibo e poco altro. Mancherà la consulenza legale, psicologica o il sostegno all’integrazione sociale. Fino a oggi, nonostante un’efficienza molto più bassa, il costo dei Cas è stato pari a quello degli Sprar, Salvini intende però ridurre la spesa al giorno per migrante da una media di 35 a 19 euro, la qualità del servizio scenderà ancora. Non solo, il migrante che si trova nel Cas e presenta la domanda per il permesso di soggiorno alla Commissione non avrà alcun supporto legale, questo significa che la possibilità di vedere la richiesta accolta cala drasticamente. E il diritto alla salute? In pratica non dovrebbero esserci conseguenze, ma in pratica non sarà così perché viene eliminato il diritto all’iscrizione all’anagrafe per chi è in attesa che la domanda venga accolta. Avrà la residenza nel Cas ma non una carta d’identità. In queste condizioni, senza il sostegno dei mediatori, è difficile per un migrante che magari non parla italiano far valere i propri diritti quando le strutture fanno resistenza. Così come sarà difficile ottenere un conto corrente in banca, essenziale per avere un contratto di lavoro regolare. Tutti questi elementi faranno crescere le tensioni sociali e l’insicurezza. Ma Salvini giustifica il dl con l’esigenza di maggiore sicurezza... Lo scopo del dl è nascondere la gestione dell’accoglienza ai cittadini o a chi si occupa di diritti umani. Il dl spinge perché si applichino le procedure di frontiera: l’accesso alle procedure avverrà soprattutto in luoghi come gli aeroporti o i porti di arrivo, dove i migranti verranno bloccati, messi in strutture chiuse di identificazioni per lunghi periodi, in stato di detenzione amministrativa, dove le pratiche verranno valutate con iter accelerati. Lontano dagli occhi degli italiani o di chi potrebbe aiutarli a reclamare i loro diritti civili, con poche garanzie per opporsi all’autorità giudiziaria. Cosa si potrà fare dopo l’approvazione del dl? Inizierà una battaglia per arrivare alla Corte costituzionale. L’Asgi, ma anche tutte le altre realtà che si battono contro il dl, dovranno passare da un giudice di primo grado che accolga la domanda e sollevi il dubbio di costituzionalità presso gli ermellini. Si tratta di un procedimento lungo e costoso che, in ogni caso, non è la soluzione perché la soluzione può essere solo politica. Arrivare alla Corte costituzionale serve a limitare danni che si saranno già prodotti. Droghe. San Lorenzo, il degrado mediatico di Claudio Cippitelli Il Manifesto, 7 novembre 2018 Come un crimine odioso quale quello perpetrato su Desirée Mariottini diviene l’occasione per mettere a tema fenomeni complessi e controversi come l’offerta e la domanda di sostanze psicotrope e la gestione degli spazi urbani. Intorno alle quattro di mattina del 19 ottobre, in uno stabile abbandonato a San Lorenzo (Roma), muore Desirée Mariottini, sedicenne di Cisterna di Latina. La vicenda resterà nelle cronache per una decina di giorni, per poi lasciare spazio agli alberi caduti e al ritrovamento, forse, dei resti di Emanuela Orlandi. Un crimine odioso quale lo stupro di gruppo di una ragazza minorenne in stato alterato diviene l’occasione per mettere a tema fenomeni complessi e controversi come l’offerta e la domanda di sostanze psicotrope, la gestione degli spazi urbani e le attività di loisir notturno (la movida). I titoli dei giornali e il conseguente dibattito mediatico su questi temi certificano una regressione culturale impressionante. A titolo di esempio, il 26 ottobre Avvenire titola al centro pagina: “La droga e il degrado trappola per Desirée”. Il primo lemma del titolo, la droga, è al singolare. Serve ideologicamente a ribadire che le droghe sono la droga, che non occorrono distinguo, che fanno tutte indistintamente male, entità rispetto alle quali, per dirlo con Nancy Reagan, deve valere il motto “just say no”: “dì semplicemente di no”. Da decenni, in presenza di un mercato degli stupefacenti sempre più vasto e differenziato, di stili di consumo improntati alla poli-assunzione e di un abbassamento dell’età di primo consumo (soprattutto di alcol), gli operatori della prevenzione e della riduzione del danno hanno adottato lo slogan “just say know”: “ciò che devi sapere è che devi conoscere”. Un approccio scelto dai progetti “Nautilus” e “Oltre il Muro”, due realtà romane, ma non le uniche, che tentano di diffondere la consapevolezza dei diversi rischi che le diverse sostanze comportano, allertando sui pericoli del mixare gli stupefacenti tra di loro e con l’alcol. L’obiettivo è soprattutto evitare che i più giovani, in presenza di una propria determinazione al consumo, vengano etero diretti dal mercato illegale, che assumano ciò che al momento è disponibile senza alcuna idea delle conseguenze. Allo stesso modo, sempre sull’Avvenire compare la formula “mix letale di droga” (e non di droghe); a quanto pare, declinare al plurale le sostanze e i loro rischi è ancora considerata una forma di cedimento alla droga, quasi il primo passo verso sciagurate legalizzazioni. Il secondo lemma del titolo è degrado: ora, che San Lorenzo sia un quartiere degradato è una fandonia. Come spiegare altrimenti le migliaia di cittadini (compresi i giornalisti) che tutti i giorni, in ogni settimana dell’anno, vi si recano per affollare i locali del settore food and beverage? Degrado è lo stato fatiscente in cui vengono lasciati interi stabili come l’ex fabbrica di penicillina Leo di via Tiburtina, trasformato dall’incuria in rifugio malsano per chi non vogliamo accogliere né vedere in giro. Il degrado non risiede nelle occupazioni, ma negli abbandoni. Proprio a San Lorenzo, nel 2011, l’occupazione del Nuovo Cinema Palazzo ha impedito l’apertura dell’ennesimo casinò, e da allora, con la sua programmazione culturale, rappresenta un autentico presidio antidegrado. Degrado è non spendere i fondi (€ 1.547.110) stanziati dalla Regione Lazio per attuare servizi sulle droghe; è lasciare che resti chiuso il Centro Diurno a Bassa Soglia per le dipendenze di Scalo San Lorenzo, attivo fino a sei anni fa a due passi da dove è morta Desirée; cancellato nel 2012 dalla Giunta Alemanno insieme ad altri quattro servizi, non è mai stato riaperto, nonostante la sua attività fatta di migliaia di contatti, consulenze e pasti annui, le decine d’inserimenti in comunità e il presidio continuo e costante del territorio. Forse il degrado che ha ucciso Desirée è ritenere questi servizi un costo inutile. Antisemitismo. Nessun “giusto” per Sara Gesses di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 7 novembre 2018 Ci sono storie che insegui inconsapevolmente per anni, o forse sono quelle storie che ti inseguono. Una prima volta ne avevo sentito parlare circa trenta anni fa. Un giro in bici, una sosta nella piazzetta di un paese mai visto prima, un casuale incontro con un’anziana che aveva assistito ai fatti di persona. Mi parlò di un evento all’epoca poco conosciuto (“obliterato”), su cui poco pietosamente veniva steso un velo di silenzio: la deportazione in una antica villa padronale di Vò Vecchio (Villa Contarini-Venier) di un gruppo di ebrei rastrellati nel Ghetto di Padova (dicembre 1943). E mi accennò ad un episodio ancora più inquietante, il tentativo di una bambina (forse spinta dalla madre) di nascondersi in una barchessa per evitare la definitiva deportazione (luglio 1944). Qualche anno dopo (sempre casualmente) raccolsi altri particolari da una parente, forse una nipote, dell’anziana ormai scomparsa. Per timore di rappresaglie, la bambina sarebbe stata riportata ai tedeschi il giorno dopo. Fatto sta che emerse nel racconto una precisa responsabilità delle Suore Elisabettiane (incaricate di occuparsi della cucina del campo di concentramento) nel “restituire” Sara agli aguzzini. Ricordo che il controllo del campo di Vò Vecchio, uno dei circa 30 istituiti dalla R.S.I. di Mussolini, era affidato a personale di polizia italiano (presenti anche alcuni carabinieri). Invece la lapide sulla facciata della villa in memoria di quanti non ritornarono (posta soltanto nel 2001) ne parla come di un evento avvenuto “durante l’occupazione tedesca” senza un accenno alle responsabilità del fascismo italiano. Il tragitto dei 43 ebrei da Vò Vecchio verso la soluzione finale è noto e ben documentato. La macchina burocratica funzionava alla perfezione e la pratica di ognuno dei deportati proseguì regolarmente grazie a decine di anonimi complici, esecutori senza volto. Fatti salire su due camion, vennero prima richiusi nelle carceri Padova e poi inviati a Trieste, nella Risiera di San Sabba. Tappa definitiva, Auschwitz. Quanto alla bimba, si chiamava Sara Gesses (doveva avere sei o sette anni, ma alcune fonti parlano di dieci) e - questo l’ho saputo solo recentemente - venne riportata a Padova con la corriera (quella di linea) dal comandante del campo in persona, Lepore (quello che in alcuni scritti veniva definito “più umano” rispetto al suo predecessore). Anche al momento di salire sulla corriera Sara si sarebbe ribellata, avrebbe pianto, gridato, forse scalciato. Vien da chiedersi come il zelante funzionario abbia poi potuto convivere con il ricordo di questa creatura condotta al macello. Ma in fondo Lepore non era altro che una delle tante indispensabili rotelline dell’ingranaggio, un cane da guardia addomesticato, servo docile incapace di un gesto sia di ribellione che di compassione. Pare che un maldestro tentativo di giustificarsi sia poi venuto da parte delle suore che dissero di aver agito in quel modo “per riportarla insieme alla mamma”. L’ipocrisia a braccetto con la falsa coscienza. In precedenza, insieme ai genitori, la bambina era stata catturata vicino al confine con la Svizzera durante un tentativo di fuga e quindi riportata nel padovano. Non solo. A Padova la madre era riuscita a farla scivolar fuori dal finestrino di un’altra corriera, quella che dal carcere di Padova stava portando i prigionieri a Trieste. Le aveva appuntato sul vestito un biglietto con l’indirizzo di alcuni familiari. Infatti qualcuno raccolse la bambina e la portò al recapito segnalato, dove pare sia rimasta qualche giorno, apparentemente salva e al sicuro. Ma poi - inesorabili - i tedeschi, accompagnati dalla manovalanza fascista (ricordo che all’epoca a Padova imperversava la criminale Banda Carità) arrivarono a riprendersela. Tornata nelle grinfie degli sgherri nazifascisti, Sara venne trasferita alla Risiera di San Sabba a Trieste dove già languivano i suoi familiari e gli altri ebrei patavini. In Polonia la maggior parte dei deportati (47, tra cui Sara) venne immediatamente “selezionata” per le camere a gas. Solo una decina venne momentaneamente risparmiata e di questi solo tre sopravvissero. Sara che non aveva incontrato nessun “giusto” sul suo cammino venne avviata alla camera a gas appena scesa dal convoglio 33T sulla rampa di Birkenau, nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1944. La sua “morte piccina” (come quella della bambina di Sidone cantata da De André) rimane un delitto senza possibile redenzione, ma di cui dobbiamo almeno conservare la memoria. Pakistan. “L’Italia aiuti Asia Bibi a lasciare il Paese con tutta la famiglia” La Stampa, 7 novembre 2018 L’appello del marito della donna cristiana accusata di blasfemia e poi assolta: siamo in pericolo. Il ministro Salvini: stiamo lavorando con discrezione insieme ad altri Paesi occidentali. Drammatico appello all’Italia del marito di Asia Bibi, la donna cristiana, mamma di cinque figli, la cui assoluzione dalla condanna per blasfemia in Pakistan ha scatenato la rabbia degli islamisti locali. “Il governo italiano aiuti la mia famiglia a uscire dal Pakistan”, ha detto raggiunto telefonicamente dalla fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre. Ashiq Masih ha aggiunto che la sua famiglia ha difficoltà persino a mangiare: “Io e la mia famiglia in Pakistan siamo in pericolo”. All’appello ha risposto dai microfoni di Rtl 102.5 il ministro dell’Interno, Matteo Salvini: “Ci stiamo lavorando con altri Paesi occidentali, con discrezione per evitare problemi in loco alla famiglia che vuole avere un futuro”. Lo scorso febbraio il marito di Asia Bibi, insieme a una figlia minore, era stato in Italia e aveva partecipato all’evento organizzato da Aiuto alla Chiesa che Soffre per ricordare il sangue dei martiri cristiani culminato con il Colosseo illuminato di rosso. In quell’occasione aveva anche incontrato Papa Francesco. “È molto importante - ha aggiunto - che la comunità internazionale e i media continuino a mantenere l’attenzione sul caso per mantenere in vita Asia”. Nei giorni scorsi Ashiq Masih aveva già chiesto asilo al Regno Unito, al Canada e agli Usa per motivi di sicurezza: “Siamo estremamente preoccupati, la nostra vita è in pericolo: in questo momento abbiamo difficoltà anche a trovare da mangiare”. Intanto ieri la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, ha esortato la Francia a “intervenire con il Pakistan” affinché autorizzi la cristiana Asia Bibi a “rifugiarsi in un altro Paese” e si è detta “pronta ad accoglierla” nella capitale francese, della quale è cittadina onoraria.