Colombo: “Il carcere? Una fabbrica di recidiva, più che un mezzo per contenerla” di Manuela D’Alessandro agi.it, 5 novembre 2018 A cosa serve il carcere? Per Gherardo Colombo, l’ex pubblico ministero di Mani Pulite che ha indicato la via della galera per tanti “colletti bianchi” prima di convincersi che fosse molto più efficace parlare nelle scuole che indossare una toga, “è una fabbrica di recidiva, più che un mezzo per contenerla”. L’affermazione sembra quasi un’ammissione di colpevolezza perché resa alla redazione dei detenuti della terza casa circondariale di Rebibbia che lo hanno intervistato in occasione della prima uscita del mensile “Beccati a scrivere”. Intervistato dai detenuti di Rebibbia sul primo numero del mensile “Beccati a scrivere” l’ex pm di Mani Pulite dice ancora: “Sono dell’idea che tutti i diritti dei detenuti che non contrastano con la sicurezza della collettività debbano essere garantiti. Ma la cultura dominante ritiene che il detenuto debba soffrire”. I “novelli” cronisti, guidati dall’ex inviato del Tg2 Fabio Venditti, non si lasciano sfuggire l’occasione di metterlo alle strette, come lui sapeva fare molto bene negli interrogatori di quella stagione rivoluzionaria e controversa: “Negli ultimi anni - gli domandano - lei ha cambiato posizione rispetto al periodo in cui esercitava il suo ruolo di magistrato, sia come pubblico ministero che come giudice. Non ci poteva pensare prima?”. La risposta è disarmante, quanto sincera: “Sì che ci potevo pensare prima, ma per arrivare a pensarci devi fare un percorso lungo. Esci dall’università con il mito della prevenzione generale e speciale: generale perché se minaccio la pena metto paura e speciale perché se uno subisce la pena poi commette più reati. Ma non è così. Guardi più alle regole e ti convinci che quel che dice la Costituzione venga applicato. Ma la lettera della legge non sempre corrisponde alla realtà. Può anche succedere ma di rado”. La realtà è quella che gli sottopongono gli ospiti della Terza Casa del carcere romano, che pure è un luogo “speciale” all’interno delle mura dove si arriva se si hanno da scontare condanne non troppo pesanti e gli ambienti sono molto più umani, come raccontano nel loro editoriale di presentazione: “Le finestre sono grandi e con sbarre molto più sottili, che fanno meno prigione”. Sempre carcere è, però. Coi problemi di tutte le prigioni italiane. “Cosa pensa delle visite coniugali: perché non metterle in atto anche in Italia?”, domandano a Colombo. “Io sono dell’idea ma soprattutto lo è la nostra Costituzione che tutti i diritti dei detenuti che non contrastano con la sicurezza della collettività debbano essere garantiti. Ma la cultura dominante ritiene che il detenuto debba soffrire...”. Si sbilancia anche quando viene sollecitato sui colloqui “via Skype per chi ha i parenti lontano”. “Sarebbe una misura ovvia, così come un maggior numero di colloqui telefonici e di durata più lunga”. I magistrati come individui hanno un potere discrezionale per rendere meno ostili le carceri, secondo Colombo. Quando gli chiedono se si senta responsabile in prima persona “di chi è finito in carcere perché senza lavoro e poi è diventato delinquente”, stavolta si difende con fermezza e svela un episodio: “Mi sono occupato soprattutto dei “colletti bianchi”. Raramente qualcuno dei miei imputati è finito in carcere perché senza lavoro, anche in riferimento ai reati comuni. Non è che risulti di frequente la causa scatenante di un reato. Una volta, come procuratore di turno, mi è capitato d’imbattermi nell’arresto di una persona che aveva rubato una scatoletta di tonno in un supermercato. Ne ho ordinato il rilascio immediato. La possibilità di attenuare c’è sempre. Ancora una volta il problema è culturale. A volte anche i magistrati sono contagiati da questa cultura secondo la quale chi ha commesso un reato deve pagare”. Dalla cultura, vera ossessione di Colombo da quando ha riposto la toga a soli 60 anni nel 2007 per la sua “seconda vita” da educatore, prova a ripartire anche “Beccati a scrivere”: “Capita che le persone in carcere facciano qualcosa di nuovo - scrive Venditti nel numero di esordio che comprende articoli di riflessione ma anche di musica, poesia e cucina - facciano qualcosa di completamente nuovo nella loro vita: studiano, imparano un lavoro, apprezzano la condivisione di esperienze positive. In questo bisogna investire, nella formazione e non nell’edificazione di nuove gabbie”. La durata eccessiva dei processi, uno schiaffo alla presunzione di innocenza di Cesare Mirabelli Il Mattino, 5 novembre 2018 Le prese di posizione contrastanti, motivate ed esplicite, dei ministri Bonafede e Bongiorno sulla proposta, che il primo ha formulato, di escludere che possa valere la prescrizione dopo che sia stata pronunciate una sentenza di primo grado, non mette in discussione il ruolo del ministro della giustizia nell’assumere iniziative e gestire i problemi relativi alla giurisdizione, salva la competenza del Consiglio dei ministri nelle scelte politiche più rilevanti e del presidente del Consiglio nel mantenere l’unità dell’indirizzo politico. Apre, piuttosto, ad una valutazione del merito della questione: se l’istituto della prescrizione possa essere cancellato quando la sentenza del Tribunale è impugnata, con l’effetto che non vi è più un termine entro il quale la Corte d’Appello o, successivamente, la Corte di Cassazione devono pronunciarsi. Se da parte del ministro della giustizia si vuole evitare che indagini e processi svaniscano, finendo in prescrizione per il decorso del tempo, ma meglio si direbbe per il non adeguato funzionamento della giurisdizione, d’altro lato si pone in luce come la soluzione prospettata scardina il sistema e contrasta con principi e garanzie fondamentali per i cittadini. Per orientarsi è bene comprendere le ragioni ed il fondamento della prescrizione. Si tratta di un istituto giuridico generalissimo: il mancato esercizio di un diritto per il tempo ragionevolmente determinato dal legislatore ne determina l’estinzione. In campo penale il mancato esercizio della potestà punitiva dello Stato, e in definitiva della condanna entro il termine fissato in rapporto alla gravita del reato, che arriva fino ad oltre venti anni, determina l’estinzione del reato e, dal punto di vista del processo, non consente più di procedere ed accertare se vi sia una responsabilità penale. Poter tenere senza alcun limite una persona nella condizione di “indagabile” o di sottoposta a giudizio viola garanzie essenziali nel rapporto tra libertà dell’individuo ed esercizio dei poteri dell’autorità nei suoi confronti. La proposta del ministro della giustizia ha un ambito apparentemente più limitato: la prescrizione non opera più se il tribunale ha pronunciato una sentenza. L’effetto preclusivo della prescrizione dopo una sentenza di condanna in primo grado ha la forza dell’esistenza della pronuncia di un giudice. Ma questo elemento di apparente forza è piuttosto un punto di debolezza dal punto di vista delle garanzie costituzionali, e non solo. La costituzione, all’articolo 27, stabilisce che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, e l’esperienza mostra quante volte chi è condannato in primo grado viene assolto nei successivi gradi di giudizio. Sulla stessa linea la convenzione europea dei diritti dell’uomo, per la quale ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. Se la sentenza di primo grado fosse di assoluzione, sarebbe ancor più difficile comprendere la ragionevolezza del fermare l’orologio del tempo per consentire una nuova pronuncia anche a distanza di molti anni. Allora non c’è rimedio che soddisfi l’esigenza che il ministro della giustizia avverte, come tutti del resto, di portare a compimento i processi? Le strade corrette le indicano le stesse regole del processo. Gli atteggiamenti dilatori di imputati che intendano dilatare i tempi del processo per giungere alla prescrizione possono essere neutralizzati dalla prevista o prevedibile sospensione del corso della prescrizione quando le cause del rinvio e del ritardo dipendano dall’imputato e dai suoi difensori. Inoltre la interruzione della prescrizione quando sia stata pronunciata la sentenza, e il suo nuovo decorso a partire dal giorno della interruzione, consente di dare un termine ragionevole per lo svolgimento degli ulteriori gradi di giudizio. Come si può constatare, si tratta di un sistema complesso, che richiede cautela nelle riforme, da condurre senza l’illusione che la inadeguatezza o le inefficienza organizzative siano superabili intervenendo sulle regole processuali e sostanziali. Tanto più se il progettato venir meno della prescrizione dopo la sentenza di primo grado rischia di giustificare il pratico abbandono del principio della ragionevole durata del processo che è imposto dalla costituzione e, ancora una volta, dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Maggioranza sempre più divisa. Test in Aula su giustizia e sicurezza di Dino Martirano Corriere della Sera, 5 novembre 2018 Le misure (tra veti incrociati) a Camera e Senato. Riflettori anche sui dissidenti M5S. È una settimana parlamentare molto intensa, quella che si apre stamattina al Senato, con l’approdo in Aula del decreto sicurezza, sponsorizzato dalla Lega e causa di molti mal di pancia in casa dei Cinque Stelle. Si prosegue nel pomeriggio alla Camera dove, in commissione Affari costituzionali, entra nel vivo la battaglia sugli emendamenti al disegno di legge anticorruzione sul quale Lega e M5S hanno preso strade differenti e si preparano alla resa dei conti, che proseguirà dal 12 novembre a Montecitorio. Al Senato - sul decreto che Matteo Salvini sta seguendo personalmente passo dopo passo - pesa la fronda dei dissidenti del Movimento Cinque Stelle che sono molto critici sul muro che il provvedimento alza davanti ai richiedenti asilo e agli stranieri potenzialmente interessati dalla protezione umanitaria. In prima fila, a contestare le scelte della Lega, ci sono i senatori grillini Gregorio De Falco, Paola Nugnes, Matteo Mantero, Elena Fattori e Lello Campolillo, che però non impensieriscono più di tanto il governo, perché sul decreto sicurezza c’è comunque la “ciambella di salvataggio” del soccorso azzurro di Forza Italia e di quello assicurato da Fratelli d’Italia. Per questo l’ipotesi di un voto di fiducia è ancora nel cassetto e, come ha confermato il ministro Riccardo Fraccaro (Rapporti con il Parlamento), il governo cercherà in ogni modo di non ricorrere a questa forzatura. Più complessa la situazione alla Camera, dove lo scontro tra M5S e Lega non è più simulato. Oggi pomeriggio ci sarà battaglia sull’ammissibilità dell’emendamento del M5S sulla prescrizione (che verrebbe congelata dopo il primo grado anche in caso di assoluzione). I deputati di Forza Italia Francesco Paolo Sisto e Enrico Costa, che oggi incontrano il neopresidente delle Camere Penali Giandomenico Caiazza, annunciano le barricate, ma anche la Lega (che sul punto si è trovata davanti al fatto compiuto) non resterà a guardare. I grillini, a loro volta, sono sul piede di guerra, perché la Lega ha messo in campo una serie di emendamenti finalizzati a smontare 8 degli 11 articoli di cui è composto il testo. In altre parole, se non interverrà una mediazione, l’iter del ddl anticorruzione diventa sempre più incerto. I tempi sono stretti, perché domani iniziano le votazioni. Ha ancora strascichi la polemica innescata dal Guardasigilli Alfonso Bonafede (M5S) che ha definito “azzeccagarbugli” gli avvocati. Il ministro si è scusato con tanto di nota ufficiale (e l’Unione delle Camere Penali ha accettato le scuse, ma non il cessato allarme), però le opposizioni in Parlamento si sono scatenate. “Il diritto di difesa è uno dei cardini su cui si regge lo Stato di diritto”, ha detto l’ex Guardasigilli Andrea Orlando (Pd). “Tra Lega e M5S non si tratta solo di dispettucci ma di divergenze su temi fondamentali”, osserva Giorgio Mulè di Forza Italia. Sicurezza verso la fiducia. Prescrizione, M5S frena: riformuleremo la norma di Simone Canettieri Il Messaggero, 5 novembre 2018 Se il decreto Sicurezza va verso la fiducia, sulla prescrizione ora M5S frena: riformuleremo la norma. Per l’eterogenesi dei fini l’orientamento di Lega e M5S è quello di porre la questione di fiducia al dl-Sicurezza da oggi in discussione al Senato. Dal Carroccio spiegano la mossa così: “Dobbiamo chiudere subito la questione in Senato, per portarla martedì alla Camera. Altrimenti si innesta l’iter della manovra e il decreto scade il 3 dicembre: siamo stretti, e Matteo ci tiene molto”. Tanto che sarà in Aula martedì. Dalla sponda grillina, invece, il ragionamento è molto più vasto: preoccupano, e assai, i voti che potrebbero arrivare da Fratelli d’Italia e da Forza Italia. Sia Giorgia Meloni e sia Silvio Berlusconi, infatti, “hanno aperto” pubblicamente ad alcune norme. Un abbraccio che rischia di mandare in fibrillazione ancora di più la maggioranza giallo-verde, soprattutto la sponda grillina, già alle prese con 4-5 voti ribelli che nel segreto dell’urna potrebbero essere anche di più. La fiducia, invece, neutralizzerebbe il soccorso del centrodestra: FdI e FI farebbero un passo indietro. “Anche perché significherebbe entrare nel governo: non mi sembra un’ipotesi all’ordine del giorno: siamo in una fase di transizione”, ragiona Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e braccio destro di “Giorgia”. La questione dunque è destinata a risolversi nel perimetro della maggioranza e per Di Maio potrebbe essere il modo per stanare, una volta per tutte, i ribelli. In caso di voto contrario saranno fuori dal M5S. “Qualcuno potrebbe avere il raffreddore”, insinuavano ieri sera, pallottoliere alla mano, i vertici pentastellati. Qualcuno, invece, no: Gregorio De Falco e Matteo Mantero sono pronti allo scontro finale. Ma le ultime disposizioni lasciate dai due leader ai rispettivi colonnelli prima di partire (Di Maio è in Cina, Salvini è in Ghana) sono queste: fiducia. Un modo per superare un dossier e pensare al prossimo ostacolo: la battaglia sulla prescrizione. In questo caso le posizioni sono cristallizzate: la Lega ha già detto che non voterà l’emendamento presentato al dl-anticorruzione perché non condiviso. Dal M5S si risponde - con il capogruppo alla Camera D’Uva - che questi sono cavalli di battaglia del movimento e che “non arretreremo di un millimetro”. Anzi, aggiunge, il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi “sembra che qualcuno remi contro”. Ma in quel mondo di mezzo delle confessioni “off”, cioè a microfoni spenti, big pentastellati commentano: “I leghisti non hanno tutti i torti nel merito, ma anche questa fa parte della nostra strategia: bastone e carota, un continuo gioco ad alzare la posta in palio”. L’emendamento della discordia presentato al dl-anticorruzione sarà riformulato. Il ministro Alfonso Bonafede, noto per le doti di colomba, da questa settimana inizierà a parlare con le truppe e si arriverà a una frenata. Per riporre poi in maniera “strutturale” la questione della prescrizione in un secondo momento. Il clima dunque è quello dello scontro a bassa intensità: l’emergenza maltempo ha riavvicinato le anime del governo. A tenere la tensione alta ci pensa però Stefano Buffagni, molto vicino a Di Maio: “Sulla prescrizione: una soluzione si troverà, stop casi Penati”. Sull’anticorruzione sempre Buffagni ricorda “bene come lo scandalo del leghista Fabio Rizzi, arrestato per le tangenti sulle dentiere, indignò l’intera comunità, anche leghista”. Un messaggio inviato più all’interno che al Carroccio. E che suona così: cari amici, grillini, basta abbassare la testa davanti ai leghisti. Ipotesi stralcio sulla prescrizione. Salvini: dl sicurezza o tutti a casa di Francesco Grignetti e Ilario lombardo La Stampa, 5 novembre 2018 Giustizia, dubbi anche tra i 5 Stelle. Il leghista ai suoi: “Se fanno scherzetti, cade il governo”. Sarà una settimana di discussioni nella maggioranza giallo-verde. E se mai ci sarà una soluzione, non verrà presto. I due vicepremier, infatti, sono all’estero: Luigi Di Maio è in Cina, Matteo Salvini in Ghana. Missioni ufficiali, e strategiche, in rappresentanza dei rispettivi ministeri. Partendo, però, si sono lasciati dietro una scia di recriminazioni contrapposte. E di sospetti: Salvini tornerà a precipizio già martedì, imponendosi una maratona di volo, pur di monitorare di persona che il decreto Sicurezza sia votato al Senato. “Speriamo che non facciano scherzetti, sennò cade il governo”, ha detto salutando i suoi. È meno preoccupato di possibili ritorsioni sulla legittima difesa. “È questione ancora lontana. Poi vedremo”. Ma è la questione della prescrizione, imposta con un blitz che porta la firma del ministro Alfonso Bonafede, che si sta rivelando essere una bomba atomica nei rapporti tra gli alleati. Apparentemente è muro contro muro. Non bastasse l’altolà lanciato sabato dal ministro e avvocato Giulia Bongiorno, ieri anche Salvini ha sbarrato la strada: “La riforma della giustizia - ha detto - c’è nel programma, ma non si fa a colpi di emendamenti. Con corrotti e corruttori andrei giù con il martello pneumatico, ma valutiamo bene il fatto che i processi non vadano avanti dieci anni perché indegno di un Paese civile”. In verità Salvini pensa tutto il male possibile di quell’emendamento che i grillini hanno presentato qualche giorno fa, ma non vuole dirlo apertamente. I suoi pensano che l’unica via per uscirne è sgomberare il campo da proposte estemporanee e quindi con uno stralcio, affrontando i delicati meccanismi della giustizia attraverso un ddl ben più articolato. “Non necessariamente un emendamento presentato dalla sera alla mattina è il modo migliore”, si è sfogato. Anche tra i grillini comincia a farsi largo la consapevolezza di avere sbagliato le mosse. A mezza voce circola la voce che forse Bonafede s’è fatto prendere dai nervi quando ha saputo che c’erano emendamenti leghisti alla “sua” legge e non ha calibrato a dovere la risposta. Forse non è un caso che un fedelissimo come il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, M5S, dica: “Lo Spazza-corrotti sarà approvato e con esso spazzeremo via una certa ipocrisia che ancora alberga in qualche parlamentare”. Riferendosi agli alleati leghisti, ma citando l’intero provvedimento contro la corruzione e non il singolo capitolo sulla prescrizione. E anche il mediatore Stefano Buffagni riconosce: “Il tema è complesso e richiede approfondimenti. Una soluzione si può trovare”. Oggi i leghisti avranno una riunione per studiare il problema, e non è escluso che sia allargata agli alleati. Ormai c’è all’esame l’idea di ritirare l’emendamento e trasformarlo in una futura proposta di legge più organica. Oppure, in alternativa, come piacerebbe di più ad alcuni del M5S, s’ipotizza di accantonare l’emendamento e di ritirarlo fuori, ma modulato meglio, in un prossimo passaggio parlamentare. Si ragiona su un compromesso, insomma, che non faccia perdere la faccia a nessuno, e che non metta in pericolo il governo. “Ho forte l’impressione che l’emendamento sulla prescrizione sia stato un cazzotto che i grillini volevano dare ai leghisti. Ma l’hanno dato agli italiani”, sostiene intanto Enrico Costa, Forza Italia. Di sicuro, questa storia ha prodotto una brutta frattura tra Guardasigilli e mondo dell’avvocatura. Nella foga, Bonafede si era scagliato contro gli “azzeccagarbugli” e i penalisti si sono offesi. Diversi di loro hanno chiamato i loro contatti nel M5S. E ieri Bonafede è corso ai ripari con una telefonata di scuse al presidente delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza (oggi sarà alla Camera a parlare delle proprie ragioni con Fi), che ringrazia, ma non deflette. E Andrea Orlando, ex ministro, gli dà pienamente ragione: “Il diritto alla difesa - dice - è uno dei cardini su cui si regge lo stato di diritto. I regimi autoritari si sono sempre incaricati di comprimerlo o eliminarlo. Definire gli avvocati preoccupati degli “azzeccagarbugli” è sbagliato e preoccupante”. Bonafede: “Sulla prescrizione non si arretra. Anticorruzione? La Lega ha copiato Forza Italia” di Dino Martirano Corriere della Sera, 5 novembre 2018 Il ministro del M5S interviene nella disputa con il Carroccio sulla giustizia. “Se arriveranno proposte di annacquamento, sulla prescrizione non arretreremo di un millimetro”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5S) tiene il punto davanti all’altolà lanciato da Matteo Salvini e da Giancarlo Giorgetti. Ma poi, sull’emendamento a sorpresa con cui i grillini intendono congelare la prescrizione processuale dopo il primo grado anche in caso di assoluzione, il Guardasigilli apre a una soluzione concordata con la Lega: “Mi fa molto piacere che Salvini confermi il valore di quello che abbiamo scritto nel contratto di governo. Per questo siamo qui in ascolto se si vuole migliorare il testo”. Ministro, su prescrizione, anticorruzione, decreto sicurezza e legittima difesa si ha l’impressione che tra M5S e Lega sia iniziata la stagione dei veti incrociati. “Non c’è alcun veto incrociato all’interno della maggioranza. Le due forze di governo, ognuna con la sua storia, fin qui hanno saputo fare sintesi. Noi lo abbiamo dimostrato con due provvedimenti spinti in particolare dalla Lega: la legittima difesa e il rito abbreviato interdetto per i reati più gravi. E per andare avanti su questi temi non ho certo atteso gli sviluppi del ddl anticorruzione cui teniamo molto”. Per Salvini la riforma della prescrizione si deve fare ma certo non ricorrendo, come propone il M5S, a un emendamento agganciato in corsa al treno dell’anticorruzione. Quale sarà il parere del governo sull’emendamento dei relatori grillini Forciniti e Businarolo? “È evidente che quell’emendamento apre un confronto all’interno della maggioranza. Ragioniamo pure su un miglioramento del testo ma non ci sono dubbi sul fatto che il Paese non può più aspettare. La prescrizione esiste in mezzo mondo ma quando vado all’estero a spiegare che in Italia c’è un’isola di impunità tutti rimangono increduli. Salvini comunque dimostra di avere a cuore il contratto di governo”. Perché l’emendamento sulla prescrizione è arrivato solo ora? “Ho aspettato perché mancavano gli investimenti che sono arrivati, nella misura di 500 milioni, con la manovra. Con più risorse, in termini di magistrati e personale amministrativo, i processi saranno più veloci”. Perché lo avete fatto presentare ai relatori, entrambi grillini? “È stata un’iniziativa parlamentare che condivido appieno”. Il sottosegretario Giancarlo Giorgetti afferma che nel contratto di governo non c’è “questa” prescrizione. Non avrete esagerato con il congelamento della prescrizione dopo il primo grado anche in caso di assoluzione? “No, la soluzione è quella giusta. La persona assolta e quella condannata dopo il primo grado sono comunque due presunti innocenti. E la mia priorità, grazie anche alle risorse in arrivo, è la celerità del processo. In Italia, per anni, si sono confusi la velocità del processo e la prescrizione e ora dobbiamo intervenire su quest’ultima: penso al processo per la strage di Viareggio che pur andando avanti fin qui velocissimo, anche tre udienze a settimana tenute a Lucca, ha determinato dopo il primo grado una situazione in cui due reati sono già prescritti. Chi è contro questa riforma vada a spiegarlo a Marco Piagentini che ha perso tre familiari nella strage”. Come giudica gli emendamenti della Lega sul disegno di legge anticorruzione che porterebbero, se approvati, alla cancellazione di 8 articoli su 11 del testo che poi è il vostro cavallo di battaglia? “Sinceramente non comprendo le ragioni di questa valanga di emendamenti presentati dalla Lega. Anche perché il testo è stato ampiamente concordato in consiglio dei Ministri. Devo dire che non ci volevo credere: perché, coprendo le firme dei deputati leghisti, quegli emendamenti sembravano suggeriti da Berlusconi. E infatti, a ben vedere, in quel fascicolo ci sono alcuni emendamenti di Forza Italia che sono la fotocopia di quelli della Lega”. Il deputato Igor Iezzi, vicino a Salvini, propone più controlli sui bilanci dei movimenti e delle piattaforme informatiche. È fuoco amico sul M5S e Rousseau? “Non entro nello specifico. Possono posizionare l’asticella della trasparenza dove vogliono ma noi del M5S su questo terreno non temiamo nulla”. È da ritenersi blindato il testo sulla legittima difesa approvato dal Senato? “Non voglio fare un’invasione nel campo parlamentare. Posso dire che quello è un ottimo testo perché toglie molte zone d’ombra”. Ministro, è pentito di aver chiamato “azzeccacarbugli” i suoi colleghi avvocati? “Sono dispiaciuto e non volevo offendere, come ho precisato in una nota ufficiale. Ma anche gli avvocati hanno potuto verificare in questi 5 mesi che le porte del ministero sono sempre aperte”. Sulla giustizia si tradisce la Costituzione di Rosaria Manconi* La Nuova Sardegna, 5 novembre 2018 Gli avvocati possono e devono opporsi a ogni tentativo di compressione dei diritti, di arretramento culturale e alla deriva autoritaria. Abbiamo coltivato una mera illusione nel pensare che il programma di Governo in materia di Giustizia non sarebbe mai stato attuato. Non così presto. Non certo con l’avallo di alcune delle “opposizioni” politiche. Ci siamo, evidentemente, anche sbagliati quando ci siamo detti che dovevamo “lasciarli fare”, perché tanto questo clima da perenne campagna elettorale e di strumentalizzazione dei sentimenti di paura e dei bisogni di sicurezza diffusi non sarebbe durato. E così siamo stati spettatori di una lenta, inesorabile, erosione dei diritti pacificamente acquisiti al nostro ordinamento dopo anni di dure battaglie da parte dell’avvocatura e di parte della società civile. Dopo l’affossamento della riforma penitenziaria, dopo il Pacchetto Sicurezza, con la prevista sperimentazione, da parte delle forze dell’ordine, del Taser, discutibile strumento di “dissuasione” a impulsi elettrici, ora è il momento della modifica della legittima difesa, che ora si appresta a ricevere il via libera dalla Camera. Secondo la nuova formulazione dell’art. 52 non sarà più necessario che il ladro abbia un’arma in mano, ma sarà sufficiente la sola minaccia di utilizzare un’arma e neppure che la minaccia sia espressamente rivolta alla persona. Quanto invece all’eccesso colposo si vuole escludere la punibilità di chi si è difeso in “stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Il provvedimento introduce una vera e propria presunzione di difesa legittima in caso di pericolo in atto e in presenza di un “grave turbamento psichico”. La legge è volutamente ambigua perché vuol fare credere al cittadino che la non punibilità o l’assoluzione siano automatiche e che possa essere esclusa l’indagine penale e la valutazione processuale circa necessità e proporzione o meno, del “grave turbamento”. Così non è. Né potrebbe essere in un ordinamento giuridico che si fonda sul principio di legalità secondo il quale l’interpretazione e applicazione delle norme è riservata a giudici imparziali e non al potere politico. Il rischio è quello di una giustizia “fai da te” in cui tutti possano pensare di difendersi uccidendo, a prescindere che il pericolo sia reale o solo erroneamente percepito. Ma non è finita qui. Nell’agenda del Governo sono previsti ancora: l’abolizione del divieto di reformatio in peius, la limitazione dei gradi del giudizio, il rafforzamento delle intercettazioni, l’introduzione di nuove norme anticorruzione e la figura dell’agente provocatore, la riforma del rito abbreviato e quella della prescrizione, l’aggravamento delle pene per talune tipologie di reato, l’abbassamento dell’età imputabile. E, in diverso ambito, la riforma del diritto di famiglia e l’abolizione della Legge 194 sull’aborto. Tutti provvedimenti che tradiscono i principi fondanti della Costituzione e che riportano le lancette della storia al medioevo. Indispensabile, quindi, far comprendere al cittadino che la legge penale e la pena vengono brandite da questo governo come vessilli della lotta ai nemici del popolo, identificati, secondo le ideologie populiste del momento, negli stranieri, negli immigrati, nei “diversi”, negli ultimi. Eccezionale è l’emergenza. Ed eccezionale dovrà essere la risposta degli avvocati che possono e devono opporsi a ogni tentativo di compressione dei diritti, di arretramento culturale. La deriva autoritaria a cui si assiste, deve richiamare gli avvocati alla consapevolezza del loro ruolo di garanti del diritto. È il momento di volgere lo sguardo al presente per opporsi a quello che appare essere un progetto politico/giudiziario scellerato, col quale la miglior risposta alla crisi sociale sembra potersi dare solo con l’inasprimento delle pene, l’introduzione di ulteriori misure preventive e accessorie, l’abrogazione dei benefici premiali, l’abbassamento dell’età imputabile, l’irragionevole durata del processo per effetto di una sospensione sine die della prescrizione, la costruzione di nuove carceri, l’esaltazione delle funzione punitiva della pena. Perché, come la storia recente dimostra, nessun diritto può dirsi conquistato una volta per sempre. *Presidente della Camera Penale di Oristano Reati edilizi: operatività della messa alla prova con la demolizione dell’abuso di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2018 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 18 ottobre 2018 n. 47456. L’operatività della messa alla prova nei reati edilizi, formalmente ricompresi nella cornice edittale che consente l’applicazione dell’istituto, richiede la necessaria eliminazione delle conseguenze dannose dei reati in questione, ovvero la preventiva e spontanea demolizione dell’abuso edilizio, o, comunque, la sua riconduzione alla legalità urbanistica, ove ricorrano i presupposti per la sanatoria. Lo chiariscono i giudici penali della Cassazione con la sentenza 18 ottobre 2018 n. 47456. In tema di ammissione alla messa alla prova per reato edilizio, le condotte di demolizione dell’abuso o di regolarizzazione dello stesso sono, ha osservato la Corte, pregiudiziali (in senso logico, ma non necessariamente cronologico) rispetto all’affidamento dell’imputato in prova al servizio sociale e alla verifica del suo positivo esito e impongono, pertanto, al giudice di operare un corretto controllo, anche mediante le opportune e necessarie verifiche istruttorie, sul puntuale e integrale raggiungimento dell’obiettivo dell’eliminazione delle conseguenze del reato edilizio, non potendosi ammettere che venga dichiarata l’estinzione del reato, per compiuta e positiva probation, in presenza di un abuso non completamente demolito o non integralmente sanato, ricorrendone le condizioni, sul piano urbanistico. Da ciò consegue, prosegue il ragionamento della Cassazione, che non si pone il problema se la sentenza che definisce il procedimento di messa alla prova debba o no contenere l’ordine di demolizione delle opere di cui all’articolo 31, comma 9, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001: ciò perché tale ordine giudiziale non ha ragion d’essere, una volta accertata l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Nella specie, peraltro, il giudice aveva dichiarato estinto il reato edilizio a seguito di esito positivo del periodo di messa alla prova, senza verificare l’avvenuta effettiva demolizione delle opere abusive. La Corte, ha, sul punto, condiviso la doglianza del pubblico ministero, ma ha dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta, sul rilievo della sua intempestività. Il pubblico ministero, infatti, avrebbe dovuto ricorrere per cassazione, ex articolo 464-quater, comma 7, del codice di procedura penale, avverso l’ordinanza con cui il giudice, a fronte della richiesta dell’imputato, l’aveva accolta sospendendo il procedimento: in quella sede il pubblico ministero avrebbe dovuto far valere che la decisione era stata adottata senza l’adeguata verifica dei presupposti di legge. È “atto sessuale” anche il bacio sulla bocca che si limita al semplice contatto delle labbra di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2018 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 2 ottobre 2018 n. 43553. Ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale, va qualificato come “atto sessuale” anche il bacio sulla bocca che sia limitato al semplice contatto delle labbra, potendosi detta connotazione escludere solo in presenza di particolari contesti sociali, culturali o familiari nei quali l’atto risulti privo di valenza erotica, come, ad esempio, nel caso del bacio sulla bocca scambiato, nella tradizione russa, come segno di saluto. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 43553 del 2 ottobre scorso. “Atti sessuali” penalmente rilevanti - Nella specie, è stato ravvisato il tentativo, sul rilievo che la condotta dell’imputato era dimostrato essere stata diretta in modo non equivoco a baciare la vittima sulla bocca, contro la volontà di costei, ma l’intento non era stato perseguito per la reazione di quest’ultima. Secondo il ragionamento della Cassazione, per “atti sessuali” vanno intesi tutti quegli atti che coinvolgono zone del corpo che, in base alla scienza medica, psicologica e antropologica, sono considerate erogene, ovvero tali da dimostrare l’istinto sessuale. Pertanto, anche il bacio sulla bocca rientra in tale nozione, costituendo una delle principali manifestazioni dell’istinto sessuale, a nulla rilevando che, per le particolari condizioni in cui sia dato o scambiato, si riveli inidoneo a eccitare l’istinto sessuale. La decisione aderisce a quell’orientamento interpretativo, ampiamente consolidato, in forza del quale rientrano nella nozione di “atto sessuale” tutti gli atti, anche diversi dalla congiunzione carnale, che coinvolgono comunque la “corporeità sessuale” del soggetto passivo. Trattasi di quell’orientamento secondo cui, in materia di reati sessuali, con l’articolo 609-bis del codice penale,come introdotto dalla legge 15 febbraio 1996 n. 66, si è abolita la distinzione tra la “congiunzione carnale” e gli altri “atti di libidine”, unificandosi le due nozioni in quella più generale di “atti sessuali”, soprattutto per evitare alla vittima le invasive indagini processuali (già) necessarie per accertare la sussistenza del reato di cui all’articolo 519 del codice penale(violenza carnale) o di quello previsto dall’articolo 521 del codice penale(atti di libidine violenti), ma anche nella convinzione che la lesione della libertà sessuale ha una gravità intrinseca che prescinde dal grado di intrusione corporale subito dalla vittima. Cosicché, in questa prospettiva ermeneutica, il concetto di “atti sessuali”, penalmente rilevante ex articolo 609-bis del codice penale, finisce con il ricomprendere tutti quelli che coinvolgono comunque la “corporeità sessuale” del soggetto passivo, anche se non sostanziantisi nella congiunzione carnale e, addirittura, anche se non si risolvono in un “contatto corporeo” tra il soggetto attivo e quello passivo (cfr., tra le altre, sezione feriale, 22 agosto 2006, T., secondo la quale, appunto, il concetto di “atti sessuali” comprende tutti quegli atti che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo, con invasione della sfera sessuale dello stesso, mediante un, sia pure superficiale, rapporto corpore-corpori, non necessariamente limitato agli organi genitali stricto sensu, ma che può riguardare anche quelle altre parti anatomiche, ed “erogene”, che, normalmente e notoriamente, possono essere oggetto di concupiscenza sessuale: nella specie, si trattava di “toccamenti nelle zone genitali, del seno e baci in bocca”). Ne deriva che rientra tra gli atti sessuali vietati (come nella fattispecie in esame) il bacio, se costituente manifestazione erotica e libidinosa (cfr. sezione feriale, 22 agosto 2006, T.; in precedenza, sezione III, 27 aprile 1998, D. F.): al bacio, semmai, non va attribuita valenza di “atto sessuale” solo in presenza di particolari contesti sociali, culturali o familiari nei quali l’atto risulti privo di valenza erotica, come, ad esempio, nel caso del bacio sulla bocca scambiato, nella tradizione russa, come segno di saluto (sezione III, 13 febbraio 2007, G.). Parimenti, sono ricompresi nella nozione de qua anche i toccamenti e i palpeggiamenti in zone definibili come “erogene”, pur se diverse da quelle genitali in senso stretto (ad esempio, i glutei, le cosce o il seno della vittima), dove, del resto, oltre al coinvolgimento della “corporeità fisica” della vittima, vi è un contatto fisico tra questa e l’agente (cfr. sezione feriale, 22 agosto 2006, T.; nonché, sezione III, 2 luglio 2004, A.). Ancora, volendo ulteriormente esemplificare, vi rientrano anche gli atti di autoerotismo che il soggetto attivo abbia costretto la vittima a compiere su di sé, o su altri soggetti diversi dallo stesso soggetto attivo, da considerare anch’essi soggetti passivi, perché coinvolgono la “corporeità” della o delle vittime (cfr. sezione III, 12 febbraio 2004, M., che, pertanto, ha ravvisato il reato nella condotta dell’imputato il quale, facendo uso del telefono, abusando delle condizioni di inferiorità psichica di alcuni bambini di giovanissima età, li aveva indotti a compiere atti di autoerotismo su se stessi). Occupazioni abusive: configurabilità e natura del reato di invasione di terreni o edifici Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2018 Reati contro il patrimonio - Mediante violenza alle cose o alle persone - Invasione di terreni o edifici - Configurabilità del reato - Possesso o detenzione dell’immobile - Esclusione del reato. La condotta tipica del reato di invasione di terreni o edifici consiste nell’introduzione dall’esterno in un fondo o in un immobile altrui di cui non si abbia il possesso o la detenzione: la norma di cui all’art. 633 cod. pen., infatti, non è posta a tutela di un diritto ma di una situazione di fatto tra il soggetto e la cosa, per cui tutte le volte in cui il soggetto sia entrato legittimamente in possesso del bene deve escludersi la sussistenza del reato. (Nella specie è stata esclusa la sussistenza del reato di invasione di edifici in quanto il ricorrente era subentrato nell’appartamento di proprietà di un Ente pubblico dietro autorizzazione del precedente legittimo detentore, legato a lui da vincolo di affinità, non rilevando sotto il profilo penalistico il possesso o meno delle condizioni richieste per l’assegnazione, circostanza rilevante ai fini amministrativi o civilistici). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 22 ottobre 2018 n. 48050. Delitti contro il patrimonio - Invasione di terreni o edifici - Nozione di invasione - Carattere violento - Esclusione - Finalità dell’occupazione - Protratta nel tempo - Reato permanente. Nel reato di invasione di terreni o edifici di cui all’articolo 633 cod. pen. la nozione di “invasione” non si riferisce all’aspetto violento della condotta, che può anche mancare, ma al comportamento di colui che si introduce “arbitrariamente” e cioè contra ius, in quanto privo del diritto d’accesso. La conseguente “occupazione” deve ritenersi pertanto l’estrinsecazione materiale della condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in essere l’abusiva invasione. Nel caso in cui l’occupazione si protragga nel tempo il delitto assume natura permanente, e cessa soltanto con l’allontanamento del soggetto dall’edificio o con la sentenza di condanna. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 8 maggio 2018 n. 20132. Reati contro il patrimonio - Delitti - Invasione di terreni o edifici - In genere - Momento consumativo - Individuazione - Inizio dell’occupazione - Ragione - Natura di reato istantaneo con effetti permanenti - Fattispecie. Il reato di invasione di terreni o edifici di cui all’art. 633 cod. pen. si consuma nel momento in cui l’occupazione ha inizio, in quanto trattasi di reato istantaneo, pur con effetti permanenti, che deduce ad oggetto della sanzione la condotta di chi, abusivamente, con violenza e senza l’autorizzazione del titolare, invade edifici o terreni al fine di occuparli, senza aver riguardo anche alla condotta successiva di protrazione dell’occupazione. (Nella specie, concernente l’occupazione di un’area demaniale mediante inerti, contestata in relazione a un periodo successivo a quello per il quale era già intervenuto giudicato di condanna per il medesimo titolo, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza impugnata sul presupposto che, onde escludere la preclusione del “ne bis in idem”, dovesse accertarsi se vi fosse stata una nuova occupazione con immissione di altro materiale). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 17 febbraio 2017 n. 7911. Reati contro il patrimonio - Delitti - Invasione di terreni o edifici - In genere - Condotta - Caratteri - Individuazione - Modalità esecutive violente - Necessità - Esclusione - Fattispecie. Ai fini della configurabilità del reato di invasione di terreni o edifici, la nozione di “invasione” non richiede modalità esecutive violente, che possono anche mancare, ma si riferisce al comportamento arbitrario, tipico di chi si introduce nell’altrui proprietà “contra ius”, in quanto privo del diritto di accesso. (Nella fattispecie la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione che aveva configurato il reato di cui all’art. 633 cod. pen. nell’ipotesi di occupazione di un alloggio di proprietà dello Iacp da parte di soggetto non assegnatario dell’alloggio, evidenziando come non avesse alcun rilievo il mancato accertamento dell’azione di spoglio violento in danno dell’avente diritto). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 14 dicembre 2016 n. 53005. Reati contro il patrimonio - Delitti - Invasione di terreni o edifici - In genere - Querela - Proposizione - Termine. È da ritenersi tempestiva la querela per il reato di invasione di terreni che sia stata proposta durante il periodo in cui si è protratta l’occupazione, dal momento che il reato permanente è flagrante per tutto il tempo in cui se ne protrae la consumazione. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 23 novembre 2010 n. 41401. Velletri: detenuto 33enne suicida in cella di isolamento Il Messaggero, 5 novembre 2018 Due morti in un giorno nel carcere di Velletri. La denuncia è del Sindacato Ugl Polizia Penitenziaria. Dopo il decesso del detenuto Italiano 50 enne, originario di Napoli, morto nella notte tra sabato 3 e domenica 4 del mese di novembre 2018 per un malore. Nella serata di ieri un altro giovane detenuto Italiano si è tolto la vita impiccandosi con una corda (ricavata dai lenzuoli) legata alle sbarre della finestra della propria cella. Tempestivi sono stati i soccorsi dei sanitari del Penitenziario, che hanno immediatamente messo in atto ogni mezzo di rianimazione per cercare di salvargli la vita, ma purtroppo per il 33enne è stato inutile, il detenuto è deceduto quasi sul colpo. A darne notizia è il sindacalista dell’ Ugl Polizia Penitenziaria Carmine Olanda, coordinatore regionale del sindacato, che pochi giorni fa aveva denunciato alcuni disordini creati da un detenuto tunisino che per motivi insensati ha prima distrutto la propria cella per poi procurarsi numerosi tagli su tutto il corpo con una lametta da barba. E il decesso di un altro detenuto 50 enne Italiano, morto a causa di un malore ieri. “Il giovane detenuto che ha deciso di togliersi la vita impiccandosi - commenta Olanda - era ristretto nel reparto isolamento da pochi giorni perché in attesa di posto in altra sanzione detentiva. Dal primo momento del suo ingresso nel penitenziario ha sempre mostrato avere un comportamento arrogante e poco collaborativo. Non si conoscono le ragioni del brutto gesto messo in atto che gli ha costato la vita. Sono giunti sul posto il magistrato di sorveglianza, il comandante e il direttore per gli accertamenti del caso. Negli ultimi tempi, i casi di aggressione e di autolesionismo sono aumentati in tutti i Penitenziari. La Polizia Penitenziaria sta arrivando al capolinea, la carenza cronica di personale legata ad ogni figura professionale, sta cominciando a farsi sentire. È giunta l’ora che le Istituzioni - continua Olanda - devono dirci cosa devono essere le carceri oggi, se un Istituto di pena, un ospedale a lunga degenza o l’anarchia totale. Se la Polizia Penitenziaria deve indossare una divisa oppure un camice bianco per fare anche da infermieri, medici e psichiatri . Siamo stanchi - conclude il sindacalista - il poliziotto della penitenziaria deve essere tale, non può essere visto dai detenuti come un semplice operatore. Continueremo a denunciare tutte le ingiustizie e soprattutto vigileremo sulla prossima apertura del nuovo Repartino Psichiatrico presso il carcere, che dovrebbe ospitare alcuni detenuti con varie patologie di natura Psichiatrica, che andranno ad aggravare certe situazioni pregresse, a cui anche la Asl Roma 6 non ha mai prestato ascolto, non mandando personale specializzato a sufficienza e h24. Vigileremo, al fine di evitare che questa tipologia di detenuti vengono lasciati alla sola gestione della Polizia Penitenziaria, - che presumibilmente pensiamo che avvenga ogni giorno dopo le ore 14, quando il medico Psichiatra e l’ infermiere addetti al Reparto, mettono fine al proprio turno di servizio e di conseguenza lasciare i detenuti alle cure del solo medico di guardia di turno. Occorrono provvedimenti immediati, prima che le carceri - diventati oramai delle vere polveriere - esplodano improvvisamente, per questo abbiamo più volte scritto al ministro evidenziando le problematiche e chiedendo l’invio di forze nuove”. Frosinone: due morti sospette in carcere, l’ipotesi del pm è che si tratti di omicidi ciociariaoggi.it, 5 novembre 2018 Chiusi gli accertamenti sui decessi sospetti avvenuti nel carcere di Frosinone. Indagato è Daniele Cestra, condannato in via definitiva per il delitto di un’anziana. Due morti avvenute nel carcere di Frosinone che sono apparse sospette alla Procura. Ora il pubblico ministero Vittorio Misiti ha concluso le indagini preliminari ipotizzando il reato di omicidio. Indagato è Daniele Cestra, di Sabaudia. L’attività investigativa si è concentrata su due morti ritenute sospette: l’ipotesi del suicidio o del decesso naturale non ha convinto la Procura. La prima vittima è Pietro Paolo Bassi, trovato senza vita in cella nel marzo del 2015, mentre la seconda è Giuseppe Mari, morto nell’agosto del 2016. Secondo la Procura, sarebbero stati uccisi da Daniele Cestra, all’epoca loro compagno di cella. A difendere l’indagato, gli avvocati Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone. All’ipotesi dell’omicidio, il sostituto procuratore Vittorio Misiti è arrivato anche a seguito delle perizie medico-legali eseguite dalla dottoressa Daniela Lucidi. Per quanto riguarda il decesso di Giuseppe Mari di Sgurgola, la Procura ritiene che siano stati utilizzati “mezzi soffici” (lenzuolo o un altro indumento) per esercitare la compressione del collo e l’ostruzione delle vie respiratorie per evitare che urlasse. Oltre a ciò, si ipotizza anche l’utilizzo di corpi contundenti naturali. Il medico legale ha infatti riscontrato, tra le altre cose, la frattura dell’osso ioide e la rottura del timpano. Per quanto riguarda Pietro Paolo Bassi, invece, sarebbe stato immobilizzato (riscontrata la sub-lussazione di due vertebre) e successivamente sarebbe stato impiccato. A finire sott’indagine, Daniele Cestra, che sta scontando una pena definitiva per l’omicidio, avvenuto nel 2013 a Borgo Montenero (San Felice Circeo), dell’ottantenne Anna Vastola, alla quale furono sottratti pochi spicci, una vecchia pistola e una fisarmonica. Cestra dopo il fermo, difeso da un avvocato d’ufficio, ha confessato il delitto. Dopo una condanna a 30 anni in primo grado, assistito poi dagli avvocati di fiducia Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone, è stato condannato a 18 anni in Appello. Sentenza confermata in Cassazione. Rovigo: il “Movimento No Prison” in un manifesto di Sofia Teresa Bisi Il Gazzettino, 5 novembre 2018 Iniziativa a Venezia con l’assemblea del 9 e 10 novembre. Per un movimento No Prison è un’iniziativa assembleare sul tema dell’abolizione del carcere che si terrà a Venezia venerdì 9 novembre (orario 15 19.30) e 10 novembre (9 13) all’Istituto Canossiano di San Trovaso, organizzato da una serie di associazioni con il contributo della Camera Penale Veneziana. L’evento prende origine dal manifesto No Prison, scritto da Livio Ferrari e Massimo Pavarini, con l’obiettivo abbattere i muri di luoghi che producono dolore e morte nei confronti di donne e uomini che vi sono rinchiusi. È un manifesto di venti punti, scritti nella convinzione che le carceri vadano chiuse, riducendo al minimo il numero di coloro che, in casi di reale pericolosità, vanno contenuti in luoghi di non libertà. Gli autori del manifesto sostengono che il carcere come sanzione ha dimostrato il fallimento delle sue finalità fondative, riducendosi, in massima parte, a mero strumento di contenimento di masse di soggetti precarizzati e disagiati, nonché a pretesto di retoriche di allarme sociale, strumentali a politiche di controllo e di organizzazione del consenso. Troppi interessi, purtroppo, tengono in piedi questo carrozzone della cattiveria umana, mentre è fondamentale far soffiare il vento della pace anche dentro ai fallimenti e agli errori delle persone, per produrre interventi che ripuliscano la storia degli esseri umani da secoli di odio e di sottomissione. No Prison desidera diventare un punto di partenza per azioni socialmente riconcilianti verso un universo umano che crea e subisce dolore, per affermare il principio del cambiamento, della compensazione dei danni e della ricostruzione dei legami sociali, per promuovere una società che parli la lingua della pace. L’iniziativa è accreditata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia, con due crediti formativi per la sessione di venerdì. Per informazioni info@noprison.eu, 0425200009. Torino: chiuso da due anni, riapre il bar del Tribunale, al lavoro anche dei detenuti di Massimiliano Nerozzi Corriere della Sera, 5 novembre 2018 Nel progetto saranno impiegati i laboratori della Casa circondariale per fare il pane. Riapre domattina il bar del palazzo di giustizia, dopo una pausa (dai caffè) durata oltre due anni. Già fallito una volta, il locale era tornato in funzione il primo dicembre 2015 per meno di sette mesi, costretto alla chiusura per il mancato pagamento dell’affitto e un’inchiesta della Procura: tra arresti e le accuse (all’epoca) di corruzione, turbativa d’asta e truffa aggravata ai danni del Comune, proprietario degli spazi. Sarà pure per questo - le solite aste al ribasso - che stavolta, oltre che alla contabilità si è pensato all’utilità, del bar e dei suoi posti di lavoro: lo gestiranno infatti le cooperative sociali “Libera mensa” (di “Abele Lavoro”) e “Pausa caffè” (come partner), con nove dipendenti e dieci tra detenuti ed ex detenuti. Tutto nell’ambito di un progetto reso possibile dalla collaborazione di Comune, amministrazione penitenziaria, tribunale e Compagnia di San Paolo. Caffè e pizze gourmet - Per le centinaia di persone che ogni giorno frequentano uffici e aule, ci sarà un servizio di caffetteria e ristoro, per il pranzo: 350 metri quadrati per i clienti, altri 150 di servizio. L’ambizione è quella di puntare comunque a fornire prodotti di qualità: dalle diverse varietà di miscele di caffè, che si potranno provare in un apposito angolo degustazione, alle pizze gourmet, passando per la pasticceria. Con l’utilizzo di farine biologiche e lievito madre. I detenuti coinvolti nel piano non saranno solo quelli al bar, ma pure altri occupati nella preparazione dei prodotti, quella che avviene ormai da anni. Panetteria e caffè, per esempio, arriveranno dai laboratori della casa circondariale “Lorusso e Cutugno”, alle Vallette; la birra sarà fornita dal penitenziario di Saluzzo. La scorsa settimana, fino a ieri, sono stati messi a punto gli ultimi dettagli, con i presidenti delle due cooperative, Piero Parente (“Libera Mensa”) e Marco Ferrero (“Pausa Caffè”). Tirava l’aria entusiasta che sempre c’è all’inizio di ogni avventura, e pure di più, per la complessità della sfida: “Conciliare la qualità e l’eccellenza di un percorso, alimentare, con un progetto di inclusione, sociale”. Una bella metafora sull’intenzione di cambiare vita. Al lavoro anche detenuti - Banalizzando: fare le cose il meglio possibile, conviene. Del resto, se in Italia la recidiva per chi è già stato in carcere può toccare il 70 per cento, nelle persone che riescono a inserirsi nella società e nel mondo del lavoro, la ripresa criminale scende al 15-20 per cento. Insomma, una salutare lucidata al terzo comma dell’ articolo 27 della Costituzione - “le pene... devono tendere alla rieducazione del condannato” - visto che i detenuti che qui lavoreranno stanno scontando condanne definitive. Proprio per discutere su questo e altri temi, nei locali del bar ci saranno 60 metri quadrati riservati al garante comunale per i detenuti, Monica Cristina Gallo. In fondo, il bando per l’aggiudicazione del servizio, aveva incluso tra i requisiti il lavorare con detenuti ed ex, per un loro reinserimento nella società. Con un occhio di riguardo, dunque, ai temi della sicurezza e della legalità. Il bando - Il bando del 2015 fu invece un disastro, per come sono poi andate le cose. Non finite: tra una settimana, sempre di lunedì, davanti al giudice Stefano Sala, è infatti in calendario l’udienza preliminare per l’inchiesta sulla gestione precedente. Otto imputati - difesi tra gli altri dagli avvocati Flavio Campagna e Giampaolo Zancan - accusati a vario titolo dell’asta “truccata”. Indagine con diversi colpi di scena, compreso un ricorso in Cassazione da parte di un imputato, con richiesta “di rimessione” del procedimento. Ovvero, spostarlo in altra sede. Motivo: “la serenità del palazzo di giustizia appare minata anche dalla circostanza che la decadenza della società ha creato disagi, avendo determinato il venire meno dell’unico punto di somministrazione di cibi e bevande presenti nella struttura. Con evidenti ripercussioni, in termini di aggravio sulle attività dirigenziali degli uffici”. Insomma, giudici e pubblici ministeri non sarebbero stati troppo sereni nei confronti degli imputati perché sono stati privati del caffè per un paio d’anni. Nel dubbio, con un’ordinanza di due paginette, la corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile la richiesta, per errore nelle notifiche alle parti. Sul merito, non s’è ovviamente pronunciata. E chissà cosa avrebbe scritto: del resto, doversi fare mezzo chilometro e passare reticolati di metal detector per farsi una birra e un panino, era una discreta seccatura. E lì, guai, a decidere di pancia. Migranti. Lampedusa, l’accoglienza invisibile. “Ora accusateci di favoreggiamento” di Nello Scavo Avvenire, 5 novembre 2018 Tra i pescatori e gli abitanti che aiutano i profughi, in silenzio. Sono “i carbonari della solidarietà” che continuano, nonostante tutto, a fare del bene. Mentre prepara dodici grossi panini al tonno, Mauro si ferma un istante per concedersi alla spavalderia: “Dovrebbero deportarci tutti per favoreggiamento dell’immigrazione illegale”. Ma a Lampedusa chiunque indossi una divisa sa di dover chiudere un occhio. Perché di questi tempi perfino portarsi in casa e sfamare un ragazzo che parla arabo è da “carbonari della solidarietà”. Figurarsi dodici. L’isola ribelle ha coniato negli anni un suo codice di sopravvivenza alle lunatiche imposizioni dall’alto. Il bene, qui, è anche questione d’innata astuzia. “Come si dice: non sappia la destra ciò che fa la sinistra”, ricomincia Mauro che davanti alla chiesa di San Gerlando incontra come ogni sera i migranti tunisini che, sempre grazie a chi chiude un occhio, da un buco nella recinzione escono dal centro di prima accoglienza in collina per raggiungere l’abitato che affaccia sul porto. Vi rientreranno a tarda sera, dopo quattro chiacchiere con i nuovi amici lampedusani e una sessione di collegamento a internet messo a disposizione dai benefattori del wi-fi libero. A Lampedusa hanno le ronde, ma non le chiamano così. Anche perché sono ronde solidali, armate di sandwich e motorini. C’è anche una rete informale (e in teoria illegale) per la sussistenza dei migranti che sbarcano. Il reato, nel caso, sarebbe quello di “favoreggiamento”. Ma se uno straniero deve far sapere ai suoi che sta bene, a Lampedusa c’è sempre una casa, un telefono, una connessione alla rete da mettere a disposizione dell’ultimo arrivato. “Siamo mamme anche noi, a me “uscirebbero i sensi”, diventerei pazza senza notizie di mio figlio”, dice Giusi mentre acquista una ricarica al cellulare che senza troppe domande presta ai ragazzini sbarcati: “Salvini? Venisse a controllarmi il telefono”. Festival, manifestazioni, cortei, non sono che la parte visibile di quello che ogni giorno e ogni notte accade senza clamore. “Se porto un migrante a casa per fargli fare una doccia e per dargli da mangiare, non è che lo devo raccontare a tutti - continua Mauro, mentre accende il vecchio scooter sverniciato dalla salsedine -. A me basta sapere che sono stati registrati dalle autorità dopo lo sbarco. E poi cosa facciamo di male?”. Ci sono regole, da queste parti, che restano immutabili. Norme che puoi leggere nelle rughe di Gerlando, il pescatore del porto vecchio, il quale non si rassegna a chi quei comandamenti vorrebbe cancellarli spazzando via una cultura millenaria. “Siamo arrivati al punto - dice - che se li aiuti in mare indicando loro la rotta verso Lampedusa, rischi di finire con le manette”. Ma a dodici miglia dall’isola “con quale coraggio gli posso dire di tornarsene indietro e rifarsi duecento chilometri magari con le onde di due metri e il carburante che scarseggia? Forse a Roma c’è qualcuno che dovrebbe capire che noi pescatori siamo. Pescatori, non assassini”. Gerlando è arrabbiato perché tre settimane fa ha visto portare via verso il carcere d’Agrigento sei pescatori tunisini. Sbattuti in galera e poi scarcerati solo per avere trainato un barcone di migranti partito dalla Libia e avvistato a poche miglia dalle acque italiane. S’è scoperto che non solo il peschereccio aveva avvertito le autorità, ma che senza di loro chissà che fine avrebbero fatto i migranti che s’erano persi in mezzo al nulla. E poi, aveva aggiunto il giudice che ha bocciato l’ordine di fermo, “la Libia non è un porto sicuro”. Come dire che spingere i disgraziati a ritornare sulle coste tripoline equivale a un crimine contro l’umanità. “E noi, umili e semplici pescatori lampedusani, ci dovremmo sporcare le mani - si lamenta Gerlando - perché quelli di Roma, che di noialtri se ne fregano quando abbiamo bisogno di mettere a posto l’isola, si devono tenere stretti quattro voti”. La catasta di barconi tra il porto e il campo da calcio è l’involontario museo delle traversate. Vecchi pescherecci, modeste lance in vetroresina cotta dal sole, improbabili piroghe a motore. Alcune hanno traghettato vite da una sponda all’altra del Mediterraneo. Altre sono state rinvenute vuote, lasciando per sempre il dubbio sulla sorte dei disgraziati. Appena individuati dai guardacoste, sui vecchi legni vengono riportati con lo spray il giorno del sequestro e la sigla della motovedetta intervenuta. Basta questo per capire che gli sbarchi ci sono ancora. “Ma è meglio che non si sappia”, confida il poliziotto che non si capacita di un fatto: “Prima arrivavano e all’indomani leggevamo la notizia sul giornale. Adesso l’ordine è quello di “non creare allarme sociale”. Lo chiamano così, ma è solo il modo per nascondere la realtà”. Perché se non fosse così, “allora mi devono spiegare - domanda - per quale motivo ci sono più militari a Lampedusa che nel resto d’Italia”. Attraverso le vie del centro e i dammusi dell’entroterra bisogna trascorrere i giorni e le notti camminando tra grossi e inoffensivi cani randagi, e scambiando due chiacchiere con chi fosse di passaggio. Una parola qui, un cenno lì. Per capirsi basta un’occhiata, un’alzata di ciglia, una smorfia. E poi mettere insieme gli episodi, che poi non sono episodi se da anni c’è chi da mangiare ai migranti, chi li ospita in casa per un piatto di pastasciutta, chi li vede approdare sulle spiagge e corre a indicargli la strada, chi gli offre una doccia calda. E vestiti asciutti che profumano di casa. Migranti. In carcere per aver soccorso un barcone, parlano i pescatori tunisini di Paolo Hutter Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2018 Chamseddine Bourassine e i suoi collaboratori sono stati arrestati il 30 agosto ad Agrigento per aver trainato verso Lampedusa un barcone in difficoltà con a bordo 14 persone e rilasciati il 23 settembre: “Chi ha un’avaria in mare va salvato. Il problema è che adesso non ci sono più le navi europee”. Il peschereccio, unico loro mezzo di sostentamento, è ancora sotto sequestro in Italia. “Il nostro arresto, il carcere in Italia sono stati un brutto colpo. Adesso molti pescatori hanno paura a salvare i naufraghi, ma continueremo a farlo. Se vai per mare, se sei un essere umano, non puoi girare la testa dal’altra parte”. Zarzis, sud della Tunisia, città di mare. Patria di pescatori tenaci, noti per le loro associazioni, per le loro battaglie per fare vivere la pesca artigianale nei confronti di quella industriale. Abituati a litigare o a collaborare, da decenni, con i loro omologhi italiani, maltesi, libici. Ma noti anche per una lunga storia di salvataggi di migranti in pericolo in mare, e anche di ripescaggi di cadaveri. Ci ricevono nella loro sede tapezzata di fotografie sulla pesca e su piccoli progetti di cooperazione. Ad attenderci il loro leader storico Chamseddine Bourassine. Gli altri - Salem Lhiba, Lotfi Lhib,a Ammar Zemzemi, Farhat Tarhouni, Bechir Dib - che sono stati arrestati con lui in Italia, il nuovo presidente Salahdinne Mcharek, la segretaria Imen Bouzoumita. Sono cortesi e contenti di ricevere un gruppo di italiani, ma ci fanno anche notare che siamo stati preceduti da giornalisti francesi e tedeschi e Chamseddine non ci nasconde l’impressione che l’Italia in questo momento sia il paese più “razzista”, che ostacola i soccorsi. Non si aspettavano certo di essere arrestati, il 30 agosto, dopo aver accompagnato fino alle acque italiane un barchino rimasto in panne con 14 adolescenti a bordo. Né tantomeno di passare 24 giorni nel carcere di Agrigento, e di essere privati, ancora mentre scriviamo, del loro unico mezzo di sostentamento, il loro peschereccio. I pescatori di Zarzis in generale e Chamseddine Bourassine in particolare hanno una storia in proposito, di cui forse Procura e Gip avrebbero potuto tener conto prima dell’arresto, prima di accusarli di essere scafisti. Il documentario Strange Fish dedicato dall’italiana Giulia Bertoluzzi proprio a loro, stava già uscendo, e vari articoli, in varie lingue erano già stati dedicati alla complessa situazione umanitaria dei pescatori di Zarzis. Complessa perché presa spesso in mezzo tra i naufraghi - o comunque i passeggeri a forte rischio - delle partenze dalla vicina Libia, quelli delle partenze dalla Tunisia, e le esigenze pressanti del loro lavoro. Chamseddine usa talvolta un linguaggio militante, parla di razzisti e fascisti che combattono i migranti, ma è innanzitutto un piccolo imprenditore della pesca che si sente responsabile del lavoro, cioè della vita delle famiglie, del suo equipaggio. E così il discorso si sposta alle volte in cui, per non perdere troppo tempo nei salvataggi, hanno tirato su le reti con ancora i naufraghi a bordo, e poi al valore della barca ancora sotto sequestro della magistratura italiana. Più dei giorni in carcere, pesa l’interruzione per gli ormai oltre due mesi di stop al lavoro. La carcerazione è stata interrotta grazie al gran lavoro degli avvocati Salvatore Cusumano e Giacomo Larussa che hanno convinto il Tribunale del Riesame di Palermo a rovesciare quasi completamente l’impostazione della Procura e del Gip e a scarcerarli. Ora non ci sono più “gravi e univoci indizi di colpevolezza” e i sei pescatori tunisini - attualmente espulsi dall’Italia - potrebbero vedersi archiviati o prosciolti. (Ma per riprendere il peschereccio, di cui dovrebbe essere imminente il dissequestro, devono mandare in Italia un delegato, dato che sono espulsi.) E i 14 ragazzi che hanno salvato? Sono anche loro tunisini della regione di Zarzis. Chi è stato rimpatriato dall’Italia è ripartito di nuovo, pare siano in Francia. Secondo i sei pescatori hanno tra i 14 e i 18 anni, il tribunale dice che solo tre sono minori. “Siamo contrari a questo tipo di emigrazione, e a questi viaggi pericolosissimi su barchini e Zodiac. Da anni siamo impegnati in progetti per cercare di dare nuove occasioni di lavoro ai giovani a Zarzis. Ma la Guardia Costiera fa più fatica a impedire le partenze proprio perché sono piccoli gruppi, piccole barche. Se vedi dieci ragazzi su un gommone li puoi bloccare perché pensi che stanno andando in Italia? Non è cosi facile. E in ogni caso se hanno un’avaria in alto mare li devi salvare. Il problema è che adesso a salvarli ci siamo solo noi, non ci sono più le navi europee”. A Zarzis ci sono altri grandi testimoni ed attori nel dramma dei viaggi proibiti e pericolosi dei migranti. Chemsedine Marzouk, ormai ex pescatore, sta girando la Tunisia e i paesi europei alla ricerca di fondi per il suo “cimitero degli sconosciuti”, un pezzo di spiaggia in cui dice di aver sepolto personalmente 400 cadaveri. Nel quartieri nord della città un altro personaggio ormai noto, Mohsen Lihidheb ci mostra il suo “museo dei relitti e degli oggetti restituiti dal mare”. Nato da una ispirazione ecologica e poetica si sta sempre più caratterizzando sui segni dei naufragi, con scarpe, abiti, oggetti. Moshen è un artista e un poeta, parla dell’empatia irresistibile che lo spinge a inscenare piccole cerimonie con gli abiti delle vittime del mare. Ma ha una mentalità pragmatica: “L’ Europa ha troppa paura di questi giovani, che invece attraversano il mare con delle ambizioni pacifiche semplici. Da una parte bisogna aiutarli a costruire possibilità nel nostro Paese e in quelli africani. Dall’altro alleggerire la politica dei visti, lasciare che vadano a cercare occasioni.” Non solo sicurezza per frenare i migranti, al Sahel servono progetti di Giordano Stabile La Stampa, 5 novembre 2018 L’Europa ha messo in campo una strategia ambiziosa nel Sahel, uomini e investimenti, ma il protagonismo francese e la priorità data al rafforzamento della sicurezza rispetto ai programmi di sviluppo rischiano di renderla poco efficace, “con un impatto limitato sul terreno”. L’ultimo rapporto dell’European Council on Foreign Relations su questa regione strategica, che divide il Maghreb dall’Africa occidentale e centrale, mette in luce i punti deboli di programma che doveva diventare il faro di un politica estera comune, indipendente e autonoma dall’alleato americano. “L’Europa ha puntato a rafforzare le forze di sicurezza di Paesi come il Niger e il Mali - nota Andrew Lebovich, analista dell’Ecfr e autore della ricerca -. Ma ha chiesto poco in cambio, soprattutto per quanto riguarda la certezza del diritto e l’attenzione umanitaria”. Perché è così importante il Sahel per l’Europa? “Abbiamo assistito a un attivismo notevole. L’Alto rappresentante Federica Mogherini si è impegnata molto per delineare una politica incisiva e comune. I cinque Paesi del cosiddetto G5 - Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad - sono un cerniera strategica fra il Sud del mondo, il Maghreb e l’Europa. I punti più importanti per l’Ue sono il terrorismo e l’immigrazione. Impossibile affrontarli senza tenere in conto il Sahel. Ma l’approccio è stato, per così dire, troppo “tecnico”. Si è puntato molto al rafforzamento delle forze di sicurezza, sia per renderle in grado di affrontare i gruppi terroristici jihadisti che per controllare i flussi dei migranti, specie verso la Libia. Ma si è investito poco per affrontare le questioni alla base dell’emigrazione”. Servivano più aiuti economici? “Non è soltanto una questione di soldi. Nei Paesi del Sahel, specie in Niger e Ciad, servirebbe una riforma profonda del sistema giudiziario. Serve la certezza del diritto per i cittadini, un potere meno arbitrario, la possibilità di puntare sulla crescita nel proprio Paese, in sicurezza. L’Europa avrebbe dovuto chiedere di più ai governi locali in termini di riforme in questo senso”. Quanto ha pesato il ruolo della Francia? “Il ruolo predominante della Francia ha destato preoccupazioni negli ambienti diplomatici, specie di area germanica. È chiaro che il passato coloniale pesa, tutti i cinque Paesi hanno fatto parte dell’impero francese fino agli Anni Sessanta. Parigi ha nella regione 4 mila soldati, nella missione anti-terrorismo Barkhane. Ma la Francia non deve rimanere il solo attore nella regione se vogliamo una strategia europea. Parigi ha bisogno dell’Europa, in termini finanziari e di appoggio nell’azione militare, le servono soldati anche di altri Paesi. Non può fare tutto da sola e ne è consapevole”. Lo scontro fra Francia e Italia in Niger rischia di aver conseguenze? “In questo momento mi sembra superato. L’Italia si è mossa, a quanto sembra, senza coordinarsi con il governo francese e questo ha creato un forte contrasto anche con i nigerini, che dipendono in maniera massiccia dalla Francia per le loro forze di sicurezza. È chiaro che Roma ha come priorità rallentare i flussi di migranti dal Niger verso la Libia. Ma bisogna valutare con la massima attenzione le dinamiche locali, per esempio le rivalità fra le tribù, i loro interessi economici”. L’azione dell’Ue nel Sahel riuscirà rimettere sotto controllo i flussi migratori? “Abbiamo già visto una forte riduzione dei flussi. Ma dobbiamo anche chiederci a che prezzo. Puntare solo sul rafforzamento del controllo del territorio, della sicurezza, aumenta i rischi per le popolazioni locali. Dobbiamo porci il problema di che cosa accade a quelli che vorrebbero partire. In che condizioni vivono? Ci sono disastri ambientali, governi repressivi, possibilità di lavoro molto limitate. Non basta sigillare il coperchio della pentola, bisogna agire sul terreno per far diminuire la pressione”. Stati Uniti. Tra i migranti della carovana: “Trump, guardaci, non siamo diavoli” di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 5 novembre 2018 Con i Latinos da giorni in cammino verso il confine con gli Stati Uniti, dove li aspettano 15 mila soldati mandati dalla Casa Bianca. “Da noi non esiste lo Stato”. I “quindicimila soldati” di Donald Trump, da schierare al confine con il Messico. Le 24 latrine “mobili” montate per mille persone accampate nelle chiese dell’Asuncion e di San Juan de Los Lagos, a Puebla. La disparità delle forze in campo fa sorridere Abel Antonio Mehia, 21 anni, dell’Honduras: “Pazienza, ci vuole pazienza. Alla fine vedrai che Trump ci farà entrare”. Mal di pancia, piedi gonfi, occhi arrossati, tosse. Sono i migranti partiti lo scorso 12 ottobre da Honduras, San Salvador e Guatemala. Sono arrivati l’altra notte a Puebla, città Patrimonio dell’Umanità. Hanno dormito su coperte e qualche materassino steso nelle navate o dietro l’altare, sotto un enorme crocefisso. Le panche sono diventate letti a castello: i genitori sopra il sedile, i bambini sotto. Per i più fortunati: 60 brandine da campo, attaccate una all’altra, nella “Capilla de Adoracion eucaristica”, protetta dalla statua in gesso di San Diego che mostra l’immagine della Vergine di Guadalupe. Alle 9 di domenica mattina, il prete dell’Asuncion celebra la messa nel patio; dentro c’è ancora qualcuno che dorme. Gli ultimi hanno trovato posto alle due di notte. Ora sono attesi gli altri tremila, partiti all’alba da Isla. Siete voi i barbari che preparano il sacco delle città americane? Il Washington Post scrive che negli Stati Uniti si stanno formando “milizie di volontari” armati per proteggere la frontiera. Si avvicina un uomo massiccio e con i capelli brizzolati: “Hola, mi chiamo Quenedi, sì, sì come il presidente”. Ha 53 anni, gestiva una “pulperia”, il vecchio emporio che vende un po’ di tutto, dalle uova alle candele, in un villaggio dell’Honduras. Le cosche gli imponevano un pizzo di 500 pesos alla settimana, in pratica gli rubavano l’intero guadagno. “Ho venduto tutto, casa compresa e mi sono messo in viaggio con due cugini. Finora ho camminato per 180 chilometri”. Quenedi Dario Ajandares sta seguendo “un pochino” la campagna elettorale per il midterm. Anche lui è convinto che la linea dura di Trump non potrà reggere a lungo: “Noi veniamo da Paesi dove non esiste la legge, dove i governi non contano nulla. Non lo so se siamo qualificati per ottenere l’asilo. Però il tema è che siamo cittadini senza Stato”. Ecco la definizione più giusta: “la marcia dei senza Stato”. Perché questa non è “la carovana del diavolo”, anche se raccontano diversi ragazzi, nel mazzo ci può essere qualche criminale. Non c’è una piattaforma politica, non ci sono leader riconoscibili, anche se negli Usa fa discutere il ruolo di “Pueblo Sin Fronteras”, un’associazione collegata a “Center without borders” fondata a Chicago da Emma Lozano nel 1987. Sul sito gli attivisti di “Pueblo sin Fronteras” si definiscono “un collettivo di amici che ha deciso di mostrare solidarietà permanente ai popoli migranti”. Per Trump, invece, questi gruppi “di estrema sinistra” sono sostenuti dal partito democratico americano e finanziati dal solito George Soros. “Chiediamoci chi finanzia la carovana” accusa il presidente nei suoi comizi. Chiediamolo: “Soldi? Quali soldi? Avevamo i nostri, ma sono finiti e non ce la facciamo più: ce ne torniamo a casa, in San Salvador”, dice Edoardo, 21 anni, indicando il coetaneo Luiz, mentre si lava i denti su un bidone di spazzatura. Certo, se fosse una cospirazione contro l’America, allora Soros, il partito democratico e le ong potrebbero fare molto meglio. La “carovana” arranca, si sfilaccia, corre mille pericoli. Venerdì scorso, 2 novembre, il governatore dello Stato di Veracruz, Miguel Angel Yunes, ha messo a disposizione 120 bus per attraversare velocemente una delle regioni più pericolose del Paese, infestata dai narcos e da bande di tagliagole specializzate in rapine e sequestri. Dopodiché il governatore si è rimangiato l’offerta e i migranti hanno ripreso la strada. Non bellissima di notte. Al casello di Veracruz, per esempio, si paga il pedaggio sotto gli occhi di una guardia privata con il giubbotto anti proiettile e un fucile d’assalto Ar-15 a tracolla. E così via, passando per la Sierra della Maltrata, fino a Cordoba, Orizaba e finalmente Puebla. Le autorità messicane, finora, non sembrano voler produrre un grande sforzo. Ieri, però, un nuovo segnale: il sindaco di Città del Messico, Jose Ramo’n Amieva ha annunciato che la capitale è pronta ad accogliere l’intera “carovana” dei 5 mila migranti. “Grazie a Dio c’è l’aiuto dei cittadini” dice Martin Carreon, giovane sacrestano dell’Asuncion. Nel cortile si avanza un signore minuto. Camicia azzurra appena stirata, gilet marrone e un piccolo sombrero bianco. Si chiama Saul Sosa, 92 anni. Regge due sacchetti della spesa. “Sto portando qualcosa a questa gente sfortunata. Vede? Ho comprato riso, pasta. Qui ci sono le scatole di tonno e di sardine. Ho preso quelle grandi”. La Spagna “turca” e il silenzio dell’Europa di Marco Faraci atlanticoquotidiano.it, 5 novembre 2018 25 anni per il vicepresidente del deposto governo catalano Oriol Junqueras, 17 per la deposta presidente del parlamento Carme Forcadell e per Jordi Cuixart e Jordi Sanchez, presidenti delle maggiori associazioni culturali catalaniste. 16 anni per gli altri membri del disciolto governo catalano ed 11 per il deposto capo della polizia catalana Josep Trapero, accusato di favoreggiamento. Sono queste le richieste del pubblico ministero nei confronti dei dirigenti catalani detenuti da un anno, in seguito alla convocazione del referendum per l’indipendenza non autorizzato da Madrid del 1.Ottobre 2017. Il reato è quello di “ribellione” - un reato in sé “dubbio”, non riconosciuto ad esempio dai sistemi giudiziari dei paesi che si sono trovati a valutare la posizione dei politici rifugiati all’estero e che hanno sistematicamente negato le richieste di estradizione avanzate dalla Spagna. L’arresto, la detenzione e la richiesta di condanne elevatissime nei confronti di rappresentanti politici ed attivisti culturali che non hanno messo in atto comportamenti violenti sono circostanze eccezionali; al riguardo, però, le classi politiche e le narrazioni mediatiche dell’Europa sono drammaticamente disattente. Il paradosso è che tutto quel “mondo per bene” che è sempre “sul pezzo” e non ne fa passare una ai “cattivi” del continente, che siano un Orban o un Salvini - quel mondo così sensibile da trovare ovunque ragioni di scandalo e di indignazione, fosse anche in una parola fuori posto - oggi è cieco, sordo e muto, rispetto alle vicende catalane. Non solo non si riconosce distintamente che la Spagna - la Spagna del PPE, la Spagna del PSE - si sta sempre più trasformando nella “Turchia interna” dell’Unione Europea, ma nemmeno si viene scalfiti - di fronte all’enormità della reazione dello Stato spagnolo - dal minimo dubbio, dalla minima esigenza almeno di approfondire i termini della questione. Diversamente dai tanti altri casi in cui le leadership europee ritengono un dovere l’ingerenza, la Catalogna viene sistematicamente liquidata come “questione interna” da risolversi secondo le regole della legalità spagnola. Certo, alcuni fanno notare come uno Stato - qualsiasi Stato - non può esimersi dal muoversi in coerenza con la propria legalità e quindi la reazione del sistema spagnolo non deve suscitare alcuna particolare sorpresa. Un ragionamento di questo tipo, tuttavia, si limita a spostare il problema. Se è vero che le richieste di condanna discendono, al di là dei margini interpretativi, dall’attuale legislazione del Regno di Spagna, è altrettanto vero che era probabilmente possibile guidare per tempo il conflitto tra Barcellona e Madrid verso altri possibili sbocchi. Da quando si è aperta la crisi catalana, a partire dalla questione del nuovo statuto di autonomia del 2005, successivamente “rottamato” dalla Corte Costituzionale, lo Stato spagnolo avrebbe avuto tutto il tempo per creare un percorso costituzionale che consentisse alla volontà maggioritaria dei catalani di esprimersi nell’alveo della piena legalità. Basta pensare alla rapidità con cui democrazie avanzate come il Regno Unito ed il Canada hanno creato le condizioni per un referendum negoziato, a fronte delle richieste provenienti dal governo scozzese e da quello del Québec. Certo la Costituzione spagnola è più “rigida” di quella canadese o di quella “de facto” britannica, ma se la Spagna in un tempo di solo tre-quattro anni è riuscita a condurre la palingenesi istituzionale che l’ha portata dal regime di Franco alla democrazia, come si può pensare che un lasso di tempo di un decennio non sia stata in grado di creare le condizioni di un “refèrendum pactat”? Evidentemente poco c’entrano questioni legalistiche e molto invece la totale assenza della volontà politica di riconoscere ed affrontare la questione catalana. La Spagna ha deliberatamente scelto di impedire che il confronto tra la posizione indipendentista e quella unionista potesse svolgersi sulla base di regole democratiche condivise. In questo senso la strategia di disobbedienza messa in atto nel 2017 dal governo catalano non è stata il tentativo di mettere in atto una forzatura o una scorciatoia rispetto al normale iter di un processo di riforma; bensì ha rappresentato l’unica possibilità di portare di fronte all’opinione pubblica interna ed internazionale la “questione catalana” a fronte della determinazione dello Stato spagnolo di negare in sé la possibilità di una via democratica alla secessione. Oggi la gravità della situazione catalana e le sue implicazioni più generali per il modello tradizionale europeo di libertà di espressione e di azione politica sono evidenti per chiunque sia disposto a vederli - e possono al contrario essere negati solamente da chi anteponga considerazioni di quieto vivere politico ai princìpi profondi di libertà democratica su cui la cultura europea del dopoguerra si è basata. Il vero argomento su cui occorrerebbe convenire è che non è in gioco solo la questione dell’indipendenza della Catalogna o della desiderabilità delle secessioni in generale, ma la questione più ampia di istituzioni che emanino dal basso e che derivino la propria legittimità dal consenso delle popolazioni coinvolte. Per questo sarebbe necessario operare una pressione sulla Spagna su due piani separati. Il primo è quello di un atto di clemenza nei confronti dei rappresentanti popolari detenuti, motivato sia da ragioni umanitarie, che dall’opportunità di contribuire a far de-escalare il conflitto. Il secondo, ben distinto, riguarda invece l’avvio di un serio processo negoziale tra Madrid e Barcellona che possa riportare il dibattito su un binario politico, verso una soluzione condivisa che sia un referendum negoziato od una moratoria concordata sulla questione dell’indipendenza, in cambio di una riconfigurazione dell’assetto spagnolo in senso confederale e multinazionale. È chiaro, infatti, che la risoluzione del problema dei “presos politics”, per quanto urgente e simbolica, non può essere un surrogato della questione di merito politico posta dall’indipendentismo catalano. I detenuti sono i primi a rifiutare la prospettiva di essere usati dal governo spagnolo come “moneta di scambio” per far “rientrare” le richieste politiche catalane. Chiunque legasse la liberazione di Junqueras e degli altri ad un atteggiamento più conciliante e remissivo del governo catalano attuale, avallerebbe l’utilizzo da parte di Madrid dei detenuti come “ostaggi”. Come bene ha compreso Carles Puigdemont, la causa catalana deve provare a trovare sponde a livello internazionale. Ragionevolmente non dovrà escludere nessuna interlocuzione, nell’ottica di diffondere il più possibile la conoscenza e la comprensione del problema catalano, tanto nella politica europea mainstream, per quanto apatica e spesso selettivamente miope, quanto in quelle aree politiche e culturali che oggi maggiormente denunciano i limiti e le ipocrisie dell’Unione Europea così come la conosciamo oggi. Germania. Come è morto il profugo Amed, detenuto nel carcere di Kleve? di Peter Schaber retekurdistan.it, 5 novembre 2018 L’avvocato della famiglia non crede che si sia ucciso. Il caso ormai è all’attenzione della giustizia della Renania Settentrionale - Vestfalia. La procura di Kleve ha confermato venerdì a junge Welt che sarebbero stati avviati diversi procedimenti sul caso Amed A. Si indaga contro sei poliziotti per privazione della libertà, contro una persona dell’area sanitaria del carcere per omicidio colposo.Il 6 luglio 2018 Amed A. viene arrestato nei pressi di una cava di ghiaia a Geldern nella Renania Settentrionale - Vestfalia. Il sistema informativo di polizia Viva mostra un risultato, il 26enne finisce nel carcere di Kleve. Il 17 settembre si verifica un incendio nella sua cella. Amed A. rimane gravemente ferito, muore il 29 settembre per le conseguenze. Rapidamente diventa chiaro: Amed A. per settimane è rimasto in carcere da innocente, i funzionari lo avevano scambiato con un uomo del Mali ricercato con mandato di cattura. Intanto continuano a emergere nuovi dettagli sul caso e rafforzano i dubbi sulla volontà di chiarimento inizialmente proclamata con eloquenza dal governo regionale. Invero il Ministro degli Interni Herbert Reul (Cdu) durante una seduta straordinaria del parlamento regionale del 5 ottobre aveva definito lo “scambio” un “grave errore operativo”; il Ministro della Giustizia Peter Biesenbach (sempre Cdu) aveva ammesso che era necessario” interrogarsi in modo autocritico su cosa è andato storto”. Allo stesso tempo Biesenbach evidentemente ha male informato il parlamento regionale. “Il detenuto in ogni caso non ha attivato il sistema di chiamata”, viene citato Biesenbach dal Kölner Stadtanzeiger da un rapporto del Ministero della Giustizia del 10 ottobre. Un rapporto interno del Ministero della Giustizia della Renania Settentrionale - Vestfalia, ora diventato noto e anch’esso a disposizione del Kölner Stadtanzeiger, documenta invece che Amed A. nel momento dell’incendio “ha attivato il sistema di chiamata nella cella 143” - un’immediata reazione da parte del personale carcerario evidentemente è mancata. Contro l’auto-immolazione depone anche il fatto che la finestra cella del detenuto è rimasta aperta. Le nuove informazioni contraddicono la tesi presentata dai rappresentanti del governo regionale come particolarmente plausibile, che Amed A. avrebbe dato lui stesso fuoco alla sua cella. Già il 5 ottobre Peter Biesenbach davanti al parlamento regionale aveva parlato di un “incendio forse causato per colpa propria”, diversi media - tra cui Bild - avevano poi lanciato la tesi che Amed A. fosse a rischio di suicidio. Questo a sua volta viene contraddetto con determinazione dall’avvocato della famiglia di Amed A. Necdal Disli venerdì aveva dichiarato a junge Welt di ritenere non plausibile la tesi del suicidio e che anche la famiglia non crede al fatto che Amed A. intendesse mettere fine alla sua vita. “Il padre ha raccontato che Amed era nel pieno della vita, prossimamente voleva sposarsi. Aveva progetti per il futuro”, così Disli. “Partire qui da un suicidio, questo caso non è poi così semplice”, ricorda il giurista. A fronte del nuovo stato delle informazioni ora la SPD in Renania Settentrionale - Vestfalia chiede le dimissioni del Ministro della Giustizia. “Il Ministro Biesenbach ha perso la sua credibilità”, ha dichiarato il capogruppo SPD Sven Wolf venerdì a domanda di jW. Anche Wolf ritiene problematica la determinazione di un suicidio: “Quando al Ministro sono state fatte troppe domande, evidentemente doveva essere stato un suicidio”, così il politico socialdemocratico. Libia. Saif, il figlio di Gheddafi che ancora condiziona la politica di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 5 novembre 2018 Su di lui pende un mandato di arresto internazionale per “crimini contro l’umanità” ma intercetta simpatie e voti. E molti pensano che è meglio averlo come alleato che come nemico. Certamente non sarà al summit di Palermo sulla Libia tra una settimana. Ed è quasi assodato che non verrà neppure menzionato nelle sessioni ufficiali. Di Saif al Islam Gheddafi al momento si sa poco. Il suo nascondiglio resta segreto: è in Libia? Il suo avvocato, Khaled Zaidi, scrive sui social che non intende affatto lasciare il Paese, nonostante i russi gli abbiano offerto asilo politico. Forse è a Bani Walid o Tarhouna, le città roccaforti dei fedelissimi di suo padre, oppure dagli zii ad Al Beida? A Tripoli gira voce sia stato visto a Tunisi, però anche ad Algeri e al Cairo tra i circoli di fuoriusciti libici dopo il collasso della Jamahiriya sconfitta dalla rivolta assistita dalla Nato nel 2011. La madre Safia, la sorella Aisha e il fratellastro maggiore Mohammed sono nell’Oman. Non è neppure da escludere che lui sia rimasto sotto la protezione delle milizie di Zintan, le stesse che lo catturarono sette anni fa e lo liberarono nel 2016, nonostante la condanna a morte promulgata dal tribunale di Tripoli. Dalla parte di Zintan stanno buona parte dei parlamentari di Tobruk, che lo hanno amnistiato, e Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Il calcolo è evidente: Saif può intercettare simpatie e voti. Meglio alleato che nemico. Ciò a sottolineare che il figlio più politico del Colonnello linciato a Sirte si dimostra una delle figure rilevanti della politica libica. Ma la strada resta in salita. Il suo nome è stato pronunciato da Fatou Bensouda, la procuratrice capo di origine gambiana della Corte Penale Internazionale dell’Aja, che ha reiterato il mandato di arresto nei suoi confronti per “crimini contro l’umanità”, promulgato poco prima della morte di Gheddafi. Una spada di Damocle che condiziona la sua eventuale candidatura alle elezioni nazionali. E i nemici non gli mancano. Primi tra tutti le milizie di Misurata e il governo francese, che teme la determinazione di Saif a denunciare con prove alla mano gli interessi personali di Sarkozy, il quale sarebbe stato il massimo fautore dell’eliminazione di suo padre per cancellare le prove degli aiuti finanziari illegali ricevuti in segretezza. Pakistan. Asia Bibi rimane in carcere. Il governo cede agli estremisti islamici agenpress.it, 5 novembre 2018 Il Governo ha ceduto alle proteste degli estremisti musulmani che hanno condannato la sentenza di assoluzione chiedendo ancora una volta la condanna a morte di Asia Bibi, che non potrà lasciare il Paese finché la sentenza non sarà riesaminata. Nel frattempo il suo avvocato, Saif-ul-Mulook, minacciato di morte, ha lasciato il Pakistan perché lasciato le autorità non gli hanno concesso alcuna protezione. Ha dichiarato, però, che continuerà a seguire Asia da lontano. “Nello scenario attuale, non è possibile per me vivere in Pakistan”, ha spiegato “devo però restare vivo perché devo continuare la battaglia legale per Asia Bibi”. E, sebbene anche la sua famiglia sia minacciata, ha assicurato che tornerà in Pakistan per difendere la sua cliente se l’esercito gli garantirà sicurezza. Per l’avvocato la decisione del Governo non è stata una sorpresa anche se l’ha definita dolorosa. Il Governo, ha commentato, “non è stato nemmeno in grado di fare rispettare una sentenza della più alta corte del Paese”. Per il legale, la reazione violenta alla sentenza è stata “dolorosa ma non inattesa”. Ma quel che è più doloroso “è la risposta del governo”. Il riferimento è che l’accordo, un testo in cinque punti, prevede da parte del governo una non opposizione al deposito di una richiesta di revisione del giudizio presso la Corte suprema e che lancerà una procedura per impedire ad Asia Bibi di lasciare il territorio. Questo significa che Asia Bibi non potrà uscire di prigione in attesa dell’esame di richiesta di riesame. L’accordo è stato vivamente criticato. “Un governo ulteriore ha capitolato di fronte agli estremisti religiosi violenti che non credono né nella democrazia né nella Costituzione”, ha deplorato il quotidiano Dawn nel suo editoriale oggi. Bahrein. Leader dell’opposizione condannato all’ergastolo per spionaggio agenzianova.com, 5 novembre 2018 Il leader dell’opposizione sciita del Bahrein, Sheikh Ali Salman, è stato condannato oggi in appello al carcere a vita con l’accusa di aver svolto operato di “intelligence” a favore del Qatar, paese del Golfo soggetto al boicottaggio da parte di Manama e altri tre paesi arabi: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto. La sentenza di oggi può essere ancora impugnata. Il leader del movimento Al Wefaq era stato prosciolto lo scorso dall’accusa di spionaggio da parte dell’Alta corte penale del Bahrein, tuttavia il procuratore generale del regno ha presentato ricorso. Ali Salman è stato accusato di spionaggio per conto del Qatar e di compiere azioni ostili con l’obiettivo di indebolire la posizione politica ed economica del regno del Bahrein, rovesciare il suo regime e svelare segreti militari. L’uomo era stato anche accusato di “aver ricevuto da uno stato estero (Qatar) somme di denaro in cambio della trasmissione di informazioni riguardanti i segreti militari e la situazione generale nel paese”. Arrestato nel 2014, il leader dell’opposizione sta scontando una pena detentiva per “incitamento all’odio confessionale”. Il regno del Bahrein è un piccolo Stato isola a maggioranza sciita, ma governato da una monarchia sunnita. Il regno è sede della Quinta Flotta degli Stati Uniti e stretto alleato di Washington, ha represso con la forza i tentativi di protesta avvenuti nel 2011 sull’onda della primavera araba. In questi anni, centinaia di avversari sono stati imprigionati e alcuni sono stati privati della loro nazionalità. Cina. Ong: dissidente in carcere dal 2016 rischia di morire askanews.it, 5 novembre 2018 Organizzazioni: liberatelo, ha bisogno di cure mediche. Il primo “cyber-dissidente” cinese, Huang Qi, rischia di morire in carcere se non riceverà cure mediche adeguate alle sue gravi condizioni di salute. È quanto hanno denunciato oggi organizzazioni per i diritti umani. Huang, 55 anni, è stato arrestato nel 2016 per “aver divulgato segreti di stato” ed è attualmente detenuto a Mianyang, nella provincia Sud-Occidentale del Sichuan, stando a quanto precisato dalla madre. Huang gestiva il sito web “64 Tianwang”, nome ispirato dalla sanguinosa repressione del 4 giugno 1989 della manifestazione a sostegno della democrazia di piazza Tienanmen. Il sito, che riportava casi di corruzione locale, di violenza della polizia e altre questioni non trattate dai media cinesi, è bloccato in Cina. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, Huang soffre di una malattia renale cronica, di idrocefalo e di una malattia cardiaca. “Le condizioni di Huang Qi sono estremamente urgenti - ha detto alla France presse la madre 85enne, Pu Wenqing - non voglio che mio figlio muoia in prigione, spero che le autorità gli permettano di ricevere cure mediche”. La donna ha fatto sapere che gli è stata negata la cauzione per cause mediche nonostante i molteplici appelli. Quattordici organizzazioni, tra cui Amnesty International, Human Rights Watch e Freedom House, hanno diffuso un comunicato per chiedere l’immediata liberazione di Huang. Citando l’avvocato di Huang, le organizzazioni hanno denunciato il fatto che il dissidente non stia ricevendo cure mediche adeguate e che le sue condizioni sono così gravi che è “in immediato pericolo di vita”.