Emergenza carceri: il record di 60.000 detenuti è vicino di Maurizio Tortorella affaritaliani.it, 4 novembre 2018 A fine ottobre erano in cella 59.803 reclusi (20.189 dei quali stranieri): sono già 9.187 oltre la “capienza regolamentare”. Proprio come aveva anticipato un mese fa Affari Italiani, le carceri italiane stanno per scoppiare: alla fine del mese di ottobre, infatti, i reclusi sono balzati a quota 59.803, quindi sono 528 in più rispetto ai 59.275 detenuti di fine settembre e a un passo dal totale di 60mila che rappresenta un limite pericoloso di sovraffollamento. I detenuti stranieri oggi sono 20.189, contro i 20.098 di fine settembre. I detenuti in sovrannumero rispetto alla capienza regolamentare delle 190 carceri italiane, che ufficialmente dovrebbe essere di 50.616 posti, sono attualmente 9.187. Per “capienza regolamentare”, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) calcola che in una cella per più persone debbano esserci 9 metri quadri a disposizione per il primo detenuto, più 5 metri quadri per ciascuno degli altri. Se la cella è per quattro persone, insomma, i metri in tutto devono essere almeno 24. L’escalation degli ingressi in prigione è continua e apparentemente senza sosta: al 30 settembre i detenuti in sovrannumero erano 8.653, alla fine di agosto erano 8.513. I numeri del sovraffollamento risulterebbero poi maggiori se si sottraessero dai posti disponibili circa 5 mila celle inagibili che, invece, vengono conteggiate per arrivare al totale di 50.622. Un sintomo inquietante del disagio che provoca questa situazione è quello dei suicidi. L’ultimo è avvenuto nel carcere di Salerno, dove il primo di novembre si è uccisa una reclusa: con due mesi di anticipo, si è così superato il record dell’anno scorso. A oggi risultano 53 suicidi nei primi dieci mesi, contro i 52 calcolati in tutto il 2017. Da mesi i sindacati della Polizia penitenziaria segnalano che la situazione è a rischio. Continuano le aggressioni ai loro danni, con un ritmo e un’intensità davvero preoccupanti. Tanto che il capo del Dap ha appena stabilito che i detenuti più pericolosi possano e debbano essere immediatamente trasferiti in carceri o in sezioni speciali, dove sia possibile controllarli meglio. Nelle prigioni italiane resta irrisolto anche il problema della permanenza dei bambini dietro le sbarre, malgrado il dramma dei due figli uccisi dalla detenuta di Rebibbia femminile a metà settembre. Sono ancora 42 le mamme detenute, con un totale di 50 figli al seguito, 19 dei quali vivono in carcere: il resto dei bambini viene ospitato negli “Istituti a custodia attenuata”, che però restano all’interno del perimetro penitenziario. Giustizia lumaca nel Paese dove l’azione penale ha sostituito l’etica di Massimo Krogh Il Mattino, 4 novembre 2018 Il Mattino, in questi giorni, ha commentato con interessanti articoli e interviste il grave problema della durata del processo penale (“processi lumaca”), che affligge la giustizia napoletana. Vorrei aggiungere qualcosa; il fenomeno non è solo napoletano, investe l’intero Paese, è italiano. In Italia, a differenza dei Paesi più avanzati, il processo, anche penale, ha una durata insopportabile. Sicché non bastano i riferimenti alla carenza di personale, soprattutto giudici, che gravano a Napoli; vi sono ragioni storico-culturali più estese e più profonde. Una causa prima, sta nel fatto che da noi, purtroppo, vi sono disfunzioni diffuse a causa di una burocrazia che, peggio di una piovra, rallenta tutto e tarpa le ali al Paese. Il riflesso è una pubblica amministrazione che non risolve i problemi del cittadino, il quale pertanto si rivolge al pubblico ministero sperando di trovare una sponda attiva. L’effetto è che tutto, anche ciò che non dovrebbe, finisce con occupare lo spazio penale. Il registro delle notifiche di reato è il più affollato fra i libri pubblici. Sembra, quindi, logico supporre che alla base del problema vi sia una produzione di processi esagerata. In definitiva, la linea fra il bene e il male più che all’etica pare che sia rimessa all’ufficio del pubblico ministero. Un pubblico ministero presiede l’anticorruzione, un pubblico ministero è stato a lungo nel ministero della Giustizia come capogabinetto del ministro, i pubblici ministeri sono i riferimenti abituali della politica sul tema giustizia. Nella legalità diffusa, l’azione penale è divenuta la chiave di volta dei rapporti sociali, fino a giungersi alla sua inflazione. Vi è una pressione giudiziaria con una fase iniziale molto forte, destinata fatalmente a spegnersi anche per carenza dei mezzi; ciò significa misure cautelari discutibili, arresti e sequestri clamorosi, che non di rado si concludono con prescrizioni o addirittura assoluzioni. Un Paese che conserva fiducia solo nel pubblico ministero diviene irrimediabilmente titolare dei processi “lumaca”. Su questo gravissimo problema, che equivale al crollo della giustizia, si dovrebbe intervenire con efficaci riforme che allineassero il nostro ai più avanzati paesi del mondo civile. Solo da noi il pubblico ministero e il giudice sono unificati nella stessa carriera, con gli effetti che la cosa comporta in punto di parità delle parti, giudice terzo ed equo processo, di cui all’articolo 111 della Costituzione; ma anche in punto di durata del processo, poiché l’unicità di carriera giudice/pm finisce per introdurre una sorta di controllo sociale da parte della magistratura, che favorisce il sorgere di processi sui fenomeni sociali piuttosto che sulle persone, i cosiddetti teoremi con schiere di imputati, che intasano i tribunali con inchieste e durate processuali intollerabili. Solo da noi vige un principio di obbligatorietà dell’azione penale applicato con rigore anche in vista di un nuovo reato di recente introdotto, il cosiddetto “depistaggio” (art. 375 bis c.p.). Forse giova guardare cosa avviene altrove. In Inghilterra nel 1215 nasceva con la Magna Charta il processo accusatorio, divenuto il rito dei paesi di common law. Dalle nostre parti il Concilio Lateranense istituiva il processo inquisitorio. Secoli di diversità culturale non si annullano con qualche legge. Oggi la giustizia soffre uno stallo da cui bisogna uscire. La Corte Costituzionale ha definito il principio di obbligatorietà il “punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale” (legalità, uguaglianza, indipendenza del pubblico ministero). Non può viversi di principi. In Belgio, Francia e Germania, vige il principio di “opportunità”, le cui soglie sono dettate dall’apice dell’ufficio d’accusa. Una parziale obbligatorietà resta in Germania, ma solo per i delitti molto gravi. In Inghilterra, l’esercizio dell’azione penale è discrezionale. Da noi, da anni si studia e si parla intorno ad un principio di “priorità” sottoposto a regole uniformi, ma mentre il medico studia il malato muore. Queste cose dette altre volte, ma sempre del tutto inascoltate. Il nostro è un Paese così logicamente disarticolato che nei siti d’informazione ufficiale i nostri giudici risultano essere quelli che in Europa lavorano di più, ma per processi inutili che troppo spesso finiscono nel nulla; la nostra giustizia è collocata agli ultimi posti del mondo nelle classifiche di categoria, nonostante le grandi tradizioni storico-culturali del nostro diritto, patria dei grandi maestri. La logica, indiscutibile, è peraltro sopraffatta da una umiliante realtà. Prescrizione, la bomba sulla maggioranza di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 novembre 2018 Ministri contro. Giulia Bongiorno smonta la “riforma epocale” grillina piovuta per emendamento. Dai leghisti una pioggia di proposte provocatorie per smontare la legge anticorruzione. Il Guardasigilli Bonafede insiste e rivendica, mentre i grillini attaccano gli alleati e adesso possono minacciare la legittima difesa. Ministri contro sulla prescrizione. L’avvocata Giulia Bongiorno, ministra leghista della pubblica amministrazione, demolisce l’emendamento dei 5 Stelle al disegno di legge anti corruzione, quello che interrompe definitivamente la prescrizione dopo il giudizio di primo grado. “È una bomba atomica sul processo penale”, dice. L’avvocato Alfonso Bonafede, ministro grillino della giustizia, autore dell’emendamento (presentato alla camera dai relatori, anche loro grillini), risponde in modo ugualmente detonante: “Si sbaglia, la vera bomba che rischia di esplodere è la rabbia dei cittadini”. Tra leghisti e grillini non mancano tensioni sui diversi dossier del “contratto di governo”, ma fin qui a scontrarsi pubblicamente erano state le seconde file. E così l’emendamento sulla prescrizione diventa un problema enorme per la maggioranza. Domani non sarà più possibile risolverlo mettendoci una pezza tecnica, quella dichiarazione di non ammissibilità che sarebbe assai fondata ma è ormai politicamente ingestibile per i 5 Stelle. A decidere saranno i presidenti della prima e seconda commissione della camera, anche loro grillini. Lunedì si dovranno pronunciare sui 305 emendamenti presentati da tutti i gruppi, ma tutta l’attenzione sarà per quell’1.100 che è l’unico firmato dai relatori. “Questo emendamento è una novità dell’ultima ora - ha detto Bongiorno a SkyTg24 - mentre il disegno di legge anti corruzione è passato in Consiglio dei ministri. Così com’è scritto oggi non posso accettarlo, è una bomba che rischia di cancellare i gradi di giudizio successivi al primo, è una correzione che incide sull’intero sistema penale”. Parole che confermano come non ci fosse alcun accordo tra alleati, quando il ministro Bonafede decise di procedere ugualmente, attaccando il vagone della prescrizione al treno dell’anticorruzione. Facendosi forza del “contratto di governo”, che però sulla prescrizione contiene solo un riferimento generico: “È necessaria una efficace riforma della prescrizione… per ottenere un processo giusto e tempestivo”. Chi contesta l’emendamento spiega che sarà proprio l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado (si parla di sospensione, ma senza termine) a rendere i processi eterni. Lo hanno detto gli avvocati, qualche magistrato - come l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte che ha fatto notare come, contemporaneamente, la maggioranza stia riducendo il ricorso ai riti abbreviati, ingolfando ulteriormente i tribunali - e ieri anche la ministra Bongiorno. “Oggi il calendario delle udienze - ha detto - viene fissato in base alla prescrizione. Così non ci sarebbero più appello e Cassazione, un innocente non avrebbe diritto a un secondo processo”. Bonafede, che proprio ieri mattina alla Stampa garantiva che con la Lega “lavoriamo assieme su tutto”, ha reagito duramente alle parole della collega, confermando però che si tratta di una “riforma epocale della giustizia penale”. Introdotta con un emendamento a un disegno di legge che tratta solo di corruzione. Quella del ministro grillino è stata solo la prima pietra, dietro di lui molti esponenti dei 5 Stelle hanno reagito attaccando il partito di Salvini. Il leitmotiv suggerito dai comunicatori è stato quello delle nostalgie berlusconiane dei leghisti. Un vecchio argomento polemico, dismesso quando con Berlusconi l’intera maggioranza ha marciato a braccetto, come sulle nomine Rai e sul decreto Genova. La frattura fra alleati si è allargata. Anche perché l’attacco leghista all’anticorruzione è ad alzo zero. I deputati di Salvini hanno presentato più emendamenti soppressivi di interi articoli (otto) di tutte le opposizioni messe assieme (quattro, e nessuno dal Pd). E hanno aggiunto anche qualche proposta di modifica puramente provocatoria, tipo l’obbligo di far certifica le votazioni online da un notaio, o l’obbligo di statuto per presentarsi alle elezioni (alle ultime i 5 Stelle si sono limitati alla “dichiarazione di trasparenza”). Senza i voti della Lega la riforma della prescrizione non passerebbe nelle commissioni. Ma la clamorosa rottura metterebbe in discussione il governo. Nel gioco del pendolo tra interessi contrapposti, costretti a marciare uniti, in commissione giustizia il prossimo provvedimento è tutto in quota Lega: legittima difesa. Al senato i 5 Stelle ritirarono tutti gli emendamenti. Prescrizione, il M5S sfida la Lega: “Ritorsione sulla legittima difesa” di Ilario Lombardo La Stampa, 4 novembre 2018 Pronti gli emendamenti per boicottare il testo di Salvini. Lite tra Bongiorno e Bonafede. Nella migliore tradizione del baratto politico, i 5 Stelle potrebbero improvvisamente cambiare idea sulla legittima difesa. Potrebbero, se gli ultimatum dei leghisti sull’anticorruzione e le strategie neanche più velate per resettare il reddito di cittadinanza non venissero riposti nella fondina da Matteo Salvini. Succederebbe alla Camera, dove è atteso il provvedimento sbandierato da anni dalla Lega e dove Luigi Di Maio ha lasciato la sua pattuglia di fedelissimi e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede può contare su un pugno di deputati che funzionano da suo braccio armato. Pronti a cestinare il compromesso raggiunto in Senato due settimane fa, quando i grillini ritirarono gli emendamenti sgraditi a Salvini per far approvare la legge sulla legittima difesa. A un passo dal classico stallo messicano, il Parlamento si annuncia come una giungla vietnamita. La giustizia è il terreno su cui la maggioranza potrebbe finire a brandelli. Tutto è cominciato con il blitz grillino sulla prescrizione sospesa dopo la sentenza di primo grado. Una proposta che Giulia Bongiorno, avvocato, ministro della Pubblica amministrazione, ma soprattutto autorevole voce sulla giustizia per il Carroccio, definisce una “bomba atomica” capace di far deflagrare i processi penali. Un ‘iniziativa che ha irritato i sovranisti di Salvini, ancor prima che questi minacciassero la resistenza contro il capitolo sulle donazioni destinate ai partiti e alle fondazioni politiche, previsto sempre nel ddl Anticorruzione firmato Bonafede. Il ministro risponde alla collega puntando sulla bontà dello stop alla prescrizione perché, sostiene, “la bomba è la rabbia dei cittadini che si aspettano giustizia”. In tutti e due i casi i 5 Stelle confermano “Non si arretra”. “Andiamo avanti” dice il sottosegretario Stefano Buffagni. È la linea di Bonafede, concordata con Di Maio prima della partenza del vicepremier per la Cina. È convinzione tra i grillini che la Lega stia cercando motivi per logorare, in pieno calo nei sondaggi, il capo politico del Movimento a cui non è certo sfuggito che nel comunicato di distensione di ieri, Salvini abbia ribattezzato il reddito di cittadinanza “reddito di reinserimento al lavoro”. Le contromosse dei 5 Stelle sono già in atto: sarà guerriglia. Si inizia dall’emendamento che serve a inasprire le pene per evasori e per chi si macchia di frode fiscale, come promesso in fase di trattativa sulla manovra. La modifica verrebbe infilata di nuovo nell’Anticorruzione, a firma Francesca Businarolo, la stessa deputata che si è intestata la prescrizione per conto di Bonafede. Ma questo è solo un assaggio della ritorsione che è pronto a mettere in campo il M5S. Di Maio ha piena fiducia nel suo Guardasigilli. “Troverà un accordo con i leghisti. È il migliore in queste cose”. Bonafede è chiaro: “Noi ci siamo spesi per far passare la legittima difesa come volevano loro e far rientrare tutte le obiezioni dei nostri. La prescrizione è nel contratto, come lo è la legittima difesa...e il contratto non vale solo per la Lega”. Il 5 ottobre il senatore grillino Francesco Urraro aveva raggruppato tutti gli emendamenti del M5S che intendevano ammorbidire la norma che riconosce “sempre” la sussistenza della proporzionalità tra offesa e difesa e delineare meglio lo “stato di grave turbamento” ampliato dai leghisti per eliminare la punibilità dell’”eccesso colposo”. Articoli 1 e 2 della legge: erano i punti più delicati per i grillini, convinti da Bonafede e Di Maio a ritirarli per il quieto sopravvivere dell’alleanza. Ma ora, così come sono stati accantonati sono pronti a rispuntare fuori alla Camera. E a questo punto il leader del M5S potrebbe anche lasciar fare i dissidenti che a Palazzo Madama vogliono cambiare il decreto Sicurezza, altra creatura cara a Salvini sul quale ieri è tornato il senatore ribelle Gregorio De Falco: “Se non verrà posta la fiducia chiederò di sottoscrivere alcuni emendamenti dell’opposizione”. L’ex comandante della capitaneria di porto se ne infischia della possibile espulsione e a Di Maio ricorda: “Tutti nel Movimento abbiamo accettato di avere una data di scadenza”. Ma quasi quasi al leader tutta questa ribellione potrebbe ora potrebbe pure tornare utile. Prescrizione, la scadenza dei tempi è rara. Cade solo l’1,2% dei procedimenti di Luca Fazzo Il Giornale, 4 novembre 2018 Nel 2017 reato prescritto soltanto in 670 casi. Quanto incide l’istituto della prescrizione nella macchina della giustizia italiana? Il dibattito politico (incandescente) tra gli alleati di governo riporta in primo piano i numeri di questo istituto, soli a poter dare un’idea precisa di quanto incida sulla vita collettiva e sulla gestione del diritto. Le statistiche della Cassazione, per esempio, raccontano che nel 2017 “i procedimenti definiti con prescrizione del reato sono stati solo 670”, pari all’1,2% del totale dei procedimenti definiti: il valore è in calo rispetto a quello registrato nel 2016. Quanto alle tipologie di reato cui si riferiscono i procedimenti definiti con la prescrizione, 137 riguardano i reati contro il patrimonio diversi dai furti; in 66 casi si tratta di delitti contro l’amministrazione della giustizia, per 64 ricorsi di delitti contro la pubblica amministrazione, 42 sono le prescrizioni legate alla circolazione stradale, 35 volte sono reati in tema di beni culturali e ambientali e 34 su edilizia e urbanistica. A seguire si registrano 31 prescrizioni per delitti contro la fede pubblica, 30 per reati in tema di stupefacenti e per delitti contro la famiglia, in 28 casi sono prescrizioni per delitti di furto. Il portale della Cassazione segnala poi che le prescrizioni dei delitti contro il patrimonio diversi dai furti sono in forte calo rispetto al 2016 (-20,8%), a fronte della diminuzione dei procedimenti definiti di tali reati del 7,9%. Ancora più forte è il decremento dei reati legati agli stupefacenti: -66,3% con una variazione del -2,8% nel totale dei definiti di tale voce di reato. Il sito del ministero della Giustizia, poi, entra nello specifico di un’altra tipologia di prescrizione: quella dei procedimenti penali per reati contro la pubblica amministrazione. Per avere un quadro dettagliato di questa tipologia, però, bisogna tornare indietro al 2016, ultimo anno disponibile. Sono 86 i procedimenti penali estinti per prescrizione dei 491 definiti per reati contro la pubblica amministrazione. Il maggior numero di processi che si sono conclusi in quell’anno - con sentenza, gatteggiamento prescrizione o archiviazione - riguarda il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio (180), seguono la concussione (117); l’istigazione alle corruzione (103); il millantato credito (53); la corruzione per l’esercizio della funzione (17); la corruzione in atti giudiziari (9); la corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (9); il traffico di influenze illecite (3). Quelli prescritti rappresentano quindi il 17% del totale. La prescrizione ha avuto l’incidenza maggiore, pari al 41% nei procedimenti per corruzione per l’esercizio della funzione (è stata applicata in 7 casi su 17). Si sono conclusi con sentenza di condanna il 32% dei processi per concussione, il 24% per corruzione per l’esercizio della funzione, il 22% per corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, il 56% per corruzione in atti giudiziari, il 59% per istigazione alla corruzione, il 51% per millantato credito. Salvini: “La prescrizione? Non si riforma così” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 4 novembre 2018 “Il contratto è sacro ma bisogna tenere gli occhi aperti”. Il leader della Lega: “Io rispetto gli impegni presi, ma vale per tutto: reddito di cittadinanza, Fornero, analisi sulle grandi opere. Non parlo di manine, ma avevo inserito una norma nel dl fiscale, e il testo finale è uscito in un altro modo”. “Quello che firmo io mantengo, gli impegni che prendo li rispetto. La riforma della giustizia e anche della prescrizione sono nel contratto di governo e li faremo. Però, la giustizia è affare delicatissimo: se ci si mette mano, bisogna farlo bene”. Matteo Salvini è in auto, sta andando nel Veneto devastato dal maltempo. E sulla modifica della prescrizione nei processi, che ha acceso le polveri tra la ministra Giulia Bongiorno e i 5 Stelle, invita alla cautela. Bongiorno dice che l’emendamento dei 5 Stelle sarebbe “una bomba sui processi”. “Lei ha una grande credibilità, di certo non può essere accusata di berlusconismo. Io sono d’accordo sul fatto che i processi debbano avere una fine e sono d’accordo sul fatto che non possano essere prescritti quelli di chi ha i soldi. Io dico: riformiamo la prescrizione, ma facciamolo in maniera efficace. Non necessariamente un emendamento presentato dalla sera alla mattina è il modo migliore”. Come se ne esce? “Nel solito modo: parlandone. Gli obiettivi miei, di Di Maio e di Bonafede sono gli stessi. E nessuno deve avere dubbi: il contratto è sacro, e vale per tutto quello che contiene, dal reddito di cittadinanza alla Fornero all’esame costi-benefici per le grandi opere”. Di Maio ha qualche dubbio su chi al governo “non crede in quello che stiamo facendo”. “Noi i patti li rispettiamo e sono convinto che lo sappiano tutti. Vedo una gran bagarre giornalistica, descrizioni che non corrispondono affatto ai nostri rapporti: io e Di Maio ci sentiamo e ci messaggiamo tutti i giorni”. Non vorrà negare qualche tensione? “Io non parlo di manine e di complotti, ma è vero che ogni tanto bisogna tenere gli occhi ben aperti. Le faccio un piccolo esempio, che non comporta necessariamente malafede ma magari soltanto distrazione. Noi abbiamo inserito nel decreto fiscale la chiusura degli arretrati per il mondo delle sigarette elettroniche, dato che Gentiloni si era inventato la supertassa. Fatto sta che il testo era entrato in un modo ed è uscito nell’altro: e la tassa ritornava. A me erano girate le scatole, ma mi è già passata: mi toccherà solo presentare un emendamento. E dunque, non grido al complotto ma capisco lo sfogo di Di Maio”. Il sondaggio del “Corriere” attribuisce alla Lega il 34,7%. Non è tentato di concretizzare questo consenso? “Ma no. L’ho anche detto a Di Maio: l’unica cosa che mi interessa è che il governo abbia una solida maggioranza tra gli italiani. E dunque siamo tranquilli: io domani inizio in Aula con il dl immigrazione, sulla Fornero abbiamo condiviso la battaglia con Bruxelles... Mi pare che il governo funzioni. Unica preoccupazione, gli speculatori che giocano con lo spread, il che incide sui costi dei prestiti da parte delle banche. Penseremo anche a quello”. Il presidente Mattarella ha invitato il governo al dialogo con l’Europa. È d’accordo? “Il presidente è il garante della Costituzione e fa il suo. Quello che invece mi stupisce è l’evidente pregiudizio da parte di alcuni burocrati e commissari europei nel contestare una manovra che si propone di far crescere l’economia, tagliare le tasse e creare posti di lavoro. No, con Mattarella siamo in sintonia. Ma con Juncker...”. L’Europa lamenta che la manovra sfonda i tetti concordati. “A Bruxelles c’è qualche nostalgico dei governi pavidi e succubi. Ricordo che il debito, grazie alle manovre degli ultimi 5 anni, è salito di 300 miliardi. O sbagliavano prima, o sbagliano adesso. In ogni caso, possono dire quello che vogliono: noi andiamo diritti”. Non teme che l’Eurogruppo di lunedì possa concludersi con un nuovo richiamo all’Italia? “Io voglio che per l’economia si faccia quello che ho fatto per l’immigrazione. Dunque: nei primi 10 mesi del 2018 i morti in mare sono stati 1.985, l’anno scorso 2.800, nel 2016 circa 4.000. Gli sbarchi sono stati 22 mila contro i 112mila dell’anno scorso. Se avessimo dato retta all’Europa...”. E così, la sua manifestazione dell’8 dicembre sarà tutta in chiave anti europea? “Ma no. È il giorno dell’Immacolata, la data l’avevo pensata per quello. Ho anche messo sui social la foto di una statua della Madonna di Medjugorje che mi hanno regalato. E l’8 dicembre era la scadenza della mia inchiesta al Tribunale dei ministri, avrebbero dovuto dire se archiviare o indagare, fortunatamente è servito meno tempo. Soprattutto, a quel punto la manovra sarà quasi legge: ci sarà una Piazza del Popolo come mai si era vista, piena di persone a favore delle riforme. Una piazza pro, non contro”. C’è chi la vede già come presidente della Commissione Ue, o almeno come il candidato dei sovranisti europei. “È vero che diversi partiti europei mi fanno l’onore di volermi come loro portabandiera. Io rispondo grazie, ma fare il ministro in Italia mi porta via 20 ore su 24. Poi, ad aprile ne riparliamo. Certo, le elezioni sono l’ultima chiamata per salvare l’Europa che muore”. Possibile un gioco di squadra con i Fratelli d’Italia? “Con Giorgia Meloni ci vedremo questa settimana, loro dall’opposizione si sono dimostrati sempre corretti. Anche Forza Italia, ma non tutti: c’è chi si alza col gusto di insultarmi, mi stupisce solo che siano persone anche molto vicine a Berlusconi”. L’errore concettuale e pratico di chi vuole allungare i tempi di prescrizione di Patrizio Gonnella L’Espresso, 4 novembre 2018 Il tempo è una categoria classica che fa parte del vocabolario della giustizia. Il processo penale ha il compito ambizioso di ricostruire la verità o quanto meno far avvicinare la verità processuale alla verità storica. È un obiettivo che il sistema della giustizia deve raggiungere da un lato considerando l’interesse generale all’accertamento della dinamica di fatti ipoteticamente violativi di norme penali, dall’altro rispettando il diritto della parte accusata a potersi difendere adeguatamente. Più passa il tempo dalla presunta commissione del fatto meno saranno le garanzie difensive; più passa il tempo più sarà per chiunque difficile ricostruire in modo precisogli eventi accaduti. Dunque è all’interno di questo bilanciamento che deve muoversi la disciplina della prescrizione. Certamente ha un tasso di ragionevolezza l’imprescrittibilità di taluni crimini, come quelli contro l’umanità in quanto la loro persecuzione diverrà politicamente possibile solo quando sarà sovvertito il regime che li ha coperti o prodotti. Ad esempio solo dopo la caduta del regime fascista di Videla è stato possibile procedere contro i generali per le sparizioni di massa. In tali casi prevale l’interesse generale alla restaurazione della verità occultata dalle dittature. Non ha viceversa un tasso di ragionevolezza tenere impiccata senza limiti di tempo alla corda del processo una persona per la gran parte dei reati ordinari. È dovere della giustizia fissare un tempo ragionevole entro cui chiudere la partita della verità. Non è un caso che parola ragionevolezza compaia nella Costituzione all’articolo 11 per circostanziare il giusto processo. Non si può processare una persona per delitti comuni a vent’anni dai fatti. Significa negare a quella persona una vita normale, innocente o colpevole che sia. Significa rovinargli la vita. E se innocente portarlo alla disperazione. Non corrisponde a un interesse generale la durata irragionevole dei procedimenti penali. L’allungamento dei tempi di prescrizione è il nuovo feticcio a cui si aggrappa chi vuole trasformare il processo in un’arena eterna comprimendo il diritto di difesa e le istanze di libertà individuale. Non si può tenere una persona sotto processo senza limiti di tempo. La persona sotto indagine o processo penale non vive mica in modo ordinario sapendo che un giorno, non si sa quando, potrà finire in prigione. Sarà guardato come un futuro galeotto da vicini di casa, parenti, opinione pubblica. Allungare ulteriormente i tempi di prescrizione significa legittimare le inerzie della giustizia penale. Il problema della giustizia si risolve non allungando i tempi di prescrizione ma depenalizzando la gran massa di reati che ingolfano le procure e le aule di giustizia, a partire dalla legge sulle droghe. Intervista a Carlo Nordio: “È una riforma scellerata. Apre a processi infiniti” di Luca Fazzo Il Giornale, 4 novembre 2018 Il magistrato: “Danneggia anche le vittime, che vedranno i risarcimenti solo a sentenza definitiva”. Dottor Nordio, facciamo finta che la nuova legge sulla prescrizione venga approvata oggi. Cosa accadrebbe da domani nei tribunali di tutta Italia? “Vede, io sono stato molto critico verso la mia categoria ma so che i magistrati, checché se ne dica, lavorano. E lavorano anche perché sono ossessionati dalla paura della prescrizione. Quando lasciano che un processo si prescriva devono giustificarsi, rischiano procedimenti disciplinari, se hanno coscienza si sentono in colpa. Se questa pressione morale e disciplinare viene meno, se la prenderanno più comoda. I tempi dei processi si allungheranno a dismisura, e questo sarà un dramma non solo per gli imputati ma anche per le vittime”. Carlo Nordio ha portato la toga per quarant’anni, chiudendo la carriera come procuratore aggiunto a Venezia. Sui pregi e i difetti della giustizia italiana ha da sempre un occhio critico e disincantato. Il suo giudizio sulla incombente riforma (che è quasi una abrogazione) della prescrizione è una condanna severa. Perché dice che ci andranno di mezzo anche le vittime? “Perché fino alla sentenza definitiva non otterranno alcun risarcimento. Con tempi allungati all’infinito, i risarcimenti li vedranno i figli o i nipoti delle vittime”. Ma allo scandalo dei processi inghiottiti dalla prescrizione un rimedio andava pur trovato. “Indubbiamente. Ma questa legge è un rimedio peggiore del male. L’aggettivo più adeguato lo ha impiegato la senatrice Bartolozzi, che è un magistrato: un provvedimento scellerato. E oltretutto palesemente incostituzionale”. Perché? “Perché abolendo la prescrizione dopo la sentenza di primo grado apre la porta a processi dalla durata infinita, e questo va a sbattere contro l’articolo della Costituzione che prevede una ragionevole durata dei processi. Le inefficienze del sistema verranno scaricate tutte sull’imputato, il poveretto verrà tenuto sulla graticola senza limiti di tempo. Parliamo di persone che hanno diritto alla presunzione d’innocenza, e la cui esistenza verrà condizionata per anni dalla pendenza del processo. Da questo punto d vista, l’aspetto più stravagante del disegno di legge è che la prescrizione si interrompa anche dopo una sentenza di assoluzione in primo grado: ma come, un giudice ha stabilito che sono innocente, quindi la mia presunzione d’innocenza è raddoppiata, e io devo aspettare a vita i tempi dell’appello e della Cassazione? Non sta né in cielo né in terra”. E allora quale sarebbe il rimedio? “Semplice: iniziamo a calcolare la prescrizione non dal momento del reato ma da quando si scopre che un reato vi è stato. I reati dei colletti bianchi, come i finanziamenti illeciti o i falsi in bilancio, spesso vengono alla luce ad anni di distanza: e poiché si prescrivono in sette anni, magari restano tre o quattro anni per fare le indagini, il primo grado, l’appello e la Cassazione. Praticamente impossibile. Computare la prescrizione dal giorno in cui si apre un fascicolo d’indagine sarebbe la giusta mediazione tra la pretesa punitiva dello Stato e i diritti civili dell’imputato”. Oggi la prescrizione è in realtà un comodo strumento per i pm per liberarsi delle inchieste che non gli interessano: li chiudono in un armadio, e li tirano fuori solo al momento di archiviarli. Anche questo è uno scandalo. “Verissimo. Ma fino a quando un pubblico ministero ha l’obbligo di indagare su qualunque notizia di reato, e si ritrova con duemila o tremila fascicoli sul tavolo, sarà lui a decidere arbitrariamente quali portare avanti e quali lasciare prescrivere. Il Csm e alcuni procuratori hanno provato a indicare delle priorità, ma in realtà ogni pm può fare quello che vuole perché la Costituzione dice che l’azione penale è obbligatoria, senza distinzioni. Siamo l’unico paese al mondo dove un processo penale di tipo accusatorio prevede anche l’obbligo dell’azione penale. Un gravissimo errore tecnico. La giustizia italiana oggi è una Ferrari con il motore di una 500: si ingolfa per forza”. Ermini (Csm): “Basta magistrati in Tv, i processi si fanno in Aula” Il Dubbio, 4 novembre 2018 Il “richiamo” del vicepresidente del Csm contro le “toghe-star”. “Trovo che sia sbagliato che i magistrati partecipino ai talk show. Il processo si fa in dibattimento, le prove vengono portate a dibattimento e il giudice si trova davanti un pubblico ministero e la difesa, ognuno dei quali porta delle prove. Il giudice valuta in modo imparziale. Con i talk show abbiamo il pericolo che il nostro sistema diventi inquisitorio perchè si fanno i processi prima che il dibattimento si sia svolto e che le prove vengano portate davanti al giudice”. Lo ha detto il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini. “I cittadini hanno tutto il diritto di avere informazioni - ha spiegato - ma è sbagliato che ci sia un processo parallelo: in tribunale un processo accusatorio e sui talk un processo inquisitorio. un po’ stride”. Parlando dei rapporti con il ministro della Giustizia, che reagì duramente alla sua nomina (“prendo atto che all’interno del Csm, c’è una parte maggioritaria di magistrati che ha deciso di fare politica”, disse Bonafede, ndr), Ermini, sospesosi dal Pd prima di entrare a Palazzo dei Marescialli come consigliere, ha chiarito: “C’è stata questa critica perché ero parlamentare e lui sostiene che chi è parlamentare non dovrebbe ricoprire questo incarico. Il giorno in cui sono stato eletto mi è stato chiesto di andare dai giornalisti a fare le prime interviste. Aprendo le agenzie mi sono reso conto di quello che avevano detto Di Maio e Bonafede e non ho fatto dichiarazioni per non alimentare polemiche inutili. È passato un pò di tempo e poi ho chiamato io Bonafede per parlare della procura europea. Adesso spero che le polemiche siano sopite”. Ilaria Cucchi e i social: “Ricevo minacce anche da carabinieri” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 4 novembre 2018 Un post di insulti sarebbe della portavoce del Sap. E un carabiniere si sfoga: “Dispiace che non ha dimostrato la stessa caparbietà nell’aiutare il fratello”. C’è l’insulto feroce: “Lurida infame”. E l’oltraggio macabro: il fotomontaggio di Stefano Cucchi pesto, rivestito in smoking e attorniato da conigliette sexy, con la scritta teoricamente goliardica: “Se non sei bello ma Cucchi”. C’è l’allusione offensiva: “Vorrei dire a Ilaria Cucchi che, dalla terribile morte del fratello è riuscita a costruirsi un personaggio”. E ci sono le accuse esplicite di aver speculato sulla morte del fratello: “Hai ottenuto un rimborso di non pochi spicci e si mormora già di una candidatura molto prossima”. Risponde, lei, Ilaria Cucchi: “Oggi è sabato. I miei figli dormono. Io e Fabio abbiamo appena fatto colazione. Lui deve studiare un processo importante ed io vorrei stare in casa con lui. Ma ho altre denunce da presentare. Le minacce ed insulti hanno più o meno la medesima targa politica, appaiono provenire da profili di poliziotti o carabinieri”. Negli ultimi giorni Ilaria è stata ascoltata sei volte dalla polizia che cerca di far luce su protagonisti e mandanti di questo odio sui social. Poi, ci sono le lunghe chiamate silenziose al numero di casa. Al sospetto sui post si somma un attacco alla vittima, un’offensiva riconducibile a Elena Ricci, portavoce del Sap, lo stesso sindacato di polizia che durante un congresso, anni fa, tributò un applauso agli agenti coinvolti nella morte di Federico Aldrovandi, pestato da quattro agenti nel 2005. L’ipotesi di una serrata fra i ranghi delle forze dell’ordine - mentre il processo bis nei confronti di cinque carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia per la morte di Cucchi compie un salto di qualità - è al vaglio degli investigatori. Nella denuncia della sorella di Stefano si sottolinea “l’incrementarsi del tono e del numero degli attacchi in corrispondenza dei recenti sviluppi processuali”. In passato i Cucchi sono stati bersaglio di insulti sguaiati e allusioni pesanti (come quella di Carlo Giovanardi che disse: “È morto per droga”). É ragionevole pensare che i nuovi post siano il frutto della stessa atmosfera avvelenata. “Non si può trasformare un drogato e spacciatore in un eroe”, si firma Silvia Cirocchi. Il filo conduttore è la rabbia nei confronti dei Cucchi, lo stile è inizialmente dialogante salvo diventare offensivo sul finale, come se gli autori, catturata l’attenzione del destinatario, se ne servissero per vibrare il colpo peggiore. In qualche caso il veleno raggiunge anche chi, come Alessio Cremonini, autore di “Sulla mia pelle” si è sforzato di raccontare un fatto di cronaca: “Sulla pelle dei poveri diavoli - posta tale Mauro Maistro - che hanno avuto la sfiga di incrociarti loro malgrado ci fanno i soldi sorella e parenti, avvocato e regista... la celebrazione di una persona che valeva poco da vivo e che morto è diventato un affarone”. Ed è di un carabiniere lo sfogo, anche questo via social, contro i Cucchi: “Dispiace un’unica cosa, ovvero che la stessa caparbietà che (Ilaria, ndr) ha dimostrato nella ricerca dei colpevoli non l’ha sfoderata quando c’era da aiutare Stefano”. Lei, Ilaria Cucchi, ammette di essere molto turbata: “Ho paura per me e per i miei figli e per i miei genitori”. Velletri (Rm): detenuto italiano 50enne ritrovato morto in cella ilmamilio.it , 4 novembre 2018 Nella notte tra sabato 3 e 4 domenica del mese di novembre 2018 un detenuto italiano di 50 anni è deceduto nel suo letto della sua cella per un malore. Un’altra notte difficile per i poliziotti penitenziari del carcere di Velletri. Nella notte tra sabato 3 e domenica 4 novembre un detenuto Italiano di 50 anni è deceduto nel letto della sua cella per un malore. Inutili sono stati i soccorsi, messi in atto sia dai sanitari del penitenziario che dai sanitari del 118, il malore per il detenuto è stato fulminante. A darne notizia è il sindacalista dell’ Ugl Polizia Penitenziaria Carmine Olanda, che da anni denuncia le difficili condizioni di lavoro che svolgono tutti gli operatori penitenziari. A rendere la notte più difficoltosa è stato anche un detenuto tunisino che, nei giorni scorsi, aveva già distrutto la propria cella procurandosi vari tagli su tutto il corpo con una lametta da barba. Il detenuto deceduto dopo tutti gli accertamenti da parte di comandante, direttore, medico legale, polizia scientifica e su disposizione del magistrato è stato trasportato presso la camera mortuaria di Tor Vergata per espletare tutti provvedimenti del caso. Nel frattempo il detenuto tunisino continua la sua protesta gridando e sbattendo le ante degli armadietti della propria cella. “Come sindacato - commenta Olanda - abbiamo sempre apprezzato la grande professionalità di tutti i sanitari del carcere, ma non condividiamo la cattiva gestione da parte dell’Asl Rm6. Non possiamo tollerare in nessun modo che al nuovo padiglione “D” dove sono ristretti la media di 230 detenuti non si garantisce il servizio sanitario sul posto h24. I medici ci sono - continua Olanda - e vederli concentrati tutti in un’unica infermeria è un schiaffo morale verso tutti gli ammalati che si trovano al pronto soccorso in barella in mezzo ad un corridoio, con solo due medici e pochi infermieri che fanno i salti mortali per riuscire a curare le persone. Basta! - Conclude Olanda - Continueremo a denunciare tutto e tutti i soprusi, auspichiamo che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede abbia accolto il nostro invito a venire a fare una visita a sorpresa al carcere di Velletri, soprattutto nei turni pomeridiani e notturni, per rendersi conto di persona di tutte le problematiche lavorative e di sicurezza messi in atto con poco personale”. Lodi: una cella in classe per provare l’esperienza del carcere La Verità, 4 novembre 2018 Una cella in classe, così gli studenti potranno provare sulla loro pelle che cosa significa vivere in un carcere. Succede a Lodi, all’istituto superiore Alessandro Volta. A partire dall’8 novembre, per due settimane, nella scuola sarà posizionata una vera cella, di dimensioni reali, con tanto di porta blindata, letti a castello e bagno. Lo ha spiegato il dirigente scolastico in una lettera inviata a tutte le altre scuole della provincia. “Il nostro istituto ospiterà all’interno di un’aula una cella di prigione di dimensioni reali realizzata da Caritas Ambrosiana”, ha scritto il preside. “L’iniziativa rientra nel progetto Sisact (Sistema di accoglienza territoriale) che ha lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica e favorire il reinserimento di persone che hanno avuto problemi di giustizia”. Per l’occasione, “le volontarie e i volontari dell’associazione Loscarcere, partner del progetto, insieme ad un gruppo di studentesse dell’istituto Maffeo Vegio di Lodi accompagneranno le classi in una visita guidata che permetterà agli studenti di fare un’esperienza simulata della condizione in cui vivono le persone detenute. Contemporaneamente sarà possibile visitare anche una mostra fotografica che illustra la realtà di antiche carceri. La durata complessiva della visita è di un’ora. L’attività si inserisce nei progetti di cittadinanza e Costituzione e ha lo scopo di fornire informazioni e stimoli sulla condizione carceraria in accordo con l’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione italiana”. All’iniziativa potranno partecipare tutti gli studenti del Lodigiano, ma pure - al sabato - tutti gli altri i cittadini. Basta inviare una mail all’indirizzo loscarcere.lodi@gmail.com e prenotare la visita. Augusta (Sr): “In viaggio con papà” dentro il carcere, dalla lettura alla scrittura augustanews.it, 4 novembre 2018 Si è concluso il progetto nato dalla collaborazione tra la casa di reclusione e NaxosLegge, 4 i detenuti che hanno partecipato insieme ai loro 6 figli. Il libro e la lettura dentro la casa di reclusione di Augusta diventano strumenti pedagogici, non solo di rieducazione e cultura, ma anche e soprattutto un mezzo di “evasione” per i detenuti, che possono riappropriarsi, insieme ai loro figli, della “genitorialità negata” esprimendo al contempo quelle emozioni filiali che in condizioni particolari come la detenzione si tende, spesso, a sacrificare. È quanto accaduto con il progetto “In viaggio con papà. Viaggi da fermi per conquistare il mondo”, avviato da quest’estate nell’area a verde della casa di reclusione e conclusosi qualche giorno fa con la presentazione della lettura degli appunti di viaggio realizzati alla fine dai genitori e dai figli insieme che dopo aver letto un libro da loro scelto hanno sognato un loro personale viaggio. Questo è stato, infatti, il momento conclusivo del progetto nato dalla collaborazione tra la casa di reclusione e NaxosLegge, festival della narrazione, della cultura e del libro che nasce dalla “riconosciuta importanza della tutela della genitorialità in carcere, tema al centro dell’attenzione del Ministero della Giustizia, oltre che - ha detto il direttore Antonio Gelardi- dell’associazione nazionale Bambini senza sbarre, che ha come obiettivo quello di evitare che persone che non hanno commesso reati, i bambini, siano penalizzati nella relazione con il loro genitore-detenuto. Allo stesso modo il tema è oggetto di particolare attenzione anche nel decreto legislativo di recente emanazione, nella parte in cui prevede, per i locali destinati ai colloqui con i familiari, una dimensione riservata del colloquio ed inoltre recita che particolare cura venga dedicata ai colloqui con i minori di anni 14”. I 4 detenuti, che hanno aderito al progetto, oltre alle tradizionali ore di colloquio, hanno potuto usufruire di ore supplementari da trascorrere solo con i loro figli, in totale 6 dai 4 ai 14 anni, che hanno voluto raccontare il loro viaggio tanto sperato con il loro papà, mentre le madri hanno lasciato parlare solo una di loro durante il pomeriggio di presentazione degli appunti di viaggio i bambini che si è svolto alla presenza di rappresentanti di associazioni di volontariato, del Kiwanis club Augusta. “Nulla in questo progetto è stato tralasciato - ha aggiunto Mariada Pansera docente e referente di Naxoslegge per Augusta - anche le mogli e madri dei minori, seguite in uno spazio diverso, da due esperte psicologhe, hanno avuto modo di esprimere se stesse e le difficoltà di crescere i loro bambini senza una figura paterna presente nella quotidianità della gestione familiare”. Significativo anche l’intervento delle figure coinvolte la progetto, la psicologa Gemma Falco e Fulvia Toscano, presidente di Naxoslegge, la quale ha salutato il progetto evidenziando come in una società ove la figura del padre assume sempre meno rilievo è forte l’esigenza per il figlio di ricercare ad un certo punto del proprio percorso di vita, il padre, come un nuovo Telemaco alla ricerca di Ulisse. Cremona: progetto “Belli dentro”, 40 giovani e il percorso di fede condiviso coi detenuti diocesidicremona.it, 4 novembre 2018 Venerdì 2 novembre il primo incontro del progetto con la meditazione offerta dal vescovo Antonio Napolioni. “Sono felicissimo di vedervi disponibili a continuare a fare Sinodo, cioè un cammino insieme, sempre più ecclesiale, sempre più missionario”. Con queste parole il vescovo Antonio Napolioni ha saluto la quarantina di giovani che hanno aderito al progetto “Belli dentro” - proposto dalla Cappellania del carcere di Cremona in collaborazione con l’Ufficio diocesano di Pastorale giovanile e la Direzione della casa circondariale - e che vivranno un percorso di fede condiviso con i detenuti attraverso incontri mensili in carcere. Da qui appunto lo slogan “Belli dentro”. Al centro i temi della fede e la scelta di linguaggi comuni per condividerli con chi sta pagando per un errore nel silenzio di un carcere, nell’attesa di una nuova possibilità. Coinvolti giovani delle diverse parti della diocesi, impegnati nelle parrocchie così come in movimenti e realtà ecclesiali. Tante esperienze differenti che da sempre rendono ricca la Chiesa cremonese e che con questa ulteriore proposta giovanile intendono operare in piena sinergia in un cammino e un obiettivo comune. “Sono felicissimo di imparare da voi questa fiducia, questa disponibilità, l’entusiasmo e, se necessario, anche il timore”, ha detto ancora il Vescovo nell’incontro inaugurale del progetto che la sera di venerdì 2 novembre si è svolto a Cremona, presso la sede della Federazione Oratori Cremonesi. Prima la possibilità di condividere insieme la cena, poi per tutti l’appuntamento in salone per dare avvio a questo nuovo progetto. Non sono mancate le presentazioni tra i presenti: non una semplice formalità, ma l’inizio di un percorso da condividere insieme. Radicati nel proprio impegno di fede. Per questo la prima serata che ha voluto essere di ascolto e meditazione della Parola, quale saldo fondamento su cui gettare le basi per il futuro servizio in carcere. Proprio al Vescovo il compito di aiutare i ragazzi nella riflessione, a partire dal brano evangelico in cui Luca racconta l’inizio del ministero di Gesù (Lc 4,14-30). La successiva condivisione fatta dai ragazzi prima a piccoli gruppi e poi tutti insieme è stata l’occasione proficua e arricchente per guardare prima di tutto in se stessi e insieme al compito di testimonianza loro affidato. L’incontro, alla presenza anche del vicario per la Pastorale don Gianpaolo Maccagni, è stato introdotto dall’incaricato diocesano per la Pastorale giovanile don Paolo Arienti insieme ai cappellani del carcere don Roberta Musa e don Graziano Ghisolfi. Saranno proprio loro a guidare il prossimo appuntamento formativo - in programma nel pomeriggio di sabato 10 novembre - con i laboratori di preparazione degli incontri che si svolgeranno dentro la casa circondariale. Partendo dalla conoscenza della realtà carceraria, si sceglieranno i temi da trattare e le modalità di condivisione. Migranti. La libertà della solidarietà, la sfida dell’integrazione di Luigi Manconi e Federica Resta Il Manifesto, 4 novembre 2018 Nell’attuale fase storica, la “solidarietà” è sopraffatta dall’antagonismo tra gli “ultimi e i penultimi”, inasprito dalla frequente strumentalizzazione della paura e del disagio sociale. “Sono un uomo, niente di umano ritengo a me estraneo”. Attorno alla citazione di Terenzio - in cui la condizione umana è ritenuta essa sola sufficiente a fondare un senso di comune appartenenza - ruotano tra le più belle riflessioni dei classici sul “dovere della solidarietà”. Seneca, in particolare, richiama questa citazione a proposito della funzione della solidarietà nella società, paragonata a un portico di pietra che crollerebbe se le singole sue parti non si sorreggessero a vicenda. E alle più antiche espressioni della solidarietà - quali il dividere il pane con chi non lo abbia e mostrare la strada a chi l’abbia smarrita (doveri così connaturati alla condizione umana da essere definiti, dai romani, “communia”) - Seneca aggiunge il porgere la mano al naufrago: declinazione di quel dovere di accoglienza dell’hospes considerato sacro sin dalla tradizione greco-romana. La solidarietà avrebbe poi spiegato effetti importanti sulla stessa tradizione giuridica, fondando quella particolare categoria di doveri rispetto ai quali più forte si avverte la simmetria tra precetto morale e normativo. E avrebbe poi fondato anche una peculiare libertà, sancita da ultimo dal Consiglio costituzionale francese, con la dichiarazione di illegittimità del delitto di solidarietà verso i migranti, dovendo sempre proteggersi la “libertà di aiutare” gli altri, siano essi regolarmente soggiornanti o meno sul territorio nazionale. La solidarietà come libertà, dunque, oltre che come “dovere inderogabile” (come recita la nostra Costituzione), quale espressione tra le più autentiche dell’umanità. Eppure, in una fase storica, quale quella attuale, in cui sarebbe quanto mai necessaria una maggiore coesione sociale, proprio una categoria - ad un tempo etica e giuridica - come quella della solidarietà, appare sempre più recessiva e sopraffatta dall’antagonismo tra gli “ultimi e i penultimi”, inasprito dalla frequente strumentalizzazione della paura e del disagio sociale. Quello dell’immigrazione è uno dei settori nei quali questa tendenza si manifesta con maggiore incisività, tra la rappresentazione mediatica dei flussi migratori come “invasione” e la reale difficoltà della loro gestione, aggravata anche dalla tendenza a trattare la questione migratoria non quale fenomeno strutturale, ma meramente emergenziale. La mancanza di una strategia di lungo periodo volta ad affrontare, in tutta la loro complessità, le implicazioni sociali, economiche e politiche dell’immigrazione ha infatti finito con il relegarne la gestione ad iniziative di carattere prevalentemente volontario e contingente, così scaricando soltanto su determinate aree geografiche e sulle fasce della popolazione più fragili gli effetti di una convivenza non sufficientemente preparata. Basti pensare che le amministrazioni comunali partecipanti al sistema Sprar di protezione dei richiedenti asilo rappresentano soltanto il 39% circa del totale dei comuni italiani. Ciò dimostra come gli oneri dell’accoglienza non sono, in altre parole, adeguatamente distribuiti in tutto il territorio nazionale, concentrandosi invece solo in alcune aree geografiche, nelle quali la tensione sociale è destinata a subire un inevitabile inasprimento, in assenza di politiche lungimiranti e razionali di governo dell’immigrazione. L’esigenza, di alcune forze politiche, di dimostrare di voler affrontare la questione migratoria con continue quanto velleitarie prove di forza, si è poi spinta sino al punto di negare l’attracco a una nave carica di migranti e persone in condizioni di particolare fragilità, quali donne incinte e minori. A favorire la rappresentazione dello straniero in termini di nemico pubblico ha concorso anche la tentazione - cui spesso si è ceduto - di ridurre la complessità dell’immigrazione a mera questione penale, accrescendo la costellazione di reati privi di offensività a terzi, da cui questo settore dell’ordinamento è caratterizzato. Si è così realizzato un sotto-sistema giuridico speciale per i soli migranti, privati persino, se irregolari, della facoltà di esercizio di diritti fondamentali, che come tali spettano a chiunque a prescindere dalla cittadinanza. A ciò, solo in parte, hanno rimediato pronunce d’incostituzionalità - come nel caso del divieto di matrimonio o dell’aggravante di clandestinità- o saggi atti amministrativi, come per il divieto di rilascio di atti di stato civile, interpretato dal Ministero dell’interno come non ostativo, ad esempio, al riconoscimento dei figli, pena il rischio di rendere adottabile (perché in stato di abbandono) ogni figlio di irregolari. Sono poi alquanto carenti le misure per l’integrazione- che pur avrebbero dovuto fondare, il regime del permesso di soggiorno “a punti” - : dall’insegnamento della lingua e dei principi costituzionali fondativi della nostra collettività, sino a un sistema di acquisto della cittadinanza fondato non esclusivamente sull’”appartenenza di sangue” ma sull’effettiva integrazione della persona. Né si può pensare che siano sentenze - come quella di condanna di un indiano sikh che voleva circolare con un pugnale simbolo della propria tradizione religiosa- a realizzare coattivamente l’integrazione degli stranieri, in assenza della ricerca del miglior equilibrio possibile tra conformità ai principi fondativi del nostro ordinamento e rispetto del pluralismo e della diversità. Il parallelismo tra la rigidità - eccessiva al punto di perdere ragionevolezza- delle politiche di controllo e l’insufficienza delle misure di reale integrazione dei migranti accolti, ha così finito con l’aggravare il clima di ostilità verso stranieri sempre più marginalizzati. Il che è peraltro paradossale per una società, quale quella italiana, caratterizzata da un rilevante invecchiamento della popolazione e decremento della natalità, alla quale gli stranieri contribuiscono con l’apporto di circa il 9% del Pil e di un punto percentuale di contributi sociali. L’accoglienza e l’integrazione degli stranieri costituiscono, allora, non soltanto espressione di quella solidarietà che è ad un tempo libertà del singolo e “dovere inderogabile” della collettività, ma anche una sfida da vincere per la competitività (non solo economica) del Paese, anche grazie all’arricchimento che genera ogni confronto tra diversi. Cina. I diritti negati e il peso dei soldi di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 4 novembre 2018 Non si contano le proteste e le critiche agli Usa per Guantánamo, ma fingiamo di non vedere ciò che accade in Oriente, in Russia e nel mondo arabo. Da oltre un decennio non si contano le proteste e le critiche rivolte dall’opinione pubblica italiana al governo degli Stati Uniti per la prigione di Guantánamo. Cioè per la detenzione in quella base americana nell’isola di Cuba di qualche centinaio (attualmente credo solo qualche decina) di persone di varie nazionalità gravemente sospettate di appartenere a formazioni terroristiche islamiche: detenzione tuttavia senza processo, e quindi a tutti gli effetti illegale secondo le buone regole dello Stato di diritto. Anche per questo appare davvero singolare il silenzio assoluto che invece ha accolto proprio in Italia la notizia dell’inasprimento delle misure repressive già durissime e di pari illegalità che il governo della Repubblica Popolare Cinese ha recentemente deciso nei confronti degli Uiguri. Cioè di una popolazione turcofona, musulmana sunnita, non di etnia Han, abitante nella regione di confine dello Xinjiang, dove fino a poco fa essa rappresentava la maggioranza, e la cui colpa, agli occhi di Pechino, è quella di voler mantenere la propria identità. Il governo cinese ha intrapreso da tempo una politica di radicale snazionalizzazione della popolazione uigura vietando le pratiche religiose, l’uso della lingua e ogni forma di organizzazione autonoma, con relativo controllo poliziesco attraverso la vigilanza sull’accesso a internet e la diffusione in tutti gli spazi pubblici di videocamere dotate di software avanzatissimo per il riconoscimento facciale. Vige inoltre l’obbligo per le famiglie sospette di ospitare nel loro seno rappresentanti dello Stato per soggiorni più o meno lunghi, e infine una serie di discriminazioni a vantaggio degli immigrati Han il cui arrivo nella regione viene favorito in ogni modo. Non bastando tutto ciò Pechino ha deciso l’installazione nel Xianjiang di “centri chiusi di rieducazione politica”, in realtà dei veri e propri campi di concentramento, del cui numero è stato per l’appunto annunciato di recente l’aumento: fino ad ospitare la cifra spaventosa di un milione di persone. Ulteriore particolare agghiacciante: la detenzione di un così alto numero di persone, producendo un alto numero di bambini senza famiglia, ha portato all’apertura di convitti dove essi vengono “educati” dallo Stato al fine di rimodellare per così dire all’origine l’identità uigura. In tutto ciò non c’è nulla di particolarmente sorprendente. Il regime cinese, infatti, non ha mai cessato di essere un regime totalmente illiberale, nazionalista ed espansionista come pochi, intollerante di ogni autonomia, avverso a qualsiasi libertà politica, religiosa, sindacale, persecutore feroce degli oppositori politici e repressivo in ogni suo aspetto (non a caso la Cina detiene il record mondiale delle condanne a morte). Ma dalla scomparsa di Mao in avanti la Cina è guidata da una leadership di grande intelligenza politica. La quale ha capito che i propri propositi egemonici a vastissimo raggio possono essere portati avanti nel modo migliore lasciando da parte le vecchie illusioni ideologiche legate al “comunismo” (il “comunismo” serve solo all’interno per giustificare il potere assoluto del partito unico), e puntando invece su altri mezzi. Innanzi tutto sull’influenza economica e sul denaro. Due mezzi che con l’Occidente e non solo si stanno rivelando efficacissimi. Un mercato gigantesco, un governo il quale, se vuole, mette a disposizione tutto e se vuole finge anche singole liberalità, che è pronto a gettarsi nei progetti più ciclopici e a finanziare ogni iniziativa capace di allargare il proprio raggio d’azione, che compensa più che lautamente gli ospiti e gli amici: è così che la Cina afferma la sua egemonia mondiale. Ed è così che da anni industriali, “creativi”, professionisti, politici, stilisti, intellettuali, personalità d’ogni genere provenienti dai Paesi occidentali si recano speranzosi nel Celeste Impero, ne sono ospiti entusiasti, stabiliscono relazioni, vi fanno affari, lo vezzeggiano in ogni modo, vi tengono conferenze remuneratissime. A questo punto a chi volete che importi qualcosa degli Uiguri, dei diritti umani dei cinesi, dei gulag e compagnia bella? E infatti come ho detto all’inizio non importa a nessuno. Alla prova dei fatti questo sembra essere l’attaccamento del nostro continente ai suoi valori. Viene quasi da pensare che se a suo tempo non ci fossero stati né gli Usa né Pio XII, e Stalin invece di schierare migliaia di carri armati, avesse aperto da Stettino a Trieste una catena di discount, l’Europa sarebbe stata ai suoi piedi. Oggi, in realtà, la sua situazione non è molto diversa da questa. Solo che adesso, al posto della sola Unione Sovietica ritornata ad essere la Russia ci sono almeno altri due o tre grandi centri di potere economico e quindi politico che premono su di noi muovendosi con la massima spregiudicatezza. La Cina, appunto, e poi la Russia, il mondo arabo (con il Qatar e l’Arabia Saudita in prima fila), perfino la stessa Turchia di Erdogan, mostrano per chiari segni di volersi avvalere delle loro risorse finanziarie e di ogni altro strumento “pacifico” a loro disposizione per penetrare e condizionare in un modo o nell’altro la nostra vita politica. Quanto i russi hanno tentato di fare nel caso delle ultime elezioni presidenziali americane - sull’esito effettivo si può discutere ma sul tentativo no - è l’esempio di ciò che può accadere. Bisogna guardare in faccia la realtà. Un intero passato è oggi svanito. Per molti decenni la tensione etica ereditata dagli anni della guerra mondiale e che caratterizzò pure il confronto con il comunismo sovietico, la solidità politica e culturale dei partiti cristiani e socialdemocratici allora egemoni, e diciamo pure la vigilanza americana, valsero nella seconda metà del Novecento a erigere una barriera invalicabile intorno alle classi dirigenti europee occidentali. Assicurando la loro impermeabilità a lusinghe, seduzioni, allettamenti del più vario tipo provenienti “dall’altra parte”; incluse le seduzioni finanziarie: quando non proprio quello dell’arricchimento personale quello ad esempio di generosi “contributi” elettorali. Ma questo passato è oggi svanito, ripeto. Oggi specialmente l’Europa occidentale e i suoi regimi democratici appaiono sostanzialmente indifesi davanti a un mondo esterno aggressivo e senza scrupoli il quale ha grandissimo interesse a piegare le nostre democrazie ai propri voleri. Innanzi tutto - come dimostra il caso della Cina - cancellando la nostra capacità di critica nei confronti delle molte ignominie che in esso si commettono. Indifesa appare in particolare l’Italia, con la sua porosità istituzionale, la sua classe politica perlopiù improvvisata, la sua classe dirigente priva in generale di un forte spirito nazionale e di una consistente moralità. Ormai ogni giorno esponenti a vario titolo del nostro Paese percorrono a frotte i Paesi delle tirannidi e del denaro - dalle regge del Golfo ai cremlini della Moscovia e dell’Asia centrale ed estrema - ritornandone, guarda caso, quasi sempre colmi di ammirazione. È permesso augurarsi che ci sia qualcuno in grado di dare un’occhiata discreta a quello che combinano? Asia Bibi non potrà lasciare il Pakistan Il Manifesto, 4 novembre 2018 Dopo il verdetto. Il governo di Islamabad si accorda con i gruppi islamisti radicali protagonisti di violente proteste contro l’annullamento della condanna a morte per la pakistana cristiana. Fugge, invece, il suo avvocato. Il caso di Asia Bibi non è finito. Dopo le proteste di gruppi islamisti contrari all’annullamento della pena di morte per blasfemia inflitta alla pakistana cristiana, il governo di Islamabad ha trovato un accordo per impedire nuovi scontri. Bibi non sarà ancora rilasciata e le sarà impedito di lasciare il Pakistan (possibilità affatto remota dopo le offerte di asilo di diversi governi stranieri), mentre agli arrestati durante le proteste è assicurato il rilascio. Inoltre il governo non impedirà appelli contro il verdetto dell’Alta corte. In cambio, il partito Tehreek-i-Labaik, in testa alle manifestazioni, ha ordinato ai suoi sostenitori di lasciare le piazze: ieri ha annunciato la fine delle proteste, non senza la minaccia di riprenderle nel caso l’intesa sia violata. “Avevamo due opzioni - ha detto il ministro dell’informazione Chaudhry per giustificare l’accordo - Usare la forza o tentare il negoziato. E in un negoziato dai qualcosa e perdi qualcosa”. A fuggire, dopo la storica sentenza della Corte suprema, è stato l’avvocato della donna, Saif Mulook: continuerà a rappresentarla, ha detto ai giornalisti in aeroporto prima di volare ad Amsterdam (dopo un transito a Fiumicino, scortato dalla polizia italiana), ma restare significherebbe mettere a rischio la propria vita. “Non possono neppure implementare un ordine della più alta corte del paese”, ha detto Mulook. Immaginarsi difendere lui e la sua assistita. Ci prova il marito di Asia: ieri ha scritto alla premier britannica May chiedendole di portare in salvo la moglie. L’Australia promette: fuori i minori dal centro di detenzione per migranti di Nauru di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 novembre 2018 Il 1° novembre, cedendo alle pressioni dell’opinione pubblica interna e delle organizzazioni per i diritti umani locali e internazionali, il governo australiano ha fatto l’annuncio che entro la fine dell’anno i minorenni reclusi nel centro di detenzione per migranti dell’isola di Nauru verranno rilasciati. La prolungata detenzione dei migranti e dei richiedenti asilo minorenni è uno degli aspetti più brutali della politica di gestione “oltremare” dell’immigrazione da parte del governo australiano, che dal 2012 impedisce sistematicamente di raggiungere le coste del paese per chiedere asilo e, in questi anni, ha respinto migliaia di persone verso l’isola di Nauru e quella di Manus, indipendente la prima e parte di Papua Nuova Guinea la seconda. Una politica spietata e peraltro costosissima per il contribuente australiano. Delle persone di cui è stato annunciato il rilascio 46 sono nate in detenzione, altre hanno passato il periodo della crescita e della formazione circondati da filo spinato e guardie armate. Tra ricollocamenti negli Usa, rilasci sul territorio di Nauru e trasferimenti in Australia per trattamento ospedaliero o altre ragioni, i dati ufficiali dicono che i minorenni attualmente detenuti sarebbero 40. Ci sono due punti interrogativi, cui il governo australiano deve dare risposte e rassicurazioni. I minorenni che verranno rilasciati finiranno per essere nuovamente reclusi nei centri di detenzione dell’Australia? O verranno integrati, come dovrebbe essere, nella società e assistiti dal punto di vista psicologico, dopo le sofferenze patite a Nauru? E che ne sarà dei loro genitori? Se non verranno liberati a loro volta, un provvedimento apparentemente positivo produrrà separazioni familiari, peggiorando la situazione dei piccoli e dei grandi?