Suicidi, in dieci mesi superati quelli dell’anno scorso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 novembre 2018 Sono già 53 le persone che si sono tolte la vita in carcere, contro le 52 del 2017. Anche il sovraffollamento cresce e sfonda il muro dei 9.000 (59.803 detenuti su 50.616 posti disponibili). Ieri l’ultima: una donna reclusa a Salerno, mentre il giorno prima ne è stato sventato uno ad Avellino, grazie all’intervento degli agenti penitenziari. Escalation di suicidi in carcere nel giro di pochi giorni. L’ultimo suicidio avvenuto nel carcere di Salerno il primo di novembre ha decretato, con due mesi di anticipo, il triste sorpasso rispetto all’anno scorso. Ad oggi risultano 53 suicidi dall’inizio dell’anno a fronte dei 52 di tutto il 2017. Una conta macabra delle nostre patrie galere che è sintomo delle criticità del sistema penitenziario. È il garante dei detenuti della regione Campania, Samuele Ciambriello, a denunciare l’insostenibile istituzione carceraria, dando notizia relativa all’ultima tragedia che riguarda una detenuta ristretta nella sezione femminile del carcere di Salerno. L’ottavo suicidio dall’inizio dell’anno nella solo regione Campania. “È la prima donna a suicidarsi in Campania, dove dall’inizio dell’anno già sette detenuti si sono tolti la vita. Il carcere deve servire a rieducare non a togliere la vita, o a restringere diritti ed annullare la dignità”. Queste sono le amare parole del Garante campano delle persone private della libertà che dà anche la notizia di un tentato suicidio verificatosi ieri nel carcere di Avellinio. Parliamo di un 40enne Pellegrino Pulzone, in carcere per omicidio, che dopo un periodo di osservazione psichiatrica nel carcere di Sant’Angelo dei Lombardi, era rientrato sabato scorso ad Avellino. Ciambriello sull’accaduto racconta che “il personale intervenuto sia di polizia penitenziaria che sanitario, è stato davvero bravo ed immediato nei soccorsi salvando il detenuto che adesso è in rianimazione all’Ospedale di Avellino”. Dopo i suicidi molti operatori penitenziari e sindacati di categoria chiedono sia più assunzioni sia il restringimento di libertà, la chiusura delle celle, del regime aperto per i detenuti e il superamento della vigilanza dinamica. Per il garante campano Ciambriello sono temi fuorvianti perché “Il ministero ha destinato appena 73mila euro per il trattamento dei detenuti campani, su una popolazione detenuta di 7642 persone, ci sono solo 95 educatori, 43 psicologi ministeriali e una ventina di psicologi e psichiatri delle Asl per i 15 istituti campani. Oltre al potenziamento delle figure sociali di educatori, assistenti sociali, psicologi, c’è bisogno di una maggiore formazione specifica per la polizia penitenziaria e l’area educativa. Tra l’anno scorso e quest’anno i tentativi di suicidio nelle carceri campane hanno superato il numero di cento. Il tema della prevenzione dei suicidi non può essere ristretto alla riflessione e alla responsabilità di chi si trova a gestire il carcere ma richiama alla responsabilità il mondo della cultura, dell’informazione, della politica e della magistratura, perché la perdita di giovani vite ad un ritmo quasi settimanale sia assunta sia nella sua drammaticità come effettiva riflessione che come operatività negli interventi alle marginalità individuali e sociali”. Un allarme che riguarda tutto il sistema penitenziario nazionale. Qualche giorno, prima, esattamente il 30 ottobre, si è verificato un altro suicidio. Questa volta al carcere di Grosseto, dove un detenuto di 66 anni, Pasquale Trillicoso, si è tolto la vita. Un gesto che nessuno si sarebbe aspettato visto che era considerato un detenuto modello. Un definitivo che in carcere lavorava, era condannato a 5 anni per scippo e rapina e gli restava da scontare circa 1 anno. Un gesto ritenuto imprevedibile dal sindacato della polizia penitenziaria Fns Cisl che ne ha dato la notizia. “Quanto accaduto - sottolinea il segretario Regionale di Fns Cisl Paolo Rauccio - ripropone il tema del sovraffollamento dei detenuti nei penitenziari e la contestuale carenza di Personale di Polizia Penitenziaria che - a causa di tale condizione di carenza - vede tanti reparti vigilati da un solo agente, magari contemporaneamente per più piani diversi degli edifici”. Proprio agli inizi di ottobre, il garante dei detenuti della regione Toscana, Franco Corleone, ha denunciato il rischio sovraffollamento e non solo. Siamo di fronte a un aumento dei detenuti in tutta Italia, incluso in Toscana - ha spiegato nel corso di una conferenza stampa. Il rischio del sovraffollamento comincia ad essere all’orizzonte. Occorre cambiare la vita quotidiana negli istituti, ma al tempo stesso bisogna avere più coraggio per le uscite dal carcere dei tossicodipendenti. È un compito affidato alla magistratura di sorveglianza e dobbiamo spingere affinché ci sia molta consapevolezza della gravità della situazione”. Il sistema penitenziario toscano è afflitto da numerose criticità: “Abbiamo un elenco lunghissimo di questioni aperte - ha richiamato l’attenzione Corleone. Nelle prossime settimane terremo un incontro con il provveditore dell’amministrazione penitenziaria per presentare un calendario che definisca i tempi per realizzare gli interventi stabiliti”. Perché, ha fatto notare, “ci sono molte buone intenzioni, ma non si realizzano le cose nei tempi previsti. Abbiamo, ad esempio, l’incognita della cucina dell’ala ad alta sicurezza a Livorno, che si trascina ormai da due anni”. Problemi enormi che vedono impegnata in prima fila l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini giunta al 18esimo giorno dello sciopero della fame per chiedere al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di essere ricevuta e instaurare un dialogo sulla questione urgente riguardante il sistema penitenziario. Sovraffollamento e bambini dietro le sbarre - Intanto il sovraffollamento carcerario, al livello nazionale, è destinato ancora a crescere. Al 31 ottobre, secondo i dati aggiornati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, risultano 59.803 detenuti. Un risultato che fa registrare 9.187 detenuti oltre alla capienza regolamentare che risulta, ufficialmente, di 50.616 posti. Al 30 settembre, invece, erano 8.653 i detenuti in più. Ancor prima, ad agosto, erano invece 8.513 i ristretti oltre i posti disponibili. I numeri del sovraffollamento risulterebbero addirittura maggiori se si sottraessero dai posti disponibili circa 5000 celle inagibili che, invece, vengono conteggiate nei 50.622 posti disponibili. Il sovraffollamento quindi è destinato ad aumentare nonostante che nel passato, grazie a diverse misure adottate dopo la sentenza Torreggiani, si sia ridimensionato. Di fronte all’emergenza, la politica, vecchia e nuova, risponde con la costruzione di nuove carceri che puntualmente non bastano mai. Motivo per il quale, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) sottolineò che costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non è la strada giusta, perché “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”. Viceversa, “gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. Ancora rimane la permanenza dei bambini dietro le sbarre. Sono 42 le mamme detenute che hanno un totale di 50 figli al seguito, diciannove dei quali sono in carcere. mentre il resto dei piccoli sono negli Istituti a custodia attenuata che rientrano, però, sempre dentro il perimetro penitenziario. Anche in questo caso, la soluzione del guardasigilli è una sola: costruire più Icam e non rendere più fruibile la detenzione domiciliare come prevedeva la riforma originaria. La pena senza fine di Alice per i suoi due bimbi di Simona Musco Il Dubbio, 3 novembre 2018 Alice Sebesta “ha una grave forma di dissociazione” e aveva già alle spalle un percorso clinico di 9 anni quando è finita in carcere a Rebibbia, dove il 18 settembre ha ucciso i suoi due bambini, scaraventandoli giù per le scale. A rivelarlo è il legale della donna, Andrea Palmiero, dopo l’incidente probatorio di lunedì scorso, finalizzato a capire se la donna, arrestata il 26 agosto perché trovata in possesso di 10 chili di marijuana, sia capace di intendere e di volere. Una procedura che dovrà anche accertare la pericolosità sociale della 31enne tedesca, accusata di duplice omicidio volontario, per decidere se collocarla in una struttura adeguata per eventuali cure psichiatriche. “La sua è una patologia abbastanza forte - spiega al Dubbio Palmiero - e il consulente ha rilevato una grave forma di dissociazione”. Sembra sempre più improbabile, dunque, che si possa arrivare ad un giudizio di parziale incapacità: la donna “soffriva da tempo di un grave disturbo della personalità, che ha richiesto un percorso clinico lungo in Germania e che è stato costellato da gravi atti di autolesionismo e tentato suicidio”. Nonostante questo, però, lo scorso 19 settembre - cioè un giorno dopo la tragedia - il Riesame si era pronunciato sulla richiesta di arresti domiciliari avanzata a suo tempo dall’avvocato della donna, respingendola: secondo i giudici del Riesame, sussisteva “il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie”. Alice Sebesta “non risulta svolgere alcuna attività lavorativa, dimostrano che la misura applicata ovvero il carcere, in compagnia dei suoi due bimbi, ndr è l’unica adeguata a fronteggiare le delineate esigenze, come affermato dal primo giudice, essendo altamente che la donna, ove rimessa in libertà, spinta da ragioni economiche possa nuovamente prestarsi come ‘ corrierè della droga”. La richiesta di arresti domiciliari è stata respinta per due volte: nel primo caso in quanto la donna non aveva una casa in cui poter eleggere domicilio, ma anche una volta individuata l’abitazione e avanzata una seconda istanza, la richiesta è stata rigettata. “Senza alcuna giustificazione a mio avviso plausibile - aveva commentato l’avvocato. Secondo il gip, la difesa non aveva portato alcun elemento nuovo. In realtà, però, l’elemento nuovo c’era: la casa, appunto”. Per i giudici del Riesame, “non può essere presa in considerazione la detenzione domiciliare presso il domicilio di un soggetto di nazionalità nigeriana, di cui non si conosce il rapporto che lo lega alla Sebesta, peraltro della stessa nazionalità dei soggetti con cui l’indagata è stata tratta in arresto a bordo dell’autovettura e a cui verosimilmente doveva consegnare la droga”. Il giudizio abbreviato per il possesso di marijuana inizierà il 5 dicembre e anche lì verrà avanzata una richiesta di perizia psichiatrica. L’ultimo incontro con la donna in merito al procedimento per l’omicidio avverrà invece il prossimo 29 novembre, mentre il 2 dicembre verrà depositato l’esito della perizia, che accerterà quali siano le sue condizioni psichiche. Condizioni che a settembre scorso, dunque, non erano state ritenute incompatibili con il regime carcerario, probabilmente erroneamente, secondo quanto emerso negli ultimi giorni, ma anche secondo quanto contenuto in un documento firmato dal capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, visionato dall’Ansa subito dopo la tragedia. Prima di uccidere Faith, di 4 mesi, e Divine, di 19 mesi, la donna sarebbe stata segnalata più volte “per alcuni comportamenti, sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli”, tanto che il personale del carcere aveva segnalato “la necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico”. Elementi che, assieme a quanto emerso dalle prime fasi dell’incidente probatorio, vanno “a incidere sulle responsabilità di chi aveva il dovere di vigilare su di lei”, aggiunge Palmiero. Il legale sta ora tentando di ottenere dalla Germania tutti i documenti relativi allo stato di salute della donna. “Quello che voglio capire spiega - è l’evoluzione della mente di questa persona, che continua a dire di aver salvato i propri bambini dalla mafia, dalla pedofilia e dal male”. Una donna che, aggiunge, continua a rimanere chiusa in se stessa: “vive un equilibrio molto fragile. Quando realizza ciò che è successo conclude - le mancano i bambini e prorompe in un pianto continuo, ma si giustifica dicendo di averli salvati. L’aspetto più brutto è questo: si sente una mamma che ha protetto i propri figli, ma al tempo stesso soffre. Come se fosse un male inevitabile” Più risorse per l’edilizia e la manutenzione delle carceri minorili Italia Oggi, 3 novembre 2018 Le risorse non utilizzate per la riforma dell’ordinamento penitenziario possono essere destinate ad interventi urgenti di edilizia penitenziaria e manutenzione sugli immobili dell’amministrazione penitenziaria minorile. Una parte del fondo, da 10 milioni di euro, potrà essere usata dal 2019. “La disposizione è tesa ad ampliare la possibilità di utilizzo delle risorse del Fondo, destinato all’attuazione della legge 103/2017, anche al finanziamento di interventi urgenti per la funzionalità delle strutture e dei servizi penitenziari e minorili” si legge nell’articolo dedicato. Di conseguenza, non ci sarà un aggravio per le casse dello Stato, visto che le risorse sono già previste nel fondo sopracitato. Dal 2019, quindi, potranno essere finanziati anche interventi di ristrutturazione e manutenzione delle carceri minorili. Dove sono finiti i tanti difensori della Costituzione? di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 3 novembre 2018 Ma dove sono tutti quanti? Così pare che abbia esclamato il fisico Enrico Fermi riflettendo sul fatto che, dato l’enorme numero di stelle che popolano l’Universo, dovrebbero essere numerosissime anche le civiltà extraterrestri. Ci si può porre oggi la stessa domanda pensando ai tanti difensori tutti di un pezzo (acronimo: Dtpc) della Costituzione italiana. Mentre non sappiamo se gli extraterrestri esistano oppure no, sappiamo per certo che i Dtpc, almeno fino a un paio di anni fa (ancora ai tempi del referendum costituzionale), esistevano. All’epoca, anzi, erano numerosissimi e chiassosissimi: sempre pronti a gettarsi generosamente nella mischia, pronti a menar le mani non appena qualcuno minacciava di cambiare una virgola o un punto e virgola di un qualche comma della Costituzione. Allora scattavano subito le tre M : mobilitazioni(ovviamente antifasciste), manifesti, manifestazioni. Un diluvio di parole in libertà. Il mondo Dtpc è (era?)un mondo/movimento stratificato e gerarchico. Al vertice ci sono le componenti più istituzionali. È ovviamente folta, ai livelli di vertice, la presenza di politici di professione che però cambiano, entrano o escono dal giro a seconda delle circostanze. Oltre a diverse presenze fisse(per lo più politici già attivi all’epoca della Prima Repubblica)ci sono talvolta anche presenze bizzarre e estemporanee. Nell’ultimo giro, quello del referendum costituzionale, ad esempio, essendo adirato (non senza ragioni) con Matteo Renzi, ci è finito dentro persino Silvio Berlusconi. Sempre al vertice ci sono le organizzazioni sopravvissute al naufragio della sinistra del tempo che fu (Cgil, Magistratura Democratica, Anpi eccetera). Seguono poi, un gradino più sotto, gli intellettuali organici del movimento Dtpc, essenzialmente professori di diritto (costituzionale ma non solo). Dietro (o al di sotto) di loro, c’è un variopinto caravanserraglio composto da intellettuali di ogni grado e tipo, gente dello spettacolo, eccetera. Al fondo della torta, ultimo strato, infine, troviamo tanti cittadini comuni sempre pronti a mobilitarsi, a rispondere positivamente ai richiami che provengono dagli strati superiori. Tutti, dal vertice in giù, sono accomunati dal fatto di essere pronti a scattare in qualunque momento, ardendo di indignazione per la Costituzione minacciata e la democrazia in pericolo. Si noti che un tempo il movimento suddetto non si attivava solo in occasioni istituzionali (referendum): bastavano certe dichiarazioni non di suo gradimento in materia costituzionale da parte di capi politici importanti ma detestati dal movimento stesso per scatenare la buriana. Minimo minimo arrivavano una vagonata di articoli indignati e il solito appello dei soliti intellettuali. Ma ora dove è andato a nascondersi il movimento Dtpc? Qualche mese fa, i capi (quelli veri, Casaleggio e Grillo) del partito più forte, i 5 Stelle, hanno manifestato il proposito di rottamare il Parlamento. Un paio di settimane fa Grillo ha attaccato i poteri del capo dello Stato. Ci si poteva aspettare, da parte dei Dtpc, un baccano d’inferno. C’è stato invece un assordante silenzio. Già un’altra volta, poco tempo fa (Corriere, 14 agosto), ho provato inutilmente a stanarli. Le circostanze presenti gettano sui Dtpc una luce nuova. Un tempo si poteva anche pensare che a muoverli fossero soprattutto il provincialismo e l’ignoranza di come funzionano le altre democrazie occidentali insieme all’ inconfessabile desiderio di continuare ad avere una democrazia inefficiente. Chi scrive non era il solo a chiedersi: come fanno costoro a definire “progetto autoritario” qualunque proposta di rafforzamento dell’esecutivo? Non si rendono conto che questa tesi non regge né dal punto di vista storico né da quello comparativo? Non possono non sapere che le ragioni per cui i costituenti scelsero di dare vita a governi istituzionalmente deboli si spiegano con le speciali circostanze in cui nacque la Costituzione italiana. Inoltre, devono sapere che governi istituzionalmente forti sono la regola nelle grandi democrazie europee (Cancellierato in Germania e Spagna, governo del premier in Gran Bretagna, semi-presidenzialismo in Francia). Perché solo da noi rafforzare il governo dovrebbe comportare un salto dalla democrazia all’autoritarismo? A motivare tesi così inconsistenti era — o così sembrava — soprattutto l’ostilità per l’idea stessa di democrazia efficiente, governante. Essi temono più di tutto - si poteva pensare - una politica capace di decidere, una politica non intralciata da un eccesso di poteri di veto. Appariva chiaro il fatto che essi non comprendessero la differenza che corre fra i solidi argini costituzionali necessari per impedire ai governi di diventare tirannici e un insieme di poteri di veto così stringenti e pervasivi da rallentarne al massimo l’attività e da renderli sempre fragili, instabili, di breve durata. Questo era, in altri tempi, tutto ciò che poteva pensare chi dissentiva dai Dtpc pur riconoscendo a molti di loro l’attenuante della buona fede. Oggi quel riconoscimento non è più possibile. Sembra proprio che alla maggioranza di questi paladini della Costituzione nata dalla Resistenza importi ben poco sia della Costituzione che della Resistenza: la difesa della Costituzione contro le “involuzioni autoritarie” è più che altro un’arma politica di comodo da utilizzare contro il nemico di turno, si chiami Bettino Craxi, Silvio Berlusconi o Matteo Renzi. Evidentemente, essi non considerano nemici Grillo, Casaleggio e soci. Per inciso, questo è un aspetto che richiederà di essere studiato a fondo. Suggerisco che abbia a che fare con una questione di consonanze ideologiche, di affinità elettive: peronisti sono i 5 Stelle, peroniste sono sempre state le concezioni dominanti negli ambienti intellettuali italiani. Poiché, comunque sia, i Dtpc non catalogano i 5 Stelle come nemici, essi possono soprassedere, possono fischiettare, fingere di non avere ascoltato i propositi costituzionalmente eversivi di Grillo e Casaleggio. In tempi più civili, i Dtpc, reduci dalla grande battaglia combattuta e vinta contro il “progetto autoritario” (come lo definivano) di Matteo Renzi, avrebbero per lo meno cercato di salvare le apparenze. Avrebbero finto di essere scandalizzati dalle parole di Grillo e Casaleggio. Quei tempi civili sono passati, non è più nemmeno necessaria l’ipocrisia: il vizio non ha più bisogno di rendere omaggio alla virtù. In Italia, diceva Giovanni Giolitti, le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici. Vale anche per la Costituzione. Bonafede: “Piano record di assunzioni. E cambierò il processo penale” di Andrea Malaguti La Stampa, 3 novembre 2018 Il ministro della Giustizia: “Stop alla prescrizione per recuperare credibilità. Lega contraria? È tutto scritto nel contratto. L’unica soluzione è ampliare la pianta organica”. Ministro Bonafede, perché è così importante fermare la prescrizione dopo il primo grado di giudizio? “Perché il sistema deve recuperare credibilità agli occhi dei cittadini. Non possiamo pensare che un processo passato attraverso spese, indagini e sentenze, si risolva a tarallucci e vino prima del giudizio definitivo. E poi la prescrizione esiste solo in Italia”. Vero. Ma, ad esempio, in Germania e in Gran Bretagna le parti e i giudici stabiliscono tempi certi per i processi. E negli Stati Uniti l’80% delle cause si chiude con i riti alternativi. “Appunto nessuna prescrizione”. È come se ci fosse. “No. In quei casi sono gli Stati a farsi carico dei tempi della giustizia. Ed è la stessa cosa che voglio fare io. Voglio un sistema giudiziario con le spalle larghe. Capace cioè di reagire in tempi rapidi. Se un cittadino chiede giustizia lo Stato deve dare una risposta celere. E su questo dobbiamo essere tutti d’accordo”. Come si fa? “Investendo. Sui magistrati e sul personale amministrativo. Per farla finita con il grande equivoco italiano che consente ad alcune categorie protette di salvarsi grazie ai cavilli”. Bastano i 500 milioni previsti dalla manovra? “Basteranno. Visito i tribunali a sorpresa quasi ogni giorno. E tutti mi dicono la stessa cosa: ci manca personale. Faremo un ampliamento della pianta organica che questo paese non ha mai visto”. Ci crede solo lei. “No. Ci credono in tanti”. Quanto tempo ci vorrà per vedere i benefici della riforma? “Un paio di anni. La riforma sulla prescrizione entrerà in vigore con la nuova legge e non sarà retroattiva. Ma stiamo anche preparando una riforma chirurgica del processo penale”. Ovvero? “Non posso anticipare nulla. Ma le garanzie degli imputati per me sono sacre”. Nell’attesa, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali parla di “riforma raccapricciante, in cui non c’è neppure la distinzione tra chi viene assolto e chi viene condannato in primo grado”. “Non c’è distinzione perché entrambi sono presunti innocenti fino alla sentenza definitiva. È uno dei principi cardine del nostro ordinamento”. Un principio che fino ad oggi ha lasciato gli innocenti ostaggi dei processi e le vittime senza giustizia. “Una giustizia lenta è sempre una giustizia negata, questo è sicuro. Ma io penso molto spesso alle vittime della strage del treno di Viareggio, dove ogni cosa è stata fatta rapidamente. Eppure due delle accuse sono già cadute in prescrizione. Cosa dobbiamo fare in casi come questo? Dire alle vittime: tempo scaduto andate a casa? Questo governo ha rimesso la giustizia in testa alle priorità. E non si fa tirare per la giacchetta da nessuno. Basta con i dibattiti politici”. Lo ha spiegato ai colleghi della Lega? “Non ce n’era bisogno. È tutto scritto sul contratto”. Loro sembrano non saperlo. “Lo sanno. Lavoriamo assieme su tutto. Ad esempio su una serie di accordi con Paesi come il Marocco o l’Albania per rimandare nelle loro carceri i loro concittadini che hanno commesso reati da noi”. È vero che volete inasprire le pene detentive per i più importanti reati tributari? “Sì. Il carcere per gli evasori fa parte del contratto di governo”. Anche i condoni fanno parte del contratto di governo? “La pace fiscale?” Se vuole... “Voglio. Perché noi non prevediamo nessuna sanatoria per chi ha commesso dei reati penalmente perseguibili”. Ischia è la terra di Di Maio. Un caso? “Ischia è un posto dove c’è stato un terremoto e dove da anni ci sono persone in attesa di avere una risposta alle loro pratiche. Vogliamo solo che quella risposta arrivi. Non solo non saniamo nessuna punibilità, ma diciamo anche che da ora in poi gli evasori finiranno in carcere”. Vi devono credere anche le persone a cui avevate detto di essere contrari ai decreti omnibus? “Parla del decreto Genova?”. Sessanta articoli. Da ponte Morandi a Ischia. “È un decreto che fa riferimenti a emergenze oggettive del paese. I decreti omnibus sono un’altra cosa. Quello per esempio, per me indimenticabile, che nella precedente legislatura metteva assieme il femminicidio e la Tav”. Ministro, le piace la norma del decreto sicurezza che inverte l’onere della prova sulla legittima difesa? “Mi piace? È stata approvata grazie al parere del governo del quale faccio parte e del mio ministero. Abbiamo discusso e trovato un equilibrio ottimo. Tuteliamo le persone che si trovano un ladro in casa e non hanno il tempo di fargli una perizia psicologica”. Dunque libertà di sparare? “Ma figuriamoci. La vendita delle armi nel nostro paese è strettamente regolamentata. Ed è chiarissimo che la sicurezza dei cittadini deve essere garantita dallo Stato e dalle forze dell’ordine. Detto questo è ovvio che chi si trova un ladro in camera per prima cosa pensa a difendere se stesso e la propria famiglia”. Lei parteciperà alla manifestazione contro i signori di Bruxelles invocata da Salvini? “Non credo”. Vi sareste trovati meglio firmando un contratto col Pd? (ride) “Noi ci siamo aperti al dialogo con tutti. La storia è nota. Con la Lega abbiamo trovato la possibilità di condividere dei temi. E, anche se abbiamo storie e dna differenti, fino ad ora stiamo riuscendo a fare quello che abbiamo promesso”. Compreso il reddito di cittadinanza? “Non c’è dubbio”. Giorgetti un dubbio ce l’ha. “Il governo non ne ha nessuno”. Il codice penale italiano risale al Ventennio di Carlo Nordio Il Messaggero, 3 novembre 2018 La “filosofia” e l’impalcatura del testo sono intatte. Mentre la procedura cambiò con Vassalli. Fu il giurista Vincenzo Manzini a redigere, in larga parte, le norme che ancora oggi regolano i nostri processi. Malgrado l’opera “purificatrice” successiva, restano vuoti e paradossi, dalla legittima difesa al suicidio assistito. Nell’ottobre del 1928, esattamente novanta anni fa, Vincenzo Manzini fu incaricato dal ministro della Giustizia, Alfredo Rocco, di redigere la relazione di accompagnamento al codice penale. Due anni dopo, sempre in Ottobre, il Re Vittorio Emanuele III promulgò il codice, che formalmente si chiama ancora “codice Rocco”: ma che in realtà fu, in larga parte, opera di Vincenzo Manzini. Perché queste ricordiamo queste date significative e questo giurista illustre? Perché di recente alcuni giornali hanno pubblicato indignati articoli e accorati appelli di lettori che, avendo visto esposto alla stazione di Roma un calendario con la faccia del Duce, si sono risentiti. In effetti può sembrare sconveniente che l’ispiratore dell’omicidio di Matteotti, l’autore delle famigerate leggi razziali, il pugnalatore della Francia nel 1940, il fantoccio di Hitler nella Repubblica di Salò e, non ultimo, il miserabile fuggiasco che cercò di svignarsela travestito da soldato tedesco, sia impunemente ricordato in luoghi pubblici con un messaggio elogiativo. Tanto che, sempre di recente, sono sorte iniziative per sanzionare con il carcere anche chi vende il vino l’etichetta del dittatore. E sono questi paradossi che dovrebbero farci riflettere sulla schizofrenia di questo infelice e meraviglioso Paese. Perché se queste persone, (l’editore, il giornalaio, il vignaiolo) fossero condannate, lo sarebbero in base a un codice che reca proprio il nome incriminato. Non è uno scherzo. Apritene uno, e troverete, in prima pagina, le firme del Re, Capo dello Stato, e quella di S.E. Benito Mussolini, capo del governo. Ma torniamo a Vincenzo Manzini. LA VITA Era nato a Udine, il 20 agosto 1872. A ventotto anni era già libero docente. Insegnò diritto e procedura penale in varie Università, ma Padova fu la sua sede prediletta. Aderì incondizionatamente al fascismo, e vulnerò la propria integrità morale scrivendo, in occasione del processo agli assassini di Matteotti, che quest’ultimo se l’era cercata. Accumulò riconoscimenti e onori, e mantenne un’autorità indiscussa anche dopo la caduta del fascismo. Morì a Venezia nel 1957. Il suo Trattato di diritto penale, in vari volumi, ha costituito il fondamento didattico di almeno tre generazioni di avvocati e magistrati. Come Concetto Marchesi, suo collega patavino e stalinista convinto, riuscì a conciliare una profonda onestà personale con un’adesione a un’ideologia sciagurata. Ma mentre gli studi del grande latinista rimasero confinati nella sfera delle belle lettere, quelli di Manzini si tradussero in un codice penale che è ancora in vigore. E per capirne la filosofia, ne citiamo alcuni principi ispiratori, comprensibili anche a chi è digiuno di giuridichese. Nella sua relazione al ministro, e nel suo “Trattato”, Manzini scrive: “La riforma penale si è naturalmente ispirata alla concezione politico-giuridica dello Stato fascista, mentre il codice precedente era informato ai principi dello Stato democratico”. E ancora: “Per la filosofia del fascismo lo Stato è concepito come un organismo, ad un tempo, politico e giuridico, etico e religioso... come un’unità non solo sociale, ma altresì etnica, legata da vincoli di razza, di lingua, di costume, di moralità, di religione”. E infine: “La politica (fascista) è la più assidua forza ravvivatrice del diritto... mentre la sovranità popolare è un’impostura democratica”. Qui ci fermiamo, perché l’ammirazione che abbiamo per Manzini giureconsulto (come quella per Marchesi umanista) ci trattiene dalla dolorosa indagine sui misteri della coscienza individuale, e sulla incredibile coesistenza, nello stesso cervello, di virtù civile, di genialità tecnica e di scelleratezza ideologica. I princìpi di Vincenzo Manzini furono trasferiti in norme positive e vincolanti, alcune delle quali rimasero in vigore per decenni dopo la proclamazione della Repubblica e della sua Costituzione. Ricordiamo con raccapriccio i “reati contro l’integrità della stirpe”, la disciplina dell’aborto, il delitto d’onore e l’adulterio femminile: tutte ipotesi che furono espunte con fatica e dopo lunghi dibattiti dal nostro ordinamento democratico. Tuttavia, questa opera purificatrice è stata sommaria e in parte inefficace, perché l’impalcatura ideologica dello Stato etico, e del regime che lo aveva recepito, è rimasta intatta. Lo è ancora oggi nella legittima difesa, dove chi respinge un’aggressione ingiusta “non è punibile”. Come dire: hai commesso un reato, ma lo Stato benevolmente ti scusa. Mentre in un codice liberale dovrebbe esser lo Stato a scusarsi per non aver saputo impedire l’offesa a un suo cittadino. Lo è nell’omicidio del consenziente e nel reato di agevolazione del suicidio, dove c’è voluta le recentissima ordinanza della Corte Costituzionale nel processo a Marco Cappato per rilevare l’incoerenza del precetto e il vuoto normativo che ne consegue. E lo è, più in generale, nel considerare l’individuo non un “civis optimo iure”, ma poco più di un suddito, perché, come scriveva lo stesso Manzini, “nello Stato fascista sono inesorabilmente bandite tutte le imposture demo liberali... e il legislatore fascista rispetta e promuove solo la pubblica opinione che è pubblico consenso al regime”. Come dire che lo Stato, nella sua autocertificazione di monopolio etico, religioso e pedagogico, fa dell’individuo quello che gli pare. Come questo codice sia potuto sopravvivere a settant’anni di Costituzione “democratica nata dalla Resistenza” è ancora un mistero. Lo è ancor di più se si pensa che il contemporaneo codice di procedura penale, sempre firmato da Rocco-Manzini, è stato sostituito trent’anni fa da quello elaborato dal professor Giuliano Vassalli, decorato eroe partigiano. Ma mentre quest’ultimo codice è stato ripetutamente modificato, riveduto e pasticciato, quello del fascistissimo Manzini campeggia ancora, nella sua sostanziale integralità, sullo scranno dei giudici. Una ragione potrebbe esser questa: che la nostra Costituzione è ispirata da due ideologie, quella cattolica e quella marxista, che proprio liberali non sono, e quindi mentre il codice Vassalli ne era culturalmente estraneo, quello del Manzini, fondato più o meno sugli stessi principi di supremazia della collettività sull’individuo, è con essa più compatibile. Ma questo è un problema che riguarda il legislatore. Per il cittadino normale che trova in stazione il calendario di Mussolini, o in enoteca il vino di Predappio, non deve esserci motivo di indignazione e neanche di sorpresa. Se un domani dovesse finire in tribunale, sappia che la sentenza, pronunciata in nome del popolo italiano, sarebbe fondata sul codice di Vincenzo Manzini, con la firma del Duce. La prescrizione va salvata facendo giustizia di Mario Chiavario Avvenire, 3 novembre 2018 Suscita roventi polemiche la mossa annunciata (quasi) a sorpresa del ministro Bonafede, per sospendere sine die il corso della prescrizione penale una volta finito il processo di primo grado. Una critica di metodo è certamente legittima: quella di voler infilare con un emendamento in una normativa specifica - la cosiddetta “spazza-corruzione” - una regola palesemente estranea perché destinata a valere per qualsiasi reato. Forzature del genere sono un vecchio vizio di ministri e parlamentari di ogni colore, ma il fenomeno sta assumendo dimensioni e particolarità sempre più tra il preoccupante e il ridicolo (il “caso Ischia” insegna). Nel merito, la proposta appare eccessiva, per quanto in passato essa abbia avuto il sostegno di giuristi autorevoli e tutt’altro che forcaioli. Ma sarebbe opportuno anche non esagerare con i toni da scandalo. Un punto che andrebbe finalmente chiarito, senza esasperazioni unilaterali, è quello dell’ambiguo rapporto tra la disciplina legislativa della prescrizione e il principio costituzionale (art. 111) della ragionevole durata dei processi. Si dice, e non del tutto a torto, che con la proposta pentastellata prende corpo il rischio di processi che durino all’infinito, a lesione di tale principio e con una innegabile iniquità, quantomeno quando sia il pubblico ministero a impugnare una sentenza di assoluzione (anche se resterebbero pur sempre in piedi come deterrenti la possibilità di censure a opera della Corte europea di Strasburgo e la “legge Pinto”, che configura sostanziosi risarcimenti per le violazioni di quel principio a prescindere dall’operare o meno della prescrizione). Si osserva poi che la più alta percentuale di prescrizioni si registra già in fase di indagini preliminari e non davanti alle Corti di appello o alla Corte di cassazione. Vero anche questo; ma ciò accade soprattutto perché i magistrati inquirenti accantonano certi fascicoli, sol perché già si può dare per scontato che, se si andasse avanti, la prescrizione, prima o poi, scatterebbe comunque... In ogni caso è notorio che gli appelli sono spesso usati soltanto per cercare di portare avanti il processo, in modo da far scattare, mal che vada, la prescrizione; e vengono proposte impugnazioni che altrimenti sarebbero ritenute indecorose da qualunque difensore. Colpa degli avvocati? No, colpa del sistema; ma non si venga a dire che, in un simile contesto, la presenza della prescrizione è sempre a garanzia del principio della ragionevole durata del processo e addirittura pilastro dello Stato di diritto... Una soluzione abbastanza equilibrata, sul punto, si è trovata con la ‘riforma Orlando’ della scorsa legislatura: oggi, perciò, la prescrizione resta sì sospesa, ma solo per diciotto mesi quando si va in appello e per altri diciotto mesi durante il giudizio di Cassazione. È sufficiente perché si possa essere del tutto appagati? Direi di no, e non solo perché i processi continuano a durare troppo per un complesso di cause strutturali, ciascuna, di per sé, riconducibile a buoni principi, e però costitutive, nel loro combinarsi, di un cocktail micidiale (l’elenco sarebbe lungo...). Più di una goccia, in questo cocktail, continua in ogni caso a portarla un’altra componente - la più basilare - della tradizionale (e attuale) disciplina della prescrizione processuale. Il relativo corso comincia infatti a decorrere dalla data della commissione del reato, e questo può rimanere per anni occultato, specialmente quando si tratta di corruzione o simili, dato l’interesse a tacere, che normalmente accomuna tutte le persone coinvolte e data la difficoltà dell’emergere di prove documentali o testimoniali. Perché, allora, non si comincia a voltar pagina dal punto di partenza? Perché, insomma, la prescrizione non viene invece fatta decorrere dal giorno in cui la notitia criminis perviene alla polizia o al pubblico ministero, così da azzerare alla base il tempo in cui i potenziali inquirenti restano inerti unicamente perché non sanno nulla del delitto? Il fatto è che proposte del genere - pur modellate sulle esperienze di altri Paesi - sono sempre rimaste dei conati di qualche vox clamantis in deserto, preferendosi spendere energie in una sorta di torneo al pallottoliere, con vorticose alternanze di allungamento e di accorciamento dei termini di prescrizione a seconda del soffiare del vento dentro e fuori delle aule parlamentari. E, questo, senza riuscire mai a garantire processi rapidi ma non sommari né a scongiurarne esiti fallimentari. Quelli che la prescrizione, se viene a scadenza, certifica. Contro la dittatura delle procure di Claudio Cerasa Il Foglio, 3 novembre 2018 Perché abolire la prescrizione è un attacco alla nostra democrazia. L’emendamento presentato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che prevede di bloccare la decorrenza della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, rappresenta un passo decisivo per sostituire allo stato di diritto la dittatura delle procure. Un imputato non può salvarsi in nessun modo da una persecuzione giudiziaria interminabile. Va notato che la prescrizione viene a cessare anche per gli imputati che in primo grado vengono assolti. Questo significa che la procura, anche se le prove addotte in giudizio sono state considerate insufficienti dal giudice, può continuare indefinitamente il procedimento, senza neppure l’obbligo di concluderlo in tempi certi. Sembra un libro di Franz Kafka: chi incappa nel sistema penale, innocente o colpevole che sia, non uscirà mai più dalla trappola infernale. Persino inutile ricordare il carattere incostituzionale di questa norma, che nega il diritto a tempi ragionevoli per il processo e capovolge il principio della presunzione di innocenza. L’imputato è considerato sempre colpevole, se è stato assolto vuol dire che è riuscito a sfuggire alla giustizia, non che l’ha ottenuta, quindi resterà imputato a vita. Non si tratta solo di un attacco mortale ai princìpi delle garanzie, ma all’impianto fondamentale della democrazia. Si sposta in modo definitivo l’equilibrio già malfermo tra accusa e difesa e si dà all’accusa un potere insindacabile ed eterno. Si crea uno stato autoritario giustizialista, peggio, molto peggio che in Brasile. La Lega, che viene accusata spesso di tendenze autoritarie o addirittura fasciste, ha ora l’occasione di dimostrare che quelle insinuazioni sono infondate, può combattere per la difesa delle libertà costituzionali e se lo farà, come lasciano intendere i primi commenti venuti da quella parte all’iniziativa di Alfonso Bonafede, avrà diritto all’apprezzamento di tutti i democratici. In caso contrario, naturalmente, giustificherà i dubbi sulla sua coerenza democratica. Con lo stop dopo il primo grado saltano quasi 30mila prescrizioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2018 Per il penalista Alberto Alessandri, la proposta del M5S è puro “populismo giudiziario, a rischio di incostituzionalità”. Si inasprisce lo scontro sulla prescrizione dopo la presentazione dell’emendamento dei relatori 5 Stelle al disegno di legge anticorruzione con il blocco dei termini dopo il giudizio di primo grado. Perché il vicepremier Luigi Di Maio insiste, affermando che “lo stop alla prescrizione deve entrare nel decreto “spazza corrotti” perché l’emendamento del ministro Bonafede è in linea con il contratto di Governo. È la norma contro i furbi”. E poi: “In questo Paese i più grandi furbetti del quartierino, i furbetti politici, si sono salvati dai processi grazie alla prescrizione, non la povera gente. Tra loro Licio Gelli”. E sulle frizioni con la Lega, Di Maio minimizza: “Magari ci sono dei problemi interni alla Lega, non lo so e non mi interessa”. Lunedì l’esame di ammissibilità sull’emendamento, a rischio di bocciatura, ma con un possibile effetto domino visto che potrebbe trascinare con sé anche l’altra proposta, pure eterogenea rispetto alla materia del disegno di legge, non ancora depositata, sulla stretta nel penale tributario. Intanto è possibile già fare qualche stima sull’impatto che avrebbe l’applicazione della riforma ipotizzata. Stando agli ultimi dati ufficiali disponibili del ministero della Giustizia, risalenti al 2016, il congelamento del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado avrebbe impedito l’estinzione di 26.926 procedimenti. Tante sono infatti le prescrizioni maturate in appello e in Cassazione. Una quota non certo maggioritaria rispetto al totale che è stato di 145.637, in aumento rispetto alle 126.865 del 2015. Allargando lo sguardo ad anni ancora più risalenti, emerge che le prescrizioni erano 219.146 nel 2004 e sono poi andate costantemente calando fino al minimo del 2012, con 113.057; tuttavia negli ultimi anni il numero è tornato a salire. Per quanto riguarda invece i reati maggiormente soggetti a prescrizione, almeno sul piano puramente quantitativo e non in percentuale, i dati (a campione) sulla fase antecedente il giudizio vede in testa le irregolarità edilizie, l’omesso versamento delle ritenute, la guida sotto effetto dell’alcol o senza patente e le truffe. In dibattimento, davanti al tribunale ordinario, le prescrizioni sono state 31.271 nel 2015 e 31.201 nel 2016. Molto diversa poi la scomposizione, per ufficio giudiziario, dei dati. Dove, se si volesse intervenire, come la proposta in quota 5 Stelle intende fare, sulle prescrizioni successive al primo grado, si potrebbe pensare di dotare di più risorse le Corti d’appello di Roma, Napoli, Torino e Venezia. Da soli infatti questi quattro uffici contabilizzano il 50% del totale delle prescrizioni maturate nel secondo grado. I numeri poi confermano il fatto che la maggior parte delle prescrizioni si verifica nella fase delle indagini preliminari o perché il pm viene a conoscere troppo tardi la notizia del reato o perché è lo stesso ufficio del pubblico ministero a selezionare i procedimenti stessi, temperando in questo modo nei fatti quell’obbligatorietà dell’azione penale architrave del nostro ordinamento giuridico. Le bufale a 5 Stelle sulla prescrizione di Attilio Ievolella Il Tempo, 3 novembre 2018 I grillini vogliono lo stop dopo il primo grado: “La usano i furbetti”. Piccolo problema: il 70% dei processi “si estingue” nelle indagini preliminari. Giustizia più equa con lo stop alla prescrizione dei reati penali. Questa è la fortissima convinzione del Movimento 5 Stelle, convinzione tradottasi nella bozza di riforma presentata dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e sostenuta in maniera totale dal vicepremier Luigi Di Maio, nonostante i “mal di pancia” della Lega. Il principale esponente del movimento grillino è stato chiaro su questo tema, spiegando che “lo stop alla prescrizione deve entrare nel decreto “spazza corrotti” perché l’emendamento proposto dal ministro Bonafede è nel contratto di governo”. Ma cosa prevede in concreto la modifica ipotizzata dal ministro della Giustizia? In sostanza, l’idea è di sospendere la prescrizione, una volta ufficializzata la sentenza di primo grado, sia che si tratti di condanna, sia che si tratti di assoluzione. Alla base di questo progetto di riforma c’è l’opinione che la prescrizione, così come delineata nel Codice Penale - l’articolo 157 stabilisce che essa “estingue il reato, decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria” - rappresenti una scappatoia facilmente sfruttabile con espedienti legali finalizzati ad allungare i tempi del processo e a consentire alla persona sotto accusa di evitare la condanna. Ma è davvero questa la realtà in Italia? Diamo un’occhiata alle ultime cifre fornite dal Ministero della Giustizia. Si parla, sia chiaro, di dati relativi al decennio 2004-2014, ma essi segnalano una tendenza inequivocabile: le prescrizioni sono in forte calo. Per intenderci, nel 2004 oltre 213mila procedimenti erano chiusi dalla prescrizione, mentre nel 2014 si è arrivati a poco più di 132mila: la drastica riduzione è quantificabile con un netto 40 per cento. Peraltro, se si considera il numero complessivo di procedimenti conclusi a livello nazionale, nel 2004 le prescrizioni rappresentavano quasi i115 per cento, mentre nel 2014 esse non arrivano neanche a19,5 per cento. Altro dato da prendere in considerazione è la collocazione temporale della prescrizione. Se davvero si pensa che essa sia un escamotage da utilizzare per allungare all’infinito il processo, allora è logico aspettarsi che la percentuale maggiore sia pronunciata in Cassazione, cioè con l’ultimo grado di giudizio, o in Corte d’appello, cioè col penultimo grado di giudizio. E invece, analizzando sempre la statistica realizzata dal Ministero della Giustizia, emerge che, nei 2014, a fronte di oltre 132mila prescrizioni, il 58 per cento è arrivato nella fase preliminare del giudizio, un altro 4 per cento con sentenze pronunciate dal Giudice per le indagini preliminari o dal Giudice dell’udienza preliminare, e un ulteriore 19 per cento in primo grado. Facendo un rapido calcolo, è facile constatare che solo il 18 per cento delle prescrizioni è arrivato in Corte d’appello e addirittura solo 1’1 per cento in Corte di Cassazione. Cifre simili - fornite a gennaio di quest’anno in occasione della cerimonia di apertura dell’anno giudiziario in Cassazione - anche per il 2017. Difatti, nel corso dello scorso anno “negli uffici di merito si è registrata complessivamente una diminuzione delle prescrizioni, passando da oltre 139mila a oltre 127 mila, con una riduzione dell’8,6 per cento”. Andando nei dettagli, poi, è emerso che “le prescrizioni dichiarate dai Tribunali ordinari sono state poco superiori a 28mila (con una riduzione del 9,5 per cento rispetto al periodo 2014-2015” mentre “sono aumentate quelle dichiarate dalle Corti di appello (quasi 29mila, con un aumento del 29,2 per cento)”. Tuttavia, “la maggior parte delle prescrizioni viene dichiarata dagli uffici dei Gip e negli uffici dei Gup”: in questo caso, si parla complessivamente di quasi 67mila prescrizioni, pari a152,4 per cento del totale. Minimo il ruolo della Cassazione: nei 2017, difatti, nel contesto del Palazzaccio “i processi conclusi con dichiarazione di prescrizione del reato sono stati 670 (appena l’1,2 per cento del totale dei procedimenti definiti)”, cioè 98 in meno rispetto al 2016. Fisco, ecco il carcere per gli evasori Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2018 Uscito dal Dl fisco, per una questione meramente tecnica, il carcere per gli evasori, così come annunciato dal vice premier Luigi Di Maio, è migrato nel ddl anticorruzione. Mercoledì. con un emendamento al disegno di legge 1189 all’esame della commissione Giustizia della Camera a firma della relatrice del M5s Francesca Businarolo, è arrivata la stretta sui reati tributari che l’opposizione riteneva sparita dai radar del governo. Le modifiche intervengono sul dlgs 74/2000, la norma che regola e punisce i reati in materia di imposte sui redditi e Iva, le cui maglie sono state molto allargate dal governo Renzi con i decreti attuativi della delega fiscale varati nel 2015. La sintesi delle modifiche è in due punti, ovvero soglie più basse per individuare l’imposta evasa e più anni di carcere per chi viene scoperto. Sono dodici i commi sui cui si interviene. Se da un lato vengono abbassate le soglie minime di imposta evasa per configurare un illecito, dall’altra parte vengono aumentate pesantemente le pene per tutti i principali reati tributari. Per quanto riguarda il reato di “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, la reclusione prevista che passa da un minimo di un anno e sei mesi a 6 anni di massimo, a un minimo di 4 anni fino a un massimo di 8. Viene comunque aggiunto il comma 2-bis che mitiga la pena detentiva in caso di uso elementi passivi fittizi di ammontare inferiore ai 150mila euro, in quel caso la reclusione è quella precedente. L’altra tipologia di dichiarazione fraudolenta, ovvero l’evasione ottenuta attraverso l’uso di documenti falsi o operazioni simulate per impedire i controlli non trova modifiche nei limiti, ma aumenta la pena detentiva (da 1 anno e mezzo a 6 anni) che andrà da un minimo di 3 a un massimo di 8 anni. Un altro reato che subisce una vera e propria trasformazione è la dichiarazione infedele per cui l’evasore o sottrae elementi attivi oppure aggiunge elementi passivi fittizi. La soglia di punibilità, che era stata triplicata dal governo Renzi a 150mila euro, scende a 100mila. Inoltre torna a 2 milioni di euro, contro i 3 milioni attuali, l’ammontare delle attività sottratte o passività imputate necessario per rischiare il carcere. E, oltre alle soglie ribassate, i contribuenti disonesti che prima rischiavano da 1 a 3 anni di reclusione ora ne rischieranno da 2 a 5. Anche un’altra soglia, quella dell’imposta evasa in caso di omessa dichiarazione, viene abbassata. Chi non ha presentato la dichiarazione e contestualmente non ha versato imposte oltre i 100mila euro (prima erano 150mila) ora rischia da 2 a sei anni, mentre prima la pena era prevista tra un minino di 1 anno e mezzo a 4 anni. Modificata anche l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Il reato, in questo caso senza soglie, prevede la pena da un minimo di 4 anni a un massimo di 8 solo in caso di emissione di documenti falsi di ammontare superiore ai 100mila euro e sotto tale limite la pena resta quella attualmente in vigore da un anno e sei mesi a sei anni. Ancora più pesante il cambiamento che riguarda per chi occulta o distrugge documenti contabili per evasione o per non consentire accertamenti e/o ricostruzione dei fatti. Il rischio è il carcere dai 3 ai 7 anni mentre attualmente la pena viaggiava da un minino di un anno e mezzo a 6 anni. Il comma K dell’emendamento prevede infine la riduzione delle soglie minime di imposta annuale evasa per il reato di omesso versamento di ritenute dovute o certificate e di omesso versamento di Iva che passano rispettivamente da 150mila a 100mila il primo e da 250mila a 200mila il secondo. Parma: muore nel carcere il boss Francesco Barbaro, aveva 91 anni di Gennaro Scala cronachedi.it, 3 novembre 2018 Ritenuto a capo della cosca più potente della ‘ndrangheta, con i suoi 91 anni era il più anziano boss detenuto in Italia. Era i boss più anziano tra quelli detenuti. Il suo cuore ha cessato di battere a 91 anni. Parliamo di Francesco Barbaro, Ciccio “u Castanu all’anagrafe della ‘ndrangheta, deceduto nel carcere di Parma. Lì stava scontando un Fine Pena Mai, ovvero un ergastolo un omicidio che risale al 1990, quello di un carabiniere, il brigadiere Antonino Marino. Figlio di Francesco Barbaro e Marianna Carbone, ritenuti i fondatori, all’inizio del secolo scorso, alla ‘ndrina dei Barbaro in Aspromonte. Dal carcere è entrato e uscito per anni. L’ultimo arresto risale al 2015, aveva 88 anni. Negli anni settanta subì una condanna a sei anni per associazione a delinquere. In seguito subì una condanna per un sequestro di persona avvenuto in Calabria nel 1989. Il 5 gennaio dello stesso anno finì di nuovo in manette e suo figlio Giuseppe Barbaro avrebbe preso il controllo della famiglia. Rimase in cella fino al febbraio del 2013. Si trasferì visse a Platì con la misura dell’obbligo di soggiorno, poi nel 2015 il nuovo arresto, aveva 88 anni. La ‘ndrina dei Barbaro fu fondata dai genitori all’inizio del Novecento. Dopo la cattura subì una condanna all’ergastolo per l’omicidio del militare trentenne avvenuto a Bovalino durante la festa patronale. Secondo inquirenti e collaboratori di giustizia, è stato al vertice della più importante cosca della ‘ndrangheta. La ‘ndrina dei Barbaro ha subito delle mutazioni negli anni, separandosi in diversi rivoli. Poi i patti d’acciaio con i Papalia, i Pelle di San Luca e i Perre, accordi malavitosi rinsaldati anche con matrimoni organizzati ad hoc. Secondo la ricostruzione il figlio Rocco sarebbe a capo del ramo lombardo della ‘ndrina. Con Barbaro se ne va un pezzo di storia criminale del nostro Paese. E con lui molti dei segreti che quella storia potrebbe raccontare. Rovigo: l’ex carcere diventerà Istituto penale minorile con una sezione per semiliberi polesine24.it, 3 novembre 2018 Lo diventerà se il progetto sarà adeguato ad una serie di prescrizioni e se la Soprintendenza darà l’ok. Diventerà... ma intanto da oltre due anni il vecchio carcere di Rovigo, quello che sorge tra via Mazzini e via Verdi, è un complesso vuoto di spazi, celle e cemento. Una struttura dismessa da quando, alla fine del febbraio 2016, fu inaugurato il nuovo penitenziario di via Bachelet. Da quel giorno per il futuro della vecchia struttura carceraria sono state avanzate varie ipotesi di riutilizzo, da quella di un grande parcheggio in pieno centro alla realizzazione di una cittadella della giustizia, per ampliare gli spazi del vicino tribunale. L’idea che sta prendendo quota, però, è quella di un carcere minorile, un istituto penale per minorenni. In pratica la destinazione rimane quella di istituto di pena, anche se con la specificità di detenuti minorenni. Ora però spunta pure la possibilità di una sezione per la semilibertà. Per questo tipo di riqualificazione, però, servirà tempo e denaro. Intanto qualche settimana fa il dipartimento per la giustizia minorile del ministero della giustizia ha approvato l’impostazione generale della riorganizzazione funzionale dell’ex casa circondariale di Rovigo. Gli interventi da realizzare, però, saranno numerosi, dato che fino a poche settimane prima della dismissione la struttura di via Verdi era definita precaria, vergognosa e non più tollerabile. Caratterizzata da ambienti piccoli, insufficienti e non in grado di garantire piena sicurezza a chi ci doveva vivere o lavorare. Ora, poi, dopo oltre due anni di abbandono, muri, e ambienti appaiono ancor più lasciati a loro stessi, tra incuria e abbandono. Serviranno, dunque, molte risorse per trasformare il fatiscente ex carcere di Rovigo in istituto di pena per minori. Per arrivare all’obiettivo, infatti, il dipartimento per la giustizia minorile ha sollevato una serie di osservazioni, spunti che dovranno essere tenuti in considerazione in un progetto di riqualificazione. Ad esempio dovranno essere ampliati alcuni vani finestra e poi vari interventi di ampliamento e ammodernamento dei locali, che dovranno poi essere approvati dalla Soprintendenza ai beni architettonici di Verona. Evidenziata, inoltre una carenza di locali a supporto del complesso detentivo. Sollevata l’esigenza di realizzare un piano interrato a questi scopi, oltre alla realizzazione di aule e laboratori. L’area destinata alla sezione di semilibertà degli adulti dovrà essere ben distinta da quella per detenuti minori, per evitare interferenze, e con una rete antigetto. Revisione di locali e ambienti anche per l’area amministrativa, rivedendo anche i locali addetti ai colloqui. Per risolvere il problema della caserma per agenti si consiglia di utilizzare quelli annessi al nuovo carcere di via Bachelet. servirà anche una rivisitazione si spazi e ambienti dei settori cucina, mensa, infermeria. Previste che le sezioni detentive siano due su due piani, ciascuna con capienza massima di 22 posto. Da riorganizzare anche servizi igienici e aree all’aperto. Specificato, poi, che sarà necessaria una revisione del progetto per consentire di accogliere all’interno il Cpa (Centro di prima accoglienza), da mantenere distaccato rispetto alle aree detentive. Insomma tante prescrizioni e osservazioni, su cui alla fine dovrà dire l’ultima parola la Soprintendenza di Verona. Il cammino, insomma, non è per niente in discesa. Napoli: dibattito sulla criminalità minorile con Cantone (Anac) e Mattone (Sant’Egidio) agensir.it, 3 novembre 2018 Un dibattito sulla criminalità minorile a Napoli. Si terrà lunedì 5 novembre, al Circolo nautico di Posillipo, in occasione dell’ultima presentazione del libro “E adesso la palla passa a me” di Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio di Napoli e direttore dell’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro della diocesi partenopea. Si confronteranno sul tema Raffaele Cantone, presidente dell’Anac, e l’autore. Dopo i saluti del presidente del Circolo nautico Posillipo Enzo Semeraro e gli interventi dei due relatori, è previsto un dibattito con il pubblico sul tema. Introduce e coordina Massimo Milone, direttore di Rai Vaticano. “E adesso la palla passa a me” è la frase scritta da un detenuto in una lettera inviata all’autore. “Quando uscirò dal carcere la palla passa a me, come mi hai detto tante volte tu”. Antonio Mattone, che ha partecipato come esperto agli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, nel libro racconta 10 anni di esperienza vissuti come volontario all’interno del carcere di Poggioreale e di altri penitenziari italiani. Un viaggio dove alla fine “un dato sembra inconfutabile: umanizzare il carcere farà bene a chi è detenuto come a chi non lo è”. Roma: detenuti e agenti in scena a teatro di Simonetta Dezi Ansa, 3 novembre 2018 Direzione artistica di Mimmo Sorrentino, lavoro da ascolto storie. Detenuti e agenti della Polizia penitenziaria saranno in scena insieme a Roma sotto la direzione artistica di Mimmo Sorrentino. L’appuntamento è per il 7 e l’8 novembre al Teatro Palladium dell’Università degli Studi Roma Tre con due spettacoli “Sangue” e “Benedetta” della compagnia delle detenute del reparto di alta sicurezza di Vigevano. Il lavoro nasce dall’ascolto delle storie delle detenute, nessuna delle quali, però, recita la propria. “Sangue”, scritto e diretto da Mimmo Sorrentino sarà messo in scena da sei detenute e sei agenti della Polizia Penitenziaria. Il pezzo teatrale racconta dei delitti di sangue a cui queste donne hanno assistito e di come quel vissuto sia ora dentro i loro corpi. Nell’attraversare i loro destini queste donne trovano il coraggio di trovare la strada del perdono attraverso una preghiera che scandisce le storie narrate. “Sangue” sarà rappresentato ogni mese nel carcere di Vigevano e nel mese di maggio del 2019 al teatro Elfo-Puccini nell’ambito di una personale che il teatro milanese dedica a queste straordinarie attrici. “Benedetta” svela la condizione femminile nei contesti di criminalità organizzata. La trama parla di una donna e del suo doppio: nonostante i crimini subiti, sofferti e provocati, si aspetta, citando Simone Weil, che comunque le venga fatto del bene e non del male e per questo è sacra. Benedetta si sdoppia per non essere travolta dal reale, dall’incubo della sua condizione. Ad interpretare il personaggio sono Federica e Margherita, due donne che hanno iniziato in carcere il loro percorso teatrale e che ora lo continuano professionalmente da libere. “Benedetta” sarà rappresentato il 15 novembre all’Università Einaudi di Torino, il 24 novembre al teatro Volta di Pavia, il 29 novembre al festival di Verona, il 25 marzo al Teatro Cagnoni di Vigevano e il 16 e 17 maggio al teatro Elfo-Puccini di Milano. Le due rappresentazioni al teatro Palladium saranno precedute da due lezioni-laboratorio presso il Dams dell’Università Roma Tre, nelle quali sarà anche presentato il libro di Mimmo Sorrentino “Teatro in alta sicurezza” (Titivillus, settembre 2018). Gli incontri, coordinati dalla Professoressa Venturini, si terranno mercoledì 7 novembre alle ore 15 e giovedì 8 novembre alle ore 15, rispettivamente presso l’aula 8 e l’aula 7 dell’edificio di Via Ostiense 139. L’iniziativa si inserisce nell’ambito del progetto “Educarsi alla libertà” che ha ricevuto l’Alto Patrocinio del Ministero di Giustizia, del Mibact e che vede Rai Cinema produttrice di un documentario che sta realizzando il regista Bruno Oliviero. Papa Francesco: i migranti sfruttati e maltrattati, nel silenzio colpevole di molti di Salvatore Cernuzio La Stampa, 3 novembre 2018 Messaggio ai partecipanti alla ottava edizione del Forum Sociale delle Migrazioni 2018, in corso a Città del Messico da oggi fino al 4 novembre. Ci sono “mali da sradicare, ingiustizie da distruggere, discriminazioni da distruggere, privilegi da rovesciare, dignità da ricostruire e valori da piantare” in questo mondo di oggi che sembra essere dominato dalla “malattia pandemica” della “cultura dello scarto”. La critica di Francesco emerge cruda ma realistica nel messaggio che il Papa invia ai partecipanti alla ottava edizione del Forum Sociale delle Migrazioni 2018, iniziativa nata nel 2001 al fine di ricercare e costruire società eque e attente ad un mondo più solidale, in corso a Città del Messico da oggi fino al 4 novembre. All’apertura dei lavori partecipano il cardinale Carlos Aguiar Retes e il nunzio in Messico Franco Coppola; in rappresentanza della Santa Sede è presente anche il gesuita Michael Czerny, sotto-segretario della Sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale. È lui a riportare il messaggio - tutto in spagnolo - del Vescovo di Roma, che giunge per coincidenza a pochi giorni dalla stretta del presidente Usa Donald Trump contro la “invasione” di migranti provenienti dall’America Latina, in particolare dal Messico, che ha promesso di fermare (eventualmente anche con le armi) attraverso “un muro umano” fatto di oltre 15 mila soldati. La missiva papale inizia con l’appello al “rifiuto di tutte le ingiustizie” quale primo passo per una “trasformazione positiva delle nostre società”. Tale opposizione “si propone come primo atto di giustizia, soprattutto quando riesce a dare voce ai “senza voce”“, quindi a tutti i “migranti, rifugiati e sfollati, che vengono ignorati, sfruttati, violentati e maltrattati nel silenzio colpevole di molti”, afferma il Papa. L’azione trasformativa auspicata dal Vescovo di Roma non si limita tuttavia a denunciare le ingiustizie: “È necessario individuare linee guida concrete e praticabili per trovare soluzioni, chiarendo i ruoli e le responsabilità di tutti gli attori”. Nel campo della migrazione, “la trasformazione si nutre della resilienza di migranti, rifugiati e sfollati, e sfrutta le loro capacità e aspirazioni per costruire società inclusive, giuste e solidali, capaci di restituire dignità a coloro che vivono con grande incertezza e che non possono sognare un mondo migliore”, sottolinea Papa Francesco. Che riflette poi sui temi sui quali è incentrata l’ottava edizione del Forum messicano: diritti umani, frontiere, difesa politica, capitalismo, genere, cambiamento climatico e dinamiche transnazionali; essi “meritano un’attenta riflessione” mirante a cercare “l’integrazione di prospettive diverse, riconoscendo la complessità del fenomeno migratorio”. È proprio a causa di questa complessità “che da un paio d’anni la comunità internazionale è impegnata nello sviluppo di due processi di consultazione e negoziazione, il cui obiettivo è l’adozione di due patti mondiali, uno per una migrazione sicura, ordinata e regolare e l’altro per i rifugiati”, rimarca Bergoglio, ricordando che, come contributo del Vaticano a questi processi, la Sezione Migranti e Rifugiati da lui presieduta ha preparato un documento, intitolato “Venti punti d’azione per i Patti Globali”. Venti punti, spiega il Papa, che si articolano intorno a quattro verbi, “accogliere, proteggere, promuovere e integrare”, che “coincidono con le dichiarazioni che le organizzazioni della società civile hanno sottoscritto con la volontà di contribuire al processo avviato dalle Nazioni Unite in vista dei Global Covenants”. Al di là dei loro limiti, che la Santa Sede non ha cessato di sottolineare, e della loro natura non vincolante, le Alleanze mondiali costituiscono un quadro di riferimento per sviluppare proposte politiche e mettere in pratica misure concrete”, scrive il Papa. “Come per ogni azione di portata globale, l’attuazione delle raccomandazioni e dei suggerimenti contenuti nei Patti Mondiali richiede il coordinamento degli sforzi di tutti gli attori, tra i quali, si può essere certi, la Chiesa sarà sempre presente”. A tal fine Papa Bergoglio esorta ad una collaborazione condivisa di tutte le organizzazioni presenti al Foro: è “necessaria per migliorare gli accordi bilaterali e multilaterali nel campo della migrazione, che sono sempre a maggior beneficio di tutti: migranti, rifugiati, sfollati, le loro famiglie, le loro comunità di origine e le società che li ospitano”. “Ciò - incalza - può essere ottenuto solo attraverso un dialogo trasparente, sincero e costruttivo tra tutti i protagonisti, nel rispetto dei rispettivi ruoli e responsabilità”. Francesco coglie infine l’occasione dell’evento di Città del Messico “per incoraggiare le organizzazioni della società civile e i movimenti popolari a collaborare alla diffusione di massa di quei punti dei Patti Globali che mirano alla promozione umana integrale dei migranti e dei rifugiati - così come delle comunità che li accolgono - evidenziando le buone iniziative proposte”. Al contempo, afferma, organizzazioni e movimenti sono invitati ad “impegnarsi a promuovere una più equa ripartizione delle responsabilità nell’assistenza dei richiedenti asilo e dei rifugiati” e “identificare con prontezza le vittime della tratta, realizzando ogni sforzo necessario per liberarle e riabilitarle”. Il caso dei migranti riportati in Slovenia. La polizia: “agiamo seguendo le regole” di Francesco Grignetti La Stampa, 3 novembre 2018 La Questura di Trieste: sono riammissioni previste dalle norme Ue. Ma è giallo sui respingimenti a catena. “Nessun respingimento irregolare alla frontiera con la Slovenia”, giura il questore di Trieste. “Tutto viene fatto secondo le regole”. È comprensibile infatti lo smarrimento del povero disgraziato che dopo settimane di marcia nei boschi di Slovenia e Croazia, si butta tra le braccia di un poliziotto italiano pensando di avercela fatta. Ma non è così perché c’è l’impersonale, algido, forse anche crudele accordo di Schengen che stabilisce la sua sorte. Ebbene, Schengen dice che se un irregolare è individuato in una “fascia frontaliera” e nella presunta “immediatezza” dell’ingresso, può essere riaccompagnato oltre frontiera e affidato alla polizia dell’altra parte. È una procedura che si chiama “riammissione” e sostituisce il vecchio “respingimento” di quando esistevano le frontiere. Abolite appunto grazie a Schengen. È quanto accade quotidianamente al confine con la Slovenia, come anche con l’Austria e la Francia. A regolare queste “riammissioni” ci sono alcune circolari della Ue che fissano lo spazio e il tempo: per fascia frontaliera s’intende un corridoio di 150 metri da una parte e dell’altra della linea di confine, per fascia temporale s’intende un massimo di 2 ore. C’è poi un accordo bilaterale italo-sloveno firmato a Roma il 3 settembre 1996, entrato in vigore dal 1° settembre 1997, più estensivo quanto a territorio e orari. Secondo quest’accordo, può essere “riammesso” (e succede ormai massicciamente da quando si sono intensificati gli arrivi dalla rotta balcanica e ci sono molte più pattuglie a controllare il confine, comprese la guardie forestali mobilitate dal governatore Massimiliano Fedriga) chi non ha richiesto l’asilo politico. Il database nazionale - In ogni caso, dato che la polizia slovena non è felice di riprendersi i clandestini, l’intera procedura viene documentata (e secondo la questura ciò avviene alla presenza di interpreti, ma chissà se questo avviene davvero a ogni ora del giorno e della notte) per essere poi condivisa con i colleghi d’oltre frontiera. Agli stranieri vengono prese le impronte digitali, che si confrontano con il database nazionale e quello cosiddetto Eurodac per verificare se la persona non sia stata già fotosegnalata in Slovenia, Croazia o Grecia. Nel secondo caso, la procedura è più lunga e complessa. E se mai nessun poliziotto di altri Paesi li ha identificati, paradossalmente la procedura è più spiccia. I minori stranieri non vengono riammessi, ma affidati ad apposite strutture di accoglienza italiane, e così le persone particolarmente malate. Diverso ancora è il caso di chi è sbarcato in uno hotspot in Grecia. Oppure di chi ha presentato domanda di asilo politico in un Paese della Ue e poi si presenta alla nostra frontiera: una selva di situazioni giuridiche diverse che agli occhi del migrante, proveniente da Paesi immensamente lontani, rappresenta un’incomprensibile roulette russa. E che magari interpreta come il capriccio del poliziotto che ha davanti. Tocca comunque agli sloveni accettarli. Perciò gli italiani devono documentare con scontrini, biglietti di treno, qualsiasi prova, l’immediatezza dell’ingresso in Italia. Quindi, se arriva il via libera, rigorosamente entro le ore 16 perché dopo gli sloveni non ci stanno, gli stranieri vengono consegnati “esclusivamente con mezzi con i colori d’istituto della Polizia di Stato” presso la stazione di polizia Krvavi Potoc (Pesek). Le accuse contro Zagabria - Quel che accade da quel momento, lo sanno solo gli sloveni ma è immaginabile che abbiano accordi diretti con la polizia croata. E nessuno dubita che sia un circuito infernale per il disgraziato che vi finisce dentro. Pochissimi sono i diritti riconosciuti ai migranti, specie da parte croata. L’ultimo Rapporto di Amnesty International ci ricorda che “la Croazia ha continuato a rimandare in Serbia rifugiati e migranti entrati nel Paese irregolarmente, senza garantire loro l’accesso a un’effettiva procedura per la determinazione del diritto d’asilo. Durante i respingimenti, talvolta anche dall’interno del territorio croato, la polizia è ricorsa regolarmente a coercizione, intimidazione, confisca o distruzione di oggetti personali di valore e uso sproporzionato della forza”. Egitto. Retata di al-Sisi contro i diritti umani: arrestati 19 attivisti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 3 novembre 2018 In manette anche la nota avvocata Hoda Abdelmoniem. Decimata dalle detenzioni, l’ong Ecrf sospende le attività. Intanto all’ambasciatore Cantini il Cairo parlava di tutela delle libertà. Le hanno devastato la casa: oltre due ore di raid della polizia e poi l’arresto. È stata portata via all’alba di giovedì Hoda Abdelmoniem, tra le più note avvocate egiziane per i diritti umani ed ex membro del Consiglio nazionale per i diritti umani. Di lei non si sa ancora nulla: è stata condotta in una località sconosciuta. E non è stata l’unica: la notte tra il 31 ottobre e il primo novembre è stata notte di retate in Egitto. Almeno 19 i difensori dei diritti umani arrestati nelle loro case, otto donne e undici uomini, nell’ennesima escalation della repressione di cui si macchia dal luglio 2013 il regime golpista del presidente al-Sisi. Come non c’è pace per oppositori e giornalisti indipendenti, non c’è pace per chi prova a tutelare i diritti umani in un paese in cui non esistono più, falcidiati dalla repressione di Stato. Tanto dura è stata l’ultima campagna di arresti da spingere l’Egyptian Coordination for Rights and Freedoms, organizzazione che monitora le violazioni dei diritti umani e offre sostegno legale alle vittime, a sospendere le attività: tra gli arrestati c’è anche Mohamed Abu Horira, avvocato dell’Ecrf e suo ex portavoce. Sono spariti dal 14 settembre, invece, il fondatore dell’ong Ezzat Ghonim e l’avvocato Azzouz Mahboub: avrebbero dovuto essere rilasciati il 4 settembre dopo cinque mesi di detenzione, ma di loro non si hanno più notizie. Ieri il sito dell’Ecrf era irraggiungibile. “Il clima in Egitto non permette il lavoro di nessuna ong”, ha commentato Ahmed Attar, ricercatore di Ecrf basato a Londra, spiegando la sospensione delle attività. Dura la condanna di Amnesty che tramite la direttrice per il Nord Africa, Najia Bounaim, parla di “agghiacciante ondata di arresti”: “Le autorità egiziane hanno mostrato ancora una volta la loro spietata determinazione a stroncare ogni forma di attivismo. Chiunque osi parlare di violazioni dei diritti umani oggi in Egitto è in pericolo”. A dare la misura del pericolo è anche l’ultima legge promossa dal governo per garantirsi il controllo della rete: ai siti web sarà richiesto di registrarsi presso l’esecutivo, pena la chiusura. Un destino già sperimentato da oltre 500 siti, tra cui agenzie indipendenti, offline in Egitto da oltre un anno. Come sottolinea Attar, “il continuo attacco ai difensori dei diritti umani costituisce un crimine premeditato che richiede l’intervento del Consiglio dell’Onu per i diritti umani”. Ma è il silenzio a rimbombare sulla devastazione della società egiziana, della sua politica, delle sue organizzazioni di base. Dal 2014 il numero dei prigionieri politici in Egitto è sestuplicato rispetto all’era Mubarak: 60mila i detenuti per motivi politici. E mentre la sua polizia portava via 19 persone, al-Sisi era in Germania per incontri con i ministri tedeschi e la cancelleria Merkel volti a rafforzare rapporti commerciali, lotta congiunta al terrorismo e formazione delle forze di sicurezza. Le stesse che decapitano la società civile egiziana. Ci siamo anche noi: a poche ore dalla retata, l’ambasciatore italiano Cantini incontrava la Commissione dei diritti umani del parlamento egiziano. A Cantini (che ha ribadito la richiesta di verità per Giulio Regeni) il presidente della Commissione Alaa Abed ha enumerato i presunti sforzi per garantire il rispetto dei diritti nel paese. Chissà di cosa stava parlando. Dov’è Mostafa? È scomparso da 35 giorni: Mostafa al-Naggar, ex parlamentare post-rivoluzione, tra i leader di piazza Tahrir e fondatore del partito laico al-Adl, è introvabile dal 28 settembre. A denunciarlo è la moglie: l’ultima telefonata le era arrivata da Aswan, dove al-Naggar si trovava per un’udienza del processo di appello aperto dopo la condanna a 3 anni per insulto alla magistratura. A metà ottobre un anonimo ha telefonato alla moglie dicendole che era detenuto in un carcere di Aswan. Le autorità egiziane negano di averlo in custodia e parlano di una fuga per evitare le detenzione. Martedì 400 personalità di diversi partiti di opposizione hanno firmato una petizione per chiedere al Cairo di far sapere dove si trova Naggar. Spagna. Chiesti 25 anni per l’ex vicepresidente catalano Oriol Junqueras di Francesco Olivo La Stampa, 3 novembre 2018 Venticinque anni di carcere per l’ex vicepresidente catalano, Oriol Junqueras, 17 per l’ex presidente del parlamento Carme Forcadell, 17 per i leader delle associazioni della società civile indipendentista. Poco meno per gli altri ex membri del governo Puigdemont e per il comandante dei Mossos d’Esquadra Josep Lluís Trapero. Sono durissime le richieste della procura generale spagnola contro i politici catalani, colpevoli, secondo i giudici, di aver organizzato una ribellione violenta, con il fine di dichiarare la secessione, oltre che di sedizione e malversazione. Quello dell’ottobre scorso, iniziato con il referendum proibito e culminato nella dichiarazione di indipendenza del parlamento catalano, è stato per i giudici di Madrid una sorta di colpo di Stato. Il teorema del Tribunale Supremo spagnolo lascia perplessi molti giuristi ed è stato respinto dalla giustizia tedesca, belga e scozzese. Salta la Manovra di Sánchez Anche il governo spagnolo è in imbarazzo: in questo clima, infatti, è difficile portare avanti ogni tentativo di dialogo con i partiti indipendentisti (fondamentali per la maggioranza in parlamento). La prima vittima della richiesta della Fiscalía è la Manovra economica che i partiti catalani non voteranno. E non è un caso che il presidente della Generalitat Quim Torra e quello del parlamento Roger Torrent accusino direttamente il premier Pedro Sánchez: “È complice della repressione e del sentimento di vendetta della procura”. L’esecutivo socialista, con una mossa in extremis, attraverso l’avvocatura dello Stato ha derubricato il reato più grave, quello di ribellione, chiedendo pene più basse per gli imputati. Sia il premier Sánchez, sia altri esponenti del governo hanno lasciato intendere nei giorni scorsi che l’accusa di ribellione non si configura nel caso degli indipendentisti, ma la “Fiscalía” generale non ha tenuto conto di queste interpretazioni. Non solo gli indipendentisti protestano: “Accuse infondate e sproporzionate”, ha detto la sindaca di Barcellona Ada Colau. Nella lista dei prossimi imputati non compare Carles Puigdemont: l’ex presidente è (libero) in Belgio dopo che il Tribunale supremo spagnolo si è visto respingere la richiesta di estradizione dai colleghi tedeschi (e belgi). Puigdemont chiede aiuto alla Ue: “contro gli abusi dello Stato spagnolo”. Il processo inizierà nei primi mesi del 2019 e si preannuncia come un momento di nuova tensione tra Barcellona e Madrid. Sudan. Censura e intimidazioni incessanti nei confronti dei giornalisti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 novembre 2018 In Sudan la censura e le intimidazioni nei confronti degli operatori dell’informazione proseguono senza sosta. Quest’anno, non c’è stato mese in cui giornalisti non siano stati convocati per interrogatori durati ore, imprigionati e posti sotto processo unicamente a causa del loro lavoro. Tra gennaio e ottobre, secondo Amnesty International, ne sono stati arrestati almeno 15 mentre l’intera tiratura di 10 quotidiani è stata confiscata in almeno 27 occasioni: ad al Jareeda, uno dei pochi quotidiani indipendenti rimasti in vita, è accaduto ben 13 volte. Ecco cosa è successo solo nel mese di ottobre. Il 16 e il 23 Osman Merghanie, Maha Al Telib, Lina Ygoub, Ashraf Abdel Aziz e Shamel Al Nour sono stati convocati negli uffici della procura per la sicurezza dello stato e interrogati su un incontro avuto all’inizio del mese con una delegazione dell’Unione europea e con diplomatici europei e statunitensi. I cinque giornalisti sono stati “rimproverati” di aver danneggiato la reputazione del paese e di aver commentato coi loro interlocutori la proposta di legge sulla stampa e le pubblicazioni prima che diventasse legge. Il 29 Zine El Abeen Al-Àjab, ex direttore del quotidiano al Mustagila, è stato condannato a pagare una multa di 5000 sterline sudanesi (104 dollari) per evitare un mese e mezzo di carcere. È stato giudicato colpevole di “diffusione di informazioni false” per aver denunciato che il Sudan fornisce supporto allo Stato islamico e che nel 2015 ha ricevuto fondi dal Qatar. Ashraf Abdel Aziz, direttore del bersagliatissimo al Jareeda, è stato interrogato per la seconda volta nel giro di poche settimane. A marzo era stato condannato a una multa di 35.000 sterline sudanesi (circa 740 dollari) per aver raccontato una storia di corruzione governativa. A Maha Al Telib la convocazione per interrogatori è toccata tre volte nel corso dell’anno. Di volta in volta, le è stato chiesto di rendere conto di articoli sulla presenza dello Stato islamico in Libia, sulle relazioni tra Sudan e Usa e sul processo di pace nel Sud Sudan. Salma Altigani, giornalista sudanese residente nel Regno Unito, non potrà più scrivere sui quotidiani Akhbar Al Watan e Albaat Alsudani mentre Ahmed Younis, residente in Sudan e corrispondente per il quotidiano panarabo stampato a Londra Al-Sharq Al-Aswat, si è visto revocare la licenza da marzo a settembre. Non va meglio alle emittenti televisive. Il 10 ottobre i servizi di sicurezza hanno cancellato “Lo stato della nazione”, un programma di approfondimento politico trasmesso da Sudania 24TV, per aver intervistato un comandante delle Forze di sostegno rapido, una formazione paramilitare. Il 31 ottobre un altro programma in onda su Omdurman Tv è stato sospeso per aver dato la parola ad alcuni esponenti politici “colpevoli” di aver criticato la decisione del Partito del congresso nazionale di candidare il presidente in carica Omar Al-Bashir (peraltro ricercato dalla giustizia internazionale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio) a candidarsi per un terzo mandato alle elezioni del 2020.