Disabilità dietro le sbarre: in Italia 628 detenuti con handicap romanotizie.it, 30 novembre 2018 Sono centinaia le persone con disabilità che ogni anno letteralmente spariscono a causa del sovraffollamento delle carceri italiane. Si parla di 628 disabili nel 2015, in costante aumento rispetto al 2010 (500) e al 2006 (483). Persone le cui necessità specifiche vengono schiacciate dal peso di una condizione già invivibile, come riportano gli ultimi dati del Ministero della Giustizia in relazione all’allarme lanciato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. Sono questi i dati diffusi dalla Commissione per la Tutela della Salute in Carcere promossa dall’Isola Solidale, dalla F.I.D.U. (Federazione Italiana Diritti Umani) e dall’associazione CO.N.O.S.C.I. (Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane) alla vigilia della Giornata internazionale delle persone con disabilità che verrà celebrata il prossimo 3 dicembre. “In questo contesto - spiega Daniele Sadun, presidente della Commissione per la Tutela della Salute in Carcere - le misure necessarie al benessere e all’accompagnamento alla reintegrazione della persona con disabilità soggetto passano in terzo piano. Nelle strutture penitenziarie è necessario garantire degli ambienti adeguati alle limitazioni funzionanti, prevedere percorsi e varchi per gli spostamenti, disporre camere detentive idonee alla loro permanenza. A ciò, si aggiunge la necessità di prevedere un programma rieducativo individualizzato che tenga conto dei differenti gradi di disabilità. La formazione riguarda anche gli altri carcerati: servono corsi di care-givers, altresì detti “detenuto piantone”. Lo scopo di questi corsi è formare detenuti lavoranti con competenze di intervento che seguano il modello di care-givers familiare (igiene della persona, aiuto nel movimento, nelle relazioni, alimentazione, allerta e intervento in caso di emergenza). “Il problema delle condizioni di vita nei penitenziari italiani - aggiunge Sadun - è grave per moltissimi detenuti, ma lo è a maggior ragione per i portatori di disabilità, costretti a convivere anche con le difficoltà date dalla sua particolare situazione di limitazione fisica o mentale. Non si può permettere allo stigma che dipinge la persona con disabilità ‘buona e remissiva’ di farci dimenticare che, come ogni altro essere umano, il detenuto con disabilità ha diritto al proprio percorso di rieducativo che lo riporti alla società civile. Il carcere deve essere a misura di tutti a maggiore ragione per loro.” Salute e farmaci in carcere, la Sifo fa il punto saluteatutti.it, 30 novembre 2018 Congresso nazionale di Sifo, la Società dei farmacisti ospedalieri e dei servizi farmaceutici. Disturbi psichici, malattie infettive e malattie gastroenteriche. Ma anche problemi al sistema circolatorio e neoplasie. Patologie che spesso si vanno a intrecciare con dipendenze da una o più sostanze stupefacenti. Quella delle carceri è una popolazione molto particolare, che ha però diritto ad un accesso alle cure e all’assistenza farmaceutica pari a quella di tutti gli altri cittadini: la salute dei detenuti è un problema di salute pubblica a cui deve fare fronte il Servizio sanitario nazionale. Di questo si è parlato al 39° Congresso nazionale di Sifo, la Società dei farmacisti ospedalieri e dei servizi farmaceutici delle aziende sanitarie, dove stamattina si è svolto il corso precongressuale “La gestione dell’assistenza farmaceutica nel sistema penitenziario italiano” dedicato proprio a fare il punto su criticità e proposte per migliorare l’accessibilità alle cure. Il corso, molto partecipato, ha preso in considerazione diversi aspetti dell’assistenza farmaceutica in carcere, dalla gestione clinica del farmaco alla continuità terapeutica, dal problema della variabilità regionale all’appropriatezza prescrittiva. Un focus particolare è stato poi dedicato al problema dell’epatite C, una delle malattie infettive più diffuse nella popolazione penitenziaria. “Sono particolarmente orgogliosa di questo corso - ha affermato la presidente di Sifo, Simona Serao Creazzola intervenuta in apertura per un saluto- perché si tratta del primo evento che si svolge a livello nazionale relativamente all’assistenza farmaceutica nelle carceri. Su questo punto specifico, ci troviamo da tempo di fronte ad una vacatio normativa che spesso non ci permette di operare nel modo ottimale”. Dopo questa giornata di lavori, conclude Serao Creazzola, “vorremmo avviare una collaborazione con l’associazione Co.N.O.S.CI. (Coordinamento nazionale operatori per la salute nelle carceri italiane) e lavorare insieme per arrivare a soluzioni normative da proporre al ministero della Salute proprio nell’ottica di colmare questa lacuna”. Il senso del corso di oggi lo riassume Domenica Costantino, che per Sifo ha curato i lavori del corso: “Il contesto carcerario è molto particolare, in primis perché si tratta di persone private della libertà personale, in secondo luogo perché per il tipo di patologie diffuse è un setting molto particolare e la gestione clinica del farmaco inevitabilmente ne è influenzata”. Un momento di confronto pensato per “discutere insieme di molti aspetti: la continuità terapeutica, i prontuari regionali, le strutture disponibili, i rapporti con i servizi del territorio (dai Sert alla Salute mentale all’Infettivologia), i rapporti tra gli operatori sanitari e i detenuti. L’obiettivo? “Migliorare l’assistenza farmaceutica nelle carceri e ottenere procedure omogenee che garantiscano l’equità d’accesso alle cure”. A fare da quadro alla discussione uno studio realizzato dall’associazione Co.N.O.S.C.I che nel 2016 ha documentato lo stato di salute della popolazione nelle carceri con la partecipazione di sei Regioni e di una provincia. Uno studio su un campione di 16.000 detenuti, durato due anni e tuttora tra i più completi a livello europeo. I dati raccontano di una condizione patologica per il 67,5% del totale: i detenuti italiani sono affetti in primis da disturbi psichici, poi malattie dell’apparato digerente e malattie infettive. Su un totale di 16.000, assumono almeno un farmaco 8.296 detenuti, con una media di 2,8 farmaci per persona. Tra i più diffusi ci sono gli ansiolitici, gli antipsicotici e gli antiepilettici. Errori giudiziari. “Più istanze di risarcimento respinte” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 novembre 2018 Sono 682.583.009,66 i milioni che il nostro Stato ha speso dal 2001 ad oggi per indennizzare persone vittime di errore giudiziario (chi è stato prosciolto in sede di revisione) o di ingiusta detenzione. Dall’inizio dell’anno a settembre sono 29.539.084,44 i milioni: 856 i beneficiari per ingiusta detenzione, 9 per errore giudiziario. Si tratta degli ultimissimi dati che ha fornito al Dubbio il ministero dell’Economia e della Finanze. Per commentare questi numeri abbiamo ascoltato i giornalisti Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, fondatori di Errorigiudiziari.com. Analizzando i dati forniti, che giudizio date anche rispetto al passato? Ai numeri finalmente forniti dal ministero vanno aggiunti oltre seimila vittime di ingiusta detenzione dal 1992 al 2000, che portano il totale a oltre 27 mila e 200, per altri 54,5 milioni di euro versati in indennizzi. Nel 2018 i casi sembrano dunque diminuiti, ma manca ancora circa un mese alla fine dell’anno, siamo quindi in linea con gli anni passati. La media è appunto quella dei 1000 l’anno dal 1992 ad oggi. Discorso più o meno analogo per i risarcimenti: ma ciò non deve trarre in inganno. Non ci stupiremmo se ciò dipendesse in realtà da un incremento di istanze respinte: ormai circa la metà di quelle per ingiusta detenzione viene rigettata appellandosi al dolo o alla colpa grave con cui l’indagato o imputato assolto avrebbe indotto in errore i magistrati. Dal 2011 ad oggi c’è stata una specie di ordine di scuderia nell’essere molto più restrittivi. Ottenere queste dati non è stato facile. Ravvisate anche voi la medesima difficoltà nel vostro lavoro di cronisti? Abbiamo avuto, ma soltanto da quest’anno inspiegabilmente, una grande difficoltà nell’accesso ai dati, nonostante abbiano richiesto più volte al Mef di ricevere le informazioni. Un tempo ci venivano forniti i dati suddivisi per distretti di Corte d’Appello: questo ci dava la possibilità di capire meglio come sono distribuiti sul territorio gli errori e le ingiuste detenzioni. E rappresentava un materiale di studio e di analisi per valutare dove andare ad intervenire. E pensare che sono dati che servirebbero in primo luogo ai Ministeri, al Governo e al legislatore per capire meglio dove e come agire per circoscrivere il problema. Nel vostro sito scrivete: “le 1000 persone che finiscono in carcere ingiustamente ogni anno, e che per questo ricevono un risarcimento, secondo giudici e procuratori costituiscono un “dato fisiologico”, una sorta di “effetto collaterale” inevitabile di fronte alla mole di processi penali che si celebrano ogni anno nelle aule dei tribunali italiani”... Secondo noi invece si tratta di una emergenza reale. Lo dicono i numeri e ce lo conferma il raffronto con l’estero: tutti gli esperti europei e americani che abbiamo intervistato, dinanzi alla questione della custodia cautelare italiana rimangono sbalorditi. Loro hanno dei sistemi giudiziari differenti, però da noi è comunque una emergenza, che nessuno cerca di affrontare. “L’errore giudiziario è un problema di tutti i sistemi giudiziari” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 novembre 2018 Parla il professore Luca Lupària, presidente dell’European Innocence Network. Qualche settimana fa a Barcellona si è tenuta la terza European Innocence Network Conference, organizzata da European Innocence Network. Per il nostro Paese è intervenuto il professore Luca Lupària, Presidente dell’European Innocence Network e Professore Ordinario di Diritto processuale penale e di Diritto penitenziario nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre. Professore che quadro è emerso dalla Conferenza? La Conferenza di Barcellona, la terza dopo quelle di Praga nel 2016 e Roma nel 2017, è stata una importante occasione di confronto tra diverse realtà europee, a cui hanno preso parte anche celebri studiosi nordamericani, pionieri del tema. Tanti sono stati gli spunti di riflessione sviluppati nel corso del congresso, ma ad ogni incontro emerge sempre più chiaramente come il problema dell’errore giudiziario sia un problema globale, che si riscontra in tutti gli ordinamenti, negli Stati Uniti così come in Europa, in Asia, in Sud America. Non solo, i fattori che possono condurre alla genesi dell’errore giudiziario sono in realtà comuni ai vari sistemi, e possono quindi essere studiati, affrontati e - per certi versi - anche combattuti in una prospettiva transnazionale. Proprio per questo è stato creato l’European Innocence Network, che ho l’onore di presiedere: per riunire in un’unica Associazione i vari progetti esistenti in Europa e gli studiosi che si occupano del tema, condividendo risorse, idee, materiali ed esperienze. Come si pone il nostro Paese rispetto al contesto europeo e statunitense? Rispetto agli Stati Uniti d’America, dove le innocence organizations operano da oltre vent’anni e gli errori giudiziari sono ormai riconosciuti come una realtà del sistema giudiziario americano, in Italia il problema è avvertito da pochi anni, e sono ancora rari gli studi e gli approfondimenti dedicati al tema. Ma anche in molti altri Paesi europei non vi è ancora la consapevolezza del fatto che l’errore giudiziario è un elemento insito in ogni sistema giudiziario, che necessita sia di meccanismi di prevenzione che di rimedio, ove l’errore sia già avvenuto. Quali sono le cause maggiori degli errori giudiziari in Italia? Uno dei maggiori problemi è proprio quello che non è possibile mappare quali siano, nel nostro ordinamento, le cause principali degli errori giudiziari. Dobbiamo basarci purtroppo soltanto sui casi noti di errori realmente accaduti e, in tal senso, è forse possibile suddividere i fattori che conducono potenzialmente agli errori giudiziari in due macro categorie: da un lato, quelli classici, come la falsa confessione e gli errori connessi alle testimonianze oculari, soprattutto con riferimento alla ricognizione di persona. Dall’altro, vi è il problema delle cosiddette nuove prove scientifiche e delle nuove tecnologie, che possono anche essere paradossalmente causa di errori giudiziari (pensiamo, ad esempio, al Dna - che costituisce potenzialmente una prova granitica - raccolto e repertato in maniera non corretta, ovvero contaminato). Come prevenire il fenomeno? Purtroppo non esistono ricette magiche, ma è possibile lavorare su alcuni passaggi, su alcuni punti del procedimento penale che sappiamo essere particolarmente critici e delicati per la formazione di possibili errori. Mi riferisco, in particolare, alla fase delle indagini preliminari, nella quale l’errore sembra quasi non pesare, complice la consapevolezza del fatto che la maggior parte degli atti investigativi dovranno poi essere necessariamente ripetuti in dibattimento, e quindi si è portati erroneamente a credere che eventuali errori generatisi durante le investigazioni possano poi essere tempestivamente corretti durante il processo dibattimentale. L’esperienza di casi realmente verificatisi, purtroppo, ci insegna che questo molte volte non è avvenuto, e che errori formatisi nella fase embrionale del procedimento si siano poi cristallizzati in sentenze di condanna profondamente ingiuste. Sarebbe necessario un registro nazionale? La creazione di un registro che raccolga dati, notizie, e informazioni approfondite sui casi di errori giudiziari e di ingiuste detenzioni in Italia è una esigenza che noi dell’Italy Innocence Project manifestiamo da tempo. Per studiare a fondo i fattori che nel nostro ordinamento troppo spesso conducono a incarcerare - e, a volte, persino a condannare - persone innocenti, sarebbe indispensabile ottenere un quadro il più completo possibile della casistica nazionale, così da esaminare a fondo quali siano i meccanismi che conducono, nella realtà italiana, a veri e propri cortocircuiti del nostro sistema giudiziario. Salvini blocca i braccialetti: domiciliari impossibili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 novembre 2018 Pronti a ottobre, ma il Viminale ha nominato la Commissione di collaudo solo in questi giorni. Il servizio sui braccialetti elettronici - come aveva riferito Fastweb a Il Dubbio - sarebbe dovuto partire da ottobre, ma per far ciò il ministero dell’Interno avrebbe dovuto nominare la Commissione di collaudo di tutto il sistema riguardante l’emissione del servizio, quindi l’infrastruttura, la sala di controllo e i device. Questa Commissione, però, è stata nominata nei giorni scorsi e quindi il collaudo dovrebbe partire a metà dicembre. Detto in soldoni, il ministero dell’Interno non ha rispettato i tempi in modo da garantire l’entrata in funzione come già programmato. Nel frattempo ci si deve accontentare dei 2000 braccialetti elettronici che sono del tutto insufficienti: liste di attesa per detenuti che potrebbero uscire ma che non lo fanno perché non c’è la disponibilità del braccialetto. L’ultimo caso riguarda l’ex deputato all’Assemblea regionale Siciliana Raffaele “Pippo” Nicotra, 62 anni, che nonostante il 13 novembre scorso il Tribunale del riesame di Catania gli abbia concesso gli arresti domiciliari, rimane in carcere per mancanza del braccialetto elettronico. “Nicotra sta molto male - afferma l’avvocato Orazio Consolo - e il suo stato di salute è incompatibile con la detenzione. Inoltre è paradossale che non si riesca ad applicare la decisione di un Tribunale perché manca il braccialetto elettronico. Lui resta in carcere a Bicocca e la situazione diventa giorno dopo giorno sempre più preoccupante”. I braccialetti elettronici potrebbero essere facilmente utilizzati per le misure alternative, per le cosiddette sanzioni di comunità, come nel caso di persone che devono scontare pochi mesi. Ci sarebbe un grosso sfollamento delle carceri, visto che il numero dei detenuti sta aumentando in maniera esponenziale. Al 31 ottobre, infatti, secondo i dati aggiornati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, risultano 59.803 detenuti. Un risultato che fa registrare 9.187 detenuti oltre alla capienza regolamentare che risulta, ufficialmente, di 50.616 posti. L’importanza dei braccialetti elettronici è stata sempre segnalata dalla Camera penale di Firenze. Infatti, come ogni anno, oggi ha indetto una manifestazione - alla quale aderisce anche la Camera penale di Roma -, per dare effettività all’art. 275 bis comma 1 del codice di procedura penale che prevede, appunto, l’utilizzo del braccialetto. La compagnia telefonica, Fastweb, che vinse la gara d’appalto, fornisce l’intera infrastruttura per il collegamento e il controllo a distanza dei dispositivi, installando presso le abitazioni delle persone sottoposte agli arresti domiciliari le centraline (base station) collegate al Centro elettronico di monitoraggio che segnalano alle centrali delle Forze dell’Ordine l’eventuale allontanamento della persona soggetta a provvedimento restrittivo dal raggio di copertura. Il ricorso al braccialetto elettronico serve, quindi, non solo a sfoltire le carceri dai detenuti per pene brevi e di lieve entità, ma è utile anche alle forze di polizia che possono evitare di impegnare il personale per visitare e controllare giornalmente i detenuti ammessi a fruire di misure detentive domiciliari. Ricordiamo che ci saranno 1.000 braccialetti elettronici al mese fino a un surplus del 20 per cento, con i relativi servizi di assistenza e manutenzione per 36 mesi. Avrebbero dovuto già essere in funzione, ma ci vuole il collaudo, ma il ministero degli Interni ha nominato la commissione solo qualche giorno fa. Italia-Nigeria: accordi per il trasferimento di detenuti condannati Nova, 30 novembre 2018 Il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale Enzo Moavero Milanesi e dei titolari dei dicasteri ha approvato il disegno di legge di ratifica ed esecuzione degli accordi di mutua assistenza in materia penale e sul trasferimento delle persone condannate con la Nigeria. Lo riferisce un comunicato di Palazzo Chigi secondo cui l’accordo è stato stretto a Roma l’8 novembre 2016. “Il trattato avvia un processo di sviluppo significativo dei rapporti italo-nigeriani che permetterà una stretta ed incisiva collaborazione tra i due Paesi in ambito giudiziario, anche in relazione al trasferimento delle persone condannate, e di rendere più efficace il contrasto alla criminalità internazionale”, si legge nel comunicato. Legittima Difesa. Più sicurezza non solo a parole di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 30 novembre 2018 Bisogna impedire ai ladri di entrare nelle case, ma devono essere i poliziotti e i carabinieri a farlo. E dovrebbe essere proprio il ministro dell’Interno a rivendicarlo, anziché esortare i commercianti ad armarsi. Più volte nelle ultime settimane il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha annunciato l’invio di nuovi poliziotti nelle questure e nei commissariati di tutta Italia. Ha dovuto chiarire che questo avverrà entro il prossimo febbraio perché “il governo si è impegnato ad assumere ottomila uomini delle forze dell’ordine” ma per farlo deve trovare i soldi. Questo non gli ha però impedito di usare uno dei suoi slogan preferiti: “Dalle parole ai fatti”. Appena due giorni fa lo stesso Salvini si è schierato al fianco del commerciante di Arezzo che ha sparato e ucciso un ladro entrato nel suo negozio, rassicurandolo perché “con la nuova legge sulla legittima difesa non sarà processato”. In realtà anche con le nuove norme un accertamento dei giudici sarà comunque necessario. Ma il punto da affrontare è proprio questo: quando le persone sono legittimate a usare un’arma per difendersi, vuole dire che il sistema sicurezza non funziona. Perché è giusto che i cittadini debbano essere protetti, ma a questo deve pensare lo Stato. Altrimenti si arriva alla giustizia “fai da te”, alla vendetta privata. Bisogna impedire ai ladri di entrare nelle case, ma devono essere i poliziotti e i carabinieri a farlo. E dovrebbe essere proprio il ministro dell’Interno a rivendicarlo, anziché esortare i commercianti ad armarsi. Spetta a lui trovare il modo di dare seguito alla promessa fatta più volte, e ribadita nelle ultime ore, di dotare gli oltre ottomila Comuni italiani di un sistema di videosorveglianza in tutte le aree ritenute maggiormente a rischio. Secondo i dati del Viminale la maggior parte dei reati è in calo, anche se gli analisti sottolineano che per alcuni delitti la diminuzione potrebbe in realtà derivare dal minor numero di denunce presentate. Una sfiducia che del resto viene confermata da quelle statistiche e sondaggi secondo cui continua ad essere costante il senso di insicurezza delle persone. È la microcriminalità a fare davvero paura, ad essere avvertita come una minaccia. Se è vero che i furti e gli scippi non vengono denunciati perché tanto si pensa che non saranno puniti, lo Stato perde. E dunque è su questo che bisogna lavorare, proteggendo gli anziani dalle truffe e i ragazzini dagli spacciatori. Effettuando un controllo del territorio efficace, dove l’enfasi lasci spazio alla concretezza. È bene ricordare che una vera politica di sicurezza governa i fenomeni anziché ingigantirli. E per farlo investe negli uomini e nei mezzi. È giusto pensare al rafforzamento degli organici di polizia e carabinieri, ma questo va fatto prima di essere annunciato. E dopo aver trovato i fondi necessari a garantire lo svolgimento dei concorsi e gli stipendi per i nuovi assunti, ma soprattutto dopo aver provveduto al pagamento degli straordinari per chi è già in servizio e molto spesso è costretto ad-dirittura ad anticipare i soldi per le missioni in trasferta. Se Salvini ha davvero a cuore la sicurezza e non vuole limitarsi a una politica di propaganda, metta a punto un vero piano di interventi che non abbia come unico bersaglio gli stranieri. Renda le città davvero sicure partendo anche da quelle piccole cose come l’illuminazione delle strade e i presidi fissi nelle zone più pericolose. Renda evidente che vuole proteggere tutti i cittadini, ognuno nella propria realtà quotidiana, dimostrando che lo Stato non fa solo la voce grossa o le dirette sui social network. Solo allora si potrà davvero esultare per essere passati “dalle parole ai fatti”. Legittima Difesa, alla Camera Forza Italia con la Lega di Martina Cecchi de Rossi La Stampa, 30 novembre 2018 Nuova prova di tenuta del governo con M5S. Dopo l’anti corruzione e il decreto sicurezza potrebbe essere la legittima difesa la prossima prova di tenuta per la maggioranza giallo verde, con la Lega decisa a ridurre ulteriormente la punibilità di chi si difende da un’aggressione, e il Movimento che insiste sulla proporzionalità a scanso di possibili “derive” da far west. Approvato al Senato il 24 ottobre anche con i voti di Fi e Fratelli d’Italia, il testo riconosce sempre la difesa legittima. Complice, allora, l’intesa sul decreto fiscale (e la pace fatta in maggioranza sul caso della manina e del condono anche per i capitali all’estero) il dissenso dei Cinquestelle era rientrato, e i 7 emendamenti correttivi ritirati. Alla Camera, però, qualcosa potrebbe riemergere. Non è un caso che già prima dell’estate la proposta, firmata dall’azzurro Zanettin, non sia stata calendarizzata in Commissione Giustizia presieduta da Giulia Sarti, consentendo così al Senato di discutere del tema in prima battuta, in una Commissione a guida Lega e non M5s. Soprattutto, su due provvedimenti successivi, il Ddl spazza corrotti caro al M5s e il Dl sicurezza caro alla Lega, la tenuta della maggioranza è stata messa alla prova tra fughe in avanti, sospetti reciproci e dissensi celati. È in questo clima che ora si riprende alla Camera. “A gennaio ci sarà la nuova legge sulla legittima difesa”, assicura da ieri Matteo Salvini. La Commissione Giustizia inizierà a discuterne da mercoledì prossimo, ma difficilmente l’Aula voterà il testo prima di gennaio (impegnata prima tra Legge di Bilancio e decreto fiscale), e non è da escludere un terzo passaggio al Senato. Le modifiche potrebbero arrivare proprio dal M5s: bisogna “spingere moltissimo sulla proporzionalità tra difesa e offesa, non è che se uno entra a prescindere spari”, dice in tv il capogruppo Francesco D’Uva. Occorre “trovare il giusto equilibrio e fare una discussione scrupolosa per evitare derive”. Ma per la Lega il tracciato segnato al Senato va ulteriormente rimarcato in una direzione precisa: quella, per dirla con Giulia Bongiorno, di una “legge chiara in cui tutelare l’aggredito e non l’aggressore”, perché il principio “è che sbaglia chi entra nella casa altrui”. Insomma, insiste Salvini, “la legittima difesa sarà un diritto sempre, di giorno e di notte: cancelleremo il reato di eccesso di legittima difesa”. A dare una forte mano alla Lega sarà ancora Forza Italia: in Commissione Giustizia sarà proprio il deputato azzurro Zanettin uno dei due relatori, e non come minoranza. “Vogliamo che nel testo si inverta chiaramente l’ordine della prova - dice Francesco Costa, capogruppo Fi in Commissione - in modo che sia la pubblica accusa a dover dimostrare l’inesistenza di legittima difesa, e questo per non sottoporre chi è stato aggredito in casa propria a processi estenuanti”. Posizione in perfetta linea con quella leghista, assai meno con quella M5s. “Il Ddl - dice Alessia Morani, Pd - sarà un grande bluff, non produrrà l’effetto voluto da Salvini, evitare i processi perché l’intervento della magistratura sarà comunque ineludibile. Lo slogan ‘la difesa è sempre legittima’ sarà solo l’ennesima bugia”. Soprattutto, potrebbe diventare un altro nervo scoperto nel delicato equilibrio Lega-M5s. Via al tavolo per tutelare le vittime di reato. Mascherin: “Il Cnf c’è” di Giulia Merlo Il Dubbio, 30 novembre 2018 “Serve il coraggio di potenziare anche la giustizia riparativa”. Le sinergie create tra istituzioni, professionisti ed esperti del settore della tutela delle vittime hanno portato a un tavolo inter-istituzionale, con gli obiettivi di creare “una rete integrata territoriale che consenta alla vittima di essere presa in carico, fin dal primo contatto con l’autorità, e indirizzata verso la tipologia di servizio più idonea al caso concreto” e di diffondere “la consapevolezza da parte degli operatori e dell’opinione pubblica dei diritti delle vittime”. Il tavolo - costituito formalmente ieri con la firma presso il Ministero della Giustizia - vede coinvolti lo stesso Ministero, il Consiglio Nazionale Forense, l’Università di Roma Tre, il Ministero dell’Interno, la Conferenza Stato Regioni e la Rete Dafne Italia. Tutti i soggetti firmatari si sono impegnati a “definire le linee di azione e programmare le attività necessarie”, al fine di “migliorare il sistema di assistenza alle vittime”, si legge nel documento ufficiale. “Abbiamo aderito con entusiasmo al progetto”, ha commentato il presidente del Cnf, Andrea Mascherin, “portando la nostra esperienza maturata sul campo, come avvocati che difendono le parti lese. Con loro, il nostro approccio è prima di tutto informativo, in merito ai vari percorsi da intraprendere e a quali siano le aspettative realistiche del loro esito”. Mascherin ha sottolineato come l’avvocatura abbia già maturato “esperienza di informazione istituzionale. Gli avvocati hanno attivato più di 140 sportelli per cittadini con finalità di indirizzo, distribuiti nei tribunali e nei comuni. I nostri dati ci dicono che i cittadini che si rivolgono a noi sono, nella grande maggioranza di casi, vittime e non abbienti”. Proprio per tutelare questi soggetti, il presidente del Cnf ha auspicato che uno dei risultati del lavoro sinergico del tavolo inter-istituzionale sia di lavorare sul fronte degli indennizzi per le vittime, “soprattutto nei casi in cui i responsabili non sono solvibili”. Proprio sul tema della giustizia riparativa, Mascherin ha evidenziato come il tema vada affrontato con “coraggio culturale”, anche se in questo momento “è difficile dire quanto l’idea del potenziamento delle attività fuori dal carcere trovi accoglienza politica”. In ogni caso “il tema va sviluppato, perché sposa le aspettative delle parti lese ed estrinseca in concreto il principio della funzione di recupero della pena”. Infine, Mascherin ha ricordato come “spesso si confonda il processo penale come sede di tutela della parte lesa, mentre giuridicamente vede al centro l’imputato. Questo fraintendimento crea aspettative sbagliate e delusioni. Per questo, bisogna spiegare all’opinione pubblica quale sia la funzione del processo e quali siano i corretti luoghi dove ottenere utile tutela”. In sede di firma dell’atto di costituzione, è intervenuto anche il sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi, il quale ha ricordato l’attività programmata dal governo su questioni che si intrecciano con gli obiettivi del tavolo. “Auspico che il vostro lavoro, nato già con ottimi presupposti, possa portare risultati importanti, vista anche la presenza di così tanti operatori che, pur da prospettive diverse, sono di ausilio alle vittime”, ha detto Ferraresi, il quale ha ricordato le iniziative governative a cui il tavolo può guardare con interesse. Il “codice rosso” sulla violenza sulle donne, appena varato dal Consiglio dei Ministri, “presuppone che al suo interno possano innestarsi altri progetti legislativi a tutela delle vittime” e anche all’interno della riforma del processo penale programmata per il 2019, “non ci saranno solo norme contro le lungaggini processuali e per la semplificazione, ma anche nuove previsioni che potenzino il ruolo della vittima nel processo”. Infine, sul pronte dei risarcimenti alle vittime Ferraresi ha ricordato come il Ministero sia al lavoro sul fondo dedicato, “con l’obiettivo di togliere un po’ di paletti burocratici che ostacolano le richieste di accesso” e di “aumentare anche l’entità dei risarcimenti, perché il denaro a disposizione del fondo c’è e negli ultimi anni è stato utilizzato in modo più che parziale”. Anche una giusta dieta può aiutare gli uomini violenti di Maria Antonietta Izzo* La Repubblica, 30 novembre 2018 Alcuni studi hanno evidenziato come anche una corretta alimentazione possa influire sui comportamenti, limitando a volte quelli violenti. Sono tante le chiavi attraverso le quali si cerca di leggere e di interpretare l’origine e il perché della violenza, anche di quella di genere. C’è la lettura di tipo psicologico, nella quale la violenza viene imputata alla difficoltà del controllo degli impulsi e del contenimento delle frustrazioni da parte di uomini emotivamente labili che superano, in tempi brevi, la soglia massima di sopportazione delle frustrazioni, incapaci di reggere il confronto con l’altro, di gestire i conflitti, di negoziare o di mediare. C’è la lettura di tipo sociologico, dove la violenza viene interpretata come il risultato del contesto socio-culturale di appartenenza, nel quale il soggetto violento ha incontrato molto presto la violenza come modalità di gestione e di risoluzione dei problemi. C’è poi la lettura di tipo culturale, che fa discendere la violenza, in particolare quella di genere, da un modello di società patriarcale, dove gli uomini hanno da sempre privilegi che le donne non hanno e dove il dominio maschile sul genere femminile la fa ancora da padrone. C’è altresì la lettura di tipo femminista, quella di tipo geografica, quella storica. Ma ce n’è un’altra di lettura, sicuramente stravagante, certamente nuova e interessante, elaborata da Alberico Lemme, il farmacista più discusso d’Italia, che ha individuato la possibile causa della violenza in uno scompenso ormonale provocato dal disordine alimentare. Le ultime scoperte scientifiche sulla fisiologia dell’apparato digerente, portano infatti a confermare la tanto vessata teoria di Lemme secondo la quale, essendo gli ormoni a gestire il pensiero ed il comportamento umano, molte delle nostre reazioni comportamentali sono riconducibili a come ci nutriamo. Le persone pensano e si comportano in base ai loro livelli ormonali ed è proprio nell’apparato digerente che si ha la produzione di alcuni ormoni quali la serotonina (l’ormone del buonumore e antistress) e la dopamina (l’ormone del piacere e della ricompensa). Questi due ormoni, serotonina e dopamina, in sinergia con altri, influiscono sull’umore e sulle reazioni comportamentali dell’essere umano. Pertanto è come se l’individuo venisse sempre governato anche da un secondo cervello, quello intestinale. Ma cosa attiva o inibisce la produzione, per la percentuale di competenza dell’apparato digerente, di dopamina e di serotonina così da influenzare, in maniera determinante, i comportamenti umani e, dunque, anche la violenza? Il CIBO - Alberico Lemme sostiene (dopo 30 anni di ricerca e di sperimentazione sul campo) che un’alimentazione in chiave biochimica in funzione ormonale possa realmente ridurre i comportamenti violenti. Emblematico è il progetto di introdurre nelle carceri una corretta alimentazione per gestire l’ansia e l’aggressività dei detenuti. La stimolazione della produzione ormonale che il cibo, una volta ingerito, attiva e scatena, porta alla logica conclusione che, anche attraverso una sana e corretta alimentazione, si può controllare lo squilibrio ormonale che induce e provoca il comportamento violento. Esempio assoluto è quello dell’alcol, un deprimente primario del sistema nervoso centrale che, in misura maggiore nel sesso maschile, ostacola l’azione di controllo della corteccia prefrontale disinibendo e favorendo i comportamenti aggressivi. Da queste considerazioni si ricava che ogni strada, ogni proposta, ogni nuova teoria o nuovo studio dovrebbero essere attentamente analizzati e considerati, nel tentativo di arginare un fenomeno - quello della violenza, non solo di genere - che dilaga e contamina di sé tutti i territori sociali. Del resto, non è Feuerbach ad averci insegnato che “l’uomo è ciò che mangia”? *Avv. Senior Studio Legale Bernardini de Pace Uffici giudiziari di prossimità di Marzia Paolucci Italia Oggi, 30 novembre 2018 Il ministro Riccardo Fraccaro annuncia l’apertura di sportelli territoriali che consentiranno di spedire e ricevere atti e notifiche a tribunali, ospedali, Inps. Arrivano gli uffici giudiziari di prossimità: così si chiameranno quei presidi per il cittadino da cui inviare atti, riceverli e ritirare notifiche e comunicazioni. Una novità anticipata dal Ministro per i Rapporti con il Parlamento e la Democrazia diretta, Riccardo Fraccaro, intervenuto al Question Time su geografia giudiziaria e uffici di prossimità del 22 novembre scorso al Senato in sostituzione del guardasigilli, Alfonso Bonafede: “Il progetto sugli uffici giudiziari di prossimità”, ha detto, “verrà presentato alle Regioni il prossimo 11 dicembre in Senato e sarà l’occasione per un confronto diretto con gli esponenti dei territori sulla tematica della geografia giudiziario”. Buone prassi di queste reti di servizi per il territorio sono già in corso presso i tribunali di Monza, Torino, Genova, Vicenza e Milano. “Si tratta di uno strumento di raccordo non solo per gli uffici giudiziari ma anche con ogni altra struttura istituzionale come strutture ospedaliere ed enti previdenziali con cui l’utente deve interfacciarsi per poter tutelare in sede giudiziaria i propri interessi”, ha spiegato in Aula Fraccaro. “Un progetto”, ha descritto il ministro, “che prevede la dislocazione su tutto il territorio nazionale di veri e propri sportelli dedicati al cittadino, non sostitutivi dei tribunali ma con servizi diversi, ulteriori, quali l’invio di atti telematici, il ritiro di notificazioni e comunicazioni, la ricezione di atti e documenti, senza dover affrontare alcuno spostamento logistico”. Il vantaggio di questi sportelli è bidirezionale perché, accerta un approfondimento del Csm, avvicinano il cittadino all’ufficio giudiziario ma anche l’ufficio giudiziario al cittadino. “Manifestazione concreta della giustizia come di un bene del territorio”, li definisce il documento che ne spiega così la bi-direzionalità: “Dal punto di vista del sistema giudiziario sono degli sportelli decentrati dell’ufficio giudiziario che permettono ai cittadini di avere un riferimento vicino al luogo dove vivono e di usufruire di un servizio completo di orientamento e di consulenza. Mentre dal punto di vista del territorio sono la risposta del sistema, più propriamente del welfare state, al cittadino in difficoltà che non deve rivolgersi a più interlocutori per fruire di un servizio, ma che può accedere ad un unico punto di contatto in grado di fornire risposte univoche e nel luogo più vicino”. L’ambito in cui si muoveranno sarà quello di amministrazioni di sostegno, tutele, anche di minori, e curatele, ossia il settore della giurisdizione più prossimo alle esigenze delle persone fragili. Gli sportelli forniranno orientamento sugli istituti di protezione giuridica, distribuiranno la modulistica degli uffici giudiziari, aiuteranno le parti nella preparazione dei ricorsi, loro anche la raccolta e verifica degli allegati in tema di ads, la ricezione e il deposito presso la Cancelleria del Tribunale dei ricorsi anche ricorrendo agli strumenti informatici del processo civile telematico, l’aiuto fornito agli amministratori di sostegno nella compilazione dei rendiconti periodici di amministrazione di sostegno e tutele provvedendone alla raccolta e deposito presso la cancelleria del Tribunale anche mediante l’utilizzo di strumenti informatici. Il finanziamento sarà a carico degli enti locali senza i quali, gli sportelli, avverte il Consiglio, saranno “inattuabili”. Servono quindi tavoli di coordinamento tra i diversi attori a cominciare dall’ufficio giudiziario, luoghi fisici dove aprire gli sportelli, selezione e formazione del personale degli enti territoriali, modulistica standard per le varie tipologie di atti che i cittadini possono presentare al giudice tutelare, un’interlocuzione diretta tra il personale degli sportelli di prossimità e le cancellerie degli uffici giudiziari o comunque un punto di contatto presso il Tribunale. Necessaria anche l’attivazione di sistemi informatici di trasmissione dei ricorsi e delle istanze dagli sportelli di prossimità al Tribunale attraverso l’utilizzo del pct con iscrizione del funzionario di sportello all’indirizzario telematico del tribunale o nelle forme più evolute, realizzando un punto di accesso attraverso il quale qualunque cittadino autenticato possa inviare atti telematici al Tribunale e in ultimo, l’attivazione di servizi di teleconferenza per l’audizione a distanza dei beneficiari delle amministrazioni di sostegno. Spese di custodia cautelare per il mantenimento in carcere da pagare anche se si patteggia quotidianogiuridico.it, 30 novembre 2018 Cassazione penale, sezione IV, sentenza 7 novembre 2018, n. 50314. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui il tribunale aveva applicato ad un imputato, su richiesta concordata delle parti, la pena per il reato di detenzione a fine di cessione di stupefacente, inoltre condannandolo al pagamento delle spese di custodia in carcere, la Corte di Cassazione (sentenza 7 novembre 2018, n. 50314) - nel rigettare il ricorso della difesa, secondo cui doveva ritenersi illegittima ex art. 445, comma 1, c.p.p. la condanna dell’imputato al pagamento delle spese di custodia cautelare in carcere, poiché siffatte spese rientrerebbero tra le “spese processuali” che non possono essere posta e carico dell’imputato - pur dando atto dell’esistenza di due contrapposti orientamenti giurisprudenziali, ha ritenuto di condividere quello il quale ritiene che, a prescindere dalla durata della sanzione concordata ex art. 444 c.p.p., in caso di patteggiamento le spese di mantenimento in carcere dell’imputato devono essere in ogni caso poste a suo carico a prescindere dalla sanzione concordata, attesa la loro diversa natura rispetto alle spese processuali. Viterbo: detenuto morto a Mammagialla, il gip “no all’archiviazione del caso” tusciaweb.eu, 30 novembre 2018 Per la procura Claudio Tomaino, che si autoaccusò di una strage familiare, si è suicidato - Il giudice: “Perché su viso e lenzuola c’erano macchie di sangue? Accertare che non sia stato pestato dagli agenti”. Si autoaccusò della strage di Caraffa, nelle campagne di Catanzaro. Un pluri-omicidio avvenuto il 27 marzo del 2006, quando furono uccisi l’infermiere Camillo Pane, la moglie Annamaria e i figli Eugenio e Maria. Il movente? Questioni di soldi. Secondo gli inquirenti il presunto assassino, che era nipote di Pane, avrebbe dovuto 450mila euro allo zio, con il quale aveva un’attività di compravendita immobiliare. Il presunto omicida era Claudio Tomaino, 30enne di Lamezia Terme, che venne rinchiuso nel carcere di Mammagialla. Ma nella sua cella, il 19 gennaio 2008, è stato trovato morto. Con una busta di plastica in testa. Per la procura di Viterbo non ci sono mai stati dubbi. Si è trattato di un suicidio, considerando anche i quattro precedenti tentativi di Tomaino di togliersi la vita. Prima tagliandosi le vene. Poi ingerendo lamette e barbiturici. Più volte, nel corso degli anni, i magistrati di via Falcone e Borsellino hanno chiesto l’archiviazione del fascicolo contro ignoti per istigazione al suicidio. Archiviazione a cui la mamma del 30enne, Maria Cecilia Pane, si è sempre opposta tramite l’avvocato Francesco Balzamo. Archiviazione a cui il tribunale di Viterbo ha sempre detto no. L’ultima volta è stata lunedì scorso, quando il gip Savina Poli non ha accolto la richiesta di archiviazione presentata dalla procura il 21 marzo del 2017. “Appare necessario - scrive il giudice nell’ordinanza - svolgere ulteriori indagini, come comparare i profili genetici di cui si dispone con quello di Maria Cecilia Pane, per verificare se e quali profili appartengano a Tomaino. È necessario compararli anche con quelli di chi, la mattina in cui è stato scoperto il decesso del detenuto, ha avuto accesso nella sua cella. Tale comparazione può chiarire definitivamente se i profili non attribuibili a Tomaino siano dei soccorritori, come ipotizzato dal pm”. Il 19 gennaio 2018 sul viso e sul cuscino di Tomaino sono state trovate macchie di sangue. “Per dissipare ogni dubbio sulle cause del decesso del detenuto - prosegue il gip -, è necessario che il consulente del pm chiarisca quale fosse la concentrazione di gas butano rilevata nei reperti prelevati dal cadavere e se fosse sufficiente a determinarne la morte per asfissia. È necessario che il pm risente il medico legale per chiarire come, in presenza di una morte dovuta ad asfissia per intossicazione da gas butano, possano spiegarsi le copiose tracce ematiche presenti sulle federe e sui lenzuoli di Tomaino, e se la causa della morte possa essere compatibile con quanto riscontrato durante l’autopsia: presenza di edema polmonare acuto, con stravizi emorragici e intensa congestione intervascolare”. Il gip ha ordinato ulteriori indagini anche sulle dichiarazioni di un detenuto a Mammagialla che avrebbe “denunciato - è scritto nell’ordinanza - degli agenti di polizia penitenziaria che, a suo dire, sarebbero stati autori di un pestaggio ai danni di Tomaino nei giorni precedenti la morte”. Il detenuto “ha affermato che la sera prima del decesso di Tomaino - scrive il gip - gli agenti in servizio avevano stranamente chiuso tutte le porte blindate prima del tempo”. Per questo il giudice ha chiesto di “comparare anche i profili genetici degli agenti con quelli a disposizione”, e di accertare se “la sera del 18 gennaio 2008 le celle della sezione fossero state chiuse prima del tempo”. Como: dramma al Bassone, detenuto muore soffocato Corriere di Como, 30 novembre 2018 Stava mangiando in compagnia di un altro detenuto nella cella del carcere del Bassone vicina all’infermeria della casa circondariale di Albate. All’improvviso un boccone gli ha ostruito la respirazione. A nulla è servita la richiesta di aiuto del suo compagno di detenzione, un maghrebino, e l’intervento degli uomini della penitenziaria. L’uomo è morto soffocato. La tragedia, avvenuta nei giorni scorsi, ha colpito un cittadino francese di 32 anni originario della città di Lione. L’uomo era stato da poco arrestato in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal giudice delle indagini preliminari di Varese su richiesta della Procura. Il reato che gli veniva contestato era la rapina. Il 32enne francese era stato denunciato anche in Liguria (a piede libero) per il possesso di oggetti atti a offendere. La segnalazione dell’accaduto è stata girata al magistrato di turno in Procura a Como, che ha disposto l’autopsia sul corpo del detenuto. Il medico legale ha confermato il decesso per asfissia in seguito al bolo alimentare che ha ostruito le vie respiratorie. Complicate anche le fasi successive alla tragedia, dato che si è resa necessaria l’individuazione di un parente cui restituire il corpo. Un lavoro non semplice visto che in seguito si è appurato che il nome con cui il ragazzo era stato arrestato, e che lo stesso 32enne aveva fornito agli inquirenti, non era il suo ma quello del fratello che al contrario era vivo in Francia. E proprio a quest’ultimo è poi stato restituito il corpo. Como: il Garante dei detenuti apre Sportello al carcere Bassone lombardiaquotidiano.com, 30 novembre 2018 Si allarga anche al Carcere di Como la rete degli “Sportelli del Garante dei detenuti”. L’inaugurazione ufficiale del nuovo Sportello si terrà venerdì 30 novembre alle ore 10.30 presso la Casa Circondariale in via Bassone 11, nel corso di un incontro riservato alla stampa a cui parteciperanno il Difensore regionale Carlo Lio (che esercita per legge anche le funzioni di Garante dei detenuti), il Direttore della Casa Circondariale Carla Santandrea e il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Luigi Pagano. Nell’occasione sarà presente e interverrà anche il Presidente del Consiglio regionale della Lombardia Alessandro Fermi. L’appuntamento per i giornalisti è per le ore 10.15 all’ingresso del carcere: è necessario accreditarsi scrivendo via mail a aurelio.biassoni@consiglio.regione.lombardia.it entro le ore 16 di domani giovedì 29 novembre e presentarsi con il tesserino dell’Ordine dei Giornalisti. Sarà possibile effettuare fotografie e riprese video durante la conferenza stampa e nei luoghi autorizzati. Lo Sportello presso la Casa Circondariale sarà a disposizione dei detenuti che vorranno presentare richieste o istanze rivolgendosi a una figura istituzionale di garanzia. L’iniziativa è stata promossa dal Difensore regionale della Lombardia e dal Provveditorato all’Amministrazione penitenziaria. “Obbiettivo di questo progetto è avvicinare i detenuti all’istituzione che li tutela - ha spiegato Carlo Lio, aprendo sportelli direttamente accessibili all’interno del carcere. È un segnale di vicinanza e di attenzione da parte della Regione, che intende avviare collaborazioni con gli uffici dei Garanti dei cittadini nei Comuni sedi di case di reclusione”. L’apertura al Bassone di Como si aggiunge ai servizi già attivi nei carceri di San Vittore, Opera, Bollate, Pavia, Voghera, Vigevano e Monza: negli ultimi 4 mesi sono arrivate 97 istanze per il Garante dei detenuti, contro le 48 pervenute nello stesso periodo dell’anno scorso. Pisa: il Garante “La Rems attiva a Volterra luogo realmente terapeutico” di Samuele Bartolini Il Tirreno, 30 novembre 2018 Dall’inaugurazione il 1° dicembre 2015 la struttura ha accolto 62 persone Tra sei mesi ne entrerà in funzione una a Empoli e così il carico sarà alleggerito. “A quarant’anni dalla sua approvazione, c’è chi vuole fermare la rivoluzione della legge Basaglia e riaprire i manicomi. Io dico invece: mai più manicomi. E la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Volterra dimostra che la riforma funziona e può funzionare bene”. Per il garante dei diritti dei detenuti della Toscana, Franco Corleone tira una brutta aria nel Paese. La conferma gli viene da una frase del ministro dell’Interno Matteo Salvini al raduno della Lega a Pontida. Lo cita all’inizio di “Mai più manicomi”, la ricerca curata dallo stesso Corleone e presentata ieri a Palazzo Bastogi a Firenze. Il vicepremier Salvini definisce la legge 180 “una legge assurda che ha causato miseria e abbandono per migliaia di famiglie di pazienti psichiatrici e ha causato una esplosione di aggressioni da parte di persone affette da disturbi mentali”. Niente di più falso, secondo Corleone. E l’esempio da sbandierare è proprio il Rems di Volterra. “Da quando ha aperto il 1° dicembre 2015 la struttura ha accolto 62 persone, 38 delle quali sono uscite e destinate a strutture più leggere o alla libertà vigilata. Vuol dire che il Rems di Volterra è un luogo realmente terapeutico”, spiega Corleone. E il garante dei detenuti non si preoccupa se qualche paziente si allontana ogni tanto dalla struttura. Si ricordi il caso del giovane albanese rintracciato dopo un’ora di fuga lo scorso aprile. “Le recinzioni vanno abbattute, gli spazi allargati”, insiste Corleone. Ma perché la residenza di Volterra funziona? Lo spiega il garante: “C’è il numero chiuso. La Rems di Volterra ha una capienza di 30 persone. Attualmente ospita 28 uomini e 2 donne. Così si evita il sovraffollamento come in carcere. Le persone sono seguite dai dipartimenti di salute mentale: psichiatri, psicologi, tecnici della riabilitazione, educatori e infermieri. C’è il rifiuto della contenzione, che non è un atto terapeutico, e la misura di sicurezza ha un tempo definito. Infine c’è il grande impegno del personale”. Alcuni numeri. Delle 62 persone transitate dalla Rems di Volterra, 45 sono italiane (pari al 74 per cento). 31 persone (il 52 per cento) provengono dall’ex Opg di Montelupo Fiorentino, il restante quasi tutti dal carcere; 39 pazienti (pari al 64 per cento) hanno tra i 35 e i 54 anni. 26 pazienti (cioè il 42 per cento) hanno commesso reati contro la persona (per esempio: lesioni, percosse, ingiurie, violenza sessuale); 21 persone (il 34 per cento) hanno commesso un omicidio o un tentato omicidio. Ma la Rems è una struttura temporanea. Fra sei mesi ne aprirà un’altra a Empoli e il carico su Volterra sarà alleggerito. A Palazzo Bastogi anche il presidente del consiglio regionale Eugenio Giani: “Questa giornata è il primo degli eventi che caratterizzano la Festa della Toscana”. Ferrara: Calvano (Pd) visita il carcere “diverse progettualità, ma non mancano criticità” estense.com, 30 novembre 2018 Il consigliere regionale del Pd: “Solleciterò Governo per migliorare le condizioni di lavoro degli agenti e quelle di vita dei detenuti”. Il consigliere regionale Paolo Calvano, insieme al Garante regionale dei detenuti Marcello Marighelli, ha visitato la casa circondariale “Costantino Satta” di Ferrara, accompagnato anche dalla comandante del reparto di polizia penitenziaria Annalisa Gadaleta e dalla responsabile delle attività educative Loredana Onofri. “Grazie alla disponibilità del direttore Paolo Malato e della garante dei detenuti di Ferrara Stefania Carnevale ho fatto visita al carcere - spiega Calvano -. Un’occasione per verificare le condizioni della struttura e del lavoro degli operatori oltre che della vita dei detenuti. Sono diverse le progettualità messe in campo in questo delicato ambito, ma non mancano le criticità. Tra le problematiche emerse, sulle quali mi impegnerò a trovare soluzioni, vi è la necessità d’intervento nell’ala alloggi della polizia penitenziaria oltre che sulla videosorveglianza interna e sull’impianto di condizionamento. Su questi temi è importante che anche il Ministero faccia la propria parte e tempestivamente si trovino risposte ai bisogni di chi ruota attorno alla struttura. Per questo solleciterò il Governo, con gli strumenti a disposizione in Regione, affinché venga garantita la qualità del lavoro degli operatori e della vita dei detenuti”. Altro tema riscontrato dal consigliere ferrarese è legato al sovraffollamento della struttura. “Sono 353 i detenuti a maggio 2018 e le guardie penitenziarie a disposizione sono 168 a fronte delle 210 previste - aggiunge Calvano -. Anche su questo tema è bene che il Ministero competente si attivi quanto prima, per garantire il giusto rapporto tra operatori e detenuti e quindi la sicurezza della struttura. Da evidenziare è anche la positività che ho riscontrato all’interno dell’edificio. Diversi sono i progetti e i laboratori realizzati, anche grazie alle risorse finanziate dal Fondo Sociale Europeo rese disponibili dalla Regione Emilia-Romagna. Ottimo il coinvolgimento di diverse associazioni di volontariato, cooperative sociali, istituzioni e soggetti privati, grazie al quale viene garantito un dignitoso tenore di vita dei detenuti, che agevola anche il lavoro del personale operante nella casa circondariale”. Alessandria: “detenuti a scuola di agricoltura”, accordo tra Cia, coop. Coompany e carcere alessandrianews.it, 30 novembre 2018 L’accordo consentirà ai detenuti più meritevoli di seguire corsi professionalizzanti svolti all’interno del carcere per acquisire competenze in ambito agricolo direttamente spendibili nel mondo del lavoro una volta scontata la pena. Cia Alessandria, la Cooperativa Sociale Coompany & s.c.s. e gli Istituti Penitenziari “Cantiello G. e Gaeta S.” di Alessandria hanno formalizzato, mercoledì 28 novembre, un protocollo operativo per la realizzazione di un progetto “per l’acquisizione di competenze tecnico/pratiche agro-ecologiche di base per una prospettiva di reinserimento sociale dei detenuti”. A firmare l’accordo, il presidente provinciale Gian Piero Ameglio e la direttrice degli istituti penitenziari alessandrini Elena Lombardi Vallauri. La Cia di Alessandria (Confederazione Italiana Agricoltori Alessandria) si impegna a far partecipare alcuni detenuti, preventivamente selezionati dalla Direzione dell’Istituto Penitenziario, ai corsi che organizza per l’ottenimento delle varie abilitazioni stabilite dalla vigente normativa in materia (ad esempio, utilizzo di fitofarmaci, guida di mezzi agricoli, sicurezza sul lavoro, utilizzo di attrezzature). I corsi, svolti dal responsabile tecnico e della Formazione Cia Alessandria Fabrizio Bullano, saranno organizzati all’interno dell’Istituto, secondo le indicazioni di volta in volta fornite dalla Direzione (ma ci saranno alcuni detenuti, in articolo 21, che avranno la possibilità di seguire percorsi formativi anche all’esterno, compiendo così un ulteriore step verso l’autonomia e la propria autogestione responsabile). L’Istituto Penitenziario si impegna a promuovere la realizzazione dei corsi all’interno della struttura, selezionando i detenuti beneficiari del progetto e favorendo la partecipazione alle attività, sia teoriche che pratiche. Si impegna inoltre a selezionare i detenuti partecipanti ai corsi esterni, occupandosi delle necessarie autorizzazioni per l’uscita degli stessi. La Cooperativa Coompany, si impegna ad attivare i corsi che si svolgeranno in Istituto utilizzando i terreni prestati in comodato d’uso dall’Istituto Penitenziario e a far partecipare i detenuti che lì lavorano. I detenuti frequenteranno i corsi di formazione su tematiche agricole ottenendo una certificazione finale da poter spendere una volta scontata la pena L’accordo ha durata sperimentale di un anno dalla data della firma; con l’accordo delle parti, se l’esperienza sarà valutata positivamente, potrà essere annualmente rinnovata. Spiega Carlo Ricagni, direttore provinciale Cia Alessandria: “L’obiettivo primario del progetto di Agricoltura sociale è offrire ai detenuti una professionalità di cui potranno beneficiare al termine della reclusione. In questo modo infatti si concretizza il processo di reinserimento sociale del detenuto, che avrà competenze tecniche e professionali necessarie per rientrare a pieno nel contesto della comunità locale e alle opportunità offerte dal tessuto produttivo del territorio”. Conclude Elena Lombardi Vallauri, direttore Istituti Penitenziari Alessandria: “Trasmettere alle persone affidate alle istituzioni penitenziarie seri e qualificati strumenti professionali spendibili durante e dopo la reclusione è un nostro obiettivo primario. Farlo, valorizzando e mettendo in rete i contributi di tutti gli attori che a vario titolo agiscono negli Istituti di Alessandria, soprattutto dopo la loro unificazione, consente di costruire percorsi di reinserimento più efficaci e meno onerosi per la collettività. Tutti gli operatori del carcere, Poliziotti Penitenziari ed Educatori stanno lavorando per ampliare le prospettive di formazione e lavorative per coloro che compiono la scelta di prendere in mano responsabilmente il proprio futuro. La convenzione che firmiamo oggi è il completamento, in materia di agricoltura, di un iter che dalla formazione professionale conduce all’inserimento lavorativo durante e possibilmente dopo la detenzione anche in autonomia”. Firenze: convegno sul 41bis, madre di Alessio Attanasio racconta le vicissitudini del figlio diario1984.it, 30 novembre 2018 Sabato scorso, 24 novembre, si è svolto il secondo incontro “Scrittrici e scrittori delle carceri”. Tra gli invitati il detenuto siracusano Alessio Attanasio, autore del libro “L’infermo dei regimi differenziati”. Essendo sottoposto al regime del 41 bis, Attanasio non ha ottenuto l’autorizzazione per partecipare all’incontro dei “Vagabondi delle Stelle”, svoltosi presso la Biblioteca Canova Isolotto di Firenze, e lui ha delegato a rappresentarlo la propria madre, signora Lucia Randazzo. Di seguito pubblichiamo l’intervento della madre di Alessio Attanasio. “Buongiorno a tutti, sono la signora Attanasio, la mamma dell’autore del libro scritto da mio figlio sul 41 bis; oltre alla profonda conoscenza giuridica sull’argomento le vicende personali narrate sono esperienza viva e vissuta sulla sua pelle. Non è stato facile per lui scrivere questo volume perché le difficoltà incontrate dovute ai divieti, ai sequestri, alle punizioni da parte dei bravissimi lavoratori del Dap sono stati tantissimi. Alle autorizzazioni dei magistrati seguivano i divieti che provenivano da parte di coloro che non volevano che si scoperchiasse “Il Vaso di Pandora”: già, perché tutto doveva rimanere nascosto, nessuno doveva venire a conoscenza degli abusi di autorità, dei soprusi perpetrati, della dignità umana calpestata, delle torture fisiche e psicologiche a cui venivano sottoposti coloro che non strisciavano, che non abbassavano la testa. Purtroppo il carattere ribelle di mio figlio lo ha portato a subire tantissime punizioni. Lui, quando usciva dalla cella si rifiutava sempre di alzare i piedi per il controllo perché si sentiva offeso e umiliato; ma cosa dovevano controllare se nella cella i controlli erano continui? lo stesso quando per andare a colloquio doveva denudarsi per essere perquisito; erano cose che lui non accettava e per le quali si rifiutava categoricamente. Dopo infiniti ricorsi l’ha poi spuntata e di questa sua vittoria ne hanno usufruito anche gli altri. Dopo anni di lavoro, anni per le troppe difficoltà incontrate, finalmente ha messo la parola fine alla sua opera, ma i problemi non sono finiti: il libro non poteva uscire da quelle mura e veniva sequestrato. Ma Alessio non si è mai arreso, anzi le difficoltà lo stimolavano alla lotta. Dopo infiniti ricorsi seguiti dalle autorizzazioni dei magistrati a cui si rivolgeva e con l’aiuto dell’Associazione Liberarsi, il libro finalmente veniva stampato e pubblicato: ma sapete che mio figlio non ha il libro? il suo libro che gli è costato lavoro, sacrifici, punizioni, per il quale ha tanto lottato? Già, perché al 41 bis non possono ricevere libri in quanto, delle frasi sottintese possono presentare un pericolo per la sicurezza e l’ordine dell’Istituto e, addirittura, per la sicurezza della Nazione. Ora, ma questo libro, vagliato e sottoposto al giudizio di tanti magistrati, quale pericolo può rappresentare se lo riceve lo stesso autore? Il libro glielo abbiamo mandato ma non gli è stato consegnato. Assurdo vero? E di assurdità al 41 bis ce ne sono tante, infinite. L’ultima nell’ordine di tempo è successa il mese scorso: la Corte Costituzionale, dopo un ricorso fatto da mio figlio, stabiliva che al 41 bis fosse concesso l’uso del fornellino per la cottura dei cibi. A Spoleto questa autorizzazione è stata disattesa, infatti alla richiesta dell’acquisto di un pacco di spaghetti, ad Alessio è stato posto un rifiuto. La forma di ribellione pacifica messa in atto da mio figlio è stata quella di sedersi al centro del cortile durante l’ora d’aria. Al suo rifiuto di alzarsi, è stato preso con la forza e trascinato fino alla “camera liscia”. Non so se conoscete questa forma di punizione. Si tratta di una cella nella quale si trova soltanto un lurido materasso steso a terra e null’altro; la finestra è oscurata con delle assi di legno in modo che non ci sia un ricambio d’aria e non si possa vedere nemmeno il cielo. Non gli è stato dato da mangiare e da bere per un paio di giorni. Non vi sembra una punizione eccessiva rispetto alla forma pacifica di ribellione messa in atto da mio figlio per qualcosa che costituzionalmente gli spettava? Non è stata una cosa assurda, che non si riesce a comprendere? Fortuna volle che il giorno dopo questa forma di sequestro di persona erano in programma due telefonate che non potevano essere annullate: una con l’avvocato di Siracusa e una con la famiglia, per cui siamo venuti a conoscenza di questa “tortura in atto”. Mio figlio ci ha chiesto di chiamare il 112 e il 113 per un loro intervento e di far pubblicare la notizia sui giornali. Era di sabato e, per vari motivi, mi è stato impossibile telefonare ai due numeri per l’emergenza. Il 112, chiamato la mattina dopo, mi ha risposto che non poteva fare nulla senza spiegare il perché e di rivolgermi ad un’altra caserma di Carabinieri dato che quella in cui mi ero recata era chiusa; era domenica e i Carabinieri di quella caserma rispettavano la festività. E il diritto della vita dei cittadini dove sta? Lasciamo stare! Il 113 mi risponde che la denuncia non si poteva fare per telefono ma bisognava andare in una caserma per farne una scritta, tuttavia mi passava telefonicamente la polizia di Spoleto. La persona che mi ha risposto ha ascoltato il mio grido di aiuto con il quale chiedevo un intervento della Polizia nel carcere. Sapete cosa mi ha risposto? Che loro non potevano intervenire perché il carcere ha un’altra “giurisdizione” e quindi non era di loro competenza. E allora ho detto che mio figlio poteva fare la fine di Cucchi. Risposta: chi è questo Cucchi? È proprio disarmante: siamo stati nelle mani di nessuno e in carcere possono fare quello che vogliono perché nessuno li controlla! Il giorno dopo mio figlio, qui presente, è andato in Questura con l’avvocato per sporgere denuncia, ma non è successo nulla, nessuno si è mosso, nessuno è intervenuto. Mi sono rivolta a due quotidiani di Siracusa e due di Spoleto che hanno pubblicato la notizia. Dopo questo trambusto che abbiamo provocato, dopo circa due giorni a mio figlio è stato portato da mangiare, una bottiglia d’acqua, le carte processuali che gli servivano, i libri della materia di cui a giorni doveva dare l’esame; gli hanno dato lenzuola e coperte e finalmente la finestra è stata schiodata. In due giorni tutto è tornato alla normalità, ma era in serbo una sorpresa: il trasferimento di mio figlio da Spoleto a Cuneo. E sì, quando un detenuto dà problemi e risulta ingestibile anche se è nei limiti della legalità, l’unica arma che hanno, per togliersi dinanzi un individuo scomodo, è il trasferimento. Ce ne sarebbero molte altre cose da raccontare ma non voglio dilungarmi per non risultare noiosa. L’avvocato Pintus di Sassari, uno dei difensori di mio figlio, è una persona straordinaria, speciale perché oltre alla difesa giuridica risolve tanti piccoli e gradi problemi che Alessio non potrebbe risolvere. Ella, in collegamento con l’Università di Sassari dove Alessio è iscritto per ottenere una seconda laurea, fa da tramite con il personale dell’Ateneo per l’iscrizione ad un nuovo anno accademico, per conoscere e far sapere al suo assistito l’elenco dei libri da comprare tramite l’Istituto carcerario, per fargli avere in prestito dall’Ateneo qualche testo, per comunicargli in anteprima la data di un esame, per fare sapere a me come è andato un esame lo stesso giorno in cui è stato dato, per avere dei certificati. L’avvocato e io ci sentiamo spesso e lei mi rivolgo per qualsiasi problema. Quando fra lei e mio figlio c’è una telefonata è lei che mi chiama per darmi sue notizie. Molti sono stati gli avvocati che ha avuto mio figlio ma nessuno è stato come lei e a lei va la mia profonda gratitudine. Se siete interessati a conoscere come funziona il 41 bis acquistate il libro che mio figlio ha scritto. Grazie per avermi ascoltata”. Voghera (Pv): inaugurata la stanza per i nonni-detenuti vogheranews.it, 30 novembre 2018 Il Progetto realizzato con la collaborazione del Lions e del Leo Club e il patrocinio del Comune. Una stanza dove i nonni detenuti potranno incontrare i nipoti in uno spazio riservato e opportunamente allestito. Presso la Casa Circondariale di Voghera è stato inaugurato un locale per il ricongiungimento di nonni detenuti e nipoti. Il Progetto denominato “Libera un sorriso” è stato realizzato dal Lions Club Voghera Castello Visconteo e dal Leo Club Voghera, in collaborazione con la direzione e l’area giuridico-pedagogica della Casa Circondariale di Voghera con il patrocinio dell’assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Voghera. Erano presenti il governatore Lions del distretto 108ib3 Giovanni Fasani, il Primo Vice Governatore Angelo Chiesa, il Presidente Lions Club Voghera Castello Visconteo Emanuela Martinotti, il past president Lions Club Voghera Castello Visconteo Giuseppe Fiocchi, il past president Leo Club Voghera Martina Fariseo, il presidente Leo Club Voghera Alessandra Dallara, i soci Lions, il sindaco di Voghera Carlo Barbieri, l’assessore alla Famiglia Simona Virgilio, il presidente del Consiglio Comunale Nicola Affronti, il personale dell’area pedagogica-giuridica della Casa circondariale di Voghera che ha collaborato all’evento, la dott.ssa Paola Fontana e la dott.ssa Laura Sarta dell’UEPE di Pavia. Alcuni detenuti hanno preparato un ricco buffet di deliziosi dolciumi e prelibatezze per ringraziare dell’attenzione prestata e per aver esaudito la loro richiesta con la realizzazione di questa stanza per l’incontro dei nonni detenuti con i nipoti. “Questa iniziativa costituisce per i Lions e i Leo un servizio di estrema importanza - afferma Martinotti - creare uno spazio all’interno del carcere che possa favorire l’incontro tra nonni detenuti e nipoti, significa consolidare le relazioni affettive e ricostituire, anche per poche ore, il nucleo familiare”. Il 12 aprile 2018 era stato organizzato un convegno dal Lions Club Castello Visconteo e dal Leo Club Voghera, presso il Circolo Il Ritrovo, in cui si era dibattuto di argomenti inerenti i rapporti tra la Città di Voghera e la Casa Circondariale. Quanto ricavato dall’evento è servito per allestire ed arredare la stanza dei nonni e nipoti con giochi per i bambini, quadri, arredi e tanto colore per ricreare un ambiente gioioso e sereno all’interno della struttura carceraria. “Ringrazio quanti hanno reso possibile la realizzazione di questo spazio destinato ai detenuti nonni, dimostrando cultura ed eleganza, di cui sono esempio da imitare. Il territorio vogherese, sempre sensibile a proposte di tale tenore, è ampiamente impegnato nelle attività rivolte ai ristretti di questo istituto. La comunità, attiva ed entusiasta, collabora abitualmente nell’opera rieducativa ed è rappresentata dal Lions Club Voghera Castello Visconteo e dal Leo Club di Voghera che hanno promosso l’allestimento della sala che oggi inauguriamo”, commenta la direttrice del Carcere Mariantonietta Tucci. Anche il capo area giuridico-pedagogica Fortunata Di Tullio ha sottolineato la valenza rieducativa del progetto “Libera un sorriso”. Il Premio Internazionale “Gramsci” per il Teatro in Carcere a Jean Troustine inscenaonlineteam.net, 30 novembre 2018 Assegnato a Jean Troustine il Premio Internazionale “Gramsci” per il Teatro in Carcere (terza edizione). Il Premio, che si è svolto ad Urbania, è organizzato dalla Rivista Europea “Catarsi-Teatri delle diversità” in collaborazione con l’Associazione Casa Natale Gramsci di Ales, l’Associazione Nazionale Critici di Teatro e l’Istituto Internazionale del Teatro. Jean Troustine è un’attivista statunitense impegnata per il riconoscimento dei diritti delle donne detenute nelle carceri di tutto il mondo. È autrice e co-autrice di sei libri tradotti in varie lingue. Fra questi Shakespeare Behind Bars: The Power of Drama In A Women’s Prison, 2001, un testo guida, famoso in tutto il mondo, che ha tracciato la strada per docenti, personale e magistrati che operano direttamente a contatto con il mondo carcerario. Una testimonianza fondamentale, utile per introdurre nel sistema carcerario l’uso del Teatro e della Letteratura come strumento efficace per l’educazione e reinserimento delle detenute e dei detenuti nella società civile. Jean Troustine ha insegnato e lavorato per oltre dieci anni alla Framingham Women’s Prison; un carcere femminile dove ha diretto otto produzioni teatrali e dove, col suo lavoro, ha mostrato come grazie alla Letteratura e al Teatro praticato in carcere si verifichi un cambiamento sostanziale nella vita dei detenuti, perché sono strumenti che offrono una vera e propria speranza, un momento di cambiamento e libertà. La terza edizione del Premio Internazionale Gramsci per il Teatro in Carcere si è svolta nel contesto della XIX Edizione del Convegno Internazionale I Teatri delle Diversità (in corso di svolgimento ad Urbania), organizzato nell’ambito di “Destini incrociati” Progetto Nazionale di Teatro in Carcere a cura del Teatro Aenigma Centro Internazionale di Produzione e Ricerca all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo e del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, con il sostegno di Ministero dei Beni e delle Attività Culturali - Dipartimento dello Spettacolo, della Regione Marche - Assessorato alla Cultura, con il Patrocinio di Comune di Urbania, dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato Regionale dell’Emilia Romagna e Marche, dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro e dell’Italian Centre of International Theatre Institute Unesco, con la collaborazione della Direzione Casa Circondariale di Pesaro, del Coordinamento Regionale Teatro in Carcere Marche, dell’Anffas Fermignano-Urbino-Urbania e della Cooperativa Sociale Labirinto. Maggiori informazioni sul Convegno sono disponibili sul sito teatridellediversita.it. Resistere e dissentire, non è mai troppo tardi di Massimo Villone Il Manifesto, 30 novembre 2018 In difesa della Costituzione. Non c’è nessun attacco di barbari che nottetempo hanno scalato le mura. Se c’è colpa va addebitata alla sinistra che ha progressivamente ceduto all’egemonia della destra abbandonando i suoi storici presidi politici e culturali. Oggi si discute sempre meno di Costituzione e sempre più di fascismo, scrive Zagrebelsky su Repubblica. Alcune posizioni espresse nell’articolo sono ampiamente condivisibili, altre meno. Ma questo non assolve la stupidità del commento di chi riporta tutto al no alla riforma renziana del 4 dicembre 2016, che si vuole perniciosamente sbagliato. La condizione del paese e delle istituzioni può piacere o no. Ma una cosa è certa: viene da lontano. Forse in passato di Costituzione si parlava di più, ma è dubbio che ad essa si prestasse maggiore attenzione. Il Berlusconi che magnificava il suo governo come sostanzialmente investito con voto popolare diretto (Senato, 16 maggio 1994) guardava forse alla necessaria centralità dell’assemblea elettiva in una forma parlamentare di governo? La vedeva come architrave di un sistema effettivamente democratico? E Prodi che diceva in fondo esattamente le stesse cose (Senato, 22 maggio 1996)? E ancora D’Alema che definiva il suo esecutivo come una anomalia frutto di una incompiuta transizione (Camera, 22 ottobre 1998)? E la riforma del Titolo V fortemente voluta nel 2001 dal centrosinistra, che cancellava il richiamo al Mezzogiorno e introduceva il famigerato art. 116, oggi strumentalmente usato dalla Lega per una “secessione dei ricchi”? E la riforma dell’art. 81 Cost., che nel 2012 vincolava a un pareggio di bilancio non richiesto da alcuno? E la tentata riduzione del Senato - con la riforma Renzi-Boschi - a una camera morta imbottita di consiglieri regionali e sindaci? E la spinta verso torsioni maggioritarie del sistema elettorale anche in un contesto non più bipolare, con una inevitabile pesante compressione della rappresentatività? E la libertà di voto negata dalle liste bloccate? Dove erano i costituzionalisti? A ben ricordare, schierati in larga parte a favore, in specie con i mantra della governabilità, del rafforzamento dell’esecutivo, dell’elezione del leader con la sua maggioranza. Chi non legge e non studia ovviamente ignora che alcuni - pochi - non hanno mai smesso di avanzare critiche e censure. A loro la storia ha dato ragione. Anche i garanti - presidente della Repubblica, Corte costituzionale - non si sono sempre segnalati per l’allarme sollevato, accettando piuttosto il pensiero unico dominante. Fa piacere che ora Mattarella ricordi che il pareggio di bilancio non può e non deve cancellare i diritti fondamentali e la tutela dei più deboli. Chi legge come due livelli separati la Costituzione e la società, la norma e il fatto, sbaglia. Una Costituzione può orientare la vita di un paese solo se il paese la condivide e la accetta nel suo complesso. L’intreccio è indissolubile ancorché fluido, e se si scioglie vince il fatto, non il diritto. Oggi non c’è nessun attacco di barbari che nottetempo hanno scalato le mura. Per me, se c’è colpa va addebitata alla sinistra che ha progressivamente ceduto all’egemonia della destra abbandonando i suoi storici presidi politici e culturali. È quella sinistra che ha barattato le fabbriche e i luoghi di lavoro con i salotti, i salari con i profitti e le rendite, i diritti dei lavoratori con quelli dell’impresa, gli ultimi con i potenti. È la sinistra dei D’Alema, Prodi, Veltroni, Renzi. Così, è stucchevole l’ultima polemica sul ricorso alla fiducia e la centralità del parlamento. In un tempo di partiti evanescenti si indeboliscono gli strumenti classici della disciplina di partito e di gruppo. E dunque la fiducia diviene strumento primario di gestione del dissenso interno. Se ne può discutere. Ma era forse centrale l’assemblea asservita al capo dalle liste bloccate, che approvava il jobs act, la buona scuola, l’italicum, la riforma costituzionale, il rosatellum? Cerca forse una centralità del parlamento chi attacca un temuto nuovo statalismo motivando con l’inefficienza del pubblico, quando è ormai provato che il privato può essere anche largamente peggio? Resistere e dissentire. Bene, ma certo non solo oggi. Bisognava anche ieri, e bisognerà domani. Interpretare il cambiamento senza ossequio ad alcuno è la missione degli intellettuali. Questa è la lezione di Luciana Castellina, in un articolo che contiene tanto amarcord, e tanta verità. Tra gli intellettuali si collocano anche i costituzionalisti, se vogliono onorare il proprio nome. A Luciana, intanto, grazie. Allarme volontariato: via le agevolazioni fiscali per chi fa donazioni in danaro di Rosaria Amato La Repubblica, 30 novembre 2018 Il Forum del Terzo Settore auspica che si tratti di una svista, e che la norma venga ripristinata: i contributi alle organizzazioni sono vitali per sostenerne le attività. La protesta dei senatori Pd, Edoardo Patriarca: “Ridurre le erogazioni ai soli beni materiali, escludendo quelle in danaro, è un’operazione di bassissimo profilo che potrebbe sottrarre risorse vitali al mondo del volontariato”. Via la detraibilità delle donazioni in danaro a favore delle organizzazioni del Terzo Settore: è il colpo di coda del decreto fiscale, arrivato quando ormai il provvedimento era in dirittura d’arrivo al Senato. Una norma che se venisse confermata anche nella versione finale del provvedimento, alla Camera, metterebbe a rischio le donazioni dei privati, che senza l’incentivo fiscale potrebbero essere meno generosi. I partiti di opposizione segnalano subito la norma e le sue possibili conseguenze negative per il mondo del volontariato. Alcuni senatori del Pd (tra i quali Edoardo Patriarca e Annamaria Parente) provano a intervenire, con un emendamento presentato poco prima della votazione finale, e che però viene bocciato. La norma, voluta dal governo, è “un colpo a un settore importante per le famiglie, i cittadini il welfare di questo Paese”, dice Patriarca. Eppure stamane la reazione del Forum del Terzo Settore è molto cauta: evita lo scontro con il governo, plaude all’altra parte della norma in tema di volontariato, che permette finalmente alle associazioni di autofinanziarsi “utilizzando al meglio le proprie strutture” e con specifiche iniziative, e si limita ad esprimere “preoccupazioni” sulla norma, rilevando che “in fase applicativa alcune interpretazioni possano far ritenere esclusa la detraibilità delle erogazioni in danaro effettuate da persone fisiche a favore degli enti del Terzo Settore”. Il titolo del comunicato inviato ai giornali è “Bene gli emendamenti del Governo, ma resta il nodo detraibilità”, come se la questione detraibilità fosse un piccolo particolare. Evidentemente non è così, ammette Enzo Costa, presidente dell’Auser, associazione di volontariato che fa capo allo Spi-Cgil e che vanta oltre 300.000 associati in tutta Italia: “È comprensibile che il governo ritenga che tutto debba essere fatto all’insegna del criterio del dono e della gratuità, e della trasparenza. Però se trasparenza significa cancellare la parola “denaro” dalla norma, consentendo solo la detraibilità delle donazioni in natura, diventa controproducente. Veniamo privati dei mezzi per operare, in un Paese in cui il ruolo del volontariato viene ampiamente riconosciuto, e diventa sempre più importante. Noi tocchiamo con mano come il welfare universale si stia disgregando, ormai l’Auser si ritrova ad aprire un nuovo ambulatorio sociale ogni due mesi, e lei crede che basti un medico volontario per tenerlo aperto? Servono strumentazioni, materiale sanitario...senza la solidarietà delle donazioni sarebbe impossibile da realizzare”. La cautela della reazione del Terzo Settore si deve probabilmente alla speranza che da parte del governo ci sia un ripensamento, che alla Camera si torni indietro sulla norma e venga ripristinata la detraibilità. Però i senatori del Pd che hanno sollevato il caso non sembrano credere molto a questa versione dei fatti: “Ridurre le erogazioni ai soli beni materiali, escludendo quelle in danaro, è un’operazione di bassissimo profilo che potrebbe sottrarre risorse vitali al mondo del volontariato”, dice Edoardo Patriarca. “Si vuole la trasparenza? - prosegue il senatore - D’accordo, ma in questo modo si va ben oltre, si rompono le alleanze positive con il territorio. Io credo che dietro questa scelta non ci sia solo la volontà di rastrellare fondi da destinare ad altro, ma anche un’antropologia sbagliata del Terzo Settore, come se s’immaginasse che sia costituito da farabutti, da soggetti da controllare: è una norma che nasce dal pregiudizio”. Migranti. Sicurezza, la legge non è uguale per tutti di Mario Morcone* Il Manifesto, 30 novembre 2018 Già la scelta di legare l’immigrazione al più ampio tema della sicurezza induce immediatamente ad una lettura deviante di fenomeni sociali che nulla hanno a che vedere con le paure mediaticamente soffiate su tanti cittadini. Inoltre, ricordiamo mestamente gli 80 anni delle leggi razziali con una previsione che consente al cittadino italiano di ottenere un certificato dal proprio Comune a vista mentre uno straniero regolarmente presente da 10 anni sul territorio che contribuisce con il proprio reddito al nostro sviluppo economico e paga diligentemente le tasse potrà dover attendere anche sei mesi. Il Decreto immigrazione e sicurezza nasce male. Intanto perché già la scelta di legare l’immigrazione al più ampio tema della sicurezza induce immediatamente ad una lettura deviante di fenomeni sociali che nulla hanno a che vedere con le paure mediaticamente soffiate su tanti cittadini, meno avvertiti o più fragili e che temono per l’integrità dei propri beni, se non per la propria vita. La questione migrazione e richiedenti asilo invece richiama immediatamente i valori che sono parte della nostra storia consacrata nella prima parte della Costituzione e nell’adesione a trattati internazionali, a direttive europee e al percorso che i Paesi fondatori dell’Unione europea, tra cui il nostro, hanno faticosamente costruito nei decenni passati. Poi, una serie di scelte concrete che saranno fonte di un forte arretramento della qualità dei diritti e delle libertà e che invece produrranno, a mio avviso, molti guai. In primo piano la rottura di quella concertazione permanente tra Stato, Regioni e Comuni nata nel 2015 e 2016 che stava rafforzando una infrastruttura dell’accoglienza in maniera equa su tutto il territorio nazionale attenuando, attraverso la scelta dei piccoli numeri e lo svuotamento dei grandi centri, l’impatto sociale sui territori. Se a questo si aggiunge l’annunciato taglio dei servizi e la riduzione nei fatti dei progetti Sprar si realizza uno straordinario ritorno al passato che non avremmo più voluto conoscere. La grande illusione del blocco dell’arrivo dei migranti nell’area Schengen temo che potrà alla prima occasione essere spazzata via, costringendoci ai vecchi metodi della nomina del Commissario Straordinario e della semplificazione delle procedure amministrative. Per il momento, con il taglio dei servizi, ripristineremo non solo le grandi concentrazioni e, sarei pronto a scommettere, soprattutto nel mio Mezzogiorno, ma costruiremo lo spazio migliore per chi fa dell’impresa sociale un’occasione finalizzata al solo perseguimento del profitto avendo magari fallito in altre opportunità d’impresa. Rinunciare poi ad uno spazio di flessibilità quale era la protezione umanitaria (magari tipizzata in fasce meno discrezionali) che consenta alla Repubblica italiana di far emergere e rendere legali, anche solo per un periodo di tempo determinato, chi ha un regolare contratto di lavoro, non ha commesso illegalità e vive con noi rispettando le nostre regole, è contro ogni comprensibile ragionevolezza. Che dire poi della lista dei Paesi sicuri, delle procedure accelerate che verranno applicate non all’aeroporto di Orly o ad un confine terrestre ma in una penisola circondata dal mare con l’impossibilità di riportare in tempi rapidi nel Paese di origine coloro che non hanno diritto o che almeno come tali verranno dichiarati. Infine, che dire dell’integrazione e dell’inclusione per le quali si sta provvedendo al taglio di tutti i fondi disponibili e ad un contrasto sempre più feroce alle associazioni che si sono impegnate in questo settore. L’aspettativa da parte di tutti i cittadini di vedere queste persone non più senza far nulla in attesa che scorrano le ore senza in nessun modo partecipare alla vita sociale ed economica del nostro Paese, verrà fortemente tradita. È esattamente quello che si sta realizzando chiudendo persino quell’ultima porta dell’integrazione rappresentata dall’acquisizione della cittadinanza. Norme come quella della sua possibile revoca o il termine di 48 mesi che l’amministrazione si arroga per valutare la richiesta di concessione sono sconcertanti e saranno certamente oggetto del vaglio della Corte Costituzionale. Ma noi ricordiamo mestamente gli 80 anni delle leggi razziali con una previsione che consente al cittadino italiano di ottenere un certificato dal proprio Comune a vista mentre uno straniero regolarmente presente da 10 anni sul territorio che contribuisce con il proprio reddito al nostro sviluppo economico e paga diligentemente le tasse potrà dover attendere anche sei mesi. *Direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati Global Compact for Migration. Quel no al diritto del bene di Andrea Bonanni La Repubblica, 30 novembre 2018 Per il no al Global Compact l’Italia perde altra credibilità sulla scena internazionale. Ma anche questo è un prezzo che Salvini paga volentieri in cambio di un voltafaccia che sanziona la conquista del timone del governo da parte della Lega a scapito dei 5 Stelle. È coerente Matteo Salvini quando decide che l’Italia non debba firmare il Global Compact for - Migration, il documento delle Nazioni Unite sulla gestione del fenomeno migratorio che sa- - rà adottato da una conferenza internazionale il 10 dicembre a Marrakech. È coerente perché quel testo di trentaquattro pagine, che il resto del mondo approverà anche senza l’Italia, contraddice e condanna tutto quello che il governo Lega-Cinquestelle ha fatto in materia di migrazione, compreso il decreto sicurezza appena varato in Parlamento. Il protocollo “per una migrazione sicura, ordinata e regolare” si prefigge come principale obiettivo di garantire i diritti umani di 258 milioni di persone che oggi sulla Terra hanno abbandonato il loro Paese di origine. Non si spinge fino a sostenere esplicitamente, come dicono i movimenti di destra che si oppongono alla sua approvazione, che quello di migrare è un diritto umano in sé. Però afferma un principio che, alla luce di quanto avviene nel bacino mediterraneo dopo l’arrivo al potere di Salvini, appare altrettanto rivoluzionario. E cioè che nessuno, per il semplice fatto di aver scelto di migrare, perde i suoi diritti fondamentali alla dignità, alla sicurezza, all’integrità fisica, alla protezione internazionale, ad un lavoro equamente retribuito. “Ci impegniamo a rispondere ai bisogni dei migranti confrontati a situazioni di vulnerabilità derivanti dalle condizioni in cui viaggiano e in cui si trovano nei paesi di origine, di transito e di destinazione, assistendoli e proteggendo i loro diritti umani...”, è scritto a pagina 14. E ancora, a pagina 15: “Ci impegniamo a cooperare per salvare vite e prevenire la morte o il ferimento di migranti attraverso operazioni di ricerca e soccorso congiunte o individuali”. Per fare questo, dice il documento, occorre “rivedere l’impatto delle politiche e delle leggi che riguardano l’immigrazione per assicurarsi che queste non aumentino il rischio che i migranti vadano dispersi collaborando con gli altri Stati e con le organizzazioni internazionali”. E ancora, il protocollo chiede di ridurre al minimo le misure di detenzione dei migranti irregolari; di assicurarsi che tutti i migranti, indipendentemente dal loro status, abbiano accesso ai servizi di base; di favorirne la piena integrazione sociale; di eliminare “qualsiasi forma di discriminazione e combattere qualsiasi espressione di razzismo, intolleranza e xenofobia”. Sono richieste ragionevoli? A prima vista, sì. Sono accettabili per la Lega e per Matteo Salvini? Evidentemente no. Dopo aver mandato il premier Conte all’Onu per dire che l’Italia sosteneva il Compact for Migration, il ministro dell’Interno ha cambiato idea. E con lui, evidentemente, tutto il governo, che così si allinea a pieno titolo a quella Internazionale reazionaria e populista guidata da Trump, in cui militano i polacchi, gli ungheresi, gli austriaci e gli slovacchi. Il documento che sarà approvato a Marrakech non è giuridicamente vincolante. Non compromette la piena sovranità dei firmatari. Ha solo un valore politico e morale. Però, visto che sarà sottoscritto dalla stragrande maggioranza dei Paesi da cui proviene l’emigrazione diretta in Italia, sarebbe stato utile condividerlo in quanto prevede un capitolo specifico sulla necessità di facilitare gli accordi di riammissione. Proprio quelli che l’Italia stenta a concludere e che rendono più difficile il massiccio rimpatrio degli irregolari promesso da Salvini e mai attuato. Ma anche questi potenziali vantaggi perdono consistenza agli occhi della Lega rispetto al rischio di vedersi rinfacciare l’onta di aver sottoscritto un documento che riconosce i diritti umani dei migranti e condanna senza mezzi termini razzismo e xenofobia. Come si fa a firmare un testo simile e poi parlare di “pacchia” degli irregolari, o criminalizzare le Ong impegnate nei salvataggi in mare, o negare la protezione umanitaria e allungare i periodi di detenzione preventiva, come nel decreto sicurezza? Certo, smentendo platealmente un altro impegno solennemente preso all’Onu dal presidente del Consiglio (dopo quelli assunti in Europa sulla manovra economica e poi rinnegati) l’Italia perde un altro pezzo di credibilità sulla scena internazionale. Ma anche questo è un prezzo che Salvini paga volentieri in cambio di un voltafaccia che sanziona la definitiva conquista del timone del governo da parte della Lega a scapito dei Cinquestelle. Gli uomini di Di Maio, infatti, si erano sempre dichiarati favorevoli al documento Onu. Ma in aula, di fronte alla retromarcia salviniana, hanno taciuto. Come al solito. Droghe. La cannabis non è più una droga per i giovani di Marta Olivieri Italia Oggi, 30 novembre 2018 Gli adolescenti non sono più i soli a fumare la cannabis. Oggi, tra chi si fa le canne sono sempre più numerosi i trentenni e i quarantenni, secondo i dati forniti dal Barometro della salute 2017 del ministero elaborato in collaborazione con l’Osservatorio francese sulle droghe e tossicomani (Ofdt) su un campione di oltre 20 mila persone d’età compresa fra 18 e 64 anni. Comunque, la maggioranza dei consumatori di questo prodotto illegale sono i giovani d’età inferiore a 25 anni: tra i 18 e i 25 anni un ragazzo su quattro ha dichiarato di aver fumato l’erba. Oggi, un numero crescente di adulti sta ingrandendo le truppe dei fumatori di cannabis. Sono quelli che già la fumavano negli anni Novanta-Duemila. Questa generazione è invecchiata. Una grossa parte di loro ha smesso di consumare cannabis intorno ai 25 anni, ma non tutti, ha detto a Le Figaro Stanislas Spilka, responsabile delle analisi statistiche dell’Ofdt. Lo studio mostra un aumento di fumatori di erba tra gli adulti di 35-44 anni. Nel 1992 erano l’1%. Fra questi, è cresciuto anche il numero di chi fa uso di cannabis quotidianamente, passati dall’1,4 al 2%. L’uso di cannabis è cresciuto anche fra gli adulti dai 26 ai 34 anni: erano il 6% nel 1992 e sono saliti al 18% nel 2017. Al contrario, sembra esserci un leggero calo di questa sostanza stupefacente fra gli adolescenti di 17 anni, secondo i dati dello studio Escapad 2018 riportati da Le Figaro. Tuttavia, al di là di queste variazioni anagrafiche in atto da tre decenni, l’uso della cannabis non ha smesso di crescere ed è la droga più diffusa tra la popolazione. Egitto. Giulio Regeni, una svolta per la verità di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 30 novembre 2018 Sarà pure un atto simbolico, ma a fronte di troppe menzogne e silenzi di tre governi, quelli a guida Pd di Matteo Renzi e poi di Gentiloni, e quello attuale gialloverde di Giuseppe Conte - non a caso contrariato dalla decisione coraggiosa di Fico - ha davvero il sapore di rottura per una svolta di verità. Il presidente della camera Roberto Fico ha annunciato ieri l’interruzione delle relazioni diplomatiche tra i parlamenti italiano ed egiziano fino a una svolta vera nell’inchiesta sull’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni; definendo poi “atto coraggioso” l’iscrizione nel registro degli indagati di 7 agenti dei servizi segreti egiziani da parte della Procura di Roma. Sarà pure un atto simbolico, ma a fronte di troppe menzogne e silenzi di tre governi, quelli a guida Pd di Matteo Renzi e poi di Gentiloni, e quello attuale gialloverde di Giuseppe Conte - non a caso contrariato dalla decisione coraggiosa di Fico - ha davvero il sapore di rottura per una svolta di verità. Con la quale Fico ha mantenuto la promessa d’impegno fatta alla famiglia Regeni. Perché finora dalle sedi del potere nulla era ed è venuto. E poi basta con la grande ipocrisia di chi, nei giornali, tace che Renzi è stato lo sdoganatore del golpista Al Sisi, diventato l’interlocutore della politica estera italiana; e tale è rimasto anche con il “nuovo” governo dei due populismi, giustizialista del M5s e razzista di Salvini. E che, nonostante le promesse di Di Maio al Cairo, continua a considerare il regime di al Sisi il referente della crisi in Libia, della strategia energetica e grande piazza d’affari del nostro export milionario di armi. Un regime responsabile della morte del ricercatore italiano, come di migliaia di oppositori egiziani, che ha la faccia tosta di dichiarare: “Regeni, uno di noi”. Dopo quasi tre anni dal suo assassinio, nessuna verità è mai arrivata dall’Egitto. In queste ore il procuratore di Roma Colaiocco ha constatato di persona che la “disponibilità” delle autorità giudiziarie egiziane è pura formalità: nessuna prova è stata consegnata e addirittura gli attesi referti video risultano contraffatti. Così sarà l’Italia ad aprire l’iscrizione del registro dei primi sette indagati del crimine. Sarà la manovalanza del sequestro, delle torture e dell’omicidio, non certo chi l’ha ordinato, come il ministro degli interni Ghaffar, il capo torturatore di Giza Shalaby, il generale-spione Hegay e in primis il presidente Al Sisi. Un’altra iniziativa “simbolica” ma capace di dimostrare che dai sicari si può risalire alla piramide dei mandanti. Egitto. Nasce la commissione per i diritti umani. Ma difenderà il governo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 novembre 2018 In Egitto è stato istituito un organismo incaricato di occuparsi di diritti umani: l’Alta commissione permanente per i diritti umani. Sarebbe una notizia straordinaria, la prima ammissione dopo oltre cinque anni di presidenza al-Sisi che qualcosa non è andata bene, il primo riconoscimento del massiccio ricorso agli arresti arbitrari, alle sparizioni forzate, alla tortura. La necessità di indagare seriamente sull’omicidio di Giulio Regeni. Poi si scopre che dell’Alta commissione permanente per i diritti umani non faranno parte attivisti o difensori dei diritti umani. Al loro posto vi saranno rappresentanti dei ministeri degli Esteri e dell’Interno (da cui dipende l’Agenzia per la sicurezza nazionale, i servizi di sicurezza civili sospettati della maggior parte delle violazioni dei diritti umani), delle forze armate e di altre agenzie di sicurezza. Data la composizione, non è affatto sorprendente che il mandato dell’Alta commissione sarà di “rispondere alle accuse” rivolte all’Egitto nel campo dei diritti umani e di formulare una “visione egiziana” dei diritti umani da sostenere a livello regionale e internazionale, in vista del 2019, quando il Consiglio Onu dei diritti umani sottoporrà l’Egitto all’Esame periodico universale. Non si tratta di una novità assoluta: già sotto Mubarak, nel 2004, era stato istituito il Consiglio nazionale per i diritti umani. Poco più di un orpello, autorizzato ogni tanto a fare qualche modesto appunto al comportamento delle autorità, ma destinato soprattutto a far vedere all’estero che l’Egitto ai diritti umani ci teneva davvero. Altro che accertare le responsabilità per le violazioni dei diritti umani. L’Alta commissione sarà un ulteriore strumento di propaganda del regime egiziano. Oltre alle ricorrenti accuse di “diffusione di notizie e voci false” contro giornalisti, avvocati e difensori dei diritti umani, ora il presidente al-Sisi ha uno strumento in più per migliorare non la situazione dei diritti umani ma la sua immagine. Arabia Saudita. Caso Khashoggi, il Senato Usa sfida Trump di Marta Serafini Corriere della Sera, 30 novembre 2018 Pimo stop al sostegno a Riad in Yemen. La mozione approvata con voto bipartisan è una reazione alla mancata presa di posizione di Washington sull’omicidio del giornalista saudita e rappresenta una minaccia ad una storica alleanza. È uno schiaffo a mano aperta a Trump il voto del Senato Usa che ieri ha che ha approvato, con un voto bipartisan, una mozione per porre fine al sostegno di Washington alla campagna militare di Riad nello Yemen. Il voto con 63 voti a favore e soli 37 contrari rappresenta una bocciatura della linea prudente dell’amministrazione sull’assassinio del giornalista dissidente saudita che risiedeva negli Usa, Jamal Khashoggi, avvenuta al consolato di Riad a Istanbul il 2 ottobre scorso in quanto la risoluzione impone al Pentagono di ritirare le truppe Usa impegnate nello Yemen entro 30 giorni a meno che non siano coinvolte nella lotta contro al Qaeda. Una risoluzione simile era stata bocciata a marzo. Secondo Bruce Riedel, ex Cia, e ora al Brookings Institution, il voto rappresenta “una delle più gravi minacce” all’alleanza tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti degli ultimi 75 anni. I senatori hanno dunque voluto mandare un messaggio forte e chiaro a Trump che continua a negare che sia provato un coinvolgimento del principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, nell’omicidio. Da sottolineare come non si tratti di un’istanza democratica. Già da tempo infatti diversi membri Repubblicani del Congresso hanno cominciato a mostrare insofferenza verso il regime saudita e hanno iniziato a chiedere che venissero rivisti i termini dell’amicizia tra i due paesi. Questo passo va inserito nel contesto delle relazioni tra Washington e Riad. Fin dall’inizio del conflitto nel marzo 2015 gli Stati Uniti hanno appoggiato l’Arabia Saudita sia per in nome di un’antica amicizia sia in funzione anti iraniana, ma negli ultimi tempi della presidenza di Barack Obama il sostegno americano aumentarono i malumori verso il sempre maggiore autoritarismo saudita. Con l’arrivo di Trump alla presidenza, nel gennaio 2017, le relazioni tra i due paesi migliorarono di nuovo, ma diversi membri della nuova amministrazione hanno sempre creduto che la cosa migliore per l’interesse nazionale statunitense fosse quella di arrivare a una tregua, anche per evitare il rafforzamento della sezione locale di al Qaida, che in Yemen è molto forte. Fin qui tuttavia i tentativi diplomatici promossi dagli Stati Uniti non sembrano aver avuto nessun riscontro, considerata anche la rivalità con Teheran. D’altro canto i tentativi sia del capo del Pentagono, James Mattis, che del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ascoltati in Congresso prima del voto, di convincere i senatori a non rompere la preziosa (almeno per Trump) alleanza con Riad sono risultati fallimentari, anche alla luce dell’omicidio Khashoggi. Per i due esponenti dell’amministrazione Usa “non ci sono prove schiaccianti” sul fatto che sia stato il principe MbS a dare gli ordini per l’omicidio. Esattamente il contrario delle conclusioni della Cia secondo cui invece dietro l’assassinio Khashoggi, di cui non è stato ancora trovato il corpo, vi sia il giovane erede al trono. In questo quadro la Casa Bianca è stata costretta a giocare in difesa. La direttrice della Cia, Gina Haspel, era stata invitata a riferire in Congresso, ma è stata obbligata, dicono i bene informati, a declinare l’invito. Mentre al momento non risulta ancora confermato l’incontro tra Mohamed Bin Salman e Donald Trump a margine del G20 in Argentina. Inoltre se la risoluzione - che deve essere ancora discussa in Aula - dovesse raggiungere la scrivania del presidente Trump, questi potrebbe essere costretto a porre il veto esponendosi così alle critiche dell’opinione pubblica. Stati Uniti. Oppioidi, crisi, sistema sanitario: perché è crollata l’aspettativa di vita di Federico Rampini La Repubblica, 30 novembre 2018 Il Centers for Disease Control and Prevention dice che la longevità media si è ridotta a 78,6 anni e questo confina gli Stati Uniti al 29esimo posto nella classifica mondiale. Continua ad accorciarsi la longevità degli americani. Il dato, che conferma una drammatica inversione di tendenza, dura ormai da qualche anno è quindi non è un “incidente” occasionale. Tra le cause principali: l’aumento dei suicidi, e le morti per overdose da medicinali-oppioidi come il fentanyl, “la droga del metalmeccanico nel Midwest”. È anche una delle conseguenze di un sistema sanitario disastroso. L’accorciarsi della durata di vita media è documentato nel rapporto annuo delle autorità sanitarie, Centers for Disease Control and Prevention. Lo stesso documento segnala che il deterioramento della speranza di vita non accadeva dal periodo 1915-1918, segnato da una tragedia ben più immane: le carneficine della prima guerra mondiale più l’epidemia d’influenza (detta “la spagnola”) decimarono le popolazioni nel mondo intero. Dopo di allora l’umanità aveva cominciato un lungo progresso, in particolare nei paesi più ricchi. Dal 2014 l’America fa eccezione e si muove nella direzione opposta. La longevità media si è ridotta a 78,6 anni e questo confina gli Stati Uniti al 29esimo posto nella classifica mondiale. In testa ci sono il Giappone con 84,1 e la Svizzera con 83,7 anni di vita media. L’escalation dei decessi per overdose è una delle piaghe che distinguono gli Stati Uniti: 70.000 morti nel 2017, un record storico. Le morti per overdose superano le vittime degli incidenti stradali o delle armi da fuoco. Buona parte del problema si concentra in una tipologia nuova di drogati, diversa dalle vittime dell’eroina in passato. Stavolta molti sono maschi adulti di mezza età, spesso legati alle attività economiche in declino. Gli analgesici a base di oppiacei o oppioidi talvolta vengono prescritti dai medici per alleviare traumi e dolori da incidenti sul lavoro e altre disabilità, poi creano dipendenza e diventano un consumo cronico. Alimentazione malsana, epidemie di diabete da obesità, aggravano i problemi e ne accentuano anche il segno sociale: il peggior degrado nella mortalità colpisce minoranze etniche e ceti più poveri. L’accorciamento della speranza di vita è anche l’ennesima conferma del fallimento di un sistema sanitario per lo più privato. La riforma di Barack Obama ha solo attenuato parzialmente i gravi difetti strutturali del sistema: gli Stati Uniti dedicano alla spesa sanitaria una percentuale del reddito nazionale molto superiore agli altri paesi industrializzati, e con risultati nettamente peggiori.