Una giustizia fuori tempo di Stefano Cappellini La Repubblica, 2 novembre 2018 La sospensione della prescrizione nasconde un vizio ideologico: l’idea che ogni processato sia sicuramente colpevole. Dopo il crollo del Ponte Morandi a Genova capitò di sentir dire al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e ad alti esponenti del Movimento 5Stelle che il governo non poteva aspettare i tempi della giustizia per prendere decisioni sul da farsi. Capita ora che il disegno di legge sull’anticorruzione fortemente voluto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede proponga di sospendere la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Da una parte, su Genova, si invoca la sostituzione del tribunale reale con un autoproclamato tribunale del popolo: giustizia rapida e sommaria con l’alibi del consenso di massa. Dall’altra, con il sistema Bonafede, si propone il prolungamento sine die di un processo: giustizia ancora più lenta di quanto già non sia e senza garanzie. In un modo o nell’altro, la visione della giustizia propria del Movimento 5Stelle (non certo isolato, almeno su questo fronte) è coerente nel calpestare i fondamenti di uno Stato di diritto degno di chiamarsi tale. Il buon funzionamento della giustizia è uno dei pilastri di una democrazia. E i tempi in cui uno Stato è capace di rendere una sentenza ai propri cittadini rappresentano un elemento portante di quel buon funzionamento. Tempi che devono essere sufficientemente rapidi da consentire che chi ha commesso un reato sappia di poter essere presto chiamato a pagarne pegno e chi lo ha subito possa trarne risarcimento. Ma anche abbastanza capienti da lasciare che il processo si svolga con tutte le garanzie necessarie e in una condizione di parità tra accusa e difesa. Ciò che invece caratterizza il giustizialismo, di cui il grillismo rappresenta lo stadio finale, è l’insofferenza per il fattore tempo e, in generale, per l’ordinario svolgimento del processo penale: i diritti degli imputati sono trucchi degli azzeccagarbugli, il garantismo è una forma di innocentismo; la sentenza mediatica vale come, se non più, di quella reale, distorsione, quest’ultima, acuita nell’era dei social dove chiunque può srotolarsi addosso una toga ed emettere giudizio con la rapidità di un tweet da 140 caratteri. Ecco perché l’istituto della prescrizione può essere trattato come un ostacolo alla giustizia e non come una norma che garantisce un principio sancito in Costituzione, quello alla ragionevole durata del processo. L’obiezione dei fautori della legge cara a Bonafede è chiara: a soffrire in Italia è proprio l’ordinario funzionamento della giustizia, dato che la lentezza è cronica e troppi processi non riescono a chiudersi in tempo per rendere giustizia alle vittime del reato. Vero. Ma la preoccupazione di un guardasigilli, qualunque sia il suo orientamento politico, dovrebbe essere quella di riformare il sistema per permettere che sia più rapido ed efficiente. Introdurre norme il cui effetto naturale è l’ulteriore allungamento del processo non può che peggiorare lo stato delle cose. Anche qui i bonafedisti hanno la risposta pronta: come garantire allora che i colpevoli siano puniti? E proprio qui c’è il vizio più plateale di questa proposta e, insieme, il suo vero marchio ideologico: presuppone che ogni imputato sia colpevole. La sospensione della prescrizione avrebbe infatti un senso solo in un sistema nel quale si fosse certi che ogni processo si concluda con una condanna. Impedendo la prescrizione del reato si sarebbe certi che nessuno possa farla franca. Non dubitiamo del fatto che lustri di barbarie giuridica abbiano convinto molti che l’accusato di un processo sia solo un galeotto in libertà temporanea (spesso neanche quella, dato l’abuso della carcerazione preventiva). Ma persino Bonafede, ora che ha il compito di governare in materia, dovrebbe intendere che si può andare a processo da colpevoli e da innocenti. E che solo nei tribunali dell’Inquisizione tale distinzione non era nemmeno prevista. “Testo inammissibile”. Anche la Lega frena sulla prescrizione di Fausto Mosca Il Dubbio, 2 novembre 2018 “Durante l’ufficio di presidenza delle commissioni Giustizia ed Affari Costituzionali abbiamo chiesto ai presidenti di dichiarare inammissibile per estraneità di materia l’emendamento sulla prescrizione presentato dai relatori al ddl anticorruzione”. Ad annunciare gli sviluppi sul decreto corruzione è Enrico Costa, deputato di Forza Italia e responsabile del Dipartimento Giustizia del movimento azzurro. Il partito di Berlusconi ha lanciato la sua crociata contro l’emendamento pentastellato, che punta a bloccare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, in sintonia con tutti gli altri partiti politici, ad eccezione, ovviamente, del Movimento 5 Stelle. Nulla di clamoroso, se non fosse che tra i “sabotatori” dell’emendamento figura anche l’altro partito di governo. La svolta arriva dopo la mezzanotte tra mercoledì e giovedì, dopo la “maratona” sul decreto Genova: “Abbiamo insistito per rinviare l’approdo in Aula del provvedimento previsto per il 12 novembre, vista la mole di emendamenti presentati (quasi 300). A questa richiesta di sono associati tutti gli altri gruppi, Lega compresa”, spiega ancora Costa, girando il dito nella piaga che rischia di mettere ulteriormente in crisi il rapporto tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. “Ora aspettiamo la decisione dei presidenti delle Commissioni, entrambi esponenti dei 5 stelle: auspichiamo che decidano in base al regolamento e non in base a logiche di partito. Su questo tema Forza Italia darà battaglia a difesa di sacrosanti principi di civiltà giuridica”, afferma il deputato azzurro. Per quanto i vertici pentastellati e quelli leghisti evitino di alzare i toni, la convivenza tra i due partiti si fa sempre più tormentata. Dal decreto sicurezza alla grandi opere, passando per la prescrizione, sono troppi i fronti che rischiano di far saltare i nervi e il governo. E il “contratto” non basta più a dirimere tutte le liti. L’emendamento della discordia “è stato presentato dai relatori, non è concordato a livello di governo, non è passato dal Consiglio dei ministri e ci riserviamo di fare valutazioni”, mugugnava poco dopo la “sorpresa” il capogruppo del Carroccio alla Camera, Riccardo Molinari. Le rassicurazioni via Tv del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, sulla compattezza dell’esecutivo in materia di prescrizione servono a poco. L’imbarazzo della Lega è innegabile. I più maliziosi sono convinti che il braccio di ferro non sia altro che una trattativa per incassare il via libera al decreto sicurezza in cambio dell’ok a quello sulla corruzione, senza scherzetti reciproci o incidenti di percorso, ma è difficile immaginare che lo scontro sia fittizio. Salvini, dal canto suo, trarrebbe giovamento da un Di Maio indebolito e messo in discussione da una pattuglia di dissidenti che il ministro dell’Interno sarebbe pronto a rimpiazzare con l’ingresso di Fratelli d’Italia nel governo, spostando decisamente a destra l’asse dell’esecutivo. Le opposizioni guardano alle scaramucce tra “soci” di maggioranza con interesse e provano ad acuire le divergenze. Per il Pd “è altamente auspicabile che i presidenti delle Commissioni agiscano con prudenza e sensibilità istituzionale”, dice il deputato dem Stefano Ceccanti. “Un testo, al di là delle valutazioni di merito, chiaramente inammissibile rispetto al provvedimento in cui si vorrebbe inserirlo e, comunque, su cui non è avvenuta nessuna istruttoria legislativa degna di questo nome. Nessuna forzatura può essere neanche lontanamente immaginabile”, argomenta Ceccanti. Ancora più netto Carmelo Palma di +Europa, convinto che “la proposta del Ministro Bonafede di sospendere la prescrizione dopo la sentenza di primo grado (anche se di assoluzione!) è un esercizio di puro vandalismo istituzionale”, dice. “Oltre a violare il principio costituzionale della ragionevole durata dei processi, offende il diritto degli imputati e anche quello delle vittime, che sarebbero sequestrati, con un aggravio insostenibile di costi umani e finanziari, in un procedimento giudiziario destinato a trascinarsi anche per decenni”, è il ragionamento di Palma. Per l’ex dirigente radicale, solo chi ha una concezione totalitaria della legislazione può pensare di trasformare una inefficienza dello Stato, cioè i lunghi tempi della giustizia, in un costo per il cittadino. Contro il provvedimento anche i giovani avvocati dell’Aiga, secondo cui “il cittadino indagato e imputato, così come la persona offesa, ha diritto di sapere che l’esito del procedimento penale avverrà in un tempo preventivamente stabilito dall’ordinamento stesso”. La irragionevole proposta del processo infinito di Vincenzo Comi labparlamento.it, 2 novembre 2018 Con un emendamento presentato alla Camera dei Deputati dal Movimento 5 stelle si tenta di introdurre nel nostro ordinamento una riforma di inaudita gravità e abnormità: il blocco della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado. Secondo il testo della proposta, “il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronuncia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o della irrevocabilità del decreto di condanna”. Senza neppure distinguere tra sentenza assolutoria e di condanna, in sostanza la conclusione del giudizio di primo grado aprirebbe le porte ad una pendenza infinita della sentenza di condanna o dell’impugnazione del pubblico ministero contro una sentenza assolutoria. Si tratta di una paradossale legittimazione del processo infinito in spregio al principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Si può fare così strame di una norma costituzionale? Il cittadino sottoposto al processo infinito diventa vittima del sistema. Siamo di fronte ad un grave tentativo di violazione delle norme costituzionali e convenzionali e - tra l’altro - si tratta di proposta populista e demagogica inadeguata a realizzare l’obiettivo di accelerare i tempi del processo e la riduzione del carico delle pendenze. Il vero problema non è la prescrizione, ma la previsione di un modello di processo che, nel rispetto delle garanzie costituzionali, sia definito in tempi ragionevoli. Il problema più attuale e urgente è la ragionevolezza dei tempi e tutti noi operatori pratici ne siamo ben consapevoli ma ancor di più i cittadini coinvolti nei processi. Il feticcio della prescrizione come strumento risolutivo dei problemi della giustizia penale è un inganno: si sta drammaticamente introducendo il processo infinito, inammissibile sul piano del diritto naturale e inefficace per assicurare l’effettività della sanzione e la funzionalità del sistema. Stiamo rischiando di introdurre nell’ordinamento una ulteriore sanzione nei confronti dell’imputato: sopportare il processo infinito, trascurando che la sanzione debba essere applicata solo al condannato in via definitiva. E nel sistema generale finché il processo pende, la sanzione legalmente prevista sarà inattuabile. Sorvolando sul metodo e sulla tempistica della proposta che dimostra - almeno apparentemente - una preponderante, se non esclusiva, strategia di propaganda populista in linea con le sortite a cui siamo abituati dal Ministro della Giustizia, qualsiasi dibattito sulla prescrizione deve contenere necessariamente la contestuale previsione del rispetto perentorio dei termini di fase, la cui violazione deve prevedere analogamente alla prescrizione l’effetto estintivo del reato: così si impedisce il processo infinito. In sostanza se entro un certo termine non si esaurisce il giudizio di primo grado il reato si deve estinguere e analogamente per l’Appello o per la Cassazione. È semplicemente il rispetto dell’articolo 111 della Costituzione, ultimo periodo del secondo comma: “la legge assicura la ragionevole durata del processo”. E il punto dovrebbe essere condiviso da tutti i soggetti del processo che, con lo stesso vigore, sono chiamati ad alzare le barricate, visto che stiamo parlando dei diritti fondamentali dei cittadini. Ma così, almeno, non sembra, lette le prime dichiarazioni del Presidente dell’Anm. L’Unione delle Camere Penali Italiane ha già dichiarato lo stato di agitazione di tutti i penalisti in attesa di ulteriori forme di protesta. E sarà necessario e doveroso fare di tutto per spiegare ai cittadini la gravità di tale proposta. Perché ci si renda conto tempestivamente dell’abnormità e della gravità e si condivida la protesta degli avvocati penalisti. Non serve a nulla scandalizzarsi e indignarsi quando ci si trovi coinvolti come indagato o vittima in un processo penale. Oggi siamo di fronte al rischio di fare un salto indietro in spregio dei principi costituzionali e convenzionali e senza la consapevolezza che l’articolo 111 della Costituzione è e deve rimanere un presidio di garanzia per tutti, un baluardo conquistato nel tempo e consolidato nel nostro sistema a tutela di tutti i cittadini. “Un’idea liberale della giustizia penale in Italia? È ancora possibile” di Cinzia Ficco democratica.com, 2 novembre 2018 Intervista a Gian Domenico Caiazza (Ucpi). “Dobbiamo recuperare il rispetto di determinati valori, raccogliendo intorno a questo sforzo tutti coloro che ne condividano le ragioni e la ispirazione ideale. Recuperare un’idea liberale della giustizia penale in Italia. Il processo sarà lungo, ma ci dobbiamo provare”. È l’obiettivo di Gian Domenico Caiazza, da ottobre scorso e fino al 2020, Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, la più antica e rappresentativa associazione dei penalisti italiani (conta 136 Camere penali), che sa già come partire. Tra le prime iniziative del suo programma c’è la creazione di un inter-gruppo parlamentare per arrivare ad una legge sulla separazione delle carriere in magistratura. Intanto, presidente, perché dice che nel nostro Paese la giustizia penale è illiberale? La giustizia penale scritta nella Costituzione non è quella praticata nella realtà. A cominciare da un processo che non si svolge ad armi pari tra accusa e difesa, e non davanti ad un giudice equidistante dalle parti, come pure pretenderebbe l’articolo 111 della nostra Carta. La presunzione di non colpevolezza, l’ eccezionalità del sacrificio della libertà personale prima di una sentenza definitiva, la finalità rieducativa della pena, un carcere rispettoso della dignità e dei diritti inalienabili della persona: sono tutti principi che vengono violati in modo sistematico. E lo constatiamo ogni giorno nella nostra esperienza. Oggi poi, nel nuovo quadro politico che si è determinato con le ultime elezioni, la negazione di quei valori viene addirittura rivendicata nel programma politico di governo. Noi dobbiamo recuperare il rispetto di quei valori, raccogliendo intorno a questo sforzo tutti coloro che ne condividano le ragioni e la ispirazione ideale. Parliamo dell’urgenza di arrivare alla separazione delle carriere dei magistrati. E della sua iniziativa... Abbiamo raccolto e depositato da tempo alla Camera dei Deputati le firme di 72mila cittadini, che si sono fatti proponenti della nostra idea di riforma costituzionale. Aspettiamo che questa venga calendarizzata. Ci impegneremo per raccogliere il sostegno trasversale di parlamentari di ogni provenienza politica, senza distinzioni o riserve, che condividano l’obiettivo di separare le carriere tra Giudici e Pubblici Ministeri, ferma restando l’assoluta indipendenza della magistratura dal potere politico. Siamo molto curiosi di capire se il Partito Democratico vorrà finalmente affrontare questo tema, che non è una fissazione degli avvocati, ma un comando costituzionale. Non piace la separazione delle carriere come risposta a quel comando? Se ne dia un’altra, se c’è, purché non sia né una scorciatoia, né un palliativo. Anche nella magistratura, ufficialmente compatta nell’opporsi a questa soluzione, in realtà, il consenso è più diffuso di quanto si possa credere. Prescrizione: il guardasigilli punta a sospenderla dopo il primo grado... Il tema della prescrizione è rappresentato in modo ingannevole alla pubblica opinione. Il problema sta nella durata irragionevole dei processi, non nella prescrizione, che è un principio di civiltà giuridica. Non bastano 18 anni e mezzo per una rapina aggravata prima della prescrizione? È un principio di civiltà giuridica quello di restare sotto processo all’infinito? Chi intende intervenire sulla prescrizione si assume la enorme responsabilità di affossare definitivamente il processo penale in Italia. Abbiamo dovuto apprendere da un post su Facebook la estemporanea decisione del Ministro di Giustizia, Bonafede, di presentare un emendamento al decreto che egli ama definire spazza-corrotti, tramite il quale inserire nel nostro ordinamento giuridico, tra il lusco e il brusco, la sospensione della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado. La decisione sarebbe nata nel corso di una manifestazione politica che raccoglieva la presenza di una congerie di vittime di reati, in gran parte ancora nemmeno accertati processualmente, e non certo a causa della prescrizione (Ilva, Rigopiano, addirittura il ponte di Genova!). Come reagirete? I penalisti italiani seguono con attenzione l’esito di questa al momento solo preannunziata iniziativa del Guardasigilli, impegnandosi in queste ore ad acquisire informazioni per sapere quale sia l’esatto tenore dell’emendamento, e quando verrebbe effettivamente presentato, se si tratti di un emendamento del Governo, dunque concordato e condiviso da tutte le componenti della attuale maggioranza, quali siano i profili di ammissibilità di tale preannunziato emendamento. La Giunta Ucpi, acquisiti i necessari chiarimenti sulla natura e sulla portata di questa, al momento estemporanea iniziativa del Ministro di Giustizia, adotterà tutte le necessarie iniziative, anche le più dure e determinate, per impedire che una riforma di questa portata possa essere anche solo avviata con simili, inaudite modalità, estranee alle più elementari regole di una civile sintassi politica e parlamentare. Misure interdittive antimafia... È un’altra emergenza. L’idea di poter assumere misure a volte più gravi di una pena detentiva, quale, ad esempio, la confisca di un intero patrimonio familiare, non sulla base di un giudizio di responsabilità ma solo su un sospetto di pericolosità sociale, ripugna ad ogni coscienza democratica. E si tratta di misure che, nate come strumenti di contrasto alla mafia, stanno oramai contagiando l’intero sistema penale, estendendosi ad un catalogo di reati sempre più ampio. Si tratta di un terreno sul quale l’Unione delle Camere penali si impegnerà con grande determinazione. Altro tema caldo per i penalisti: le intercettazioni e la violazione del diritto al domicilio dell’intercettato... Esatto. Il captatore informatico ha una portata devastante per la privacy di ciascuno di noi. Del resto l’idea di accenderlo e spegnerlo a seconda di dove si sposti l’ignaro suo portatore è del tutto illusoria e velleitaria. Legittima difesa: primo via libera al Senato. Mandi un messaggio a Matteo Salvini.. Vorrei dire a Salvini: Non prenda in giro la pubblica opinione! Lei per primo sa benissimo che nessuna previsione normativa potrà impedire che un Pubblico Ministero indaghi doverosamente sul comportamento di chi abbia ucciso un uomo. Chi invoca una giustificazione del proprio comportamento non potrà mai pretendere di sottrarre ad un Giudice la valutazione della fondatezza e legittimità di quella giustificazione. L’Italia condannata dalla Corte Europea per aver inflitto a Bernardo Provenzano, in fin di vita, trattamenti inumai e degradanti... L’Unione delle Camere penali aveva denunciato quanto accadeva definendo il provvedimento contro natura e contra legem. Bernardo Provenzano era un uomo da tempo sofferente, come accertato in sede giudiziaria, per patologie plurime e invalidanti che comportavano un grave decadimento cognitivo e motorio, anche per i postumi di vari interventi chirurgici. Per circa due anni è stato ricoverato presso il reparto detenuti dell’Ospedale San Paolo di Milano, in stato quasi vegetativo. Eppure, secondo l’allora Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, era da ritenersi ancora individuo dall’ elevata pericolosità. Un giudizio che oggi viene severamente censurato dalla Corte di Strasburgo, la quale condanna l’Italia per aver inflitto ad un detenuto in fin di vita il regime previsto dall’art. 41bis dell’Ordinamento Penitenziario. Le reazioni dell’attuale maggioranza al provvedimento della Cedu dimostrano ancora una volta che, in tema di Giustizia, il Governo cerca il facile ed immediato consenso popolare, senza alcuna analisi interpretativa e di sistema. Di Maio dice “I comportamenti inumani erano quelli di Provenzano. Il 41bis è stato ed è uno strumento fondamentale per debellare la mafia e non si tocca” e Salvini, che coglie l’occasione per un’ulteriore invettiva contro l’Europa e afferma: “l’ennesima dimostrazione dell’inutilità di questo ennesimo baraccone europeo”… Le due dichiarazioni confermano che questo Governo ha fatto degli slogan il suo pane quotidiano, a prescindere dai temi sul tappeto. Lo stesso Ministro della Giustizia, pur mantenendo un profilo più basso, fa sapere: “Rispetto questa sentenza, ma non la commento”, e aggiunge: “Voglio sottolineare solo una cosa: il 41bis non si tocca”. L’articolo 41bis non ha nulla a che fare con la condanna dell’Italia per aver continuato a sottoporre a tale regime un uomo ormai ridotto ad un vegetale. Il provvedimento della Cedu è relativo agli ultimi 4 mesi di vita di Provenzano ed in particolare dal 23 marzo al 16 luglio 2016, giorno della sua morte. Uno Stato democratico dà prova della sua forza proprio quando dimostra di saper rispettare i diritti anche del più feroce dei suoi nemici. Il ministro Bonafede si è congratulato con lei? No. I penalisti italiani hanno ricevuto un messaggio augurale, in occasione del congresso, dal Capo dello Stato. Saremo ricevuti dal Presidente della Corte Costituzionale. Ho avuto le congratulazioni, fra i tanti, della Presidente del Senato, cioè, della seconda carica dello Stato, e naturalmente del presidente di Associazione nazionale magistrati. Il Ministro Bonafede non lo ha ritenuto necessario. Pazienza, sono certo che un dialogo riusciremo ad avviarlo. È un augurio che rivolgo al Ministro, il quale, sono certo, comprenderà quanto possa essergli utile il dialogo con noi per affrontare con maggiore cognizione di causa la complessa materia, che è chiamato ad amministrare. Caiazza (Ucpi): “Prescrizione, si vuole colpire il sintomo e non la causa” di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 novembre 2018 Parla il presidente dell’Unione delle camere penali italiane: “Con questa norma, palesemente incostituzionale, si otterrebbe l’effetto contrario che si va sbandierando: nessuna certezza della pena. Se la Lega cederà al populismo penale del M5S passeremo all’astensione dalle udienze”. “Se la Lega cederà al populismo penale del M5S passeremo all’astensione dalle udienze”, avverte l’avvocato Gian Domenico Caiazza. Nemmeno dieci giorni da quando è stato eletto nuovo presidente dell’Unione delle camere penali e già si trova a dover dichiarare lo stato di agitazione degli avvocati penalisti italiani contro l’emendamento al dl anticorruzione presentato dal M5S in Commissione giustizia della Camera che ferma i tempi di prescrizione dopo il primo grado di giudizio, qualunque sia la sentenza. Il M5S cavalca la vulgata comune che vede la prescrizione come uno strumento nelle mani degli avvocati per far estinguere i processi, una via di fuga dalla certezza della pena. Come risponde a chi crede davvero sia così? Che è una falsificazione della realtà: l’istituto della prescrizione è di fondamentale garanzia dei diritti della persona. Il diritto di ciascuno a non essere oggetto di un processo penale sine die, con una fine rimessa all’inquirente o al giudice. Si tratta di un’esigenza elementare. Non l’abbiamo inventata noi, esiste in tutti gli ordinamenti democratici, anche se gli altri Paesi europei non hanno il nostro problema della lentezza della giustizia. Si può discutere della sufficienza del tempo a disposizione dello Stato per verificare l’accusa a carico di un cittadino, ma l’idea di eliminare la prescrizione è una barbarie. Palesemente incostituzionale, peraltro, destinata a non sopravvivere al primo passaggio davanti alla Consulta. Quanti procedimenti si estinguono per prescrizione? Non ho questo dato recente, però le ricordo il dato ufficiale fornito dal Ministero di Giustizia secondo il quale più del 70% delle prescrizioni maturano nella fase delle indagini preliminari. Significa che i fascicoli rimangono nelle mani del pubblico ministero o, terminate le indagini, in attesa della prima udienza, per periodi talmente lunghi che consumano per il 70% dei casi tutta la prescrizione. E per il resto, come è facile intuire, consumano la gran parte del tempo. Dunque, la norma così scritta non avrebbe alcuna efficacia sul 70% delle prescrizioni? Questo emendamento nemmeno lo considera questo profilo. E non considera che molto si deve all’inerzia - dovuta a mille ragioni - del pm. Le conseguenze? Sono abnormi: non solo sotto il profilo del diritto ma anche tecnico. Imbarazzanti. Secondo la norma presentata in Commissione giustizia i tempi per la prescrizione si fermano con la sentenza di primo grado senza distinzione tra condanna e assoluzione. In entrambi i casi, l’appello - a cui ricorre chi è stato condannato, oppure il pm, in caso di assoluzione dell’imputato - potrà svolgersi senza alcun limite di tempo. Anche decenni dopo. Perciò si viola l’articolo 111 della Costituzione e si allontana ancora di più la certezza della pena. È così? Sì, mettere mano alla prescrizione più di quanto abbia già fatto la riforma Orlando (del 2015, che congela per 18 mesi al massimo la prescrizione dopo la condanna, di primo o secondo grado che sia, ndr) ottiene il risultato opposto di quello che si va sbandierando. Chi è competente in materia sa perfettamente che i ruoli delle udienze, ossia quanti processi vengono celebrati nella giornata, sono compilati ragionando sulla prescrizione dei reati. Se non ci fosse più questo limite di tempo, non ci sarebbe alcun motivo per fissare anche 35 udienze in un giorno e si potrebbe rinviare il processo sine die. Dunque non solo si verrebbe meno al principio della ragionevole durata del processo, ma non si avrebbe alcuna certezza della pena. Pensi alle parti offese di un processo che non si prescrive: se già adesso aspettano dieci anni per una sentenza, quanti ne dovranno aspettare dopo? Cosicché le aule di giustizia si intaseranno perfino più di quanto non lo siano già… Certo. Il problema è che invece di intervenire sui tempi delle indagini si vuole intervenire sui tempi del processo. Qual è la causa della durata irragionevole dei processi? Ci sono troppi processi, troppi reati: abbiamo un numero di ipotesi di reato sconsiderato, tanti illeciti potrebbero essere puniti amministrativamente e non penalmente, tipo i reati bagatellari. E c’è il grande tema dell’obbligatorietà dell’azione penale, che va affrontato con coraggio, perché fissare un principio di eguaglianza dell’azione penale aveva un senso subito dopo la caduta del fascismo. Oggi però questo vincolo è solo apparente - in realtà l’azione è totalmente arbitraria - ed è una delle cause della paralisi del processo. Intervenire sulla prescrizione dei reati significa intervenire sul sintomo, non sulla causa. Caiazza ci spiega la deriva giustizialista di chi gioca con la prescrizione di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 novembre 2018 Gli avvocati penalisti si mobilitano contro la riforma della prescrizione proposta dal Movimento 5 stelle con un emendamento al ddl anticorruzione in discussione alla Camera, che prevede l’interruzione dei termini di prescrizione dopo solo una sentenza di primo grado. La giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane (Ucpi) ha deliberato mercoledì sera lo stato di agitazione per una riforma che, se approvata, consegnerebbe processi infiniti. Nemmeno il tempo di insediarsi per Gian Domenico Caiazza, il nuovo presidente dell’Ucpi, eletto successore di Beniamino Migliucci appena dieci giorni fa, al termine del congresso dei penalisti a Sorrento. Il blitz del M5S, voluto dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, richiama subito all’azione: “Siamo di fronte a una proposta non solo inaccettabile, ma anche tecnicamente abnorme - spiega Caiazza al Foglio - Parlare di sospensione della prescrizione fino a sentenza definitiva significa abolire il decorso della prescrizione, non sospenderlo. Inoltre non si distingue tra sentenza di assoluzione e di condanna. Insomma io, cittadino, potrei essere assolto in primo grado, il pubblico ministero potrebbe impugnare la sentenza e l’udienza d’appello sull’impugnazione del pm potrebbe essere fissata anche tra vent’anni, lasciando pendere su di me una spada di Damocle per tutto questo tempo”. Insomma, è una riforma che, laddove fosse approvata - ribadisce il neopresidente dell’Ucpi - “darebbe la matematica certezza dell’irragionevole durata dei processi”, in violazione del principio stabilito dall’articolo 111 della nostra Costituzione: “Se non si prevede un meccanismo che imponga prima o poi al giudice di fissare l’udienza, l’imputato è nelle mani dell’arbitrio del giudice. È una cosa pazzesca. Chiunque faccia di mestiere l’avvocato o il magistrato sa perfettamente che oggi, proprio in virtù della prescrizione, le udienze vengono fissate per far durare il meno possibile i processi, tant’è che la prima cosa che si fa è scrivere sul fascicolo la data di prescrizione del reato. Ora si vorrebbe togliere questa regola, ottenendo il risultato opposto a ciò che si dichiara”. D’altronde, aggiunge Caiazza, introdurre la riforma di un istituto di questa complessità attraverso un emendamento a un disegno di legge, quello anticorruzione, che non c’entra nulla col tema, “dà già l’idea della qualità dell’intervento”. Non solo: l’emendamento era stato preannunciato da Bonafede poche ore prima, al termine di un incontro con diverse associazioni che riuniscono i familiari delle vittime di alcune tragedie (scuola di S. Giuliano di Puglia, Viareggio, Hotel Rigopiano, Amatrice, ponte di Genova). Il trionfo del populismo penale. Una coincidenza subito notata da Caiazza, eletto nuovo presidente dei penalisti al termine di un congresso dedicato proprio alla “difesa delle garanzie nell’epoca dei populismi”: “Bonafede ha raccolto un po’ di persone offese da reati di vicende complesse, i cui processi sono necessariamente lunghi e la gran parte dei quali sono ancora in fase di celebrazione, non certo a causa della prescrizione. Quindi è anche un gesto non pertinente: cosa c’entrano le persone offese dal crollo del ponte di Genova con la prescrizione? È populismo puro”. “Siamo di fronte a un quadro politico inedito per la sua gravità, in cui il populismo penale si è fatto governo - approfondisce Caiazza. Si va verso una deriva giustizialista irrefrenabile, con la giustizia penale oggetto di riforme a costo zero e ad altissimo impatto di consenso, ma ciò che più spaventa è che non si vedono reazioni a tutto questo. Non si vedono forze politiche in grado di proporre una risposta credibile. In questo quadro allarmante, i penalisti italiani sono pronti a intervenire e a porsi come punto di riferimento di una politica liberale della giustizia”. E il neopresidente dei penalisti individua un particolare retroterra culturale all’origine di questo populismo di governo: “È figlio di una semina durata 25 anni da parte della magistratura che, sovente fuori dai propri limiti costituzionali, ha governato, soggiogato, intimorito e qualche volta persino ricattato la politica. In tutti questi anni, la magistratura ha alimentato la rappresentazione, attraverso i media, di una classe politica che equivale a corruzione, di una classe industriale che equivale a depredamento del territorio e dell’ambiente, di una finanza che è solo speculazione infame. Quando si semina tutto questo per decenni, poi si crea il mostro. Il paradosso ora è che il mostro può fare a meno della sua levatrice. Basta vedere come Salvini ha reagito in modo liquidatorio all’iniziativa dei pm sul caso della nave Diciotti”. L’iniziativa del M5s sulla prescrizione, intanto, rischia di creare una frattura proprio con l’alleato di governo. Il capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari, ha parlato di “forti perplessità”, anche perché l’argomento “non è stato concordato all’interno del governo”. La giunta dell’Ucpi ha deliberato lo stato di agitazione, riservandosi ogni ulteriore decisione alla verifica dell’iter parlamentare dell’emendamento: “Fin dall’inizio abbiamo notato il silenzio dell’altro partito di maggioranza, la Lega, e il fatto che l’emendamento fosse stato presentato da due relatori del M5S - spiega Caiazza. Aspettiamo quindi di vedere se la proposta diventerà una scelta di riforma legislativa dell’intera maggioranza parlamentare. Se sarà così, passeremo a forme di proteste molto più forti. Chiederemo di incontrare tutti i gruppi parlamentari e stiamo già preparando un documento tecnico per evidenziare le incongruità, veramente grossolane, dell’emendamento. Perché l’impressione è che sia stato redatto da persone che non frequentano la materia. Speriamo di poter dare un contributo che aiuti quella parte della maggioranza che, in maniera molto cauta, non sta sostenendo l’iniziativa”. In caso di approvazione dell’emendamento, si staglia all’orizzonte l’ipotesi estrema dell’astensione di tutti i penalisti dalle udienze. La lunga scia di delitti politici insoluti. Quando l’oblio è alleato dei criminali di Carlo Mastelloni La Stampa, 2 novembre 2018 Una serie televisiva americana riconduce all’impiego della tecnologia la risoluzione di delitti commessi in epoca remota. Sono delitti comuni, spesso a sfondo passionale. Le passioni dunque lascerebbero tracce, mentre molti delitti a sfondo politico, sia nella storia della criminalità organizzata che in quella del terrorismo, pare siano destinati a rimanere insoluti. In essi il calcolo avrebbe dunque la meglio sulle passioni favorendo l’oblio. Ma guai a quel Paese dove è la criminalità a determinare l’oblio: ne va della coscienza del Paese. I casi di mafia È paradossale, ma i tanti collaboratori di giustizia calati sulla scena giudiziaria non hanno fornito contributi utili su importanti crimini pur avendo ricostruito con zelo reati più complessi. Della Strage di Capaci conosciamo esecutori e favoreggiatori e l’intera cupola di Cosa Nostra che la volle, così come ci sono noti il percorso dell’esplosivo, dei timer e l’impiego del viadotto autostradale. Alcuni sostengono la stessa cosa per la strage di via Fani. È invece diverso il caso degli omicidi di mafia del procuratore Gaetano Costa, di Piersanti Mattarella o della strage di via Acca Larentia risalente al gennaio 1978 in danno di elementi di estrema destra; ma questa è un’altra storia. Gaetano Costa fu assassinato mentre sfogliava dei libri posti su una bancarella di Palermo. Era il 6 agosto del 1980. Stava passeggiando da solo a pochi passi da casa sua. Gli spararono alle spalle due killer. Mesi prima, il 6 gennaio 1980, e sempre a Palermo, il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, autore di una politica innovativa nella Democrazia Cristiana, era stato assassinato a colpi di pistola. Era appena entrato in auto con la moglie, i due figli e la suocera. Stavano andando a messa. Per l’omicidio Costa non sono mai stati individuati i responsabili. Per l’omicidio di Mattarella sono stati condannati i membri della Cupola, i mandanti, ma l’esecutore solitario è ancora ignoto. Sì, fu incriminato il noto Giusva Fioravanti, riconosciuto anche dalla moglie di Mattarella, ma finì prosciolto. L’omicida “saltellava”, come era solito fare Giusva nel camminare velocemente: lo sottolinearono cinici innocentisti alludendo ai pochi indizi raccolti. Eppure è un fatto noto che il terrorista nero Pierluigi Concutelli era in quel periodo detenuto al carcere dell’Ucciardone di Palermo, che i suoi sodali ne volevano la fuga e che i mafiosi spadroneggiavano in quel carcere: un movente ampiamente illustrato non da un estraneo, ma dal fratello di Giusva, Cristiano: fu quest’ultimo a indicarlo come killer avallando l’identikit pubblicato subito dopo i fatti. La nuova stagione - La stagione dei “pentiti” iniziata con Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno esplose dopo l’arresto di Totò Riina e riguardò quasi del tutto i nuclei di fuoco dei corleonesi. Furono invece gli omicidi commissionati e consumati dai “perdenti”, le famiglie Bontade e gli Inzerillo, a rimanere nebulosi e privi dei necessari riscontri ma i pentiti corleonesi non ne hanno saputo parlare. La stragrande maggioranza dei componenti delle famiglie storiche della “vecchia mafia” era stata essa stessa infatti vittima della mattanza dei primi Anni Ottanta: morti o fuggiti in America. Per i vincenti - i corleonesi - erano gli “scappati”. I “perdenti” poi non avevano la stessa potenza di fuoco dei loro antagonisti né la stessa abbondanza di killer. Ed è per questa ragione che gli inquirenti, per l’omicidio Mattarella, valutarono l’ipotesi che i mafiosi, poi sconfitti nella guerra, potessero impiegare manovalanza esterna in primo luogo per gli omicidi eccellenti: insomma un vero e proprio appalto. A differenza dei corleonesi che firmavano e “rivendicavano” i loro attentati in una logica di attacco allo Stato, le storiche famiglie palermitane - la mafia di città - cercavano di evitare un loro coinvolgimento diretto: l’importante era far arrivare il messaggio, forte e chiaro, ai loro alleati politici sul ripristino dello status quo. Il primo omicidio “eccellente” di un politico è stato proprio il delitto Mattarella e la non soluzione di esso è ascrivibile alla mancata conferma “dell’appalto” da parte di pentiti legati alla vecchia mafia come Buscetta e Contorno. Si aggiunga che all’epoca pareva inconcepibile che la mafia, e cioè 5000 uomini d’onore, avesse bisogno di nascondersi dietro ad altre strutture impiegando mercenari. Perciò, abbasso l’oblio! Impugnabile la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 31 ottobre 2018 n. 49789. La sentenza che afferma la non punibilità per particolare tenuità del fatto si può impugnare in Cassazione. L’indicazione arriva dalla Suprema corte che, con la sentenza 49789, chiarisce di non voler entrare nel contrasto che divide la giurisprudenza sulla possibilità o meno di impugnare i provvedimenti con i quali, una volta rigettata la richiesta di decreto penale formulata dal Pm, il Gip dispone l’archiviazione del procedimento pendente riscontrata la particolare tenuità del fatto. Secondo un orientamento - che la Cassazione definisce “apparentemente” maggioritario l’impugnazione andrebbe esclusa sulla base per due ragioni: la non definitività del provvedimento di archiviazione e il fatto che questo non venga iscritto nel casellario giudiziale. Diverso il punto di vista affermato dalla Cassazione in un paio di casi, nei quali si è invece valorizzata, per dare il via libera all’impugnabilità del provvedimento, la “ritenuta” annotazione nel certificato giudiziale dell’interessato, che sarebbe pregiudizievole per il diretto interessato. Proprio prendendo le mosse da queste motivazioni la Suprema afferma la possibilità di impugnare una sentenza dibattimentale che abbia riconosciuto la particolare tenuità del fatto, in virtù della sicura annotazione della pronuncia nel certificato giudiziale. Una certezza che deriva dalle modifiche apportate all’articolo 3 del Dpr 313/2002 dall’articolo 4 del Dlgs 28/2015. Norma in base alla quale “è prevista l’iscrizione nel casellario giudiziale - in aggiunta ai provvedimenti giudiziari definitivi che hanno prosciolto l’imputato o dichiarato non luogo a procedere per difetto di imputabilità, o disposto una misura cautelare - anche di quelli che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’articolo 131bis del Codice penale”. I giudici sottolineano gli effetti preclusivi e definitivi, ipoteticamente pregiudizievoli, della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, sia nei giudizi civili sia amministrativi (articolo 651-bis del Codice di rito penale) relativi alla risarcibilità del danno per un fatto ritenuto non punibile. Da qui il sicuro interesse ad impugnare la pronuncia Isis, la Cassazione svela il decalogo del terrorista di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2018 Anche la sorella della prima foreign fighters italiana Fatima, aveva scelto la via dell’ ègira, e dunque l’abbandono delle zone di origine abitate dai miscredenti, per raggiungere, con tutta la famiglia, i territori dello Stato islamico e unirsi alle truppe del Califfo. La condanna - La Cassazione (sentenza 49728), ha depositato le motivazioni con le quali ha confermato la condanna - a 5 anni e 4 mesi di reclusione per terrorismo - per Marianna Sergio sorella di Maria Giulia Sergio diventata Fatima dopo il matrimonio con un musulmano marocchino e la conversione. I giudici non hanno creduto alla tesi del viaggio come occasione per approfondire la religione islamica. Perché? Se così fosse stato, non c’era motivo di organizzare il trasferimento di tutta la famiglia nell’area dello Sham e dei combattenti islamici, entrando in una condizione di vera clandestinità. Il viaggio verso il califfato - Della storia della famiglia Sergio, originaria di Torre del Greco ma residente a Inzago in provincia di Milano, si erano occupati i media, quando un blitz delle forze dell’ordine, il primo luglio del 2015, aveva impedito il viaggio verso la jihad, arrestando i componenti della famiglia che aveva già venduto i mobili e incassato il Tfr del padre di Fatima e Marianna. Decisive erano state le intercettazioni dalle quali erano emerse anche le “perplessità” della madre di Fatima che chiedeva alla figlia se avrebbe trovato un orto o una lavatrice. I foreign fighters - La Cassazione - nel confermare la confermare la condanna, anche per i coimputati parenti del marito di Fatima sebbene per pene inferiori - ha dato conto dell’analisi fatta in sede di merito, del fenomeno dei foreign fighters cresciuto con l’espandersi del territorio del Califfato. Uomini e donne che lasciano il loro paese per rispondere alla “chiamata alle armi”. Proprio le donne spiegano i giudici erano sollecitate ad andare in Siria, anche attraverso i social network, per contribuire a creare una nuova società. La donna del Jihadista - Alla “donna del jihadista”, figura “portante” della struttura, veniva riconosciuto non solo un ruolo di supporto nella formazione maschile, ma “non di rado funzioni proprie di reclutamento, di impiego di armi e di gestione di altre donne, appartenenti a diverse minoranze religiose, talvolta ridotte in schiavitù e spesso vendute come concubine ai combattenti islamici”. L’attività di raccolta dei soggetti verso la Siria era gestita da un coordinatore che riceveva i foreign fighters, in genere occidentali, in Turchia, luogo dal quale partivano verso la Siria. Lo stesso coordinatore si occupava di stabilire delle regole per dislocare nel territorio di mujahideen. Il decalogo di comportamento - Dalle intercettazioni telefoniche - precisano i giudici - è stato possibile anche conoscere un “decalogo” di comportamento. C’era ad esempio il divieto di portare con sé telefoni cellulari di nuova generazione, facilmente rintracciabili, o i tablet, mentre era possibile avere con sé telefonini “vecchi” che permettevano solo chiamate. Vigeva il limite di una valigia a testa: alle esigenze di vita quotidiana “avrebbe provveduto la nuova realtà incorporante”. Arrivati a destinazione gli uomini erano avviati ai campi di addestramento, per circa due mesi, e le donne ai corsi per approfondire lo studio del Corano. Costante il messaggio sul compimento di un percorso di catarsi interiore, nel rispetto del dovere primario di ogni musulmano: raggiungere il Califfato e partecipare all’eliminazione dei miscredenti. La Cassazione ha ritenuto che, nel caso della ricorrente “l’esaltazione e la condivisione degli scopi degli attentati e l’égira stessa, fossero indicatori di un comportamento di piena associazione alla struttura preceduta dalla adesione ai precetti dell’Islam radicale” Violazione dell’ordine del giudice per il trust che storna i beni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2018 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 31 ottobre 2018 n. 49848. Via libera alla condanna per mancata ottemperanza all’ordine del giudice per la famiglia che costituisce un trust per sottrarre i beni all’azione esecutiva. Il concorso nel reato riguarda anche i beneficiari e dunque i figli della persona “incriminata” se informati prima di un’azione di cui conoscevano l’obiettivo. La Corte di cassazione, con la sentenza 49848, bolla come inammissibile il ricorso teso a contestare la decisione della Corte d’Appello che, pur affermando la prescrizione del reato, previsto dall’articolo 388 del Codice penale, aveva dichiarato gli imputati responsabili, ai fini civili, tenuti a risarcire in solido la parte civile. Nel mirino dei giudici era finito il trasferimento in un fondo patrimoniale vincolato e in un trust di tutti i beni della ricorrente, in un periodo “sospetto” : dopo la sentenza con la quale il giudice aveva condannato la donna a pagare poco meno di 200 mila euro in favore dei fratelli, come differenza di una quota ereditaria. La ricorrente, in particolare, contestava il dolo nella redazione di atti “curati” da un notaio, la simulazione dell’operazione in assenza della prova che continuasse ad utilizzare i beni conferiti e anche il coinvolgimento dei figli che, ad avviso della difesa, non erano neppure al corrente del giudizio civile che aveva visto “scontrarsi” in tribunale la famiglia della madre. Un’ulteriore censura riguardava il ribaltamento della sentenza di primo grado, favorevole ai ricorrenti, malgrado l’assenza di elementi nuovi e senza un’adeguata motivazione. Partendo da questo ultimo punto i giudici considerano corretta la decisione della Corte territoriale che aveva, al contrario, adottato una motivazione rafforzata che si impone in caso di condanna, sia pure ai soli fini civili, quando viene ribaltata la decisione di appello. Per la Suprema corte la conclusione dei giudici è stata raggiunta nel rispetto del principio “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”. A “deporre” per il dolo ci sono i tempi: trust e fondo patrimoniale - nel quale erano confluiti tutti i beni della donna e dell’ex marito - erano arrivati pochi mesi dopo la pronuncia di condanna alla restituzione delle somme. I giudici, pur affermando la liceità degli strumenti giuridici prescelti, ne hanno illustrato la particolare natura e funzione: creare un patrimonio separato e di scopo rispetto a quello del disponente nel trust o un patrimonio autonomo, ma con vincolo di destinazione nel fondo patrimoniale. Operazione - sottolinea la Cassazione - utile a sottrarre i beni all’azione esecutiva dei disponenti e dei creditori. Non passa la tesi sostenuta dalla difesa dell’urgenza di tutelare i figli, scattata solo nelle circostanze descritte, pur essendo gli ex coniugi separati da tempo. Il tutto per la Suprema corte basta a dimostrare la natura dolosa e fraudolenta degli atti che, di fatto, vanificavano l’autorità della decisione giudiziaria, frustrando ogni azione esecutiva. Giusto anche il verdetto nei confronti dei beneficiari a titolo di concorso nel reato, essendo stati i figli preventivamente informati delle intenzioni dei genitori. Ad indicare l’intento fraudolento anche gli strumenti scelti, legali ma più sofisticati della lineare donazione o vendita. Salerno: si impicca alla finestra del bagno, detenuta suicida a Fuorni di Viviana De Vita Il Mattino, 2 novembre 2018 Ha strappato un lenzuolo e lo ha rigirato formandone una corda, poi lo ha legato alle inferriate della finestra del bagno della sua cella. Ha deciso di farla finita così, all’alba di ieri, mentre le sue compagne dormivano ancora, Maria Di Matteo, 44 anni di Pontecagnano, ristretta a Fuorni con pena definitiva per furto e rapina. Sarebbe dovuta uscire dal carcere tra tre anni ma la libertà l’ha trovata scegliendo di togliersi la vita. Ci aveva già provato alcune settimane fa, ma era stata salvata in extremis e, proprio per questo, era sotto osservazione. Ieri quando l’agente in servizio verso le 6.30 durante il giro di controllo si è accorto della tragedia, era già troppo tardi. A nulla sono valsi i tentativi di soccorso del sanitario dell’istituto e del personale del 118 giunti sul posto. La vicenda, denunciata dal Sappe e dalla Uil penitenziaria, ripropone ancora una volta in tutta la sua drammaticità la situazione emergenziale che si vive a Fuorni dove il personale in servizio non riesce a coprire tutte le emergenze e tutti i reparti. “L’episodio - afferma il segretario regionale della Uil penitenziaria Daniele Giacomaniello - è l’ennesimo campanello d’allarme nell’ambito di un sistema lavorativo che non è orientato a scongiurare il rischio suicidano poiché le problematiche mentali, richiedono una progettualità attraverso l’impiego di diverse figure professionali rafforzando l’assistenza sanitaria con l’impiego di personale specializzato”. “Da tempo - afferma Emilio Fatterello del sindacato autonomo di polizia penitenziaria - il Sappe denuncia le critiche condizioni operative della sezione femminile di Salerno dove il personale assegnato viene distratto ad altri posti di servizio fuori dalla sezione in cui si lavora al di sotto dei livelli minimi di sicurezza. Tutto questo mentre nella casa circondariale si muore e si evade”. L’ennesima tragedia a Fuorni, si è consumata alla vigilia di un cambio di guardia al vertice del penitenziario. Il direttore Stefano Martone, destinato ad altra sede, lascerà presto Fuorni: a lui subentrerà Rita Romano al vertice dell’Icatt di Eboli. Cinquantatré anni, originaria di Mercato San Severino e dirigente penitenziario da oltre venti, Rita Romano ha iniziato, il suo percorso come educatrice nel carcere fiorentino di Sollicciano poi, dopo un secondo concorso, ha preso il via la sua carriera di dirigente come vice direttore del carcere di Parma prima e di Salerno poi. Da undici, è direttrice dell’Icatt di Eboli, un carcere a custodia attenuata. Il Sappe, nel comunicare il cambio di guardia, aggiunge che “solo il 25 ottobre è stata emessa dal tribunale di Salerno - Sezione Lavoro sentenza con la quale viene riconosciuta condotta antisindacale nei confronti della attuale direzione a seguito di ricorso del sindacato autonomo di polizia penitenziaria”. Avellino: detenuto in fin di vita, ha tentato d’impiccarsi col lenzuolo di Gianluca Galasso Il Mattino, 2 novembre 2018 Ha tentato il suicidio in carcere e lotta tra la vita e la morte Pellegrino Pulzone, autore di un efferato delitto, l’assassinio di Clorinda Sensale, avvenuto il 4 settembre del 2013. L’uomo si trova ricoverato nel reparto di Rianimazione dell’ospedale Moscati e le sue condizioni sono critiche. Ieri mattina ha provato a farla finita. Erano da poco passate le 8,30 quando ha deciso di legare delle lenzuola alle sbarre della finestra del bagno per impiccarsi. Tempestivo l’intervento di un agente della polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Bellizzi Irpino, dove Pulzone è detenuto da cinque anni. Il poliziotto non ha visto l’assassino nella sua cella. Lo ha chiamato più volte senza avere risposte. A quel punto ha aperto la porta ed è entrato nel bagno, trovandosi di fronte la terribile scena. Con l’aiuto di altri colleghi lo ha subito liberato dal cappio. Pulzone è stato quindi trasportato all’interno dell’infermeria. I medici dell’istituto hanno effettuato tutte le manovre per rianimarlo, in attesa dell’arrivo del 118. Tentativi che sono andati a buon fine, perché Pulzone ha ripreso a respirare. Poi la corsa al pronto soccorso dell’ospedale Moscati, in considerazione delle gravissime condizioni. La sua vita è appesa a un filo. Il detenuto è comunque piantonato. Fatta eccezione per un breve periodo, Pulzone è sempre stato da solo in cella. Nessuno voleva condividere con lui i metri quadrati della stanza all’interno della casa circondariale. Faceva, comunque, vita comunitaria nel penitenziario avellinese, dove entrò nel 2013 a seguito di quell’assurdo delitto compiuto in via Oblate nel cuore antico della città. Pulzone, all’epoca quarantenne e già pregiudicato, sferrò senza alcun motivo diverse coltellate alla storica e stimata commerciante del capoluogo, che con i suoi familiari gestiva il negozio Holiday Sport, ancora oggi punto di riferimento degli sportivi irpini. L’assassino tentò la fuga, ma fu catturato poco dopo in via Generale Cascino dalla polizia che lo scovò all’interno di un bar grazie anche al coraggio del carrozziere Vittorio Amodeo, che allertò le forze dell’ordine e inseguì Pulzone, nonostante lo choc per quanto accaduto. Pulzone (difeso dall’avvocato Alberico Villani) sta scontando una pena a venti anni di reclusione. Nel mese di giugno dello scorso anno la condanna è diventata definitiva con la conferma da parte della Corte di Cassazione di quanto deciso in Appello a Napoli. In primo grado l’omicida era stato condannato all’ergastolo. Venezia: “Giovanni è morto in carcere nove mesi fa, ancora non sappiamo il perché” Il Gazzettino, 2 novembre 2018 L’appello dei familiari: “Sono passati nove mesi dalla sua morte in carcere e ancora non sappiamo da cosa sia stata provocata e se vi siano responsabilità. Chiediamo solo di sapere qualcosa che possa consolarci nel nostro dolore”. È un appello pacato quello lanciato dai familiari di Giovanni Vinciguerra, il trentacinquenne veneziano il cui corpo privo di vita fu rinvenuto dai compagni di cella a Santa Maria Maggiore lo scorso 26 gennaio. La Procura aprì immediatamente un fascicolo d’inchiesta disponendo l’autopsia al fine di ottenere risposte su quel decesso, avvenuto in un luogo nel quale il giovane era affidato allo Stato, ma il medico legale non risulta avere ancora depositato l’esito delle analisi. I familiari si sono affidati ad un legale, l’avvocato Ilenia Rosteghin: non cercano vendette, non urlano né scendono in piazza, ma con grande dignità chiedono soltanto di poter avere qualche notizia sulla vita prematuramente spezzata di un ragazzo di 35 anni. “Nell’immediatezza si è parlato di un infarto ed è stato ipotizzato che possa aver inalato qualche sostanza in cella - spiega lo zio materno, Lino Spinosa. Ma il nove mesi non è arrivata ancora alcuna risposta ufficiale”. Giovanni Vinciguerra si trovava in carcere da alcuni mesi per avere picchiato la madre, dopo un trascorso caratterizzato da uso di droga e alcool, da frequentazione di cattive compagnie e dalla commissione di piccoli reati. “Prima di finire in carcere era in terapia con il metadone - ricorda la zio - e a Santa Maria Maggiore sembrava aver intrapreso la strada giusta per cercare di cambiare vita; erano in corso contatti per farlo accedere ad una comunità di recupero. Eravamo andati a trovarlo pochi giorni prima della sua morte e sembrava stare meglio; ci aveva chiesto di portargli qualche libro da leggere”. I soccorsi sono stati tempestivi: dopo l’allarme lanciato dai compagni di cella, il trentacinquenne è stato assistito dai sanitari e portato all’ospedale, ma non c’è stato nulla da fare. “È terribile restare in questo limbo, senza avere alcuna notizia, senza sapere cosa abbia provocato la morte di Giovanni - conclude lo zio. Chiediamo soltanto una risposta da parte dello Stato”. In passato Vinciguerra era stato un ultras arancio-nero-verde ed era per questo molto conosciuto tra i tifosi del Venezia Mestre. Latina: corso per pizzaiolo, così i detenuti ricostruiscono la vita di Remigio Russo Avvenire, 2 novembre 2018 Un progetto per offrire un modo concreto per reinserirsi nella società quando vi faranno ritorno, dopo il periodo di detenzione. È l’opportunità offerta ai reclusi della casa circondariale di Latina, che da alcune settimane hanno la possibilità di seguire un corso per pizzaiolo. L’iniziativa è promossa dal cappellano dell’Istituto di pena, il salesiano don Nicola Cupaiolo. “Grazie alla disponibilità di un pizzaiolo di Latina Scalo, siamo riusciti ad avviare questo corso base che prevede circa cinque incontri cui partecipano cinque o sei detenuti alla volta anche per ragioni di sicurezza e di disponibilità di attrezzature”, ha spiegato il salesiano, “poi, il giorno del corso c’è anche una prova pratica davvero impegnativa: viene offerta la pizza a tutti i detenuti e parliamo di circa 130 persone. Noi siamo veramente contenti di preparare queste persone su un aspetto così pratico della vita, vogliamo dar loro un’occasione che li possa aiutare per il futuro”. Si tratta di un’attività impegnativa dal punto di vista logistico. “Per questo devo ringraziare il vescovo Mariano Crociata, il quale ha assicurato il pieno sostegno della diocesi che tra l’altro si fa carico degli oneri economici”, ha concluso don Nicola, “ovviamente, un altro grande ringraziamento va alla direttrice del carcere, Nadia Fontana, per aver accolto con molto favore la nostra iniziativa concedendoci i permessi e soprattutto l’uso delle attrezzature e della cucina del carcere”. Con l’occasione, don Nicola lancia anche un appello: “Abbiamo bisogno degli ingredienti per preparare le pizze (farina, olio e pomodoro, sale, formaggi), chiunque volesse donarli sappia che compie un vero gesto di carità”. Le prime risposte sono arrivate, magari da parte di chi non t’aspetteresti. “Alcuni ex detenuti mi hanno donato farina e barattoli di pomodori anche in quantità importanti”, ha confermato don Nicola. Salerno: il Dap “il carcere di Sala Consilina non deve riaprire” di Antonella Citro unicosettimanale.it, 2 novembre 2018 “Questo carcere non deve riaprire”. È questa la posizione dei burocrati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sul carcere di Sala Consilina. “Siamo stati presi soltanto in giro”: questo in sostanza il succo della conferenza stampa congiunta che si è svolta nell’aula consiliare del Comune di Sala Consilina dal sindaco Francesco Cavallone e dal Senatore del M5S Franco Castiello che hanno annunciato che la battaglia continuerà in Parlamento e davanti ai giudici. “Questo carcere non deve riaprire”. È questa la posizione dei burocrati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sul carcere di Sala Consilina. Un muro invalicabile dopo i tre incontri che si sono tenuti a Roma presso il Ministero della Giustizia, nonostante le istanze presentare a più riprese dal Comune di Sala Consilina rappresentato dal sindaco Francesco Cavallone, dall’Ordine degli Avvocati di Lagonegro rappresentato dal presidente Gherardo Cappelli, dal Senatore Franco Castiello e dal Deputato Cosimo Adelizzi. Non è bastato l’impegno dell’ente comunale salese ad effettuare a proprie spese i lavori di ristrutturazione ed ampliamento del carcere di via Gioberti, portandolo a 51 posti, per convincere il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a rivedere la sua posizione. Non solo le ragioni di un territorio ma anche importanti principi e diritti sanciti dalla Costituzione Italiana si sono infranti sul muro alzato dai tecnici e dai dirigenti del Dap che hanno dato l’impressione di non prendere in alcuna considerazione la controparte nella Conferenza di Servizi sul carcere imposta dal Consiglio di Stato. Nessun interesse è stato mostro riguardo la proposta del deputato del M5S Cosimo Adelizzi: ampliare il carcere salese con i fondi individuati dal Comune e poi utilizzarlo fino alla individuazione e alla messa a disposizione di un nuovo istituto penitenziario al servizio del tribunale di Lagonegro. “Perché nonostante l’ennesima entrata a gamba tesa dalla parte “burocratica” del Dap - è stato evidenziato nella conferenza stampa di venerdì scorso - ora resta da vedere cosa faranno la parte politica ed il “Governo del Popolo” e come valuteranno quanto accaduto dinanzi i giudici”. “Ci aspettavamo - ha raccontato il sindaco Cavallone- l’inizio di un dialogo sull’ipotesi di ampliamento del Carcere, con un sopralluogo sul posto per ulteriori verifiche da parte del Dap. Invece il Direttore Generale Pietro Buffa ci ha informati che non era possibile accogliere la nostra proposta. Mi sono sentito preso in giro non solo nella mia funzione istituzionale ma anche come persona. Ci è stato detto che l’ampliamento a 51 posti era antieconomico per la gestione degli agenti di Polizia Penitenziaria, adducendo ora addirittura un minimo di 400 posti”. “Sul tribunale e carcere di Sala Consilina - ha detto il sindaco - il Ministero della Giustizia ha fatto un errore dopo l’altro. Mi vergogno come cittadino italiano di essere sottoposto a questa dittatura della burocrazia”. “Il problema che stiamo affrontando - ha affermato il senatore Castiello - riguarda il rapporto tra politica e burocrazia, è molto grave e va al di là dello specifico caso del carcere salese. Si tratta di capire se debbano prevalere i preconcetti della burocrazia o debba prevalere la considerazione e la valutazione dell’interesse pubblico affidato alla mediazione politica. La burocrazia non ha base elettiva ed investitura popolare mentre i politici sono invece passati attraverso il vaglio del voto dei cittadini”. Castiello presenterà una petizione indirizzata al ministro Buonafede perché intervenga al più presto. Se così non fosse si annuncia già e una interpellanza al Senato. Insomma Sala Consilina non ci sta ancora una volta a vedere il suo territorio defraudato di un importante e prezioso servizio. Urbino: convegno “Riflessioni interdisciplinari sulla condizione della donna detenuta” ilmascalzone.it, 2 novembre 2018 Sabato 10 novembre a Palazzo Battiferri il XVII Workshop organizzato dal Centro di Ricerca e Formazione in Psicologia Giuridica. Il binomio donna-carcere è poco presente nell’immaginario collettivo, già lontano dalle problematiche del carcere, e riguarda solo una parte che nelle statistiche della popolazione detenuta, il 4,5% circa. L’evento organizzato a Urbino vuole porre l’attenzione su un fenomeno molto complesso e rilevante sul piano sociale, in quanto la condizione della donna in carcere presenta delle specificità di disagio sociale, motivazioni alla devianza e reazioni alla detenzione poco riconosciute in un’istituzione prettamente maschile. Il binomio donna-carcere riguarda in primo luogo la donna detenuta, ma, visto il ruolo che la donna ha nel contesto familiare la visuale si allarga alla donna madre, figlia, moglie o compagna di un detenuto, in quanto la condizione della donna cambia nel momento in cui deve misurarsi con un familiare significativo che vive un’esperienza detentiva, specie se di lunga durata. Un tema centrale della condizione della donna in carcere è quello della donna madre sia che abbia figli piccoli, per i quali è previsto che possano vivere con la madre in carcere in realtà appositamente strutturate, ad esempio le carceri che abbiano i nidi o gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri). La presenza dei figli in carcere tutela la relazione di attaccamento tra madre e figli ma presenta evidenti problematiche per i bambini che vivono in contesti chiusi: si tratta di un tema di grande attualità che verrà ampiamente discusso nella mattinata. Anche quando i figli vivono fuori dal carcere si pone il problema del mantenimento di una relazione con la madre, come peraltro si pone anche nei confronti del padre detenuto. Il mantenimento della relazione con un genitore detenuto e la rielaborazione dei vissuti dei bambini rispetto all’avere un genitore detenuto è importante non tanto nell’ottica del genitore quanto per il/la figlio/a per lo sviluppo della sua identità. Si tratta di un tema che verrà trattato anche alla luce di alcuni progetti sulle relazioni familiari condotti dalla Prof. Pajardi e dal suo staff presso le carceri marchigiane di Fossombrone e Pesaro e co-finanziati dal Garante per i diritti dei detenuti e dalla Commissione Pari Opportunità della Regione Marche. I relatori offriranno un punto di vista interdisciplinare e interprofessionale sul tema. Interverranno la Dott.ssa Anna Bello, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Ancona, la Dott.ssa Carla Marina Lendaro, consigliere della Corte d’Appello di Trieste e Presidente dell’ Associazione Italiana Donne Magistrato, la Dott.ssa Gloria Manzelli, Provveditore dell’ Amministrazione Penitenziaria dell’Emilia Romagna e Marche, per oltre dieci anni Direttore del Carcere “San Vittore” di Milano dove è stato istituito il primo Icam italiano e che ospita una delle più numerose sezioni detentive femminili, l’Avv. Andrea Nobili, Garante per i Diritti dei Detenuti della Regione Marche. Coordinerà i lavori la Prof.ssa Daniela Pajardi, Direttore del Centro di Ricerca e Formazione in Psicologia Giuridica, che promuove la giornata, che è anche coordinatore del Polo Universitario Regionale che l’Università di Urbino ha istituito presso la Casa di Reclusione di Fossombrone. Alcuni degli autori che interverranno, Lendaro, Masi, Manzelli e Pajardi, sono anche autori di un recente volume pubblicato da Giuffrè (“Donne e Carcere” a cura di D. Pajardi, R. Adorno, C.M. Lendaro, C. A. Romano) 2018. Saluzzo (Cn): i detenuti-attori raccolgono fondi per comprare un forno di Maura Sesia La Repubblica, 2 novembre 2018 In beneficenza l’incasso di “Fuori di Testa”, pièce aperta al pubblico che il primo dicembre andrà in scena nel penitenziario del Cuneese. Da diciotto anni nella casa di reclusione “Morandi” di Saluzzo i detenuti fanno del buon teatro e adesso con il teatro fanno anche beneficenza. Accadrà sabato 1 dicembre alle 15 con una replica di “Fuori di testa”, lo spettacolo scritto da Grazia Isoardi e diretto con Marco Mucaria della compagnia Voci Erranti che ciclicamente conduce i laboratori preparando una messinscena aperta al pubblico esterno, tra cui molte scolaresche, per un totale di circa duemila presenze, rappresentato a settembre. Stavolta però la pièce sul disagio mentale, dedicata a Franco Basaglia e che inquadra l’uscita dalla norma in chiave surreale e urticante verso l’ordine costituito, ha un valore aggiunto: l’incasso del primo dicembre sarà devoluto all’Associazione Noi Con Voi per l’acquisto di un forno da donare al carcere di Ouagadougou in Burkina Faso, garantendo almeno una pagnotta al giorno a reclusi che non ne hanno certezza. Il biglietto costa 10 euro, le prenotazioni si aprono lunedì 5 novembre e si chiudono venerdì 23 (scrivere a info@vocierranti.org o telefonare a 3801758323-3403732192). Bergamo: Amleto in carcere, l’opera di Shakespeare per i detenuti di Daniela Morandi Corriere della Sera, 2 novembre 2018 Lo spettacolo lunedì 5 novembre aperto anche a pochi rappresentanti istituzionali. L’evento firmato da Sabina Negri. In locandina un leone che ruggisce, perché “siamo tutti come dei leoni, ingabbiati dai nostri errori e anima”, dice Sabina Negri, riportando alcune frasi scritte per il prologo dell’Amleto. Il testo shakespeariano sarà messo in scena lunedì alle 10.30 nella Casa circondariale. Uno spettacolo per pochi: per i detenuti e alcune autorità cittadine. Non è la prima volta che il teatro entra in carcere, lo dimostrano i laboratori fatti in questi anni e il cinema, con film come “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani e “Tutta colpa di Giuda” di Davide Ferrario. Ma per la prima volta alcuni detenuti del padiglione penale rappresentano una drammaturgia d’autore. Sono stati loro a scegliere questo classico. “Non avevo intenzione di rappresentare l’Amleto. Proposi altri testi più ludici, quali La dodicesima notte, La commedia degli errori o altri di Pinter - racconta il regista Lorenzo Loris. Ma i detenuti si sono soffermati sull’Amleto, conquistati dalla traduzione di Garbali del 1989 e dalla condizione di Amleto. Come lui si sentiva prigioniero nel castello di Elsinore, loro lo sono nella realtà carceraria. A colpirli la forze della parole di Shakespeare, che fanno scattare cortocircuiti, toccano la loro condizione di detenuti”. L’iniziativa, promossa dall’Associazione Culturale Blu di Lodi e sostenuta dalla Fondazione della Comunità bergamasca, ha impegnato otto detenuti con un laboratorio teatrale realizzato in carcere tre volte a settimana, da fine luglio sino a settimana scorsa, conclusosi il 25 ottobre con il debutto andato in scena per le scuole. Per i carcerati Amleto rappresenta “la libertà che è stata negata per quanto hanno commesso, contrario alle leggi - aggiunge Negri, che con il regista ha adattato il testo -. La prima prigione è la loro anima”. Benché Amleto sia rappresentato da un detenuto, il monologo dell’essere o non essere è interpretato da tutti: “Ciascuno di loro ne recita la parte che sente più aderente a sé”, continua Lorenzo Loris. È la conoscenza dell’io e la lotta interiore del dramma amletico ad aver suggerito al regista, proveniente dalla scuola del Piccolo Teatro, di rintracciare una sintonia tra i detenuti-interpreti e il principe danese, di assegnare a tutti gli attori in scena, nel prologo e nell’epilogo, la parte di Amleto, perché “il suo conflitto intimo vive in ognuno di noi - conclude il regista -. Tutti sono degli Amleto, prigionieri di se stessi e delle proprie contraddizioni. Tutti i detenuti si sentono come il protagonista shakespeariano, perché in loro c’è il desiderio di riscatto e la volontà di uscire da una condizione di cattività, di liberarsi dal giogo a cui sono costretti”. Matera: laboratorio in carcere nell’ambito del progetto “La poetica della vergogna” puglialive.net, 2 novembre 2018 Il carcere potrebbe essere considerato il luogo simbolo della vergogna. Quella individuale, indissolubilmente legata al tema della colpa ma anche quella collettiva e sociale, in relazione alle condizioni del sistema carcerario in Italia. E ancora quella riflessa, che riguarda i familiari di chi sta scontando una pena. Ed è proprio per queste ragioni che il progetto teatrale di Matera Capitale Europea della Cultura 2019 “La poetica della vergogna”, co-prodotto da #reteteatro41, network di quattro compagnie teatrali lucane, e Fondazione Matera Basilicata 2019 in partnership con Accademia Mediterranea dell’Attore di Lecce, Artopia (Fyrom), Qendra Multimedia (Kosovo). non poteva che partire dalla Casa Circondariale di Matera. È qui che si svolgeranno prove e debutto della nuova produzione dal titolo “Humana vergogna”, performance di teatro e danza prevista a marzo 2019, con la regia della coreografa Silvia Gribaudi ed un cast selezionato tra i partecipanti nazionali ed internazionali al Workshop diretto da Radosław Rychcik (Campi Salentina 3-7 novembre 2018) e alla residenza artistica di Skopje (26 novembre-15 dicembre 2018) diretta da Sharon Fridman, Silvia Gribaudi e Jeton Neziraj. Ed è sempre qui che si sta svolgendo il laboratorio Shame Lab, ideato e condotto da Antonella Iallorenzi, fondatrice della Compagnia Petra ed esperta in teatro sociale e drammaterapia, da tempo desiderosa di aprire al pubblico i luoghi teatrali nei carceri della Basilicata dove da anni lavora. “Devo ringraziare l’amministrazione penitenziaria di Matera, il provveditore Cantone e il direttore Ferrandina - spiega - che mi hanno dato la possibilità di lavorare su questo progetto a noi tanto caro e continuare il processo di sensibilizzazione che vuol trasformare i luoghi del carcere in luoghi di cultura. Un’idea che si è alimentata attraverso lo studio del teatro in carcere in Italia sviluppatosi dagli anni 80 fino ad oggi e che si è concretizzata con la nostra adesione al coordinamento nazionale del teatro in carcere che oggi coinvolge più di 80 realtà sul territorio nazionale”. Sono 15 i partecipanti al laboratorio e tutti hanno messo a disposizione la loro specificità. Il lavoro laboratoriale non parte dalle loro storie ed esperienze (di cui peraltro non si viene messi a conoscenza e non si fa riferimento) per scoprire così che la “vergogna” in carcere è identica a quella che coinvolge tutti noi: ha a che fare con l’amore, con l’esporsi pubblicamente, con il mettersi in gioco. Una riflessione intensa, condivisa e raccontata attraverso gli scatti fotografici del Web Team di Matera 2019 che documenta gli incontri di Antonella Iallorenzi con i detenuti. “Abbiamo seguito gli spunti di riflessione dei partecipanti - spiega Antonella Iallorenzi - e attraverso suggestioni personali abbiamo giocato con gli stereotipi legati alla parola vergogna, perché proprio da qui dal carcere possa nascere una nuova visione che rompa gli schemi e liberi il pensiero”. Il progetto - partito a metà settembre - si concluderà il 23 novembre con un esito finale aperto al pubblico, un’ulteriore tappa della ricerca sulle declinazioni della vergogna, tema del dossier di Matera Capitale Europea della Cultura 2019. È previsto in tal senso l’otto novembre nella Sala Levi di Palazzo Lanfranchi a Matera, alle ore 17, un panel internazionale per approfondire il tema “vergogna” e il ribaltamento del suo significato da Matera all’Europa attraverso le riflessioni del critico teatrale Mario Bianchi, dello scrittore Mario Desiati, l’intellettuale albanese Fatos Lubonja, il critico letteriario ed esperto di letteratura del sud est Europa, Giuliano Geri, Stephanie Schwandner Sievers, antropologa esperta di Europa sud-orientale, la poetessa giapponese Misumi Mizuki e Cristina Amenta, architetto impegnato nel progetto di Matera 2019 “Architecture of shame”. Ad intervenire sarà anche Antonella Iallorenzi. Modererà Rossella Vignola, dell’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa. Parma: laboratori teatrali in carcere, due repliche dello spettacolo “Tito Andronico” di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 2 novembre 2018 Comune, Istituto Penitenziario di Parma, Università e Progetti & Teatro in sinergia per raggiungere nuovi traguardi. L’8 e 9 novembre presso L’Istituto Penitenziario di Parma, andranno in scena le repliche dello spettacolo “Tito Andronico” che vede la partecipazione di otto detenuti/attori, che hanno svolto il laboratorio teatrale che vede il sostegno dagli assessorati al Welfare e alla Cultura del Comune di Parma e condotto da Carlo Ferrari e Franca Tragni di Progetti&Teatro. Nella mattinata di giovedì 18 ottobre la conferenza stampa di presentazione degli appuntamenti che vedranno andare in scena l’esito del laboratorio alla presenza di Laura Rossi assessora al Welfare, di Michele Guerra assessore alla Cultura, di Franca Tragni e Carlo Ferrari Progetti & Teatro, di Annunziata Lupo funzionaria giuridica pedagogica dell’Istituto Penitenziario di Parma, di Vincenza Pellegrino docente di Politiche Sociali Università di Parma e di Trivelloni Francesco Sindaco di Fontanellato. “Quest’anno aggiungiamo un tassello ulteriore alla progettualità che ci vede interagire con l’Istituto Penitenziario. Creare opportunità che possano far conoscere la realtà carceraria fuori dalle mura permettendo ai cittadini di avere una maggiore consapevolezza è un obiettivo molto importante. Quest’anno abbiamo la collaborazione del Teatro Comunale di Fontanellato che ha inserito lo spettacolo ‘Tito Andronico’ all’interno della stagione. L’8 e il 9 novembre il teatro del carcere aprirà le sue porte per ospitare il pubblico che assisterà allo spettacolo, esito del percorso laboratoriale condotto da Franca Tragni e Carlo Ferrari all’interno dell’Istituto. Il 10 novembre alla Casa della Musica ospiteremo un seminario proprio sul tema del Teatro in Carcere a cui parteciperà Vito Minoia, presidente del coordinamento nazionale Teatro in Carcere” ha introdotto l’assessora Rossi. “Le interconnessioni che si creano, la reciprocità che possiamo trarre da queste esperienze fanno bene alla città ed appartengono al progetto culturale dell’intera città. È con grande soddisfazione che partecipiamo come assessorato a questo progetto. È all’interno di contesti come il carcere che percepisci quanto la cultura può fare e il grande valore che ha” ha sottolineato Guerra. L’Università di Parma, in particolare alcuni studenti, viste le norme di sicurezza necessarie, di politiche Sociali del Dipartimento di Giurisprudenza, Studi Politici e Internazionali, guidati dalla docente Vincenza Pellegrino avranno tre giornate di approfondimento a partire dalla visione dello spettacolo e dall’incontro con gli attori. “È una sfida culturale ed è stata accettata dai miei studenti, solo l’apprendimento può colmare le distanze e conoscere la realtà del carcere, luogo in cui la cultura è una questione di sopravvivenza, è molto importante” ha commentato Vincenza Pellegrino. Franca e Carlo conoscono bene la realtà carceraria e mettono a disposizione dei detenuti la loro professionalità: “Ogni anno alziamo l’asticella, abbiamo una vera compagnia teatrale in carcere. Siamo felici di condividere questa esperienza perché genera riflessione”. “L’attività teatrale in carcere ha una altissima valenza pedagogica, i detenuti tramite l’arte della recitazione rielaborano vissuti. È importante che la comunità esterna possa entrare in contatto con noi e possa interagire, conoscere aiuta a eliminare pregiudizi” ha detto Annunziata Lupo. Le repliche, che avranno inizio alle ore 18, rientrano nell’articolata programmazione del Teatro Comunale di Fontanellato, e per la prima volta, vedranno due date a Parma nell’Istituto Penitenziario con lo spettacolo allestito nel teatro del carcere e vedrà detenuti/attori. Un progetto che cresce e che per la prima volta trova spazio e visibilità all’interno di una rassegna teatrale. Un momento di condivisione culturale, umano e sociale che vuole sempre di più avvicinare la realtà carceraria alla città creando quel rapporto di vicinanza e di attenzione ad un luogo che per la sua vocazione di ri-educazione e re-inserimento, non può sentirsi staccato e dimenticato dalla società che vive fuori del contesto penitenziario. Il laboratorio teatrale, inserendosi all’interno di una vera rassegna, crea una rete di sensibilità esterna, di curiosità, di approccio al luogo/carcere e amplifica il desiderio di essere spettatori di un evento speciale che riesce ad emozionare i protagonisti che in scena “liberi” agiscono e rendono il teatro ancora più magico. Le prenotazioni per procedure interne dovranno pervenire presso l’Istituto Penitenziario entro il 23 ottobre. Quei giornalisti uccisi tra bombe e bugie: oggi la giornata Unesco #TruthNeverDies di Michele Farina Corriere della Sera, 2 novembre 2018 In 12 anni oltre mille scomparsi: “Ma la verità non muore mai”. Premi e pallottole: “Un giornalista vince il Pulitzer, cento vengono colpiti”. Lo slogan dell’Unesco rende l’idea. Non è una fake news: negli ultimi 12 anni oltre mille reporter sono stati uccisi nel mondo. Su dieci omicidi, nove rimangono impuniti. Senza contare i feriti, i minacciati, quelli che vengono arrestati e condannati per il loro lavoro. Nel 2013 l’Onu ha fatto del 2 novembre la “Giornata Internazionale per porre fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti”. La campagna social ha un titolo più secco: #TruthNeverDies. La verità non muore mai. Ma le persone sì. “La verità in guerra è la prima vittima” scriveva Eschilo 2.500 anni fa. Si sbagliava: anche nei conflitti di oggi le prime vittime sono i civili. Compresi quei civili che cercano e difendono la verità. Non sono fake news: al Newseum, il museo del giornalismo di Washington, c’è una parete di cristallo alta due piani dove brillano i nomi di migliaia di operatori dell’informazione a cui è stata sottratta la vita (c’è anche la nostra Maria Grazia Cutuli, uccisa in Afghanistan nel 2001). Secondo il “Committee to protect journalists” nel 2018 sono stati ammazzati finora 45 colleghi contro i 71 del 2017. Il bilancio di “Reporters without borders” segnalava per l’anno scorso 326 detenuti, 54 in ostaggio, 65 uccisi e due scomparsi. “Quando un giornalista viene assassinato - dice uno slogan Unesco - possiamo fermarci per un minuto di silenzio oppure fare molto rumore”. Facciamo entrambi? Alicia, trovata dal figlio sul pavimento - L’ha trovata il figlio ventenne, riversa sul pavimento. Picchiata a morte: Alicia Diaz Gonzalez aveva 52 anni. Scriveva di economia. È stata uccisa il 24 maggio a Monterrey, nord del Messico. Da gennaio collaborava con i quotidiani El Financiero e Riforma. C’è anche il suo nome tra gli 11 undici giornalisti uccisi dall’inizio del 2018, la 44esima vittima nei sei anni della presidenza di Enrique Peña Nieto, il periodo più insanguinato per gli operatori dell’informazione. Da una parte la criminalità organizzata, i cartelli della droga. Dall’altra i pezzi corrotti dello Stato. “Artículo 19”, la maggiore organizzazione per la difesa dei giornalisti messicani, ha contato dal 2012 al 2018 duemila aggressioni, il 48% per mano diretta di funzionari pubblici. A farne le spese uomini e donne, giovani e veterani. I giornalisti vengono uccisi per strada, a casa. Quest’anno uno è stato ammazzato mentre andava alla recita del figlio a scuola. La videocamera esplosiva: 10 colpiti in un giorno - Lunedì mattina di sole, tiepido aprile a Kabul: una moto esplosiva viene fatta saltare in aria vicino al quartier generale Nato. Solito rito: la gente si allontana, arrivano i giornalisti. Almeno una ventina: fotografi, cameramen, uomini e donne con il taccuino e la targhetta press. Tra loro, un giovane con una videocamera che non è fatta per riprendere. È imbottita di esplosivo: venti minuti dopo il primo boato, la video-bomba scoppia tra i reporter. Muoiono in nove. I corpi avvolti in lenzuoli bianchi portati alla sepoltura. Poche ore prima, un collega era stato ucciso a Khost. Dieci vittime in un giorno, in un Paese che pure è tra i primi sei più pericolosi per chi fa giornalismo (con Iraq, Siria, Filippine, Somalia e Messico). Pericolo e orgoglio: in Afghanistan lavorano nell’informazione 1.761 donne secondo il Centre for the Protection of Afghan Women Journalists, tra cui 764 reporter professioniste. Il caso Khashoggi e il senso di impunità - Jamal Khashoggi, naturalmente: il caso più eclatante, il mistero di un ovvio omicidio. Un uomo entra nel consolato saudita di Istanbul e non esce più. Chi volete che l’abbia ucciso? I silenzi iniziali, le mezze ammissioni, le versioni ridicole e spudorate di Riad, la Turchia di Erdogan che si erge paladina del Diritto quando è il Paese che vanta il maggior numero di reporter in prigione. Che cosa avrebbe scritto, della sua stessa fine, il giornalista dissidente che nell’ultimo articolo scritto per il Washington Post citava la libertà di espressione come il bene mancante più importante del Medio Oriente? Forse non lo avrebbero sorpreso il nauseante senso di impunità che proviene dai potenti sauditi, o il teatrino internazionale (molto americano) di leader che devono recitare la parte degli indignati pur senza nascondere che hanno ben altro a cui pensare. Un giornalista morto, un inciampo diplomatico. L’ultimo viaggio del conduttore di Kalsan Tv - Mohammed Ibrahim Gabow si era preso qualche ora di libertà: con un collega e i suoi due bambini l’anchorman di Kalsan Tv stava guidando lungo una strada di Mogadiscio quando una bomba piazzata sotto il suo sedile è esplosa uccidendolo. Illesi il collega e i figli che gli stavano accanto. Un omicidio ad personam è cosa rara in Somalia così come in altri Paesi in guerra, dove i mandanti non si fanno problemi a mettere in conto i danni collaterali. Kalsan Tv è una piccola tv satellitare britannica. Gabow lavorava negli studi somali. Faceva tutto. La sua morte è rimasta, da copione, impunita. Per 9 giornalisti uccisi su 10 - denuncia l’Onu - giustizia non viene fatta. La Somalia conta almeno 68 reporter ammazzati dal 1991 a oggi: è interessante notare che la lista comprende 29 reporter di guerra e ben 39 giornalisti che seguivano la politica. Come se la seconda fosse una continuazione della prima. Migranti. L’intesa europea è per blindare le frontiere di Stefano Stefanini La Stampa, 2 novembre 2018 Chi temeva l’isolamento dell’Italia in Europa non deve più preoccuparsi. L’Italia giallo-verde ha certamente un contenzioso sul bilancio aperto con Bruxelles, ma trova terreni d’intesa altrove. Sulla pelle dei migranti che sono ormai diventati il collante di una nuova “Santa Alleanza”. La capitale quasi per vocazione storica è Vienna. L’Austria ha appena annunciato che “in difesa della sovranità nazionale” non firmerà l’accordo Onu sulle migrazioni, originariamente approvato da tutti i 193 Paesi dell’organizzazione nel 2016 (la firma è prevista in dicembre in Marocco). La storia non è acqua. Vienna ha già respinto un assedio degli infedeli (nel 1529). C’era una volta un Impero austro-ungarico. Chiuse i battenti un secolo fa, con la fine della Grande Guerra di cui in questi giorni celebriamo l’anniversario. Qualcosa è rimasto nel Dna regionale. I vicini (Ungheria, Slovenia, Croazia) non contenti di erigere muri ricacciano i migranti nella confinante Bosnia, verso attendamenti di fortuna, edifici abbandonati e condizioni miserrime che l’inverno renderà peggiori. Nessuna parvenza di distinzione fra migranti economici e rifugiati aventi diritto all’asilo: tutti fuori, che vengano dall’Africa, dall’Iran o dall’Afghanistan. Tenuti, di forza, al di là del confine non c’è rischio che possano invocare la regola di Dublino e che aprano una feritoia nella fortezza Bastiani del Nord-Est europeo. Il gruppo dei Paesi Ue dell’area danubiana ha deciso che i migranti non passeranno, e che quelli già passati possono essere ricacciati fuori con qualche calcio nel sedere per buona memoria. Senza troppa pubblicità naturalmente, per non urtare coscienze troppo tenere. Occhio non vede... Come documentato su queste colonne, l’Italia si sta associando alacremente a questa coalizione benpensante, con Paesi che si sono sempre rifiutati di condividere responsabilità per l’immigrazione scaricandola sui Paesi di arrivo, come l’Italia. Sono però disposti a prenderne qualcuno di passaggio, direzione fuori Ue, di cui vogliamo sbarazzarci senza tanti complimenti. L’obiettiva divergenza d’interessi è brillantemente superata. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Il nodo dei migranti secondari non è risolto. Abbiamo minacciato di chiudere gli aeroporti per non accoglierli dalla Germania. Ci siamo giustamente lamentati della Francia che ce rispedisce indietro clandestinamente. Noi però stiamo facendo di peggio anche se i numeri sono limitati, anche se i malcapitati nottetempo consegnati alla polizia slovena sono sicuramente del tutto illegali. Stiamo facendo di peggio non solo perché ci allontaniamo dal solco dello stato di diritto europeo-mediterraneo per cercare nuove amicizie sovraniste. In politica estera nulla è immutabile, i nostri interessi nazionali possono spingerci in nuove direzioni. Stiamo facendo di molto peggio perché adottando questi mezzi approssimativi e al limite della brutalità l’Italia tradisce se stessa. Il nostro vanto è sempre stato una vocazione umanitaria, che in qualche modo preservammo anche durante pagine buie della nostra storia come quelle della legislazione razziale antiebraica dal 1938 al 1945. Gli esempi, grandi, piccoli, si possono moltiplicare, dal soccorso prestato da navi italiane ai cristiani di Smirne nel 1922, senza guardare i passaporti, al modo in cui sono condotte le nostre missioni militari in giro per il mondo, anche in terreni pericolosi come l’Afghanistan. Questa umanità, talvolta in controcorrente con la nostra politica, è sempre stata una nostra forza. Ce la riconoscono anche molti critici di altri aspetti della condotta internazionale dell’Italia. Se il governo la perde, guadagnerà forse dei voti ma ha veramente perso la bussola. Migranti. Bandi Servizio civile, il Viminale taglia 2.800 posti destinati ai rifugiati di Luca Liverani Avvenire, 2 novembre 2018 Il ministero dell’Interno ha ritirato i fondi europei “Fami” avanzati dall’anno scorso, destinati a profughi che avevano concluso l’accoglienza nel sistema Sprar. Dopo i primi 192 posti, lo stop. Niente più posti nei bandi di servizio civile per rifugiati. Il ministero dell’Interno ha azzerato il progetto “Integr-azione”, varato lo scorso anno dal precedente governo grazie ai fondi europei del programma Fami (Fondo asilo, migrazione e integrazione). Grazie a circa 20 milioni di euro era stato possibile prevedere altri 3.000 posti da riservare a giovani che fossero titolari dello status di rifugiato o di protezione umanitaria o sussidiaria. Dodici mesi di servizio civile da svolgere nei progetti degli enti del privato sociale o degli enti locali, fianco a fianco con i coetanei italiani: un modo per sostenere il cammino di integrazione dei rifugiati che avevano concluso il periodo di accoglienza nel circuito Sprar. Lo scorso anno erano stati presentati i primi progetti, che prevedevano l’integrazione di 192 rifugiati, di cui 120 in progetti nazionali e 72 in progetti regionali. Nell’ultima riunione del 2 ottobre della Consulta degli enti di servizio civile, presente il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Vincenzo Spadafora che ha la delega in materia, gli enti hanno chiesto se - come di consueto - anche i fondi Fami, riservati all’integrazione, non spesi nell’anno precedente sarebbero stati reimpiegati. Soldi che sarebbero serviti ad avviare in servizio altri 2.808 rifugiati assieme ai 53 mila posti per volontari. E a questo punto per gli enti è arrivata la sgradita novità: quei fondi, nella disponibilità del Viminale, erano stati ritirati. “Per noi è stata una sorpresa - racconta Licio Palazzini, presidente di Arci Servizio civile e membro della Consulta - perché finora i residui venivano sempre inseriti nel bilancio dell’anno successivo. Un peccato, perché il servizio civile era stato giustamente individuato come strumento adatto per un lavoro educativo e di integrazione dei giovani rifugiati”. Luigi Bobba, all’epoca sottosegretario al Lavoro con delega al servizio civile, conferma il taglio: “Era una scelta che avevo sostenuto fortemente - commenta Bobba - nella mia qualità di Sottosegretario. Sarebbe stata una ottima occasione per integrare giovani arrivati in Italia come richiedenti asilo e desiderosi di vivere nel nostro Paese facendo qualcosa di utile per le nostre comunità. Ma al governo giallo-verde interessa solo mantenere alta tensione comunicativa sull’immigrazione, non cercare di risolvere i problemi. Ancora un’occasione sprecata per tentare di governare il fenomeno dell’immigrazione attraverso risposte positive e nel rispetto delle persone”. Il servizio civile, com’è noto, dal 2015 ha aperto i bandi anche alla partecipazione di stranieri e richiedenti asilo. La novità del progetto “Integr-azione” stava proprio nell’essere progettato per favorire la presenza - nei progetti di servizio civile - di rifugiati in uscita dagli Sprar. Un sistema di accoglienza che il ministero dell’Interno ha intenzione di ridimensionare fortemente. Il taglio dei fondi Fami sembra dunque una conseguenza coerente con questa scelta politica. Migranti. Riparte Operazione Mediterranea di Nello Scavo Avvenire, 2 novembre 2018 Salpa di nuovo “Mare Jonio”, la nave italiana che svolgerà attività di osservazione e testimonianza che nel Canale di Sicilia a ridosso delle acque libiche. A bordo anche un giornalista di “Avvenire” Il rimorchiatore italiano alla partenza da Palermo. È di nuovo in mare il rimorchiatore “Mare Jonio”, la nave dell’Operazione Mediterranea che dopo una sosta tecnica a Palermo ha ripreso il largo per proseguire nel Canale di Sicilia le attività di osservazione e testimonianza a ridosso delle acque libiche. Nelle ultime settimane si sono ripetuti diversi “sbarchi fantasma” in particolare a Lampedusa, nell’Agrigentino e in Sardegna di barconi partiti dalla coste nordafricane. Mare Jonio dopo le 13 di ieri mattina è salpata dal porto di Palermo per la seconda missione. La nave italiana è in questi giorni l’unica in navigazione nel Mediterraneo centrale. A bordo si trovano anche alcuni giornalisti, tra cui Avvenire, Repubblica e Associated Press. Nella prima missione, iniziata lo scorso 4 ottobre e durata due settimane, Mare Jonio ha raccolto segnalazioni e Sos di gommoni in difficoltà e il 12 ottobre è intervenuta nel sollecitare il salvataggio tempestivo di settanta persone in pericolo al largo di Lampedusa. Soccorso poi avvenuto grazie all’intervento della Guardia Costiera di Lampedusa. La presenza di Mediterranea ha permesso di riaccendere un faro su quanto realmente accade nelle acque a sud della Sicilia per sollecitare i governi dell’Unione Europea a non voltarsi dall’altra parte “di fronte a drammi che li richiamano al comune senso di responsabilità e di umanità’”, dicono i promotori di Mediterranea. In questi giorni migliaia di persone hanno partecipato alle iniziative de “La Via di Terra” per sostenere la missione. Oltre duemila donatori hanno consegnato 260mila euro per affrontare le spese della missione. All’operazione parteciperà anche il comandante Riccardo Gatti di Proactiva Open Arms insieme a un team di soccorso in mare della Ong tedesca Sea-Watch, che stanno cooperando all’iniziativa. L’Austria esce dal patto Onu per le migrazioni: “Limita la sovranità del nostro Paese” di Letizia Tortello La Stampa, 2 novembre 2018 L’accordo internazionale che punta a difendere i diritti dei rifugiati entrerà in vigore a dicembre. Prima di Vienna, anche Usa e Ungheria si sono sfilati. Il governo Kurz: “Migrare non è un diritto fondamentale”. L’accordo internazionale che punta a difendere i diritti dei rifugiati entrerà in vigore a dicembre. Prima di Vienna, anche Usa e Ungheria si sono sfilati. Il governo Kurz: “Migrare non è un diritto fondamentale” L’Austria annuncia il suo ritiro dal patto delle Nazioni Unite sulle migrazioni, e segue così l’esempio di Stati Uniti e Ungheria, che prima di lei sono uscite dall’accordo internazionale, in controcorrente con gli oltre 190 Paesi che l’hanno firmato. Lo ha comunicato il cancelliere Sebastian Kurz, motivando la scelta sovranista come una reazione necessaria per respingere un vincolo Onu che “limita la sovranità del nostro Paese”. Non ci sarà, dunque, nessun rappresentante di Vienna alla conferenza dell’Onu a Marrakech, in Marocco, il 10 e 11 dicembre. Mentre all’Assemblea generale delle Nazioni Unite dell’anno prossimo l’Austria si asterrà. Il patto per le migrazioni era stato firmato da 193 Paesi a settembre 2017 ed entrerà in vigore a dicembre con la firma prevista al summit di Marrakech. Prevede la protezione dei diritti dei rifugiati e dei migranti, indipendentemente dallo status, e combatte il traffico di esseri umani e la xenofobia. E ancora, impegna i firmatari a lavorare per porre fine alla pratica della detenzione di bambini allo scopo di determinare il loro status migratorio; limita al massimo le detenzioni dei migranti per stabilire le loro condizioni, migliora l’erogazione dell’assistenza umanitaria e di sviluppo ai Paesi più colpiti. Facilita anche il cambiamento di status dei migranti irregolari in regolari, il ricongiungimento familiare, punta a migliorare l’inclusione nel mercato del lavoro, l’accesso al sistema sanitario e all’istruzione superiore e ad una serie di agevolazioni nei Paesi di approdo, oltre che ad accogliere i migranti climatici. Un documento di 34 pagine, per politiche in favore di chi lascia il proprio Paese che promuovano una migrazione sicura. L’Austria in un comunicato respinge tutti i criteri stabiliti da quella che è stata ribattezzata la “Dichiarazione di New York”. Kurz, che da giovanissimo ministro degli Esteri fece il suo esordio mondiale proprio all’Assemblea generale dell’Onu, decide così di strappare e imporre il suo giro di vite sui migranti, spinto dal suo alleato al governo, l’ultradestra dell’Fpö di Heinz-Christian Strache, il quale a margine dell’annuncio del ritiro ha aggiunto: “La migrazione non è e non può essere un diritto fondamentale dell’uomo”. Il governo di Vienna, in particolare, spiega che “il patto limita la sovranità nazionale, perché non distingue tra migrazione economica e ricerca di protezione umanitaria”, tra migrazione illegale e legale. “Non può essere - continua il governo Kurz - che qualcuno riceva lo status di rifugiato per motivi di povertà o climatici”. Il patto, in realtà, non è vincolante ai sensi del diritto internazionale, una volta firmato. Si delinea come una dichiarazione di intenti, per mettere ordine nelle politiche sulle migrazioni a livello mondiale, all’insegna della solidarietà. Per questo, la mossa di Vienna assume un valore simbolico, sull’onda delle dichiarazioni di Kurz e i suoi che vorrebbero chiudere le porte dell’Europa all’immigrazione e controllare i confini. Trascina dietro di sé la lodi di altri partiti populisti europei, uno tra tutti l’AfD tedesca, con la leader Alice Weidel che non ha tardato a twittare: “Anche la Germania non aderisca, il Global Compact apre la strada a milioni di migranti africani e legalizza l’immigrazione irregolare”. Stati Uniti. L’orrore senza fine: in Tennessee è tornata la sedia elettrica Avvenire, 2 novembre 2018 Dal 2013 negli Usa non veniva utilizzata. Edmund Zagorski, 63 anni, era stato condannato a morte per aver ucciso nel 1983 due uomini. Ha voluto la sedia elettrica anziché l’iniezione letale Un uomo condannato a morte per un duplice omicidio è stato ucciso sulla sedia elettrica in Tennessee, dopo aver insistito perché fosse utilizzato questo metodo anziché l’iniezione letale. Dal 2013 negli Usa non veniva utilizzata la sedia elettrica. Edmund Zagorski, 63 anni, era stato condannato a morte per aver ucciso nel 1983 due uomini che aveva portato in un’area boschiva con la promessa di vender loro marijuana. Era da 34 anni nel braccio della morte. Ha chiesto di essere ucciso con la sedia elettrica, avevano spiegato i suoi avvocati, perché in caso di iniezione legale “gli ultimi minuti, fra 10 e 18, della sua vita saranno un orrore assoluto”, con “un dolore insostenibile, probabilmente per 15-30 secondi”. Il cocktail per l’iniezione letale comprende tre farmaci, tra cui il controverso sedativo midazolam, oggetto di molti ricorsi in cui si afferma che non eviti adeguatamente di soffrire ai detenuti. Prima, la sedia elettrica era stata usata a livello nazionale per 14 esecuzioni sulle circa 900 dal 2000. I corpi delle vittime furono trovati due settimane dopo, colpiti da spari e con le gole tagliate. Nove Stati americani contemplano la sedia elettrica come metodo per uccidere i detenuti condannati alla pena capitale; questo metodo non era usato dal 2007 in Tennessee, dove chi è nel braccio della morte può chiedere un’alternativa all’iniziezione letale. Stati Uniti. Trump, i miti del complotto e la carovana dei migranti di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 2 novembre 2018 Sono migliaia e non si sa quando arriveranno alle porte degli Stati Uniti. Ma il presidente già soffia sul fuoco in vista delle elezioni di midterm. Quando arriveranno alla frontiera con gli Stati Uniti? Forse una minuscola avanguardia giungerà tra un mese. Ma per i più la smisurata distanza del territorio messicano è un ostacolo insuperabile. Non si sa quanti siano davvero: tremila, quattromila, seimila. Nessuno può contarli. Ormai si sono sparsi e frammentati. Certo è che il 12 ottobre molti honduregni, rispondendo a un messaggio rilanciato sui social network, si sono messi in marcia verso l’America. Hanno formato una carovana partita da San Pedro Lula. Insieme si è meno vulnerabili. Si sono aggiunti per via guatemaltechi e salvadoregni, trascinati dalla convinzione di quei migranti, ma come loro spinti dalla miseria, dalla violenza, dalla fame, dall’assenza di un futuro. La loro scelta è esistenziale: cercano una nuova vita. Ma la carovana dei migranti è anche una mobilitazione politica. Sta qui la novità. La loro fuga è una protesta aperta. È un manifesto. Perciò in poco tempo è assurta a simbolo. Inutile voler parlare qui di “clandestini”, quello stigma che colpisce chi muovendosi tra le frontiere si sottrarrebbe alla luce del giorno dissimulandosi. Nella carovana nessuno vuole nascondersi. I migranti della carovana si fermano a parlare con giornalisti e reporter, si affacciano agli obiettivi dei fotografi. Ciascuno racconta la sua storia, ripercorre le tappe di quel drammatico viaggio. All’unisono gridano che nei loro paesi dimenticati i poveri non riescono a sopravvivere. Trump non ha esitato a criminalizzarli: nella carovana ci sarebbero avanzi di galera, terroristi potenziali, nemici occulti. Ed è pronto a spedire oltre 15.000 militari. Ma la carovana appare piuttosto un convoglio di umiliati, espulsi, sconfitti. Donne anziane con i loro nipoti, adolescenti fuggiti di casa, moltissimi bambini. Di qui l’allarme di Save the children: già stremati per il viaggio estenuante, i minori vanno “trattati con umanità”. Chiedere asilo non è un crimine. Eppure il governo americano, che già detiene illegalmente più di 13.000 minori non accompagnati, ha annunciato ulteriori misure punitive, mentre Trump vorrebbe addirittura abolire il 14° emendamento della Costituzione che garantisce la cittadinanza a chi nasca sul suolo americano. Ne verrebbero colpiti i figli di coloro che vivono e lavorano già da tempo negli Stati Uniti. È possibile cancellare con un colpo di spugna un diritto costituzionale? Certo che no. Ma le elezioni di midterm sono alle porte e Trump continua a soffiare sul fuoco, annunciando boriosi proclami, fomentando l’odio, sfruttando la paura, gridando al complotto. Sono queste - tra miopia e malafede - le sue armi. In America, dove l’antisemitismo era relegato al ricordo, non era mai avvenuto un attacco a una sinagoga. Ed ecco che ora gli ebrei - così vuole uno dei tanti miti complottistici - sono ritenuti responsabili di quella “sostituzione etnica” della “razza bianca” che sarebbe ormai in atto. Persuaso di ciò, il terrorista di estrema destra ha fatto strage a Pittsburgh. È difficile contrastare i pericolosi miti del complotto che offrono a chi non ha voglia di leggere, studiare, pensare, una facile scorciatoia interpretativa. I complottisti nostrani sono già alla ricerca del burattinaio che avrebbe messo in moto la carovana. Come se i migranti fossero pacchi e non persone in grado di decidere. Non si tratta di essere pro o contro, bensì di guardare al fenomeno nella sua complessità. I migranti nel mondo sono ormai più di 250 milioni, un vero continente. Stupisce che il numero non sia più elevato, se un quarto dell’umanità dispone di ricchezze e risorse precluse agli altri tre quarti, se si è andata accentuando l’enorme disparità tra la sfera del mondo occidentale e i perdenti della globalizzazione, mentre è cresciuta, grazie ai nuovi media, la consapevolezza che una vita migliore sia possibile. Non è difficile ipotizzare che le cifre aumenteranno. Come la carovana, il continente dei migranti è un variegato popolo in movimento che sfida le frontiere dell’ordine mondiale. Contro questo popolo si erge lo Stato-nazione, ultimo baluardo del vecchio assetto. Lo scontro attuale è tra la sovranità statuale e il diritto di migrare. La geopolitica dei muri segna però anche quello scontro tra Nord e Sud, antico per via di uno squilibrio profondo, che sembra incolmabile, ma esasperato oggi da un’ostilità prima sottotraccia. Nessuna compassione, né indulgenza, né solidarietà. La nuova frontiera è quella di un Nord deciso a contenere la spinta dell’immigrazione, anche a costo di murare la democrazia e di cancellare i diritti umani. Brasile. L’ombra del colpo di Stato senza militari di Juan Luis Cebrian* La Stampa, 2 novembre 2018 Per un golpe non si utilizza più la violenza, ma false notizie per screditare l’avversario. Quando Curzio Malaparte scrisse “Tecnica del colpo di stato” non immaginava che, col passare del tempo, i processi di sostituzione del potere costituito con metodi illegali sarebbero migliorati in modo consistente grazie ai progressi della tecnologia e ai nuovi equilibri della società. Corrono voci insistenti secondo le quali Jair Bolsonaro, vincitore indiscusso del secondo turno delle elezioni brasiliane, sarà presidente del Paese grazie a un piano premeditato contro il potere legittimo del Pt (il partito dei lavoratori guidato da Lula), quando forze più o meno occulte andarono all’attacco della presidenza di Dilma Rousseff. Da lì ebbe inizio, in modo apparentemente rispettoso degli usi democratici, anche se non altrettanto delle regole del gioco, l’offensiva neofascista che sarebbe culminata nella vittoria elettorale di domenica. Anche in Spagna i separatisti catalani sono stati accusati dai partiti fedeli alla Costituzione di aver tentato un colpo di stato quando hanno approvato unilateralmente l’indipendenza. Molti autori affermano che i colpi di stato classici, con gli appelli all’esercito e all’uso della forza, non si usano più. Si parla, ad esempio, di golpe finanziario, se si manipolano le quotazioni di Borsa e il tasso di cambio per indebolire o far cadere i governi, e di autogolpe quando il potere costituito si mette scientemente in pericolo per cercare di perpetuarsi, come nel Perù di Fujimori. Il fantasma di Bannon L’uso dei social network per influenzare le elezioni diffondendo notizie false e voci diffamatorie su questo o quel candidato è un altro modo per distorcere la realtà e screditare l’avversario e per cercare di sconfiggerlo alle urne. I movimenti populisti, da Trump a Salvini, mettono costantemente in atto questo metodo con risultati non disprezzabili. Gli oppositori di Bolsonaro accusano Steve Bannon, senza portare alcuna prova, di aver contribuito a sobillare i social network contro i partiti di sinistra. Sia vero o no, gli obiettivi e l’ideologia dell’ ex capo della campagna elettorale di Trump sostanzialmente coincidono con il pensiero del nuovo presidente del Brasile, e sono contigui agli impulsi antidemocratici dei governanti della Polonia o dell’Ungheria, e anche a quelli dei sostenitori del caotico governo italiano. Però anche la vittoria nel Paese del samba di questo ex capitano espulso dall’esercito, xenofobo, razzista e anti-femminista, una specie di maschio alfa prestato alla politica, si deve all’ indignazione popolare per le conseguenze della crisi finanziaria ed economica e all’aumento delle disuguaglianze. La demagogia populista sa come alimentare queste passioni per poi placarle con promesse che non potranno mai essere mantenute. Il pretesto della corruzione La corruzione, diffusa non solo in America Latina, per quanto enorme, non cessa di essere un pretesto per suscitare ulteriore malcontento. In Brasile, come nella maggior parte dei Paesi democratici, trova le sue motivazioni nel finanziamento delle campagne elettorali. L’uso di Petrobras, colosso petrolifero di proprietà pubblica, per ottenere fondi per tali fini, è cominciata certamente molto prima del governo di Fernando Henrique Cardoso, iniziale artefice del cosiddetto miracolo brasiliano, il cui impatto economico è stato proseguito dai governi di Lula da Silva. Dopo la giornata di domenica, il Paese è stato diviso in due parti, e anche questa estrema polarizzazione è un segno dei tempi. C’è chi sostiene che se si fosse espresso oltre il 20% di chi si è astenuto o ha annullato il voto, il risultato sarebbe stato diverso, ma è un argomento discutibile. La verità è che Bolsonaro ha unito tutte le forze conservatrici e che, incredibilmente, anche i liberali hanno aderito alle sue proposte di estrema destra, che minacciano di distruggere il tessuto politico brasiliano. A lui si è contrapposto un candidato indebolito anche dal calendario, perché è stato scelto poco prima delle elezioni, dopo che i tribunali avevano vietato la candidatura di Lula, debole nel suo tentativo di proseguire sulla strada delle politiche socialdemocratiche caldeggiate dai moderati del Pt. I suoi leader hanno dimenticato che l’insicurezza dei cittadini e la crescente violenza delle mafie sono tra i motivi del consenso elettorale di chi promette legge e ordine, anche a costo di mettere a ferro e fuoco il Paese. Le troppe brutalità Anche se nelle sue prime dichiarazioni dopo la vittoria Bolsonaro ha cercato di moderare la brutalità del suo linguaggio, nessuno dimentica che durante la campagna elettorale aveva detto che i rossi potevano solo scegliere la prigione o l’esilio e persino che bisognava fucilare gli esponenti del Pt. Il partito e l’ex presidente Lula sono stati demonizzati all’estremo durante la campagna elettorale, ma hanno ancora la rappresentanza più forte in un Parlamento, frammentato in dozzine di gruppi diversi. Nel breve termine si prevede che l’economia del Paese rimanga stabile, ma i rischi di destabilizzazione politica e la tentazione dell’ala più a sinistra del Pt di portare l’opposizione in piazza disegnano un orizzonte incerto. Le istituzioni democratiche saranno messe seriamente alla prova. Con un esecutivo che fa la voce grossa e una legislatura di maggioranze quasi impossibili, molti democratici guardano ai tribunali come l’unica barriera contro la deriva autoritaria. E anche se un settore considerevole dei giudici si è politicizzato (è sufficiente vedere il destino del presidente Lula) la speranza in una giustizia indipendente appare l’ultimo baluardo per proteggere le minoranze dallo tsunami che si è scatenato domenica scorsa. *Traduzione di Carla Reschia Cina. Sorvegliare e punire, il laboratorio sociale in Xinjiang di Simone Pieranni Il Manifesto, 2 novembre 2018 Nella regione a maggioranza uigura un milione di persone sarebbero detenute all’interno dei “campi di rieducazione”. Il Pcc ha lanciato il piano “United as One Family”: i cinesi “han” diventano “poliziotti-cittadini” installandosi nelle case degli uiguri. Nella regione nordoccidentale cinese dello Xinjiang vive la minoranza uigura, un’etnia turcofona e musulmana. Attualmente gli uiguri nella regione sono circa 11 milioni. Da alcuni anni Pechino ha trasformato quel territorio, antico passaggio carovaniero della Via della seta, in un immenso laboratorio sociale che - secondo alcuni studiosi - sconfina ormai nell’esperimento totalitario puro e semplice. La posizione dello Xinjiang ne determina la storia: come sosteneva Fernand Braudel, “non esiste un problema sociale che non sia da inserire nel suo quadro geografico”. Analogamente lo Xinjiang, “in un’ottica non sino-centrica, ha un suo carattere dominante”, dettato dal ruolo di “condotto” che ha sempre svolto: “luogo di transito, intermediario ideale ed inaggirabile tra culture e popoli diversi”, come scrive Alessandro Rippa in Cuore dell’Eurasia, il Xinjiang dalla preistoria al 1949 (Mimesis, 2015). La regione, non a caso, è la maggiormente sorvegliata del paese; in ogni zona delle città sorgono posti di polizia: telecamere ovunque, territorio militarizzato e talvolta chiuso all’esterno. Oltre a una serie di disposizioni ufficiali nei confronti dell’etnia uigura, esiste poi un’operazione di natura “educativa”, secondo quanto comunicato dal partito comunista: almeno un milione di cinesi di etnia han, quella maggioritaria, sono stati mandati in Xinjiang all’interno di un programma chiamato United as One Family. Il loro compito è trasformarsi in “parente” di una famiglia dello Xinjiang, installarsi in casa e diventare un cittadino-poliziotto, il loro compito risulta fondamentale non solo per monitorare, ma anche per condannare. Un milione di impiegati statali, dalle grandi aziende di stato alle agenzie di stampa statali, stanno controllando ed educando a una cultura patriottica, in mandarino e con il sentimento devoto a Xi Jinping, un’intera popolazione, stabilendone infine un giudizio. Gli uiguri ritenuti in odore di terrorismo, vengono spediti nei campi di rieducazione. La prima campagna fu lanciata nel 2014, quando oltre 200mila membri del partito comunista sono stati mandati nei villaggi dello Xinjiang all’interno del piano Visiting the People, Benefit the People, and Bring Together the Hearts of the People. Nel 2016 ci fu una seconda ondata, di almeno 110mila impiegati statali. Nel 2017 una terza ondata, per un totale di circa un milione di persone. Con la tecnologia, la polizia e l’esercito, Pechino pratica un controllo capillare sulla regione; con le persone, esercita un controllo invasivo, estenuante, interminabile. E infine condanna i colpevoli ai campi di rieducazione. Per Darren Byler che ha intervistato alcuni di questi cinesi che decidono di fare la parte del boia “educato”, si tratterebbe di una vera e propria operazione di natura totalitaria: “La tirannia che si sta realizzando nella Cina nordoccidentale - scrive il ricercatore dell’università di Washington ed esperto di Xinjiang sul sito Chinafile - mette insieme gruppi di cittadini cinesi l’uno contro l’altro in un processo totalitario che cerca di dominare ogni aspetto della vita, (…) producendo un’epidemia di isolamento e solitudine, mentre famiglie, amici e comunità vengono separati. Quando vengono introdotti nuovi livelli di non-libertà, il progetto produce nuovi standard di ciò che conta come normale e banale”. Le persone con cui il ricercatore ha parlato, inoltre, non sembrano porsi problemi riguardo la propria funzione, giustificando il proprio operato con parole che richiamano epoche sinistre: “Obbedisco a ordini e faccio il mio lavoro”. Il loro lavoro è il seguente: osservare le famiglie uigure e assicurarsi che parlino mandarino, che abbiano il poster di Xi in casa e che non dicano o facciano cose sospette, specie con riferimento alla religione. Questa pesante operazione di controllo e repressione nasce perché Pechino ritiene che nello Xinjiang ci sia il rischio di “terrorismo”, giustificato di recente, secondo il Pcc, dal numero degli uiguri segnalati in Siria (numeri sui quali esistono molti dubbi: secondo alcune ricerche si tratterebbe in realtà di poche centinaia di persone). Lo Xinjiang è una regione fondamentale per la Cina: è la più estesa, confina con otto stati, è una frontiera vitale per Pechino. E lo sarà ancora di più negli anni a venire, in quanto snodo fondamentale della via della Seta. Pechino vuole non solo pacificare la regione ma anche riempirla di “spirito” imprenditoriale han. Come ricorda il guru e investitore nel mondo tech cinese Kai Fu Lee, gli imprenditori cinesi hanno sviluppato una sorta di “mentalità” - maturata nelle particolari condizioni del mercato cinese - che ormai il governo vede come necessaria al proprio sviluppo. Conta anche quanto c’è nella regione: Alessandro Rippa ricorda infatti che “nella zona del Taklamakan si trovano giacimenti di petrolio, gas naturale, carbone, ferro e minerali che sostengono di fatto lo sviluppo cinese”. Fu nella zona desertica del Lop Nor in questa regione, inoltre, che Pechino portò avanti i propri test nucleari e batteriologici fino al 1996. Lo spopolamento della regione della sua componente etnica uigura, rappresenta dunque un ventaglio di differenti esigenze da parte della dirigenza del partito comunista. Già nel 2008 a Urumqi si poteva intravedere quanto sarebbe successo. Nelle zone della città popolate dagli uiguri (una minoranza nel capoluogo) imperversavano mercati, moschee, contrastate dalle parti “cinesi” della città fatte di ipermercati, palazzoni, compound squadrati. Al “Parco del popolo”, parlando con alcuni uiguri, si poteva registrare la vicinanza a forme di repressione di qualsiasi famiglia uigura di Urumqi. Il periodo era precedente alle olimpiadi a Pechino nel 2008. C’erano stati alcuni attentati, i militari presidiavano le strade. Con la presidenza di Hu Jintao (dal 2002 al 2012) Pechino aveva dimostrato di saper usare la militarizzazione del territorio, e se necessario, il pugno di ferro. Nel luglio del 2009 in Xinjiang scattò una sorta di insurrezione: alcuni gruppi di uiguri presero ad attaccare con violenza gli han; l’esercito e la polizia risposero. Centinaia di morti sul campo, centinaia seguiranno per le condanne a morte. Nel 2009 la zona fu sigillata: era impossibile mettersi in contatto con chiunque e riportare quanto stava succedendo. All’epoca a Pechino gli uiguri preferivano non parlare, mentre gli han erano certi di quanto stesse avvenendo: gli uiguri, si diceva, stavano dando la caccia al “cinese”. Il motivo scatenante degli scontri erano state le cariche su un corteo di qualche precedente che chiedeva un’indagine vera sulla morte di due uiguri uccisi nel Guangdong. con la repressione militare, però, Pechino - in linea generale - aveva scelto la strategia che fino ad allora sembrava la migliore: all’epoca ai cinesi sembrava che pagando, si potesse ottenere qualsiasi cosa. Solo nel 2017 Pechino ha investito oltre 80 miliardi di dollari nella regione, più 19,6 per cento rispetto all’anno precedente. Nel 2012 - intanto - era arrivato al potere Xi Jinping e diversi fattori hanno operato per una sua soluzione più muscolare a tutto tondo (nel 2014 ci furono di nuovo scontri che di fatto finirono per legittimare le recenti politiche di Pechino nella regione). La politica di Xi Jinping ha inoltre potuto contare su novità recenti in Cina: Big Data e intelligenza artificiale sono diventati una straordinaria arma di controllo, prevenzione ed eventualmente di repressione. Human Rights Watch aveva già denunciato il programma di raccolta dati - compreso il Dna - in atto nella regione autonoma cinese a fronte della sperimentazione di veri e propri modelli predittivi: “Per la prima volta, scriveva Hrw, siamo in grado dimostrare l’uso, da parte del governo cinese, di Big Data e di una predicting policy che non solo viola in maniera evidente i diritti alla privacy ma autorizza i pubblici ufficiali a procedere ad arresti arbitrari”. Di fronte a queste operazioni, “le persone nello Xinjiang non possono opporre resistenza o contrastare la crescente intrusione nella loro quotidianità. Molti non sanno nulla di questo programma e non sanno come funzioni”. Per l’organizzazione, il ricorso alle tecnologie più moderne ha consentito alle autorità di attuare controlli sempre più profondi. Uno dei “cervelli” dietro l’”esperimento Xinjiang” è senza dubbio l’attuale segretario del partito nella regione. Si tratta di Chen Quanguo, classe 1955, arrivato in Xinjiang dopo essere stato segretario in Tibet. Si devono a lui - si dice - tanto la sperimentazione delle nuove forme di controllo sociale, quanto l’aumento dei prigionieri nei campi di lavoro. È di sicuro una sua invenzione il posizionamento sul territorio delle convenience police station, stazioni di polizia poste ovunque in grado di controllare in maniera pervasiva le città. È stato sotto la guida di Chen che la polizia ha avuto un picco di assunzioni e di acquisto di materiale tecnologico per rendere il controllo sociale sempre più sofisticato. In un solo anno, lo Xinjiang ha fatto annunci per oltre 90.866 posizioni legate alla sicurezza, (dodici volte il numero nel 2009). Per quanto riguarda i campi di rieducazione, lo stesso partito comunista ne ha riconosciuto l’esistenza. In una recente intervista alla Xinhua, il governatore della regione ammette l’esistenza, ma per il Pcc in questi luoghi tutto è bello; gli “ospiti” studierebbero e imparerebbe a sganciarsi dall’abbraccio feroce del terrorismo. Secondo altri le cose sono ben diverse. Jerome A. Cohen, uno dei massimi esperti mondiali del sistema legale cinese, ha definito i campi “il più grande programma di detenzione di massa in Cina da 60 anni”. Sul suo sito ha scritto: “Forse l’ultima volta che così tante persone sono state detenute al di fuori di un processo formale è stato nella campagna anti-destra del 1957-59”. Conta poco, scrive Cohen, “che ciò che viene fatto dovrebbe essere inteso come una violazione dei diritti procedurali ai sensi dell’articolo 37 della Costituzione, nonché delle varie libertà sancite dalla Costituzione”. Il caso dei campi di rieducazione e della schedatura di massa è emerso nel luglio del 2018, grazie alla testimonianza di una cinese di etnia kazaka, Sayragul Sauytbay, scappata dallo Xinjiang nel Kazakhstan. Secondo la sua testimonianza, “Lo chiamano un campo politico, ha raccontato, ma in realtà era una prigione in montagna”. Iran. Diritti (in)umani: non dimentichiamo Arash Sadeghi di Mauro Faso giornalelora.it, 2 novembre 2018 Amnesty International: “Ha urgente bisogno di test medici salvavita per una rara forma di cancro alle ossa, ma le autorità della prigione iraniana gli stanno negando le cure di cui ha bisogno”. È nato il 29 settembre del 1986. Ha 32 anni e da giugno del 2016 è detenuto nella prigione di Rajai Sharh, a Karaj, classificata come luogo di detenzione di criminali violenti. Lui è Arash Sadeghi, prigioniero di coscienza iraniano, malato di cancro, a cui vengono negate le cure. Prigioniero di coscienza, dunque. Un termine coniato dall’organizzazione internazionale Amnesty International che si batte in difesa dei diritti umani. È stato arrestato nel settembre del 2014 e condannato nel 2016 a 19 anni di carcere proprio per il suo attivismo pacifico per i diritti umani. È stato imprigionato con l’accusa di “assemblea e collusione contro la sicurezza nazionale”, “propaganda contro il sistema”, “diffondere bugie nel cyberspazio” e “insultare il fondatore della Repubblica Islamica”. Non è il solo: anche sua moglie, Golrokh Ebrahimi Iraee, è stata condannata nel 2016 a cinque anni nella prigione di Evin per aver scritto una storia inedita sulla pratica della lapidazione in Iran e per il contenuto di alcuni dei suoi post personali sul social network Facebook. Ma torniamo ad Arash: la direzione della prigione sta negando all’uomo di 32 anni di curarsi. Sono state numerose le segnalazioni di comportamenti illegali adottati da funzionari di questa prigione nei confronti dei detenuti da parte di organizzazioni di difesa dei diritti umani. In ordine di tempo, c’è persino un rapporto che ne denuncia la situazione, da parte dell’agenzia di stampa degli attivisti per i diritti umani in Iran stilato a febbraio del 2018 sulla situazione prigione di Rajai Shahr a Karaj (città a nordovest della capitale Teheran). “Il trattamento cui le autorità iraniane stanno sottoponendo Sadeghi non solo è incommensurabilmente crudele; in termini giuridici, si chiama tortura. La direzione della prigione, l’ufficio della procura e le Guardie rivoluzionarie stanno facendo di tutto per impedire che riceva cure mediche adeguate per trattare un cancro potenzialmente mortale”, ha dichiarato Philip Luther, direttore delle ricerche sul Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International. Intanto “le autorità iraniane stanno volutamente negando le cure mediche a questo coraggioso difensore dei diritti umani, acuendo la sua sofferenza e ignorando di proposito i pareri dei medici. Come se fosse una punizione supplementare alla condanna, profondamente ingiusta, già inflitta a Sadeghi”, ha detto Luther. Facciamo un passo indietro: ad agosto è stato diagnosticato al giovane uomo il cancro. Lo scorso 8 settembre la direzione della prigione Rajài Shahr è stata contattata dall’ospedale Imam Khomeini di Teheran allo scopo di organizzare il trasferimento di Sadeghi per un intervento chirurgico previsto la settimana successiva. Ma la risposta data all’ospedale è stata che l’ufficio del procuratore non aveva emesso l’autorizzazione al ricovero. Dopo che i medici avevano chiesto il ricovero del detenuto attivista tre giorni prima dell’intervento, l’uomo è stato invece trasferito in ospedale in ritardo. Poi l’intervento e subito il trasferimento in carcere. Quindi il 15 settembre il paziente è stato riportato in prigione contro il parere dei medici, che avevano chiesto una degenza di almeno 25 giorni per sottoporlo ad eventuale chemioterapia, radioterapia o ulteriori interventi chirurgici. Ma non è stato fatto, come neppure la visita con il chirurgo fissata per il 22 settembre di mattina: l’uomo è stato trasferito in ospedale quando il medico non c’era più, nel pomeriggio. Qui è stato visitato da un medico generico che ha riscontrato l’infezione alla ferita derivante dall’intervento. Adesso l’attivista attende l’esame della biopsia sui campioni rimossi durante l’operazione dalla zona del cancro per valutare se questo si sia diffuso.