Allarme suicidi, superato il tragico record del 2012 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 novembre 2018 Quest’anno sono 61 i morti. ci avviciniamo all’annus horribilis 2011 con 66 deceduti. Ancora un altro suicidio, questa volta è accaduto martedì sera nel carcere di Pavia. Si tratta di un detenuto 42 enne ritrovato impiccato con un lenzuolo dentro la sua cella, era solo e sottoposto a “grande sorveglianza”. Siamo giunti così a 61 morti, scalando così la terribile classifica che porta a superare il 2012 con 60 suicidi, davanti a noi c’è solo il 2011 con ben 66 persone che si sono tolte la vita. Ma se il mese prossimo di dicembre dovesse sostenere il ritmo costante (solo in questo mese sono 6 i suicidi avvenuti), allora il rischio che si superi il 2011 è davvero alle porte. Nella macabra conta delle morti, viene incluso anche l’ultimo suicidio di un 66enne ospite della Rems di Palombara Sabina. Aveva fatto un volo di circa trenta metri nel vuoto. Un suicidio, secondo gli accertamenti dei carabinieri, con la salma comunque messa a disposizione dell’Autorità Giudiziaria per l’autopsia. I fatti si sono verificati intorno alle 14:00 del pomeriggio dello scorso venerdì. Secondo quanto ricostruito l’uomo è arrivato sino al sesto piano dell’ospedale. Qui ha trovato una porta finestra aperta in un laboratorio di cucina dalla quale si sarebbe poi gettato nel vuoto. Caduto in largo Salvo D’Acquisto è morto poco dopo. Allertati i carabinieri della Stazione di Palombara Sabina dal personale di vigilanza del nosocomio del Comune della provincia a nord di Roma, i militari hanno ascoltato i testimoni. Accertamenti in corso da parte dei militari della Compagnia di Monterotondo, che per il momento procedono sull’ipotesi del gesto volontario. Il magistrato del Tribunale di Tivoli ha comunque disposto l’esame autoptico sulla salma del 66enne. Qualche giorno prima ancora, all’ospedale di Trento, ha smesso di vivere il ventenne di origini nigeriane, richiedente asilo, che aveva tentato di togliersi la vita in carcere poche ore dopo la sentenza di condanna a 7 anni e 4 mesi per stupro di gruppo e rapina inflitta dal giudice delle udienze preliminari. Osaigbovo Osaro Kelvin era ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale Santa Chiara di Trento, ma poi il suo cuore si è fermato per sempre. I medici non hanno potuto fare nulla per salvarlo, perché le sue condizioni erano purtroppo troppo gravi. La Procura di Trento ora ha aperto un’inchiesta a carico di ignoti per poter chiarire che cosa è accaduto in quei brevi attimi all’interno della casa circondariale di Spini di Gardolo. Il giovane era praticamente appena arrivato in carcere quando ha tentato il gesto estremo. Sono bastati pochi secondi. Il ragazzo era rimasto coinvolto nell’indagine della squadra mobile di Trento sul presunto stupro di gruppo avvenuto a Maso Ginocchio il 24 novembre 2017. Il ventenne era stato trovato con lo zainetto rubato alla vittima, una donna di origini nigeriane di 35 anni che era stata minacciata con una bottiglia rotta e trascinata nel parco, stuprata a turno dal gruppo di ragazzi, cinque connazionali. Una storia delicata, complessa, terribile, ma segnata anche da contraddizioni. Secondo le difese, infatti, la donna avrebbe più volte cambiato versione, ma il giudice ha ritenuto sufficienti i riscontri a carico del giovane e ha deciso per la condanna. Gli altri amici, Muhammed Inusa, 24 anni, Monphy Ohue, 27 anni e Igbinosa Kenneth Obasuyi, di 25 anni, sono stati rinviati a giudizio. Si difenderanno davanti a un giudice dibattimentale. Mentre il presunto mandante, Social Emmanuel Ehimamigho, 28 anni, è stato prosciolto. Vicende giudiziarie a parte, sono tragedie che scuote nel profondo e sembrerebbe non esserci via di uscita. I numeri dei suicidi inevitabilmente crescono perché il numero dei ristretti sono in aumento, tanto da creare un insostenibile sovraffollamento. Se prima c’era un orientamento per arginare il problema attraverso le pene alternative, oggi c’è quello legato alla costruzione di nuove carceri. Molto giuristi e organismi internazionali credono che sia una soluzione discutibile. Nel frattempo, nuove carceri o meno, il problema si è ingigantito e i suicidi sono un campanello di allarme. L’Anci a Bonafede: lavoro detenuti, pronti ad incontro per estendere utilizzo protocolli askanews.it, 29 novembre 2018 Anci e Ministero della Giustizia, sin dal 2012, sono stati apripista sull’utilizzo del personale in stato di detenzione in attività extra murarie in favore dei Comuni, grazie ad un Protocollo d’intesa ad hoc. La collaborazione si è rinsaldata e attualizzata con un nuovo accordo di collaborazione siglato nell’aprile di quest’anno, con l’obiettivo di incrementare le opportunità di lavoro e formazione dei detenuti, in particolare nel campo della cura dell’ambiente, del recupero del decoro di spazi pubblici ed aree verdi e per progetti che coinvolgano nella corretta gestione dei rifiuti, favorendo lo scambio di buone prassi all’interno degli istituti penitenziari. Questa sperimentazione ha sinora riguardato 122 enti locali, e complessivamente oltre 1.600 detenuti. Anci sta quindi lavorando da tempo sul tema, in collaborazione con il Dap, si puntualizza in una nota dell’Anci, “nella convinzione - si sottolinea - dell’importanza del lavoro per il reinserimento sociale dei detenuti e per l’abbattimento della recidiva, ma anche tenendo conto della finalità riparativa della pena”. “Le attività realizzate a Roma e Milano, alle quali ha oggi fatto cenno il Ministro della Giustizia - prosegue Anci - si inseriscono perciò in un quadro ben delineato di collaborazione, nel quale si inseriranno a breve i Comuni di Torino, Genova e Napoli, realtà quest’ultima che vede la forte determinazione del sindaco De Magistris nonostante le note difficoltà del bilancio comunale”. Anci risponde quindi “positivamente all’invito del Ministro Bonafede a proseguire ed estendere la collaborazione sul tema del lavoro esterno dei detenuti in favore dei Comuni e delle comunità, auspicando che si passi dalla sperimentazione ad una fase di pianificazione ordinaria delle attività. Anci - si conclude - è pronta ad un incontro con il Ministro della Giustizia, avendo come obiettivo l’innalzamento della qualità e quantità dei nuovi progetti, che potranno essere sostenuti in maniera determinante dalla Cassa ammende”. I diritti delle detenute sono trascurati di Susanna Marietti* dire.it, 29 novembre 2018 Quando si parla di diritti delle donne non bisogna dimenticare i diritti di quelle donne che vivono una condizione di detenzione. Sono donne, nella grande maggioranza dei casi, provenienti da contesti di forte esclusione sociale, che il periodo della reclusione non fa altro che accentuare, così da rendere più difficile un futuro ritorno in società. Nei giorni scorsi è entrato in vigore il nuovo Ordinamento Penitenziario, riformato a oltre quarant’anni di distanza da quel 1975 che vide l’approvazione della legge fondamentale a governo delle carceri italiane. Dopo un percorso di riflessione durato diversi anni - era cominciato all’indomani della sentenza cosiddetta Torreggiani del gennaio 2013, con la quale la Corte di Strasburgo aveva inflitto una pesante condanna all’Italia per lo stato delle sue carceri- e dal quale certo ci si sarebbe aspettati una rivoluzione certamente maggiore nel modello di detenzione proposto, il Governo attualmente in carica ha deciso di cancellare buona parte di quanto proposto dal precedente Ministro della Giustizia e ha portato al traguardo della Gazzetta Ufficiale alcuni decreti attuativi piuttosto minimali della delega parlamentare per riformare l’Ordinamento Penitenziario. Uno dei punti della delega prevedeva “norme che considerino gli specifici bisogni e diritti delle donne detenute”. Sono ormai molti anni che l’amministrazione penitenziaria è stata sollecitata dalla società civile, dagli operatori, dagli studiosi del sistema a interrogarsi su un modello detentivo capace di guardare ai bisogni specifici delle donne detenute, le quali - paradossalmente penalizzate dal loro esiguo numero - hanno da sempre dovuto conformarsi al modello maschile che si è imposto quale dominante. Le carceri femminili in Italia sono solamente cinque. Per venire incontro al sacrosanto principio di territorialità della pena, secondo il quale ogni persona ha il diritto di espiare la pena detentiva vicino al proprio luogo di riferimento, sono sorte moltissime sezioni femminili all’interno di carceri a forte prevalenza maschile. Inevitabilmente, una direzione che si ritrova a gestire centinaia di detenuti uomini a fronte di pochissime donne tende a concentrare sui primi risorse economiche e sociali nonché pensiero e attenzioni. Purtroppo l’occasione si è persa per esercitare pienamente la delega parlamentare per quanto riguarda i diritti delle donne detenute. Nei decreti si ritrovano poche frasi che le riguardano e mai troppo cogenti per l’amministrazione. Si specifica che il numero delle detenute nelle sezioni femminili deve essere “tale da non compromettere le attività trattamentali”, senza esplicitare quella che costituirebbe una facile soluzione al problema di garantire un giusto equilibrio tra opportunità interne e principio di territorialità: consentire attività diurne comuni per donne e uomini, in linea con il quinto principio fondamentale delle Regole Penitenziarie Europee che afferma la necessità che la vita in carcere si avvicini a quella libera. Nell’articolo dedicato all’istruzione viene inserita una frase sulla necessità di assicurare “parità di accesso delle donne detenute e internate alla formazione culturale e professionale”. Troppo poco per garantire una reale presa in carico dei bisogni a tutto tondo delle donne in carcere. La recente tragedia accaduta nel carcere romano femminile di Rebibbia ha per alcune settimane posto sotto i riflettori mediatici il tema delle donne in carcere e dei bambini che a volte le accompagnano. Il carcere esce dall’oscurità nel quale è relegato solamente in occasione di drammatici fatti di cronaca. Se dedicassimo più pensiero a quanto accade quotidianamente dietro quelle mura, potremmo farci carico dei reali problemi delle donne e degli uomini che vi abitano. E certamente sapremmo che, una volta ancora, quelli delle prime sono stati trascurati. *Coordinatrice nazionale Antigone È boom di detenuti stranieri nelle carceri italiane ottopagine.it, 29 novembre 2018 Appello a sostenere le cooperative sociali. Con 1/3 di detenuti stranieri nelle carceri italiane pari a oltre 20mila su un totale di poco meno di 60mila reclusi è necessario sostenere il lavoro e la collaborazione con le cooperative sociali per facilitare da un lato il recupero e il reinserimento nella legalità della popolazione carceraria e dall’altro offrire opportunità di impiego e integrazione anche ai 3,7 milioni di immigrati regolari extra Ue residenti in Italia. È quanto afferma l’Unione europea delle cooperative Uecoop su dati del Ministero della Giustizia. Il lavoro delle cooperative che operano nella legalità e nella trasparenza è strategico per la crescita dell’economia e la coesione sociale - afferma Uecoop - con una risposta importante da parte di chi arriva da altri paesi visto che gli addetti nelle imprese cooperative partecipate da stranieri sono cresciuti del +25,9% negli ultimi otto anni con il 2018 che registra oltre 45mila occupati. Il mondo delle cooperative - sottolinea Uecoop - si sta rilevando un formidabile motore di integrazione per migliaia di stranieri che in questi anni sono arrivati in Italia alla ricerca di un futuro con quasi 636mila persone che tra il 2013 e il 2017 hanno acquisito la cittadinanza all’interno di un percorso di integrazione fatto di doveri e diritti, relazioni sociali, studio ma soprattutto occupazione. Il lavoro - secondo l’indagine Uecoop-Ixè - viene percepito come una delle misure strategiche per l’inserimento dei migranti da oltre 6 italiani su 10 favorevoli a tirocini gratuiti nelle aziende a cui, secondo l’84 degli italiani, bisogna affiancare corsi obbligatori di lingua che è requisito fondamentale per capire e integrarsi nella comunità. Un percorso - sottolinea Uecoop - che per i più piccoli parte dalla scuola con le primarie italiane dove 1 alunno su 10 è straniero per un totale di oltre 302mila ragazzi con una crescita del 38,8% in dieci anni, come emerge da un’analisi di Uecoop su dati Miur. La scuola, insieme al lavoro è una delle sfide principali per una reale integrazione degli immigrati in un percorso didattico e di sostegno che in Italia è supportato - conclude Uecoop - da 12mila cooperative sociali e di istruzione. Il processo penale e le cose di cui nessuno sa nulla di Francesco Petrelli* Il Manifesto, 29 novembre 2018 Il ministro-sciamano-guardasigilli e il nuovo dibattimento reso eterno dall’eliminazione della prescrizione e costruito intorno alla presunzione di colpevolezza. Ovvero gli errori (passati) dell’avvocatura e gli errori (attuali) della magistratura. La rousseauiana indivisibilità della “volontà generale” si è rivelata solo l’ingenuo “mito di fondazione” di alcune recenti realtà politiche. Quel pensiero che guardava con sospetto al potere esecutivo ha subito una rapida torsione antidemocratica, trasformando la diffidenza per la separazione dei poteri nel disprezzo di ogni forma di controllo e ponendo “capi-popolo” al posto dei parlamenti. Autonominati interpreti anche delle realtà più complesse tradotte in slogan. Ne sa qualcosa il ministro-sciamano-guardasigilli che ascoltando l’anima della giustizia sa che urge un nuovo processo reso eterno dall’eliminazione della prescrizione e costruito intorno alla presunzione di colpevolezza. Cose che non sembrano riguardare le nostre stesse libertà, cose di cui nessuno sa nulla perché la realtà del processo è una delle cose meno politicamente e socialmente coltivate in questo Paese. Che del processo penale ha imparato ad apprezzare solo la “gogna” mediatica delle manette, la proclamata “vergogna” delle assoluzioni o delle pene troppo miti, perché “in carcere non ci va nessuno” (salvo gli oramai quasi sessantamila ammassati nei nostri istituti). Un Paese dove invece le più clamorose prescrizioni degli ultimi anni sono maturate perché un fascicolo è rimasto nove anni in una cancelleria e perché un pubblico ministero ha coltivato una azione penale “contromano” rispetto ogni giurisprudenza consolidata. È a questa costruita ignoranza ed a facili mitologie autoritarie, che valgono tanto quanto i deliri antiscientifici dei no-vax, che si affidano i nostri governanti, fondando le loro fortune mediatico-elettorali sulla sicurezza “percepita”, perché i dati sulla sicurezza “reale” smentirebbero ogni necessità di metter mano alla legittima difesa. Di fronte a simili pericolose derive, occorre interrogarsi sul come e sul perché la “cultura del processo” ci sia sfuggita di mano, e come sia potuto accadere che si sia perso quel legame che il processo penale avrebbe dovuto invece conservare con la società, accompagnandosi virtuosamente a quel contesto di istanze progressiste e di conquiste di diritti civili che sono nella storia del nostro Paese. Finito nel tritacarne emergenziale della lotta alla mafia ed alla corruzione, il processo penale, da dispositivo liberare di tutela delle libertà democratiche di ogni cittadino, si è trasformato in un affare losco, che riguarda i malandrini e i loro protettori legalizzati. Macchina repressiva che guadagna consenso solo se produce cautele e pene esemplari. Perso ogni contatto con l’idea di bene sociale condiviso, il processo è finito nel loop di quelle intramontabili ideologie autoritarie che avevano osteggiato il codice “Vassalli” e ne avevano azzoppato le più moderne virtù già nella culla. Certamente l’avvocatura ha una grande responsabilità per le sorti del processo penale, ma l’errore non è stato quello di non averlo saputo difendere, ma di non averlo saputo “comunicare”. Di aver lasciato che i nostri giovani ministri crescessero alla scuola illiberale di chi vede nel processo penale un ostacolo alla affermazione della legalità e non un nobile strumento di tutela dello statuto democratico. Così che i più giovani non hanno trovato nei licei, nelle università, nella politica e nell’informazione una scuola alternativa, seria ed autorevole. Quei governanti-sciamani non hanno avuto bisogno neppure di leggere uno spartito scritto da altri, suonano a orecchio la musica allettante suonata dagli apici della Cassazione e dai palcoscenici giudiziari, il mood dei colpevoli che la fanno franca e della prescrizione difesa dalla lobby degli azzeccagarbugli. Se forse è vero che non abbiamo saputo comunicare il processo come valore, non abbiamo certo sbagliato nel difendere il garantismo, non come slogan ma come metodo di confronto con la realtà, schierandoci in questo difficile momento senza tentennamenti, assieme alla comunità dei giuristi. Non tutta però. Anche qui quella nobile radice culturale di una magistratura che incarnava i valori della costituzione repubblicana, “custode delle garanzie” dei cittadini, sembra essersi stemperata anch’essa in un ingannevole “mito di fondazione”, lasciando confondere le propria voce con la musica di fondo di quella monocorde comunicazione fautrice di un processo autoritario e illiberale che ha oramai incantato l’intero Paese. *Avvocato penalista cassazionista Decreto sicurezza: ricorsi impossibili, a rischio i diritti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 novembre 2018 Il cosiddetto decreto-sicurezza del ministro Salvini tira via un altro tabù nella corsa a precipizio all’indiretta incrinatura della presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva. I diritti sono come le ciliegie: uno tira l’altro. Ma vale anche il contrario: nel senso che uno, appena lo tiri via, ne tira via un altro. Oggi di certo per gli stranieri, nelle loro richieste di asilo; domani magari per gli italiani, come ad esempio già si profila in talune proposte legislative che iniziano a familiarizzare con l’idea di sacrificare garanzie per arginare le prescrizioni. Una volta che già la legge Orlando-Minniti nel 2017 aveva tolto ai richiedenti asilo il grado di giudizio d’Appello contro i rigetti dell’autorità amministrativa, adesso il cosiddetto decreto-sicurezza del ministro Salvini tira via un altro tabù nella corsa a precipizio all’indiretta incrinatura della presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva. Per i migranti richiedenti asilo che dovessero essere intanto sottoposti a un procedimento penale per una delle ampliate ipotesi di reato che in caso di condanna definitiva comporterebbero il diniego della protezione internazionale, la loro domanda verrà esaminata in via accelerata dall’autorità amministrativa: ma, in caso di rigetto, lo straniero - pur senza essere ancora stato riconosciuto responsabile di quel reato da una sentenza definitiva, e persino magari senza essere stato neanche rinviato a giudizio - potrà essere espulso subito nel Paese dal quale sentiva minacciata la propria vita o libertà, addirittura prima di poter vedere deciso il proprio ricorso al Tribunale civile contro il rigetto della protezione. Non ci vuole un genio per intuire che, se lo straniero viene rispedito dall’altra parte del mondo, gli diventa impossibile curare con un avvocato il ricorso, nemmeno è più garantita l’utilità della futura sentenza, e diventa un bluff l’effettività della tutela alla quale era finalizzata la possibilità (a quel punto solo teorica) di ricorrere. Si può fare? No, risponderà la giurisprudenza comunitaria che lo ha già detto nel 2007 e ridetto nella sentenza C-181/16 del 19 giugno 2018. Ma poco importa al legislatore pago di iniettare, granellino dopo granellino, la sabbia di singole aguzze norme nel complessivo delicato ingranaggio dei diritti. Decreto sicurezza. Le buone ragioni di un rinvio al Parlamento di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 29 novembre 2018 Può un governo legittimo adottare un atto normativo di natura provvisoria (decreto legge) in contrasto con la Costituzione e con gli obblighi internazionali dell’Italia? Se un tale decreto viene convertito in legge da una maggioranza parlamentare le violazioni costituzionali e internazionali in essa contenute diventano permanenti? A chi spetta l’ultima parola in questi casi? Questi sono gli interrogativi elementari che si pongono dopo l’approvazione del decreto sicurezza. Chiunque abbia letto un manuale di diritto costituzionale - o solo sfogliato la Costituzione - conosce la risposta. Ad avere l’ultima parola, in questi casi, sono i garanti della Costituzione. In prima battuta il Capo dello Stato, che dovrà valutare in sede di promulgazione della legge il rispetto della “superiore” legalità costituzionale, potendo in caso rinviare la legge alle Camere per chiedere una nuova deliberazione. In seconda battuta la Corte costituzionale, che, nel corso di un processo, potrà accertare la legittimità costituzionale, facendo cessare l’efficacia delle disposizioni di legge in contrasto con la Costituzione con una sentenza di accoglimento. Sono in molti a dubitare della legittimità costituzionale e del rispetto degli obblighi internazionali del decreto sicurezza, ora convertito in legge. Non solo avvocati, magistrati, costituzionalisti, studiosi di diverse discipline o personalità politiche varie, ma anche organi dello Stato. Sono in molti a dubitare della legittimità costituzionale e del rispetto degli obblighi internazionali del decreto sicurezza, ora convertito in legge. Non solo avvocati, magistrati, costituzionalisti, studiosi di diverse discipline o personalità politiche varie, ma anche organi dello Stato. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha formulato un parere in cui si rileva esplicitamente come la normativa appena approvata dalle Camere non sia pienamente rispettosa “degli obblighi costituzionali derivanti dagli articoli 10 e 117 della Costituzione”. Un parere approfondito e articolato, che segnala una quantità di incongruenze e pericoli nel caso la normativa dovesse essere applicata; esso dovrà essere preso in seria considerazione da tutti, dai garanti in primo luogo. Ma forse quel che più conta è che lo stesso Presidente della Repubblica aveva ammonito il Governo e, indirettamente, il Parlamento dei rischi. Infatti, l’emanazione del decreto sicurezza, il 4 ottobre del 2018, è stata accompagnata da una lettera rivolta al Presidente del consiglio nella quale Mattarella scriveva: “avverto l’obbligo di sottolineare che, in materia, come affermato nella Relazione di accompagnamento al decreto, restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia”. Ora, in sede di promulgazione il Presidente della Repubblica dovrà valutare la sussistenza di gravi vizi di legittimità costituzionale e, nel caso, inviare un messaggio alle Camere motivando le ragioni per una nuova e diversa delibera in materia. La vera questione allora diventa la seguente. Ci sono i presupposti per un rinvio? La dottrina costituzionalistica, nonché i precedenti dei rinvii, non sono univoci. Il Presidente valuta caso per caso. L’elasticità dei suoi poteri, d’altronde, è considerata un modo per meglio assicurare una garanzia dinamica alla Costituzione, ovvero adeguata ai tempi e alle mutazioni del sistema politico, nonché gli permette di considerare attentamente la gravità delle lesioni (la “manifesta incostituzionalità”) degli atti compiuti degli altri organi e poteri. In questo caso tanto il diffuso dissenso, quanto, soprattutto, i pareri espressi da organi di rilevanza costituzionale fanno ritenere che l’esame sarà approfondito e attento. Il rispetto istituzionale dovuto al Csm, che lo stesso Mattarella preside, esigono un surplus di indagine e la verifica della fondatezza delle critiche di costituzionalità espresse su un piano tecnico-giuridico e non politico. Ma la novità più rilevante è costituita dalla lettera presidenziale che ha accompagnato l’emanazione del decreto sicurezza. Non si può credere, infatti, che essa possa cadere nel nulla: ne risentirebbe l’autorevolezza dell’istituzione presidenziale. Com’è noto il ruolo del Capo dello Stato si esercita principalmente con atti di stimolo, consiglio e intermediazione tra i poteri. Solo qualora i soggetti titolari dell’indirizzo politico (Governo e Parlamento), tanto più se sordi alle sollecitazioni presidenziali, travalicano gli obblighi che la Costituzione impone, al Capo dello Stato spetta porre in essere atti straordinari, com’è quello del rinvio delle leggi. Sembra allora un caso di scuola quello cui stiamo assistendo. Il Governo e la maggioranza parlamentare, nonostante le sollecitazioni presidenziali, non hanno avuto remore o ripensamenti, non hanno dato alcuna risposta (neppure formale) ai rilievi espressi dal Capo dello Stato. Che fossero preoccupazioni fondate è stato suffragato da tanti, s’è detto. La virulenza con cui si è voluta imporre una decisione controversa ad un Parlamento esautorato delle sue prerogative (come ahimè è ormai abitudine), contingentando tempi, limitando la discussione, facendo prevalere la disciplina al libero mandato, non gioca a favore della promulgazione “ad ogni costo”. Neppure il timore di una reazione stizzita, com’è d’uso nella politica irriflessiva che oggi domina la scena, può far venir meno il dovere del rigoroso rispetto degli equilibri costituzionali. Qualora il Presidente della Repubblica dovesse accertare la manifesta incostituzionalità delle norme appena approvate dalle Camere, l’esito non potrebbe che essere quello del rinvio della legge, così come previsto dall’articolo 74 della Costituzione vigente. Confidiamo sul saggio apprezzamento del nostro garante. Il Decreto sicurezza e la Costituzione camerepenali.it, 29 novembre 2018 Un insieme di misure illiberali che limitano i diritti civili di alcuni e, dunque, di tutti. Il documento della Giunta in merito alla conversione del c.d. “Decreto sicurezza”. Oggi, con il voto definitivo della Camera dei Deputati, il Parlamento della Repubblica converte il c.d. “Decreto sicurezza”. L’accadimento induce preoccupazione e anche qualche sconforto. Per l’ennesima volta, seguendo rotte indicate dai precedenti governanti, si è proceduto con la decretazione d’urgenza così legiferando in materie che invece richiederebbero confronto parlamentare e ampia interlocuzione con le forze sociali, gli operatori ed i giuristi. Il ricorso, oramai scontato, al voto di fiducia ha definitivamente impedito l’adozione di qualsiasi correttivo. Dunque giungono a definitiva operatività norme destinate ad incidere negativamente sulle già grame condizioni di vita di non poche persone presenti nel territorio nazionale. Non vi sono più, infatti, situazioni che consentono la regolarizzazione del soggiorno per motivi umanitari. Con semplici provvedimenti di Polizia sarà limitata la libertà di movimento di alcune categorie di persone. Nuove norme in materia di libertà personale ora autorizzano il trattenimento di stranieri in strutture temporanee per l’accertamento della loro identità e, nei centri di permanenza per il rimpatrio, per la durata di sei mesi. Abbiamo già scritto, inascoltati, che si tratta di una pena senza delitto che per di più si consuma in condizioni inumane e degradanti, tale essendo la realtà dei centri di permanenza. Un insieme di misure illiberali che limitano i diritti civili di alcuni e, dunque, di tutti. Le cronache parlamentari consegnano il voto favorevole come frutto di un accordo all’interno della maggioranza di Governo: i deputati del Movimento5stelle votano le misure di Polizia per i migranti avendo ottenuto in cambio dai parlamentari della Lega l’appoggio per l’abolizione della prescrizione e per la nuova disciplina dei reati contro la P. A.. Leggi alle quali, nell’epoca della comunicazione “cinguettante”, gli stessi propugnatori assegnano nomi truci: quali “anti-immigrazione” e “spazza-corrotti”. Archiviata l’idea del ruolo delle classi dirigenti quali promotrici di diritti individuali e sociali, l’attuale legislatore si propone di varare leggi repressive di segno autoritario rinunciando ad affrontare i temi sociali prima di tutto sul piano della cultura, della crescita civile, della condivisione dei comportamenti. L’Avvocatura penalistica è impegnata con nuovo slancio nella difesa dei principi del diritto penale liberale e del giusto processo. Il 23 novembre, a conclusione delle giornate di astensione, abbiamo tenuto in Roma una grande manifestazione della comunità dei giuristi che ha visto impegnati i professori del diritto e gli avvocati nel definire l’insieme dei valori irrinunciabili per qualsiasi riforma in tema di giustizia. Anche segnalare l’ispirazione illiberale di questi provvedimenti legislativi è un contributo per l’affermazione dei diritti e delle garanzie di libertà scolpiti nella Costituzione repubblicana. La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane Guerra ad accattoni e migranti. È la sicurezza targata Lega di Giulia Merlo Il Dubbio, 29 novembre 2018 Sindacati e Associazioni contro la stretta sui diritti. Matteo Salvini, grande estensore del dl Sicurezza, continua a ripeterlo: “Così la pacchia è finita”. Il testo, sul quale il governo ha dato prova di compattezza (nonostante i mal di pancia grillini) votando la fiducia, modifica le norme in materia di accoglienza e di difesa dell’ordine pubblico. Rimpatri e Sprar - Il dl cancella il permesso di soggiorno per motivi umanitari (che aveva durata di due anni e consentiva di lavorare, di accedere alla sanità), e introduce il permesso “per protezione speciale”, della durata di un anno; “per calamità naturale nel paese d’origine” (sei mesi); “per condizioni di salute gravi” (un anno); per “atti di particolare valore civile” e “casi speciali”. Sparisce anche la possibilità di chiedere l’asilo, nel caso di ingresso illegale nel paese. Vengono stanziati 3 milioni e mezzo di euro di fondi per i rimpatri volontari. Più stringenti, poi, le norme in materia di protezione internazionale, che verrà negata nel caso di condanna definitiva anche per violenza sessuale, spaccio, rapina ed estorsione. Le domande di protezione internazionale, infine, dovrebbero avere un iter di esame più celere: il questore deve dare comunicazione alla Commissione competente nel caso in cui il richiedente sia indagato o condannato e l’eventuale ricorso avverso il diniego non ne sospende l’efficacia. Quanto alla cittadinanza italiana, i tempi per la sua concessione per matrimonio o per residenza raddoppiano a 4 anni e la sua revoca scatta anche per i colpevoli di reati con finalità di terrorismo ed eversione. Cambia anche il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, i cosiddetti Sprar, oggi gestiti dai Comuni: l’accesso è permesso solo ai titolari di protezione internazionale e a minori non accompagnati (con una riduzione di circa il 70% del numero degli aventi diritto). La durata massima del trattenimento nei centri passa da novanta giorni a centottanta. Sicurezza e terrorismo - Il testo contiene norme più stringenti in materia di noleggio di furgoni, per quanto riguarda la comunicazione dei dati identificativi dei clienti alle forze di polizia. Le polizie locali di comuni con più di 100mila abitanti sperimenteranno i Taser a impulsi elettrici. Viene poi reintrodotto il reato di blocco stradale, punito con la reclusione fino a 2 anni. Incrementata, infine, la contribuzione dei club di calsio per l’ordine pubblico durante le partite. La polemica - Ad avanzare rilievi critici è l’Anci, per bocca del presidente Antonio Decaro: “Rispetto alla sicurezza urbana, rileviamo quel passo in avanti nel contrasto di alcuni fenomeni che provocano allarme sociale. Tuttavia senza risorse anche le migliori intenzioni rischiano di scontrarsi con l’impossibilità di attuarle”, ha detto il sindaco di Bari, il quale ha parlato di un “pericoloso arretramento” sulla gestione del fenomeno migratorio. Anche i sindacati hanno usato parole dure contro il testo. La leader Fiom, Francesca Re David, ha definito il dl “un grave attacco allo stato di diritto. È una legge razzista, che con l’abolizione della protezione umanitaria e con l’attacco agli Sprar, strumento di accoglienza e di integrazione, chiude drasticamente ogni possibilità di accesso regolare ai migranti”. E ancora “è un provvedimento che con la criminalizzazione delle occupazioni di immobili colpisce il diritto all’abitare, in assenza di edilizia popolare. Potenzia la repressione contro chiunque tenti di manifestare il proprio dissenso, con la reintroduzione del reato di blocco stradale e con l’estensione dell’utilizzo della pistola elettrica taser”. Allarme lanciato anche dalla Uil, che parla di legge che rischia di “trasformarsi in una sorta di boomerang che non aiuterà la governance dell’immigrazione nel nostro Paese”, ha dichiarato la segretaria confederale, Ivana Veronese. Anche l’Arci prende posizione contro il governo, che “ha raggiunto l’obiettivo di trasformare in legge la campagna di criminalizzazione del diritto d’asilo e, più in generale, dell’immigrazione. Il ministro degli Interni si accinge a raccogliere i frutti avvelenati del razzismo istituzionale con questo provvedimento che racchiude tutto l’odio verso i migranti su cui ha costruito la sua carriera personale e le fortune della Lega”, si legge in una nota, in cui si sottolinea che “adesso le città saranno più insicure, le comunità locali e i sindaci si troveranno a gestire più disagio sociale e un numero crescente di irregolari, dovranno far fronte a più conflitti, a una lacerazione sociale maggiore”. Il dl è incardinato su binari solidi in Parlamento e l’approvazione è prevista per oggi. La legittima difesa e i suoi limiti di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 29 novembre 2018 La legge stabilisce che non è punibile chi ha commesso un fatto che costituisce reato, “per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Si tratta normalmente della reazione difensiva dell’aggredito contro l’aggressore, con l’uccisione o il ferimento di quest’ultimo. Ogni vicenda di questo tipo è specifica e diversa da un’altra, non solo perché diversa può essere la natura e l’attualità del pericolo. Legato alle particolarità della vicenda concreta è soprattutto l’elemento della proporzione tra la difesa e l’offesa. La legge prevede che sia esente da pena chi commette un reato quando vi è costretto e, in proposito usa termini stringenti come necessità e proporzione. Quando poi chi agisce eccede nella difesa e per colpa va oltre ciò che è necessario e proporzionato nella considerazione dei valori in gioco, la legge prevede la punibilità del fatto a causa dell’eccesso colposo. Ma nell’eccesso deve esservi colpa. Lo stato psicologico di chi ha agito deve essere ricostruito. Non è facile in molti casi accertare la necessità e la proporzione, poiché si tratta evidentemente di valutare la natura e la gravità del pericolo come appariva al momento in cui vi è stata la reazione difensiva ed anche accertare che non fosse possibile una difesa efficace, ma meno gravosa per chi la subisce. Per permettere di arrivare a un tale giudizio vengono sempre svolti gli accertamenti giudiziari utili nel caso concreto. Se l’offensore è stato ucciso, ad esempio, si esegue l’autopsia per vedere se sia stato colpito di fronte o se invece stava scappando, poiché la circostanza pesa nel giudizio sulla necessità e proporzione della reazione. Non ogni reazione a un pericolo ingiusto è difensiva, non ogni difesa è proporzionata. Subito dopo il fatto quasi mai è possibile farsi un’opinione, cosicché non si comprende come siano possibili prese di posizione e schieramenti prima di ogni accertamento. Sembra quasi che uccidere un ladro sia sempre legittimo. Chi però spara al ladro che fugge non si difende; reagisce, ma non si difende. Una indagine è dunque necessaria. Con l’intenzione di sollevare dal peso degli accertamenti giudiziari chi nel pericolo ha reagito uccidendo o ferendo nel 2006 il codice penale è stato modificato sul punto della proporzione della reazione offensiva. L’intenzione era di eliminare la valutazione giudiziaria del singolo caso e prevedere una presunzione di proporzione dell’uso di un’arma legittimamente detenuta per difendere la propria o l’altrui incolumità o i beni propri o altrui contro chi si sia introdotto in una abitazione, sempre che non vi sia desistenza e vi sia pericolo di aggressione. Ora una proposta di ulteriore modifica è in discussione in Parlamento. Si vuole aggiungere che si tratta sempre di difesa legittima nel caso di un atto compiuto “per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi odi altri mezzi di coazione fisica da parte di una o più persone”. Come si vede sia nella riforma del 2006 che in quella che è ora in discussione, giustamente sì prevede che in ogni caso ci deve essere pericolo di aggressione fisica. L’intenzione è sempre quella di stabilire per legge casi in cui la proporzione della reazione è presunta. Si crede cioè osi vuol indurre a credere che così facendo si eviteranno le indagini giudiziarie a chi, in quelle circostanze, reagisce uccidendo o ferendo. Ma un tale risultato è impossibile da ottenere. I casi previsti.° che si vuole introdurre nella legge, dopo le indagini già danno normalmente luogo a un giudizio di proporzione, e, tenendo conto dello stato d’animo di chi si sente in pericolo, raramente un eccesso è ritenuto punibile perché colposo. Ma tutte le condizioni che permettono di dire che la reazione a un pericolo costituisce difesa legittima richiedono accertamenti. Si può anche stabilire una presunzione di proporzione, ma se in concreto la proporzione o la necessità non ci sono è la difesa stessa che va esclusa. Qualunque sia la formulazione della legge che prevede la legittima difesa, quella originaria del codice de11930, quella modificata nel 2006o quella ulteriore che è in discussione sarà sempre necessaria l’indagine penale. Essa tra l’altro, oltre che dalla legge italiana, è imposta dalla Convenzione europea dei diritti umani nel caso in cui vi sia morte di una persona. L’indagine richiede che sia consentito a chi ha agito di far valere le sue ragioni (l’informazione di garanzia questo permette). Certo il processo è di per sé penoso, ma non si potrà mai evitarlo modificando ancora la legge sulla difesa. Insomma sul piano legale e giudiziario queste modifiche cambiano poco o nulla. Pericolosamente possono però lanciare un messaggio: si può sparare di più. Legittima difesa, Salvini fa propaganda ma la legge rinvia di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 29 novembre 2018 Far west Italia. Il ministro dell’interno si schiera subito con il commerciante di Arezzo che ha sparato e ucciso durante un tentativo di rapina: “Conti su di noi, cancelleremo l’eccesso di legittima difesa”. La legge già approvata al senato abolisce il principio di proporzionalità tra minaccia e reazione. La Lega l’aveva promessa per la fine di quest’anno, ma ha dovuto accettare lo slittamento dopo il caso dei franchi tiratori sull’anti corruzione. L’eccesso colposo di legittima difesa per Matteo Salvini semplicemente “non esiste”. È invece il reato per il quale è adesso indagato il commerciante di Monte San Savino (Arezzo) che l’altra notte all’interno del suo locale commerciale ha sparato e ucciso durante un tentativo di rapina. La stessa avvocata del commerciante ha spiegato che l’apertura dell’indagine “è un atto doveroso e giusto perché c’è un fatto da accertare”, ma per la Lega anche questo è troppo. “Gli esprimo solidarietà” - ha cominciato a dire il ministro dell’interno già nelle prime trasmissioni tv del mattino, tutte montate sulla cronaca da Arezzo - “sappia che può contare su di noi”. Poi ha provato a parlare con il commerciante, senza riuscirci perché non gliel’hanno passato al telefono. “È troppo turbato”, ha spiegato la sua avvocata, che evidentemente lo sta già ben consigliando. Turbato ieri, a maggior ragione lo sarà stato nella notte in cui ha sparato. Il “grave turbamento” è proprio una condizione che, nel disegno di legge già passato dal senato e che la Lega vuole vedere approvato a gennaio, esclude la punibilità di chi spara (con un’arma legittimamente detenuta) all’interno di una sua proprietà. Una legge penale successiva al fatto, applicabile però retroattivamente in quanto più favorevole al reo. I processi sono molto pochi, solo cinque dal 2013 al 2016 per eccesso colposo di legittima difesa, secondo i dati del ministero della giustizia diffusi in commissione al senato durante la prima lettura della legge di riforma. Tutti tranne uno (rapinatore colpito alle spalle mentre fuggiva) conclusi con l’assoluzione. Anche perché la Lega - ministro della giustizia Castelli - aveva già allargato le maglie della legittima difesa nel 2006, rendendola presunta in tutti i casi in cui il tentativo di rapina avviene all’interno delle mura domestiche o dell’esercizio commerciale. Ma per Salvini non è ancora abbastanza. L’obiettivo è quello di non far nemmeno indagare chi spara: “L’eccesso colposo di legittima difesa è il reato che andremo a cancellare”, ha detto ieri il ministro dell’interno. Ma visto che sarà impossibile evitare l’accertamento penale del fatto - l’unica strada sarebbe quella di una modifica costituzionale che cancelli l’obbligatorietà dell’azione penale - si punta a legare le mani all’autorità giudiziaria. La legge approvata al senato con il voto favorevole anche di Forza Italia e Fratelli d’Italia - e del Pd sul solo articolo 2 che introduce il concetto di “grave turbamento” - intende cancellare i criteri che hanno sin qui guidato la giurisprudenza (anche sulla base di sentenze della Cassazione e della Corte costituzionale): l’inevitabilità del pericolo e la proporzionalità tra offesa potenziale e difesa. Nel nuovo articolo 52 del codice penale verrebbe scritto che in caso di violazione di domicilio la difesa è “sempre” legittima. In aggiunta vengono alzate le pene per i reati come violazione di domicilio, furto e rapina - a un anno di distanza dall’ultima volta che sono state già alzate. Il testo è stato approvato al senato mettendo insieme più proposte dell’ex centrodestra e una di iniziativa popolare promossa da Italia dei valori. E togliendo gli emendamenti migliorativi che i 5 Stelle avevano in un primo momento presentato, ma poco dopo ritirato secondo l’ormai nota prassi. La legittima difesa infatti è nella sfera di influenza della Lega e Salvini ha chiarito subito che non intende rinunciarci. In realtà un passo indietro lo ha fatto anche lui, in sordina. Aveva infatti dichiarato più volte che la legge sarebbe stata approvata definitivamente entro la fine di quest’anno. Da un po’ era chiaro che non sarebbe stato così, ma ieri per la prima volta lo ha detto ufficialmente: “Approveremo la legge dopo la manovra, a inizio anno, al momento c’è un ingolfamento”. In realtà a dicembre lo spazio in aula alla camera era stato in un primo momento individuato, proprio negli ultimi giorni prima di Natale. Ma è stato poi liberato per la terza lettura della legge anti corruzione, che com’è noto dovrà tornare a Montecitorio. Il senato infatti cancellerà la depenalizzazione del peculato introdotta con un emendamento approvato a scrutinio segreto. In ultima analisi è stata proprio l’alzata di ingegno dei franchi tiratori leghisti, che alla camera hanno portato a segno un colpo basso agli alleati, destinato però a non produrre effetti concreti, a costringere al rinvio al 2019 la legge più attesa da Salvini. Nel frattempo non si ferma la propaganda. Il ministro e la legittima difesa fatta sulla Rete di Marcello Sorgi La Stampa, 29 novembre 2018 La vicenda del gommista Fredy Pacini, di Monte San Savino (Arezzo), che esasperato dopo una quarantina tra furti e tentativi di furto subiti, ha ucciso a colpi di arma da fuoco il giovane moldavo Vitalie Tonjoc, rischia di diventare emblematica grazie alla solidarietà militante fornitagli dal ministro Salvini, personalmente, in tv e sui social. Ed è proprio sulla rete che un disgraziato che era andato a vivere nella sua officina, per poterla meglio sorvegliare, e ha sparato appena i ladri vi hanno messo piede, è stato trasformato in una specie di eroe, prima ancora che sia chiaro come siano andati i fatti. Papini è indagato per eccesso di difesa. Ma Salvini ha promesso al più presto una nuova legge sulla legittima difesa, per rendere legale proteggere a mano armata la propria casa o il proprio posto di lavoro. Proprio quest’aspetto - la possibilità, cioè, di introdurre una specie di automatismo nella difesa personale, saltando la necessaria valutazione dei comportamenti affidata alla magistratura - era stato al centro anche del precedente dibattito parlamentare, con divisioni, non solo tra destra e sinistra, ma anche all’interno della sinistra. Salvini invece ha preso spunto al volo, diffondendo subito in rete l’hashtag #iostoconfredy, che ha avuto immediatamente un record di rilanci e condivisioni, sull’onda dell’emozione per quanto accaduto nel piccolo comune vicino ad Arezzo e anche del riserbo tenuto dallo sparatore, che non ha voluto rispondere al telefono a Salvini. Logico immaginare che non sarà facile, a questo punto, per il magistrato, dopo la pubblica assoluzione da parte del ministro e della rete, valutare se vi sia stato o no eccesso di difesa. Così. attorno alla controversa questione della legge che il governo vuol cambiare, non solo la legittima difesa, ma il normale fondamento dello Stato di diritto viene rimesso in discussione. Perché appunto le leggi dovrebbe farle il Parlamento, la magistratura applicarle, lasciando al governo il compito dell’amministrazione. Qui invece il ministro la legge se l’è fatta sulla rete, l’ha applicata personalmente concedendo pubblica assoluzione al gommista che ha ucciso il ladro, senza lasciare al giudice neanche il tempo di fiatare. Spara al ladro e lo uccide. Gli amici lo applaudono. Salvini: “Io sto con lui” di Giulia Merlo Il Dubbio, 29 novembre 2018 Ha sentito dei rumori di vetri rotti e di scasso provenire dal magazzino, allora è sceso dal piano di sopra - dove dorme da quattro anni per presidiare la sua ditta dai ladri - e ha esploso una serie di colpi alla cieca. Così, il cinquantasettenne di Arezzo, Fredy Pacini, ha colpito alle gambe il ventinovenne di origini moldave, Vitalie Tonjoc, che è morto dissanguato poco dopo, perché uno dei proiettili gli ha tranciato l’aorta femorale. Un altro ladro, invece, è riuscito a dileguarsi in macchina. Secondo le prime ricostruzioni, Pacini dormiva da anni al piano di sopra della sua rivendita di gomme e biciclette d’alta gamma, dopo aver subito come riferito dal suo avvocato - ben 38 furti in pochi anni. Tre dei colpi da lui sparati con la sua Glock sono finiti al muro, altri due hanno invece centrato Tonjoc, il quale è riuscito a trascinarsi fuori dallo stabile e poi si è accasciato a terra. Secondo una prima ricostruzione, i due malviventi che hanno tentato di scassinare la rivendita erano armati di picconi e mazze, ritrovati poi dagli inquirenti all’ingresso del capannone. Ora Pacini, che ha allertato le forze dell’ordine e i sanitari, è indagato per eccesso di legittima difesa dalla procura di Arezzo. L’uomo aveva acquistato una certa notorietà grazie ad alcune apparizioni in televisione, in cui aveva raccontato di dormire nel capannone dove lavorava “perché voglio sorvegliare personalmente l’azienda dai ladri”. Il precedente tentativo di furto era stato lo scorso marzo: “Li ho visti con il maglione a collo alto e un cappellino calato sulla faccia - aveva raccontato alle telecamere-. Quando hanno capito che c’ero io sono scappati ma sto vivendo in un incubo. La mia vita è stata stravolta, sto qui dentro tutto l’anno, per me non esistono ferie, non esistono vacanze. Solo qui dentro. È dura per me e per la mia famiglia. Solo nel 2014 ho stimato furti per oltre 200 mila euro, fra biciclette e gomme”. La notizia ha suscitato la reazione di amici e conoscenti dell’uomo, che in una ventina lo hanno atteso fuori dalla sua ditta con applausi e un cartellone con scritto # iostoconfredy. Immediata è arrivata la solidarietà anche del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, il quale ha detto chiaramente: “Sto con il commerciante, presto arriverà la legge sulla legittima difesa. Io sto con chi si difende, entrare con la violenza in casa o nel negozio altrui, di giorno o di notte, legittima l’aggredito a difendere se stesso e la sua famiglia”. Il ministro ha anche telefonato a Pacini per rappresentargli “la vicinanza delle istituzioni”, ma è riuscito a parlare solo con il suo avvocato, Alessandra Cheli, la quale ha detto che il suo cliente “non se l’è sentita di parlare perché è troppo scosso”. Cheli ha anche riportato lo stato d’animo dell’uomo, ribadendo che ha agito per legittima difesa: “Lui perfettamente tranquillo e con la coscienza a posto. Ovviamente è costernato e dispiaciuto per quanto accaduto”. L’avvocato ha poi precisato che il suo assistito non rilascerà dichiarazioni alla stampa, “per rispetto delle istituzioni e dell’autorità giudiziaria, in attesa di rendere l’interrogatorio”. Tutto il mondo politico di centrodestra si è schierato in difesa del commerciante: compatti i dirigenti del Carroccio e in particolare Roberto Calderoli, il quale ha scritto che “quest’uomo è stato costretto in questi anni da uno Stato assente a doversi ridurre a dormire sul posto di lavoro per presidiarlo, mettendo anche a rischio la propria sicurezza”, ma che “adesso le cose stanno cambiando, con il decreto Sicurezza e con la modifica della legittima difesa con cui andiamo a stabilire che la difesa in casa propria deve sempre essere legittima”. Da fronte diverso ma sulla stessa lunghezza d’onda, anche Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia ha espresso solidarietà: “Io sto con Fredy: la difesa è sempre legittima!”. Dello stesso tenore, anche i commenti dei parlamentari di Forza Italia, con la capogruppo alla Camera, Mariastella Gelmini, che ha parlato di notizia che “ci ricorda l’urgenza di una seria legge sulla legittima difesa. Fi da mesi chiede al governo un’accelerazione. Finora solo palude e rinvii”. I fatti di Arezzo, ora, potrebbero dare ulteriore spinta all’iniziativa legislativa della Lega, che punta a modificare in modo sostanziale l’istituto della legittima difesa. Il progetto di legge “deve arrivare in aula a inizio gennaio”, ha garantito il ministro Salvini. Approvato “Codice Rosso”, priorità alla violenza domestica di Shendi Veli Il Manifesto, 29 novembre 2018 Il ddl firmato dai ministri Bongiorno e Bonafede velocizza l’iter giudiziario per denunce di stupro, maltrattamenti e atti persecutori. Ma continuano i tagli ai servizi sul territorio. La violenza di genere non può aspettare. É affermato nel disegno di legge “Codice Rosso” approvato ieri dal Consiglio dei Ministri. La misura, annunciata dal premier Conte lo scorso 25 Novembre nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne, nasce dalla collaborazione dei due alleati di governo. I primi due firmatari sono infatti la Ministra della Pubblica Amministrazione Bongiorno, già impegnata nella lotta alla violenza di genere con la fondazione “Doppia Difesa”, e il ministro della Giustizia Bonafede. il provvedimento modifica il Codice di Procedura Penale in cinque punti. Ad esempio con la rettifica dell’articolo 347 si estende ai reati di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni gravi, compiuti da parenti o conviventi della vittima, l’obbligo per le forze di polizia di trasferire con immediatezza la denuncia alla procura senza poterne valutare l’ urgenza. Precedentemente la tempestività di queste comunicazioni ai pm era invece arbitraria. È il riconoscimento dell’urgenza, come elemento imprescindibile nella trattazione dei casi di violenza sulle donne, il principio che ispira tutto il disegno di legge. Anche per le procure i tempi vengono ridotti. Infatti i pm avranno adesso massimo tre giorni di tempo dalla ricezione della notizia di reato per ascoltare e registrare la testimonianza della vittima. Modificato anche l’articolo 370 del Cpp che ora impone alla polizia giudiziaria di istituire un canale preferenziale per le indagini che riguardano i reati sopracitati. Anche le forze dell’ordine sono coinvolte dal provvedimento. Polizia e Carabinieri dovranno attivare entro 12 mesi dall’entrata in vigore della legge dei corsi di formazione per gli agenti, al fine di implementare le competenze utili ad affrontare i casi di violenza e a relazionarsi con gli uomini maltrattanti dentro gli istituti penitenziari. Si tratterà di una misura a costo zero, al punto 5 del ddl viene specificato che l’implementazione non dovrà comportare costi aggiuntivi. È proprio l’assenza di fondi per il trattamento e la prevenzione della violenza di genere uno degli elementi più contestati a questo governo dal movimento eterogeneo che la scorsa settimana è sceso in piazza. In prima fila lo scorso sabato a Roma c’erano centri anti-violenza, consultori e spazi femministi che hanno espresso preoccupazione per la progressiva riduzione dei finanziamenti pubblici per i servizi sul territorio. Ma anche per l’attacco all’autonomia degli spazi femministi in molte città dove Lega e M5S governano. Luoghi che costituiscono il primo rifugio sicuro per tante donne, spesso migranti, che fuggono situazioni violente. “Un provvedimento opportuno” commenta la rete dei centri anti-violenza DiRe “ma in contraddizione con altre misure del governo come il dll Pillon. Invece è necessario un cambio della cultura giuridica, servono politiche integrate e non interventi estemporanei”. Nel frattempo i fondi per i centri antiviolenza stanziati alle regioni nel bilancio 2018 non sono ancora stati trasferiti. Mentre nella manovra attuale si prevede un taglio di 500 mila euro all’anno al Fondo per le pari opportunità, nel triennio 2019-2021. Guida in stato di ebbrezza, le conseguenze in caso di vittime di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2018 Il conducente di un veicolo a motore che si è messo al volante con più di 0,8 g/l di alcol nel sangue, e causa un incidente con morti e/o feriti gravi, risponde unicamente delle relative fattispecie aggravate di omicidio stradale (articolo 589 bis, commi 2 e 3, del codice penale) e lesioni personali stradali gravi e gravissime (articolo 590 bis, commi 2 e 3, del codice penale), e non anche della contravvenzione di guida in stato di ebbrezza (articolo 186 del Codice della Strada). Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 50325 della IV sezione penale, depositata in cancelleria lo scorso 7 novembre. Alla Corte si era rivolto il conducente di un’autovettura che aveva patteggiato una pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione perché - guidando con un tasso alcolemico oscillante tra 1,1 g/l e 1,24 g/l, e tenendo una velocità superiore al consentito - aveva causato un incidente stradale in cui erano decedute due persone, e rimaste gravemente ferite altre tre: egli lamentava la violazione del principio di specialità previsto dall’articolo 15 del codice penale, in relazione all’accusa che gli era stata mossa, ovvero omicidio stradale e lesioni personali stradali in concorso con la fattispecie contravvenzionale di guida in stato di ebbrezza. La pena del patteggiamento era stata calcolata individuando come pena base quella prevista dal reato di omicidio stradale per uno dei due decessi, poi ridotta per la concessione delle circostanze attenuanti generiche, nonché aumentata, ai sensi del comma 8 dell’articolo 589 bis, per l’altra morte. Ulteriori aumenti di pena, infine, erano stati effettuati a titolo di continuazione prevista dall’articolo 81 del codice penale, sia per il reato di cui all’articolo 590 bis, sia per la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza prevista dall’articolo 186 del Codice della Strada. La Cassazione ha accolto il ricorso, spiegando che l’articolo 589 bis ha introdotto nel nostro ordinamento una figura di reato del tutto nuova e autonoma, la cui condotta ha caratteristiche “specifiche e specializzanti rispetto all’omicidio colposo”, perché prevede “ipotesi aggravate che hanno a riferimento un’articolata disciplina per chi guida in stato di alterazione alcolica o da stupefacenti”. Ne consegue, conclude la Corte, che “il fatto stigmatizzato dalla contravvenzione può dirsi assorbito dalla specifica circostanza aggravante prevista nel reato di omicidio stradale che si configura così come reato complesso” disciplinato dall’articolo 84 del codice penale, ovvero una disposizione che “definisce e consacra un principio fondamentale del moderno ordinamento democratico e cioè quello di non addebitare più volte all’imputato lo stesso fatto storico, purché esso sia il momento di emersione di un’unica contrapposizione cosciente e consapevole dell’individuo alle regole che disciplinano la vita dei consociati”. In vigenza della normativa precedente alla legge 41/2016, la Cassazione aveva escluso che i reati di omicidio colposo o lesioni personali colpose, aggravati dall’abuso di alcol (disciplinati dai soppressi commi 2 e 4 dell’articolo 589 del codice penale, nonché comma 3 dell’articolo 590) configurassero un reato complesso, sul presupposto che detti reati non configuravano una fattispecie autonoma e potevano essere commessi da qualunque utente della strada (quindi anche un pedone), mentre la fattispecie contravvenzionale di guida in stato di ebbrezza solamente dal conducente di un veicolo per cui è richiesta la patente (sent. 46441/2012). Il cambio di orientamento consegue all’introduzione delle autonome fattispecie delittuose di omicidio stradale e lesioni personali stradali gravi o gravissime - che circoscrivono le ipotesi aggravate di abuso di alcol e droghe ai conducenti di veicoli a motore - ed è ampiamente condivisibile: sia avuto riguardo ai parametri nel tempo individuati dalla Cassazione a Sezioni Unite per delineare i confini del reato complesso (“affinché si possa parlare di due norme che regolano la stessa materia, è necessario che si tratti di norme che qualifichino un identico contesto fattuale nel senso che una delle suddette comprenda in sè gli elementi dell’altra oltre ad uno o più dato specializzanti”, sent. 23427/2001), sia alla chiara intenzione del legislatore del 2016 di assegnare allo stato di ebbrezza del conducente di un veicolo a motore, che causi un incidente con morti e/o feriti, il ruolo di elemento tipizzante, in senso negativo, della condotta di guida. In questo senso conforta una lettura sistematica della legge 41, che ha modificato anche le norme del Codice della Strada che disciplinano il ritiro della patente in conseguenza di ipotesi di un reato stradale. Infatti, non è un caso che il nuovo articolo 223 preveda la sospensione provvisoria della patente di guida disposta dal Prefetto fino al massimo di due anni per il reato di guida in stato di ebbrezza, e che il periodo salga a cinque anni - che diventano dieci dopo la sentenza di condanna non definitiva - nel caso in cui “sussistano fondati elementi di un’evidente responsabilità” a carico del conducente di un veicolo a motore in ordine ai reati di omicidio stradale e lesioni personali stradali gravi o gravissime, aggravati dall’abuso intermedio o grave di alcol. Chiaro il senso di questa differenziazione di trattamento cautelare, legato alla natura di elemento specializzante (in negativo) della guida in stato di ebbrezza, sottolineato dalla Cassazione nella sentenza in commento: anche con riferimento alle condizioni che legittimano la sospensione cautelare della patente, l’assunzione di alcol non è più solamente un indice di pericolo per gli altri utenti della strada, perché si è già dimostrata anche una vera e propria fonte di danno. Il conducente che ha provocato anche la morte o il ferimento grave della vittima di un incidente, infatti, ha manifestato una maggiore pericolosità a causa della minore attenzione dimostrata verso le più elementari regole di cautela e prudenza della circolazione stradale, che impongono di mettersi alla guida solamente in condizioni psicofisiche ottimali. Dunque il periodo di sospensione cautelare della sua patente può essere ben più lungo. Assistenza familiare: violazione obblighi è reato, a meno che l’impossibilità non sia assoluta Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2018 Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Reato a dolo generico - Presupposti - Volontarietà nel non versare le somme dovute - Accertamento - Necessaria. La violazione degli obblighi di assistenza familiare è reato a dolo generico, presupponendo la sola coscienza e volontà di non versare le somme dovute, non essendo necessario per la sua realizzazione che la condotta omissiva venga posta in essere con l’intenzione e la volontà di far mancare i mezzi di sussistenza alla persona bisognosa; affinché la condotta possa ritenersi scriminata, non vale la generica allegazione di difficoltà economiche o la semplice indicazione dello stato di disoccupazione, ma è necessario fornire una dimostrazione rigorosa di una vera e propria impossibilità assoluta di fare fronte alle obbligazioni. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 6 novembre 2018 n. 50085. Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Obbligo di versamento di una somma di danaro stabilita dal giudice - Presupposti - Adempimento alternativo da parte dell’obbligato - Possibilità - Accordo con il genitore affidatario - Necessario. L’adempimento dell’obbligo di assistenza familiare volto ad assicurare i mezzi di sussistenza, non può che concretizzarsi con la messa a disposizione, continuativa, regolare e certa, che non lasci pause o inadeguatezze, dei mezzi economici in favore del genitore affidatario, responsabile immediato di una gestione ordinata delle quotidiane esigenze di sussistenza del minore; o, quantomeno, con la contribuzione autonoma ma in accordo, nei suoi contenuti, con il genitore affidatario. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 29 maggio 2014 n. 23017. Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Impossibilità di adempiere - Onere di allegazione a carico dell’interessato - Generica dimostrazione di difficoltà economiche - Insufficiente ad escludere la rilevanza dell’omissione. In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare è onere dell’interessato allegare circostanze di fatto concrete dalle quali sia possibile desumere la sua assoluta impossibilità di adempiere, del tutto inidonea essendo a tal fine anche la dimostrazione di una mera flessione degli introiti economici, o la generica allegazione di difficolta. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 1 marzo 2012, n. 8063. Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Impossibilità - Incapacità economica assoluta del soggetto obbligato - Condizioni. L’incapacità economica, intesa come impossibilità dell’obbligato di fare fronte agli obblighi sanzionati dall’articolo 570 c.p., deve essere “assoluta”, nel senso di estendersi a tutto il periodo dell’inadempimento e deve altresì concretizzarsi in una persistente, oggettiva ed incolpevole situazione di indisponibilità di introiti. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 23 novembre 2010 n. 41362. Marche: oltre 5mila libri donati agli istituti penitenziari anconatoday.it, 29 novembre 2018 Iniziativa promossa dal Garante regionale dei diritti, Andrea Nobili, che ha accolto la disponibilità della casa editrice “Italic Pequod”. Oltre 5mila libri destinati al circuito bibliotecario degli istituti penitenziari delle Marche. Un intervento promosso dal Garante regionale dei diritti, Andrea Nobili, che ha accolto la disponibilità della casa editrice Italic Pequod di Ancona per una significativa donazione di testi riguardanti narrativa, saggistica e poesia. L’iniziativa è stata presentata ufficialmente a Palazzo delle Marche, presenti il presidente del consiglio, Antonio Mastrovincenzo, alcuni rappresentanti degli istituti penitenziari ed Andrea Giove per la casa editrice. “Abbiamo recepito con entusiasmo la proposta - ha sottolineato Nobili - convinti come siamo che la cultura possa contribuire in modo significativo alla risocializzazione dei detenuti. Non dimentichiamo che il sistema bibliotecario carcerario delle Marche è un’eccellenza a livello nazionale e va adeguatamente sostenuto”. Il Garante ha anche annunciato ulteriori progetti che dovrebbero vedere la luce nei prossimi mesi. Da parte del Presidente del Consiglio l’apprezzamento per “un gesto di grande solidarietà” che si inserisce nel quadro delle attività trattamentali. In questa direzione Mastrovincenzo ha evidenziato che “a tutt’oggi, anche per problemi di carattere burocratico, la Regione non è riuscita a fornire continuità in relazione ai previsti finanziamenti. Non mancherà il nostro impegno affinché nel bilancio preventivo 2019 sia previsto il giusto stanziamento di risorse”. Al termine dell’incontro Andrea Giove ha consegnato simbolicamente alcuni testi ai rappresentanti degli istituti penitenziari, ricordando che l’unico obiettivo della casa editrice è stato quello di “essere vicini a chi sta passando un momento particolarmente difficile. Un libro è importante per migliorare la qualità della vita”. L’intera dotazione libraria prevista sarà consegnata nei prossimi giorni in base alle disponibilità logistiche degli stessi istituti. Pavia: detenuto di 43 anni si impicca in cella di Riccardo Arena Ristretti Orizzonti, 29 novembre 2018 Martedì sera nel carcere di Pavia, una persona detenuta italiana di 43 anni, si è impiccata con un lenzuolo all’interno della sua cella. Questo detenuto, che avrebbe finito di scontare la pena tra 2 anni, era ristretto in una cella da solo ed era sottoposto a “grande sorveglianza”. Ancora non è chiaro perché questa persona stesse in cella da solo, ma pare che, come spesso capita, nessuno degli operatori avesse intercettato il suo malessere. Sta di fatto che salgono così a 61 le persone detenute che si sono suicidate nel 2018, ovvero un tasso di suicidi che non si registrava dal 2012 quando i detenuti erano oltre 66 mila!!! Torino: laurearsi in carcere, il caso che ha fatto scuola di Marina Lomunno Avvenire, 29 novembre 2018 Sono 600 gli studenti detenuti iscritti ai Poli Universitari penitenziari presenti in 57 carceri della penisola e a cui collaborano 28 atenei. Il primo ad essere stato istituito nel 1998 fu quello dell’Università di Torino: 130 sono gli studenti iscritti, la metà di essi si è laureata Il caso di Torino ha fatto da apripista in Italia e in Europa e ieri ha celebrato il ventennale nell’aula magna del carcere subalpino, alla presenza di studenti, autorità carcerarie e docenti. “Grazie perché in questi vent’anni avete creduto fermamente che possiamo essere qualcosa di più dei nostri errori”, ha detto emozionato Andrea P., rappresentante dei 40 studenti detenuti iscritti al Polo accademico del penitenziario torinese “Lorusso e Cutugno”, tra cui 5 stranieri (romeni, albanesi e nigeriani), 30 reclusi, 8 in messa alla prova e due in libertà dopo aver scontato la pena. Gli altri compagni di studi di Andrea, tra cui alcuni già in possesso di una laurea come ha illustrato Franco Prina, delegato del Rettore per il Polo torinese e presidente del Cnupp (Conferenza nazionale dei delegati per i Poli universitari penitenziari), sono iscritti al Polo con piani di studio articolati su più corsi di laurea (triennale e magistrale dei Dipartimenti di Culture, Politica e Società, Giurisprudenza, Matematica e Beni Culturali). Sei le nuove matricole, mentre al momento non si registrano detenute iscritte perché le donne sono poche, non in possesso di diploma o con pene troppo brevi rispetto alla durata del corso di studi. “I detenuti universitari sono l’1% della popolazione carceraria - ha rilevato Prina - ed è dovere dell’Università contribuire a fare in modo che il diritto allo studio sia garantito a tutti: per questo è importante parlarne, diffondere buone prassi”. Ne è convinto il rettore dell’Ateneo subalpino, Gianmaria Ajani, che ha chiesto che l’intervento di Andrea, il più applaudito della mattinata, venga pubblicato sul sito dell’Università “per far conoscere a tutti gli studenti e all’opinione pubblica una realtà che funziona e per dire a quei politici che ritengono che l’università non serva a nulla, che invece ha una funzione anche sociale”. “Vorremmo richiamare la vostra attenzione - ha proseguito Andrea - sullo studio, uno dei migliori rimedi per abbattere gran parte dei problemi inerenti al carcere: anche le statistiche lo testimoniano, bassissima è la recidiva di chi si laurea in cella”. Il ventennale del Polo universitario torinese è stata l’occasione per inaugurare il nuovo anno accademico e per firmare la nuova convenzione tra l’Università, la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” e l’Ufficio Inter-distrettuale di esecuzione penale esterna che si occupa dell’inserimento dei detenuti dopo lo sconto della pena. A ripercorrere le tappe salienti erano presenti, tra gli altri Domenico Minervini, direttore del carcere, Maria Teresa Pichetto già delegata del Rettore per il Polo (e autrice del volume che ne ricostruisce la storia “Se la cultura entra in carcere” Effatà editrice), Anna Maria Poggi della compagnia di San Paolo che sostiene finanziariamente il progetto contribuendo al pagamento della prima rata delle tasse (la seconda è sostenuta dall’Ateneo). “Solo tu puoi farcela, ma non da solo” è la frase dipinta a caratteri cubitali all’ingresso della sezione del Polo Universitario del carcere torinese dove gli studenti ristretti provano a mettersi alla prova sui libri. “Non capita spesso nella vita di avere una seconda possibilità” ha concluso Andrea “e per noi lo studio è l’equivalente di una seconda possibilità”. Alessandria: l’agricoltura sociale nel carcere di San Michele di Enrico Sozzetti mag.corriereal.info, 29 novembre 2018 Grazie alla Cia e con l’obiettivo del reinserimento: ad Alessandria un altro progetto all’avanguardia sociale. L’agricoltura sociale è possibile. Anche all’interno di un carcere. Perché è grazie anche a queste iniziative che “i detenuti percepiscono l’utilità, il sentirsi sulla strada buona”. Elena Lombardi Vallauri, direttore degli istituti penitenziari ‘Cantiello e Gaeta’ (casa circondariale di piazza don Soria, 260 detenuti, e la casa di reclusione di San Michele, 360 detenuti), non nasconde la soddisfazione per la firma di un protocollo operativo, che non ha molti precedenti, fra l’istituto penitenziario, la Cia (Confederazione italiana agricoltori) di Alessandria e la cooperativa sociale Coompany per la realizzazione “di un progetto per l’acquisizione di competenze tecnico/pratiche agro-ecologiche di base per una prospettiva di reinserimento sociale”. L’organizzazione guidata dal presidente Gian Piero Ameglio gestisce il corso professionalizzante che consente di ottenere una serie di abilitazioni (utilizzo di fitofarmaci, guida di mezzi agricoli, sicurezza sul lavoro, uso di attrezzature). Sotto il coordinamento del responsabile tecnico e della formazione della Cia di Alessandria, Fabrizio Bullano, l’iniziativa è partita con due detenuti (un italiano e un marocchino) che hanno già partecipato a una prima uscita all’esterno. Mentre per i due corsi interni di giardinaggio e di ortofrutticoltura c’è un limite massimo di quindici partecipanti, per quello della Cia non ci sono, potenzialmente, limiti organizzativi. “Essendo un corso professionalizzate - precisano Elena Lombardi Vallauri e Piero Valentini, responsabile dell’area educativa - sarà seguito da detenuti con condanne lunghe, ma anche da chi è arrivato al fine pena e intende approfondire la formazione”. L’istituto penitenziario seleziona i detenuti beneficiari del progetto e favorisce la partecipazione alle attività, teoriche e pratiche. La cooperativa Coompany attiva i corsi utilizzando i terreni, tecnicamente prestati in comodato d’uso dall’istituto, sia all’esterno, sia all’interno. I detenuti otterranno una certificazione finale da utilizzare una volta scontata la pena. L’accordo ha durata sperimentale di un anno e potrà essere rinnovata, sempre annualmente. “Per un imprenditore è un dovere etico impegnarsi in un passaggio di qualità come questo. Siamo di fronte - commenta Carlo Ricagni, direttore della Cia - a una opportunità per noi come per i carcerati. C’è chi, una volta scontata la pena, ha trovato un posto di lavoro grazie a iniziative simili. Ora si apre una nuova possibilità”. In questa esperienza non manca anche un altro aspetto, quello del servizio sociale. Infatti dal mese di maggio sono trentatré i volontari coinvolti a livello nazionale nel primo progetto di servizio civile dedicato all’agricoltura sociale e promosso dalla Cia e dall’Inac (Istituto nazionale assistenza cittadini) nazionale. Per l’Inac di Alessandria è Angela Manassero a seguire il progetto. A giudizio di Piervittorio Ciccaglioni, assessore comunale alle politiche sociali, lo strumento messo a punto grazie all’accordo consentirà di aiutare “non solo il reinserimento, ma anche di evitare che vengano sfruttati, oltre che di lavorare in piena sicurezza”. L’agricoltura sociale finalizzata al reinserimento lavorativo è solo l’ultima novità per l’istituto penitenziario alessandrino. Sono ormai consolidate da alcuni anni delle esperienze, interne, che hanno consentito di avviare una produzione di ortaggi che, sotto la cura dalla Coompany, oggi si attesta intorno ai seimila chili, ma che può arrivare dieci-tredicimila chili. “Il risultato è il frutto - osserva Paolo Bianchi, imprenditore agricolo che assicura la consulenza alla cooperativa - di una serie di corsi di avvicinamento all’agricoltura. Oggi, anche grazie all’accordo con la Cia, è possibile ragionare su un arco di tempo pluriennale per programmare la produzione orticola e finalizzarla alla commercializzazione esterna attraverso un punto vendita aperto ad Alessandria una o due volte alla settimana. I prodotti saranno certificati e nel 2019 potranno contare su un marchio identificativo”. All’interno della casa di reclusione di San Michele è stato aperto da circa cinque anni dalla cooperativa Pausa Cafè di Torino un forno che realizza, con farine biologiche del Molino Grassi di Parma e utilizzando il lievito madre, circa ottocento chili di pane al giorno, cotto all’interno di un forno a legna di cinque metri di diametro e commercializzato nei punti vendita Coop di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. Genova: dentro il carcere di Marassi pronto lo spazio “a misura di bambino” genova24.it, 29 novembre 2018 Promosso dalla fondazione Rava, madrina dell’iniziativa Dori Ghezzi. Questo venerdì 30 novembre alle 15e30 nel carcere di Marassi saranno inaugurati i nuovi spazi a misura di bambino dedicati all’attesa e all’incontro dei bambini con il genitore detenuto. L’incontro si svolgerà alla presenza delle istituzioni e associazioni partner del progetto. Madrina d’eccezione, Dori Ghezzi. Si tratta del primo traguardo del progetto “La barchetta rossa e la zebra” che nasce per contrastare la povertà educativa e favorire la relazione tra figli e genitori detenuti nelle case circondariali Marassi (maschile) e Pontedecimo (femminile). Il progetto è finanziato dal bando Prima Infanzia (0-6 anni) e approvato dall’Impresa Sociale Con i Bambini. La fondazione Francesca Rava è promotore e partner principale, il Cerchio delle relazioni ne è capofila. Negli spazi dedicati ai bambini e, quindi, alla genitorialità in carcere, verranno messe in atto una serie di iniziative coordinate da professionisti, psicologi, educatori, assistenti sociali, a favore di questi minori e dei loro genitori detenuti, alcuni dei quali hanno lavorato nel cantiere per la riqualificazione degli spazi che accoglieranno i loro figli, grazie all’assegnazione di alcune borse lavoro. Pisa: diritti in carcere, la lezione del professor Tullio Padovani La Nazione, 29 novembre 2018 Sala stracolma di avvocati e studenti del Pacinotti di Pisa alle Officine per la lectio magistralis del prof Tullio Padovani al tavolo con il presidente dell’ordine Alberto Marchesi e con quello della Camera penale Laura Antonelli, durante la presentazione del progetto “Cuore di tutti”. Telemedicina per i detenuti e il personale del carcere Don Bosco di Pisa, di Porto Azzurro e Gorgona. Un obiettivo dell’ordine degli avvocati, fondazione scuola forense e fondazione Monasterio, in collaborazione col provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria del ministero, il supporto di Soroptimist e il patrocinio di consiglio nazionale forense e Camera penale. Il professor Padovani ha tenuto un intervento sulla pena detentiva e il suo sviluppo nel corso del tempo. Da corporale, si è evoluta fino all’attuale ordinamento. Ha ricordato che i detenuti sono privati della libertà ma non di tutta ed è proprio quella parte che rimane che va tutelata. Eppure, per garantire alcune libertà è dovuta intervenire additirttura la Corte costituzionale. Trieste: la cultura entra in carcere con incontri, mostre e presentazioni di libri di Emily Menguzzato Il Piccolo, 29 novembre 2018 Una volta al mese nell’aula di alfabetizzazione si confrontano detenuti e ospiti. L’ultimo spunto l’uscita di una guida turistica. Carcere di Trieste, primo piano, terzo tratto. L’aula di alfabetizzazione si trova di fronte alla biblioteca. Qui, una volta al mese, un gruppo di detenuti e uno di ospiti provenienti dall’esterno condividono un momento culturale, seppur divisi da una fila di banchi. E qui, alcuni giorni fa, è stata presentata “Trieste al femminile”, una guida turistica pubblicata nella collana targata Morellini Editore. L’autrice, Florinda Klevisser, è una geografa originaria di Fiume,che ha trascorso 18 anni a Trieste e ora vive a Monaco di Baviera. “È più bello avere “un’amica” per girare la città - ha commentato. Una persona che conosce i posti particolari, quelli pensati per le donne”. Un libro schematico, che contiene itinerari inaspettati e spunti particolari, dall’architettura allo shopping. “Non ero mai entrata in un carcere e non sapevo cosa aspettarmi- continua Klevisser-. Sono molto contenta di aver avuto l’attenzione del pubblico”. Assieme alla scrittrice è intervenuta la fotografa triestina Lara Perentin, autrice degli scatti riportati nel testo, che ha dato la disponibilità per allestire a breve una mostra nella sezione femminile dell’istituto penitenziario. “L’incontro mi ha emozionata molto - ha sottolineato l’artista, Il fatto di poter dare qualcosa a chi sta facendo un percorso difficile, che non è detto sia di recupero, può aiutare. E anche i sogni possono aiutare. Lavoro da quando avevo 16 anni, vengo da un rione difficile e a 42 anni ho rivoluzionato la mia vita, scegliendo di fare la fotografa”. Due ore intense, durante le quali le persone private della libertà hanno posto alcune domande. “Trieste sta cambiando in meglio o in peggio?”, “Dove è stata scattata questa foto?”, “Perché in bianco e nero?”. L’avvocato Elisabetta Burla, Garante dei diritti dei detenuti di Trieste e promotrice della rassegna, ha espresso soddisfazione per l’evento, che si sviluppa su un trend ormai consolidato. “Peccato che oggi, per motivi organizzativi, le donne non abbiano potuto partecipare - ha affermato Burla. Credo che questo tipo di eventi insegni molto a chi è privato della libertà ma anche, e forse di più, alle persone che vivono questa esperienza provenendo dall’esterno”. Per poter partecipare è necessario presentare una domanda “d’ingresso”, con adeguata motivazione: verrà valutata l’ammissibilità dalle autorità competenti. Per informazioni è possibile rivolgersi direttamente all’avvocato Burla, all’indirizzo garantedetenuti@comune.trieste.it o allo sportello, aperto il martedì dalle 17.00 alle 19.00. Milano: dietro le sbarre, il coraggio del bene bancoalimentare.it, 29 novembre 2018 È la prima volta che faccio la Colletta Alimentare in carcere, ho cominciato, infatti, solo quest’anno ad entrare nel penitenziario di Opera. Forse, proprio per questo è stata una Colletta diversa da tutte le altre: è stato uno spettacolo sorprendente. I detenuti erano già stati avvisati, in qualche modo, dalla direzione su che cosa sarebbe successo quel giorno. Noi ci dividiamo in due gruppi per coprire i 4 piani delle 2 sezioni in cui saremmo andati. Qui incontriamo tanti volti, per alcuni ormai diventati amici, di quelli che ogni Sabato mattina un gruppo di volontari di Incontro e Presenza va a trovare, ma se ne incontrano anche di nuovi. Introducendo il significato del gesto che stavamo facendo, una volta arrivati al reparto, Guido invita tutti noi - volontari e carcerati - a guardare il significato profondo di quello che stavamo facendo, lanciando una provocazione che, se uno è minimamente attento e consapevole del luogo in quelle parole risuonano, non può non apparire audace: “per quanto uno possa avere commesso degli sbagli - e anche noi ne commettiamo, tutti i giorni! -, donare agli altri qualcosa di noi ci mette insieme, anche se divisi dalle sbarre, perché il cuore è fatto per questo: il cuore è lo stesso in ciascuno. Per questo vogliamo ringraziarvi per quello che vorrete donare!”. Queste parole - ho pensato subito - ma che coraggio ci vuole per dirle lì? La risposta mi aspettava lungo il corridoio dove si trovano le celle. Mentre uno di loro ci aiutava spingendo il carrello su cui c’erano le ceste da riempire e invitando tutti gli altri a “donare qualcosa per chi ha più bisogno”, chiamandoli uno per uno, pian piano si fanno avanti sempre più carcerati con in mano pasta, scatolette di carne, di tonno e le lasciano per la Colletta. La scena si ripete per i tre bracci, dei due piani di quel reparto. Più tardi, raggiungiamo l’altra sezione. Qui, non possiamo passare nei corridoi, per ragioni di sicurezza: i carcerati che vogliono partecipare alla Colletta ci passano dei sacchetti con gli alimenti tra le sbarre o si organizzano per raccogliergli e darli poi agli operatori carcerari. Ci fermiamo, allora, a parlare con loro: noi da una parte, loro dall’altra, divisi da un cancello di sicurezza. Andrea e Michele li invitano ad avvicinarsi per raccontargli della Colletta, di che cosa sta succedendo contemporaneamente in tanti supermercati di tutta Italia e di come ciascuno di loro, nello stesso modo di chi in quel momento, libero, stava andando a fare la spesa, poteva contribuire alla costruzione di un’opera di bene, una “partecipazione piena d’amore alla condizione del povero” (Discorso di Papa Francesco per la Giornata Mondiale del Povero), coinvolgendosi in prima persona. Ringraziandoli per la loro generosità, siamo, però, tutti stati interrotti quasi subito dagli stessi carcerati che ci hanno detto: “siamo noi a dovere ringraziare voi, perché ci date la possibilità, con questo gesto, di poter fare del bene, di essere utili e sentirci utili”. O come un altro carcerato mi ha detto: “è un bisogno nel bisogno. Noi che abbiamo bisogno aiutiamo qualcuno che ha più bisogno di noi”. Tutto questo mi ha profondamente commosso. Dalla testimonianza di questi uomini, la cui condizione potrebbe anche ‘comprensibilmentè portarli al disinteresse per tutto, ho riscoperto il valore di un gesto che ho fatto per tanti anni e forse tante volte senza rendermi conto di che cosa ci fosse davvero al fondo. Solo il povero, infatti - non solo o non per forza il povero che non ha nulla, ma solo chi sa davvero che cosa vuol dire avere bisogno - può donare davvero quello che ha e facendolo è più contento, più insieme a tutti, anche a chi non può raggiungere perché è fuori dal carcere. E questo è tanto più vero, perché non si sono fermati qui, anzi, incalzandoci ci hanno fatto una proposta - a testimonianza di come la creatività nasca dalla consapevolezza del proprio bisogno. Ci dicevano: “ci piacerebbe potere continuare a contribuire anche durante l’anno, non solo una volta soltanto. Non possiamo trovare un modo?”. Bisognerà verificare se e come questo sarà possibile, quello che, però, è evidente e per me prezioso avere scoperto è che il coraggio delle parole con cui Guido ha preso iniziativa nascono non tanto da un ardimento personale, ma dalla consapevolezza che ciò che c’è di più desiderabile per ogni uomo è quella stessa povertà con cui i carcerati donando, ci hanno ringraziato, che il cuore dell’uomo è davvero lo stesso e non aspetta altro che trovare l’occasione in cui, per quanti errori uno possa avere mai fatto, possa compiere un gesto di affetto. Alla fine della giornata, mi sono tornate in mente le parole di Giussani, che dicevano così: “Cristo, dunque, arriva proprio qui, al mio atteggiamento di uomo, di uno, cioè, che aspetta qualcosa, perché si sente tutto mancante” (Il cammino al vero è un’esperienza). Guardare lo spettacolo della Colletta in carcere è stata l’opportunità di tornare a coincidere con ciò che sono davvero, pieno di letizia e di desiderio di essere povero come quei carcerati. Gli 826 kg raccolti non sono che il segno tangibile della gratuità con cui ciascuno di loro ha voluto partecipare alla Colletta. Giacomo Castrovillari (Cs): i detenuti colorano il carcere con un murales paese24.it, 29 novembre 2018 Sarà inaugurato domani, giovedì (29 novembre), alle ore 10.30, il murales realizzato durante il laboratorio di street art dai detenuti dell’Istituto Penitenziario di Castrovillari, tenutosi dal 4 all’11 ottobre, con l’artista Fabio Cuffari dell’associazione culturale Alfa di Aosta. La manifestazione “Facciamo un figurone” rientra nell’ambito del progetto “Siddiavò”, giunto alla terza edizione, realizzato in collaborazione con l’Ipseoa - Istituto Alberghiero di Castrovillari. Ospite della giornata sarà il “pittore del vento” Francesco Azzinari. Parteciperanno, inoltre, rappresentanti degli enti che hanno patrocinato l’iniziativa - i Comuni di Castrovillari, San Basile, Saracena e Frascineto, Gas Pollino, Parco del Pollino - nonché la Diocesi di Cassano all’Ionio, la Caritas diocesana e diversi sponsor privati. A margine dell’incontro, rivolto alla popolazione detenuta per “aprire una breccia nel possente muro del pregiudizio”, ci sarà un recital di musiche e poesie degli stessi detenuti. Il murales abbellirà la facciata d’ingresso delle palazzine detentive. L’accoglienza degli ospiti sarà a cura degli alunni dell’Istituto Alberghiero. Belluno: sette contro sette, sfida a calcio dei detenuti padri contro detenuti senza figli Il Gazzettino, 29 novembre 2018 La sfida è in carcere, nel campetto racchiuso all’interno delle mura del penitenziario cittadino. Il fischio d’inizio è fissato per le 10.30 di sabato. L’evento, organizzato dall’associazione Bambini senza sbarre, con il sostegno del Ministero della Giustizia Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è un’iniziativa nazionale ma unica in Europa. La struttura di Baldenich, quest’anno per la prima volta, aderisce alla proposta. L’idea originale sarebbe quella di portare i figli dei detenuti a giocare contro i padri, ma a Belluno le squadre vedranno in campo solo adulti, ovvero carcerati con prole contro quelli senza prole. L’intento, ad ogni modo è lo stesso: sensibilizzare le istituzioni, i media e l’opinione pubblica sulla situazione dei 100 mila bambini che, in Italia, vivono la separazione dal proprio genitore detenuto. “Mantenere la relazione padre figlio anche quando il primo è in carcere è fondamentale spiega la direttrice, Tiziana Paolini. In questa direzione va l’iniziativa di sabato e quella prevista sotto Natale, quando doneremo ai figli dei detenuti giocattoli messi a disposizione da associazioni di volontariato. Verranno regalati ai bambini in occasione delle visite al genitore, per rendere più accogliente l’ambiente e il momento dell’incontro con il papà”. Oggi Baldenich ospita 65 persone, compresi i detenuti della sezione Salute mentale; un numero ridotto rispetto all’effettiva capienza della struttura, una parte dei detenuti è infatti stata spostata in altri penitenziari per permettere interventi di miglioramento dell’impianto elettrico nella sezione maschile. Recluse: la detenzione femminile in Italia di Grazia Zuffa e Susanna Ronconi Corriere della Sera, 29 novembre 2018 Il carcere delle donne: il carcere di una minoranza femminile che denuncia ed evidenzia la crisi del carcere di tutti, il carcere di una maggioranza maschile. Si può leggere (anche) così la realtà delle detenzione delle donne presentata attraverso lo sguardo della differenza femminile secondo la proposta della Casa delle Donne di Milano, che su questo terrà un incontro il 1 dicembre prossimo. L’incontro prende spunto e titolo, Recluse (Ediesse), dal libro curato da Grazia Zuffa e Susanna Ronconi, esito di un percorso di ricerca condotto nelle carceri femminili della Toscana tra il 2013 e il 2014, e poi sviluppato nel 2017-2018 con una nuova ricerca e un intervento con le donne detenute di Sollicciano, a Firenze, e Pisa, attraverso un laboratorio di self-empowerment. Un percorso di ricerca-azione che ha adottato lo sguardo della differenza femminile sul carcere, per raccontare e analizzare criticamente cosa sia l’esperienza di detenzione delle donne partendo dalla loro voce. Il carcere di una minoranza, perché le donne detenute sono un piccolo gruppo nell’universo carcerario italiano: il 4% del totale, poco meno di 2500. Sono detenute soprattutto per reati contro il patrimonio e a causa della legge sulle droghe, in misura minore per reati contro la persona, e sono sottoposte a detenzione cautelare percentualmente più degli uomini, soprattutto se sono straniere. Gli istituti femminili sono solo 4 in tutta Italia, per lo più le donne sono detenute in sezioni all’interno di carceri pensate e gestite per una popolazione maschile, sezioni che spesso sono per piccoli numeri, destinate a una minor attenzione per i bisogni specifici delle donne e a un minor investimento di risorse. A marzo 2018 erano 52 le donne che avevano con sé i figli piccoli, come previsto dalla legge, detenute in sezioni asili nido dentro le sezioni femminili, mentre sono solo 4 le strutture a custodia attenuata (Icam, istituite nel 2011) previste per le donne con figli piccoli, costruite al di fuori delle strutture penitenziarie. Va detto che spesso è difficile avere una quadro della detenzione femminile, perché molti dati non vengono presentati disaggregati per genere. Sono poche, dunque, le donne. Eppure, la loro detenzione, per come esse stesse ne parlano in prima persona, e per come lo sguardo delle ricercatrici la interroga, accende un faro sul carcere tutto. È infatti proprio sulle donne (e sui minori) che storicamente è andata prendendo forma la moderna detenzione e si è andata via via rivelata la sua stessa crisi: il modello trattamentale, quello per cui la pena mira al “recupero” più che alla punizione, è nato proprio dalla istituzionalizzazione femminile, che da subito è stata attraversata da quei dispositivi che oggi le donne stesse non smettono di denunciare: minorazione e infantilizzazione, spossessamento dell’autonomia, sottrazione quotidiana del governo di sé, spersonalizzazione, che si coniugano - inscindibilmente - con la sofferenza della reclusione, della separazione tout court. Se il passaggio trattamentale ha portato con sé i vantaggi della prospettiva costituzionale della pena - e in questo senso va letto come passaggio positivo, se pensiamo alle retoriche autoritarie sulla “pena certa” - come funzionale al ritorno alla vita sociale libera, ha anche registrato fin da subito il rischio correzionale e, soprattutto, la contraddizione insanabile tra quella “mortificazione del sé” che è l’istituzionale totale e il (preteso) processo di crescita e cambiamento. Come si può vivere un desiderio evolutivo in assenza di un qualche potere su di sé? Le storie delle donne sono forti, in questo senso: il carcere-occasione non esiste, se non con qualche eccezione, il “dopo” e il “fuori” restano deserti difficili da attraversare. Del resto, l’illusione trattamentale fa i conti con la crisi del welfare e, insieme alle sue interne contraddizioni, ha perso (lo ha mai avuto?) il riferimento e l’ancoraggio a un sistema di promozione sociale e pari opportunità. Un deserto anche più difficile da attraversare per le donne: che, native e migranti, sono spesso sole, con poche o nulle reti sociali che le sostengano, e anzi con la responsabilità - fortemente sentita, una “responsabilità di genere” - di essere venute meno, loro stesse, come riferimento per le loro reti famigliari. Ciò che invece esiste per le donne è la strenua lotta quotidiana per mantenere la signorìa sulla propria vita, strategie individuali e collettive, relazionali, di tenuta e crescita, attuate per la maggioranza di loro “nonostante” e non “grazie” al contesto trattamentale. Lo sguardo della differenza femminile è in una doppia prospettiva: quella dei fattori anche specifici di sofferenza (la maternità negata della separazione dai figli, per esempio) e insieme quella dei fattori di fronteggiamento della sofferenza: ne esce una mappa del dolore (e molto spesso quella di una “sofferenza non necessaria”, aggiuntiva, e per questo odiosa) e insieme una straordinaria geografia della forza delle donne, fatta di consapevolezze, di responsabilità, di desideri che non si spengono, di capacità di cura di sé e delle altre anche dentro una cella, di costruzione di relazioni. È su questa forza che nasce l’idea che, nonostante tutto, si possano trovare modi per ingaggiare una lotta contro la mortificazione di sé e l’infantilizzazione delle donne detenute - e degli uomini - dipanando il filo rosso dei diritti e della dignità, e tenendo a bada le quote di sofferenza aggiuntiva che il carcere oggi impone, con la deprivazione affettiva, gli ostacoli alle relazioni famigliari, la mancanza di risposte a domande legittime, la bassa qualità della vita materiale, la mancanza di sostegno al momento dell’uscita….. l’elenco stilato dalle donne è lungo, lunghissimo. Come possiamo oggi “liberarci della necessità del carcere”, come recitava un bel programma d’azione degli anni 80, al di là degli slogan? La forza delle donne, la loro soggettività e il loro sguardo critico dicono che qualche passo può e deve essere fatto, e ci chiamano alle nostre responsabilità: declinare le forme alternative al carcere più come diritti con qualche eccezione che come premi con pochi diritti, per esempio; moltiplicare le pari opportunità per la ripresa delle vita libera; garantire le relazioni affettive e la loro continuità. E poi meno carcere: perché la gran parte delle donne detenute, native e migranti, che popolano le sezioni femminili hanno pene basse per reati non gravi. Perché devono stare dentro una cella? In filigrana, a fare da sfondo a tutto questo, una doppia criticità. Da un lato quella delle impari opportunità: le sezioni femminili patiscono un di meno di risorse, attenzione, investimento; paradossale, a pensarci, perché la dimensione ridotta e i piccoli numeri dovrebbero, al contrario, invitare alla sperimentazione di condizioni migliori e innovative, sperimentazioni che potrebbero poi essere guida per l’intero mondo carcerario. E poi, la questione del doppio stigma, stigma perché ree, stigma perché donne: la vecchia idea, alla base della storia della istituzionalizzazione femminile, che oltre alla trasgressione del codice penale vi sia anche la trasgressione dei “codici di genere”, di una certa idea di cosa sia e debba essere “femminile”, non è ancora morta. E a volte pesa sulle donne come un macigno. E allora, qualche comune filo rosso da dipanare tra “dentro e fuori”, tra donne libere e donne detenute, appare possibile. “Mai più manicomi”. Abbattere il muro di cinta dell’Ambrogiana met.provincia.fi.it, 29 novembre 2018 Presentata a palazzo Bastogi la ricerca “Mai più manicomi”, a cura di Franco Corleone. Nel pomeriggio seminario di preparazione del convegno nazionale “Carcere e giustizia, ripartire dalla Costituzione - Rileggendo Alessandro Margara”. Non solo un libro, ma soprattutto una “giornata impegnativa e produttiva” per approfondire la questione delle carceri e delle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, cioè le strutture di accoglienza per i detenuti con problemi psichiatrici. A dare il “la” ai lavori oggi, mercoledì 28 novembre, in sala delle Feste di palazzo Bastogi, la presentazione di Mai più manicomi, una ricerca sulla Rems di Volterra - La nuova vita dell’Ambrogiana, a cura di Franco Corleone. Come sottolineato dal Garante dei detenuti: “il volume si suddivide in due parti, nella prima si presentano i dati sulle Rems esistenti, partendo dai nodi lasciati aperti dalla legislazione e, quindi, affrontati nella ricerca sulla struttura di Volterra, e si analizza anche il versante penitenziario della malattia psichiatrica, auspicando misure alternative alla detenzione per detenuti psichici”. Nella seconda parte, come ricordato da Corleone: “focus su storia, collocazione e architettura della Villa dell’Ambrogiana, in vista di una sua valorizzazione come struttura da dedicare all’uso pubblico”. “Il primo passo in questa direzione - ha affermato - è l’abbattimento del muro di cinta che da troppi anni chiude l’accesso alla villa”. E ringraziando tutti coloro che hanno offerto il loro contributo per il libro, il Garante ha parlato dei lavori del pomeriggio, “che riprenderanno il filo del ragionamento del 29 luglio di quest’anno, con la scomparsa di Alessandro Margara, per rileggere il suo pensiero e preparando insieme un convegno nazionale “Carcere e giustizia, ripartire dalla Costituzione - Rileggendo Alessandro Margara”, che si terrà a Firenze i prossimi 8 e 9 febbraio”. All’appuntamento, organizzato dal Consiglio regionale della Toscana, dal Garante dei diritti dei detenuti e dalla Fondazione Giovanni Michelucci, hanno portato i loro saluti Sandro Vannini, Difensore civico della Toscana e Eugenio Giani, presidente del Consiglio regionale. “Il mio campo d’azione può essere talvolta attiguo all’argomento oggetto del convegno di oggi sulle Residenze con l’esclusione delle misure di sicurezza, che marca in questo momento un passaggio significativo dagli oramai desueti ospedali psichiatrico giudiziari e non”, ha spiegato Vannini, parlando di strutture “svuotate e chiuse molto tempo dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia, anche grazie all’impulso finale fornito da Franco Corleone nella scorsa legislatura”. “Ho imparato a comprenderne la funzione e la capacità d’attrazione emozionale di questi totem grazie a un libro che mi capitò per le mani: Le ragazze di Magliano di Mario Tobino - ha raccontato - un medico psichiatra e scrittore che, grazie alla sua missione pluridecennale, riuscì a trasformare gli atteggiamenti patologici dei pazienti in vere e proprie opere d’arte”. Un salto al 1953 per dire che già Tobino aveva intuito che “in ogni caso il vero malessere psichiatrico abbinato alla detenzione, come pure la detenzione troppo spesso associata all’insorgenza del malessere della depressione, è un binomio nefando per chi entra in questo girone infernale”. Da qui il bisogno di altre risposte, di strutture tipo le Rems, “che oggi segnano la svolta rispetto a un passato ancora abbastanza recente”. E parlando del campo d’azione del Difensore Civico, in collaborazione con il Garante dei Detenuti, ha ricordato il caso di una bambina “allontanata dai genitori e bloccata da 13 mesi in una casa d’accoglienza, in seguito a una denuncia della nonna”. “Stiamo lavorando per garantire alla piccola uno spazio di libertà e serenità familiare”, ha assicurato il Difensore Civico. “Vedo questa giornata come l’inizio degli eventi che caratterizzeranno la diciannovesima edizione della Festa della Toscana”, ha esordito il presidente del Consiglio regionale Eugenio Giani, ricordando la riforma del Codice penale da parte del Granduca di Toscana Pietro Leopoldo che, il 30 novembre 1786, abolì la pena di morte e la pratica della tortura. “A Firenze l’emanazione del codice leopoldino fu seguita da falò di patiboli e strumenti di tortura di fronte al palazzo del Bargello - ha continuato il presidente - nel percorso di un excursus storico che racconta quanto il nostro territorio sia permeato di senso di garanzia dei diritti individuali, a partire da epoche lontane, rispetto a quelle che stiamo vivendo e ci riportano a quello slancio illuministico di cui la Toscana deve continuare a nutrirsi, specialmente nella cura delle malattie psichiche, per garantire piena dignità all’essere umano”. E parlando dell’Ambrogiana come luogo dove si sono sempre legati gli aspetti di cura e quelli politici, partendo dall’omicida del Re d’Italia mandato a Montelupo Fiorentino, Giani ha ricordato “che partirà a breve il vincolo dell’Unesco per la tutela delle Ville Medicee, tra cui quella dell’Ambrogiana, uno slancio ulteriore per l’impegno di Giunta e Consiglio regionale per una villa patrimonio di tutti”. E su Alessandro Margara: “Invito i sindaci dei Comuni toscani a lasciare un segno nella toponomastica, dedicando una via o una piazza al magistrato che trattava i detenuti come uomini”. I lavori sono, quindi, proseguiti con i contributi di Grazia Zuffa, presidente della Società della Ragione e componente del Comitato nazionale bioetica, di Michele Passione, avvocato, di Carlo Piazza, psichiatra, responsabile della Rems di Nogara (Veneto). Per continuare con gli interventi di numerosi esperti e addetti ai lavori e riprendere nel pomeriggio con il seminario di preparazione al convegno del prossimo febbraio. Il Paese della paura di Ezio Mauro La Repubblica, 29 novembre 2018 Consumiamo più paura di quanta una democrazia possa permettersi: e lo squilibrio determina gli scompensi politici, sociali, culturali che dobbiamo toccare con mano nella vita di ogni giorno, e che ci circondano fino a sovrastarci. Una paura che pensiamo di riuscire a riconoscere, almeno a definire, in ogni caso a controllare. Ma in realtà sta straripando da un campo all’altro, sta invadendo aree non controllate, cancellando confini, mescolando territori, fino a confonderci e a ottenere il risultato supremo, perché politico: diventare un tutt’uno indistinguibile, un insieme che non è più scalfibile, e per questo vince. Nella rincorsa di ansia tra il governo e il Paese, mentre il Parlamento vota il decreto sicurezza il ministro dell’Interno già annuncia la nuova legge sulla legittima difesa. Per Salvini la nuova legge è introdotta clamorosamente dal caso di Monte San Savino, in provincia di Arezzo, dove un gommista di 57 anni l’altra notte alle 4 si è svegliato per i rumori che sentiva nel suo capannone dove dormiva da quattro anni dopo 38 tentativi di furto, ha visto due ladri, ha sparato con la pistola e ha ucciso un giovane moldavo. In questa storia c’è molto del precipizio italiano di questi anni. Un uomo che si sente abbandonato dallo Stato, costretto a dormire tra le gomme e le biciclette per le continue ruberie, e con la pistola sotto il cuscino, perché non conosce altro modo per difendersi. I ladri che spaccano il vetro ed entrano nel capannone. Gli spari, il sangue, un giovane uomo morto. L’immediato uso politico di quanto è accaduto, senza nessuna vera condivisione, senza nessuna pietà, senza nessuna ricerca politica di un esito diverso, come se il furto fosse la prova tanto attesa, la morte diventasse un pretesto, lo sparo un eroismo: applausi e striscioni per il gommista, la solidarietà di Salvini: “Io sto con chi si difende”, l’annuncio immediato della nuova legge che sfruttando l’emotività e la paura vuole cancellare la proporzione necessaria tra la reazione di chi si difende e l’offesa ricevuta. Per ora il gommista aretino è indagato per eccesso di legittima difesa: l’eccesso colposo cadrebbe con la nuova legge. Resta la paura, che ha spinto quest’uomo a dormire nel suo capannone negli ultimi quattro anni per paura dei ladri, in compagnia di una pistola Glock da tiro a segno (come quella di Luca Traini, l’autore del raid contro i “negri” a Macerata). Una paura che fa aumentare la voglia di sicurezza fai-da-te, come in America, con la quota di chi chiede norme più facili per il possesso di fucili e pistole che cresce in un anno dal 26 al 39 per cento, in un Paese che ha già un’arma nelle case di 4 milioni e mezzo di italiani, con un incremento del 14 per cento nell’ultimo anno. Tutto questo mentre i reati sono diminuiti del 10 per cento nel 2017, gli omicidi si sono praticamente dimezzati in dieci anni, le rapine sono scese del 37,6 per cento e i furti del 13,9. Ma abbiamo costruito una figura in grado di assorbire e insieme di rilasciare tutte le paure, ingigantendole e portandole a convergere. Il migrante, meglio l’africano, meglio ancora il “negro”, in ogni caso lo straniero. Una figura reale e fantasmatica insieme, che diventa il nemico naturale, originario ed eterno, immediatamente simbolico, nuovamente e sempre riconoscibile. Capace di raccogliere su di sé gli istinti, le inquietudini, le pulsioni profonde di una parte della popolazione infragilita dalla crisi e di un’altra parte indurita da una nuovissima gelosia del welfare: che si saldano in un risentimento identitario, per dar vita a un inedito sentimento indigeno inconfessato, che riemerge sempre meno inconsapevole. Muovendosi ogni giorno di più come il vero proprietario del governo, ma soprattutto come il mago che ha in mano la psiche del Paese, Matteo Salvini sta scaricando tutto il problema della sua politica da ministro dell’Interno sulle spalle dei migranti, compiendo una doppia operazione congiunta. Da un lato una svalutazione delle altre componenti “tecniche” e psicologiche dell’ansia e dell’inquietudine con cui devono fare i conti i cittadini, soprattutto per l’incertezza crescente di futuro, che viene alimentata ogni giorno da questa tensione permanente di un conflitto continuamente annunciato con nemici invisibili, che si materializza più che altro nei social network, dove si traduce la forma più alta e costante dell’attività di governo e di leadership. Dall’altro lato un’esaltazione ideologica del fantasma straniero, chiamato a coincidere intimamente e indiscutibilmente - a dispetto delle cifre, dunque della realtà - con la sicurezza dei cittadini, anzi con la loro incolumità personale, in una separazione ormai dichiarata e accettata di spazi, di percorsi e di destini. Ieri l’operazione è arrivata al suo culmine. Mentre il decreto sicurezza giungeva al suo ultimo atto in Parlamento, cancellando il permesso di soggiorno per motivi umanitari, riservando il sistema di accoglienza Sprar (con percorsi di integrazione gestiti dai Comuni) solo a chi ha già ottenuto l’asilo e ai minori stranieri non accompagnati, Salvini ha annunciato che intende mettere mano a tutto l’insieme delle norme che riguardano l’immigrazione. Poi ha affacciato la legittima difesa. E subito dopo, con un annuncio a sorpresa che ha ribaltato la posizione tenuta dall’Italia negli ultimi due anni, ha reso noto che l’Italia non firmerà il Global compact for migration lanciato dall’Onu nel 2016, e addirittura non parteciperà al vertice di Marrakech del 10 e 11 dicembre che dovrebbe dare il via operativo a quegli accordi decisi a New York nel settembre di due anni fa. Di fronte all’onda alta delle migrazioni, il Global compact, sostenuto da Obama, provava a introdurre elementi di governo, di razionalità e anche di integrazione e di solidarietà, o almeno di rispetto dei diritti umani, per garantire “una migrazione sicura, ordinata e regolare”. Lo scopo era quello di rafforzare la cooperazione globale per gestire i fenomeni migratori supportando i Paesi più coinvolti nel salvataggio e nell’accoglienza, “proteggendo la sicurezza, la dignità, i diritti e le libertà fondamentali di tutti i migranti”, integrandoli con programmi di sviluppo, combattendo “xenofobia, razzismo e discriminazione”. Dopo gli impegni presi a New York, si trattava adesso di passare agli impegni concreti e ai mezzi di attuazione. E si capisce perfettamente che l’Italia di oggi non c’entri nulla con il Global compact, come l’America di Trump, che infatti l’ha già respinto. Ieri il premier Conte, seguendo Salvini, ha annunciato che rimetterà la questione della firma al Parlamento. Ma è chiaro che sia sul piano teorico, dei principi, che sul piano pratico, degli impegni, la maggioranza guidata da Lega e Cinque Stelle guida il Paese in una direzione opposta, quella del nazionalismo sovranista. “Il Global compact distrugge di fatto i confini e gli Stati nazionali - spiega Giorgia Meloni - favorendo l’immigrazione incontrollata”. È la paura che ritorna, tenendosi tutta insieme, come qualcosa che non si può più separare. La paura dell’uomo che spara, la paura di tentare un governo responsabile della migrazione, la paura dei buoni principi, la paura dello straniero. Purché il Paese viva come in un incubo, non apra le sue porte e le sue finestre, non si riprenda le strade e le piazze, sbarrate da quei politici che come i monaci battenti del Medioevo sembrano ripeterci: ricordati di avere paura. Poi arriverà qualcuno, bucherà la bolla del grande spavento, e ricomincerà la politica. Più cultura e meno paura di Francesca Chiavacci e Stefano Cristante Il Manifesto, 29 novembre 2018 Perché cercare di mettere insieme la più grande associazione culturale italiana e l’università? Perché entrambi sono “di strada” per i cittadini, cioè entrambi sono luoghi sociali che rientrano con facilità negli itinerari possibili per chi vuole apprendere e riflettere (ed eventualmente darsi da fare). L’Arci ha da poco compiuto sessant’anni e ha appena lanciato, con più di duecentocinquanta eventi previsti in sette giorni, la propria campagna pubblica e di opinione sul fatto che al nostro paese servono più cultura e meno paura. I tempi in cui viviamo pullulano di propaganda, di pregiudizi e di scelte strategiche sbagliate. Una riprova è che la stessa università, negli ultimi decenni e ancora oggi, è stata considerata dai governanti una non-priorità, ovvero un sistema da sotto-finanziare e di cui curarsi il meno possibile. All’università sono stati riservati tagli micidiali proprio durante gli anni più gravi della crisi economica e finanziaria, quando molti altri paesi europei hanno fatto esattamente il contrario, aumentando il budget per l’istruzione. Le tasse per gli studenti si fanno più care, scarseggia la dotazione di borse di studio, il numero dei nostri laureati è tra gli ultimi in Europa. Vi è una situazione sempre più grave nel turn-over tra i docenti, con tanti pensionamenti non sostituiti da nuova occupazione e l’estendersi drammatico dell’area del precariato. Senza investimenti la didattica e la ricerca vanno avanti come possono, cioè con grandi sforzi individuali che il sistema indirizza verso un’esasperata competizione per risorse scarsissime. Eppure nelle nostre Università ci sono centinaia e centinaia di giovani ricercatori e di docenti che elaborano una gran quantità di contenuti e di idee su temi di enorme interesse pubblico come l’energia, l’ambiente, i diritti, le disuguaglianze, l’informazione, le tecnologie, l’arte. Ricercatori e docenti che spesso faticano a trovare luoghi non accademici dove incontrare persone con le quali condividere e discutere il proprio sapere. Ecco perché l’Arci ha fatto propria la suggestione di un’università “di strada”: si tratta di una serie di incontri e di lezioni che potranno essere ospitati nei circoli associativi e in ogni altro luogo delle nostre città (librerie, sale pubbliche, scuole, pub, ecc.) dove presentare idee e analisi sulla società e su ciò che riteniamo sia prioritario per una discussione propositiva sulla fase che attraversiamo. Ad animare le lezioni dell’Università di strada saranno ricercatori ed esperti (non solo accademici) capaci di affrontare temi che solitamente i mezzi di comunicazione di massa trattano con superficialità o su cui direttamente sorvolano. L’Arci metterà a disposizione del progetto i propri circoli e offrirà un coordinamento nazionale alla rete dell’Università di Strada, il cui rettore sarà una personalità dall’energia e dall’esperienza non comune come Luciana Castellina. Nel frattempo stiamo raccogliendo le adesioni di docenti, ricercatori ed esperti in modo da poter offrire ai circoli e agli altri luoghi che ospiteranno le lezioni dell’Università di strada una serie di argomenti su cui organizzare i nostri eventi, piccoli o grandi che siano. Partiremo proprio nei prossimi giorni, offrendo due appuntamenti d’assaggio, uno al Nord (a cura di Arci Cremona, presso l’Antica Osteria del Fico) e uno al Sud (al circolo La Ferramenta dell’Arci di Lecce, città dove è nata la prima sperimentazione di Università di strada grazie a Lecce Bene Comune). Nelle prossime settimane definiremo nuove date e nuovi appuntamenti, contando su un rapido aumento delle adesioni, anche collettive, tra cui già segnaliamo quella dell’Adi, l’associazione dei dottorandi e dei dottori di ricerca italiani. Per ora sono circa quaranta le sedi Arci che hanno richiesto di ospitare le lezioni dell’Università di Strada. Molti, soprattutto a sinistra, si lamentano di come gli intellettuali non riescano a riannodare una connessione sentimentale con il proprio popolo. Noi proviamo a cimentarci nell’impresa, dal basso e senza grandi budget, contando sulla passione per il sapere e sulla sua condivisione collettiva. Paradosso italiano: i reati diminuiscono ma la paura cresce di Grazia Longo La Stampa, 29 novembre 2018 Diventa più marcata la distanza tra la sicurezza reale e quella percepita. La prova? I reati diminuiscono eppure i cittadini hanno sempre più paura. E in tanti plaudono alla nuova legge sulla legittima difesa fortemente voluta dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, che salverebbe dall’incriminazione chi uccide per difendersi. Incrociando i dati del Viminale, del Censis e di Noto sondaggi emerge la fotografia di un Paese dove, a fronte di un calo dell’8 per cento dei reati, un italiano su due ha talmente paura da ritenere la sicurezza il problema più grave dopo l’emergenza lavoro e uno su tre vorrebbe l’introduzione di criteri meno rigidi per il possesso di un’arma da fuoco per la difesa personale. Secondo il Censis, i più convinti in questa direzione sono le persone meno istruite (il 51 per cento tra chi ha al massimo la licenza media) e gli anziani. Nel rapporto, realizzato con Federsicurezza, viene sottolineato inoltre l’aumento del numero di persone che possono sparare: nel 2017 in Italia si contano 1.398.920 licenze per porto d’armi (dall’uso caccia alla difesa personale). In sostanza c’è un’arma da fuoco nelle case di quasi 4,5 milioni di italiani (di cui 700 mila minori). Nel complesso, come evidenzia l’analisi effettuata dal Viminale sei mesi fa, i reati sono scesi dell’8 per cento. Dall’1 agosto 2016 al 31 luglio 2017 erano infatti 2.453.872, mentre dal 1 agosto 2017 al 31 luglio 2018 sono diventati 2.240.210. Più nel dettaglio, si è registrata, nello stesso arco temporale, un’inflessione del 14 per cento degli omicidi (passati da 371 a 319), la riduzione dell’11 per cento delle rapine (da 31.904 a 28.390) e meno 8 per cento dei furti (da 1.302.636 a 1.189.499). Il Censis rivela che Milano era al primo posto con 237.365 reati nel 2016 (il 9,5 per cento del totale), poi Roma (con 228.856 crimini, il 9,2 per cento), seguono Torino e Napoli con percentuali intorno al 5,5. Ma un conto sono i numeri effettivi, un altro è quello della percezione della sicurezza. “La gente ha paura al punto da ritenere il tema prioritario - osserva Antonio Noto, direttore di Noto sondaggi. L’allarme sicurezza è equamente distribuito sul territorio nazionale, senza particolari distinzioni tra Nord e Sud”. Ad essere preoccupato per la propria incolumità è il 46 per cento degli italiani, mentre il 33 per cento è d’accordo a incrementare l’uso delle armi per la difesa personale. “E non si tratta solo di elettori del centrodestra - prosegue il sondaggista. Di questo 33 per cento, infatti, il 40 per cento è vicino al centrodestra, un altrettanto 40 per cento non ha ideologie politiche e il 20 appartiene al centrosinistra”. Tra le altre caratteristiche di questa fetta di cittadini che rivendicano il diritto a sparare in caso di aggressione, il 65 per cento sono uomini, il resto donne, il 50 per cento ha più di 50 anni, il 25 per cento è composto da adulti e il rimanente 25 per cento da giovani. Ma, al di là dei numeri, quali ragioni si annidano dietro la paura della gente e l’aspirazione a farsi giustizia da sé? Secondo il professor Paolo De Nardis, ordinario di Sociologia alla Sapienza e Decano nazionale di sociologia, “un certo clima politico e la complicità mediatica hanno alimentato la paura e la voglia di autodifendersi. Ci stiamo americanizzando, ma in realtà la cultura antropologica degli italiani è fondata sulla solidarietà e non sulla solitudine e la paura, che spingono a considerare le armi come un terzo braccio in grado di risolvere i problemi”. Il sociologo invita, inoltre, a riflettere su una ricerca secondo cui “in Veneto, dove si registrano più permessi per uso sportivo e venatorio, ci sono meno delitti che in Calabria dove il numero delle licenze è inferiore”. E conclude auspicando “più partecipazione pubblica e una maggiore fiducia nelle istituzioni: non bisogna isolarsi ed essere monadi ma maturare spirito critico”. I diritti universali non valgono per tutti di Massimo Nava Sette del Corriere, 29 novembre 2018 Fake news e algoritmi sono una nuova emergenza. A 70 anni dalla carta firmata a Parigi che garantisce la dignità e la libertà degli esseri umani, possiamo fare un bilancio: quali diritti vengono rispettati e quali no? Il progresso sociale e civile si è diffuso in molte aree problematiche, ma ci sono arretramenti in Paesi già sviluppati, legati al mercato del lavoro e alle migrazioni. La Dichiarazione Universale dei diritti umani, di cui ricorre il settantesimo della firma a Parigi, si proponeva di estendere all’ambito sociale ed economico i principi scritti con il sangue delle rivoluzioni francese e americana e di ampliarne l’applicabilità a tutti gli stati membri delle Nazioni Unite, a prescindere dal regime politico e dall’ordinamento di ogni singolo Stato. In pratica, un rafforzamento dei diritti dell’individuo in relazione agli orrori che il mondo aveva patito con il nazismo e la Seconda Guerra mondiale - l’Olocausto, il bombardamento atomico, le deportazioni di massa - e alle conquiste culturali e civili del ventesimo secolo, in particolare rispetto alla condizione della donna e dell’infanzia. La Storia del Dopoguerra fino ai giorni nostri racconta una distanza abissale fra le enunciazioni di principio e la loro messa in pratica in molti angoli del mondo. Genocidi, massacri, deportazioni si sono ripetute, dall’Africa all’Asia e persino alle porte dell’Europa, se si ricorda la tragedia della ex Jugoslavia. I drammi dei soldati bambini, della schiavitù e dello sfruttamento di donne e minori sono ricorrenti e non sono estranei nemmeno al mondo più sviluppato. La caduta del Muro di Berlino ha provocato la fine del comunismo e della Guerra fredda e ha esaltato in molti angoli del mondo il diritto dei popoli all’autodeterminazione, senza scongiurare la minaccia nucleare e la proliferazione del commercio internazionale di armamenti. Distanza ancora abissale dunque. Eppure, ridotta anche in Paesi le cui condizioni politiche ed economiche rendono problematica l’affermazione di diritti. La globalizzazione e lo sviluppo delle comunicazioni hanno migliorato condizioni di vita, libertà di espressione, accesso all’informazione, possibilità di movimento. E hanno offerto anche formidabili armi dí denuncia, spesso in tempo reale, contro ogni forma di violazione, oppressione, censura. Si tratta di progressi relativamente piccoli, ma significativi se si considera quanto e come i diritti fondamentali segnino il passo nel mondo cosiddetto progredito. Prendiamo in esame le discriminazioni nel mercato del lavoro, la povertà di ritorno, lo sfruttamento minorile, la condizione dei migranti, la messa in discussione di diritti acquisiti. È per queste ragioni che la dichiarazione universale conserva intatta la sua forza etica e il senso di un impegno per tutta l’umanità. Esattamente come 70 anni fa, l’attualità di una riflessione sui diritti da difendere e sui diritti ancora da conquistare spinge la coscienza collettiva e chi avrà il compito di riscriverli nel marmo della Storia a considerare non soltanto il molto che resta da fare ma anche le nuove emergenze che minacciano la condizione umana. In primo luogo, l’emergenza ambientale, che da un lato distrugge salute, economia e progresso nelle aree più sviluppate e che, dall’altro lato, fa arretrate ancora di più le popolazioni delle aree più povere, provocando inoltre conflitti per le risorse e ondate migratorie sempre più massicce. A loro volta, le ondate migratorie richiamano la coscienza del mondo alla difesa della dignità della persona, qualunque sia la sua origine e la terra di provenienza, e al diritto a ricercare condizioni di vita più favorevoli. Le centinaia di morti e dispersi nel Mediterraneo, le tratte di esseri umani, gli stupri e le torture nei centri di raccolta dei Paesi dì provenienza, le condizioni spesso miserabili nei Paesi di accoglienza sono aperte violazioni dei diritti della persona. C’è infine una nuova emergenza, finora sottovalutata almeno in relazione alla questione dei diritti umani, ma pienamente in sintonia con lo spirito della dichiarazione universale che affermava anche il diritto all’istruzione e a un’informazione libera da censure e condizionamenti. Ebbene, non dovrebbero sfuggire le conseguenze devastanti delle fake news e del controllo globale degli algoritmi sullo sviluppo della vita democratica e sulla partecipazione dei cittadini alla formazione delle decisioni. Un articolo andrebbe riformulato in modo più esteso: “Nessun individuo può essere sottoposto a interferenze arbitrarie della sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore e della sua reputazione”. Migranti. Salvini annuncia lo stop al Global Compact dell’Onu di Silvia Morosi Corriere della Sera, 29 novembre 2018 Conte: “Deciderà il Parlamento”. Il vicepremier leghista frena sull’accordo internazionale per “una migrazione sicura, ordinata e regolare. L’Italia non andrà a Marrakesh e non firmerà alcunché”. Un annuncio a sorpresa quello del vicepremier Matteo Salvini alla Camera. Mercoledì mattina in Aula il ministro dell’Interno ha chiarito che il governo italiano non firmerà il “Global compact” sull’immigrazione, sottolineando che sarà il Parlamento a decidere se aderire o meno al trattato (ecco di cosa si tratta). Una decisione confermata, in pochi minuti, anche dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte che, in una nota, ha detto: “Il Global Migration compact è un documento che pone temi e questioni diffusamente sentiti anche dai cittadini. Riteniamo opportuno, pertanto, parlamentarizzare il dibattito e rimettere le scelte definitive all’esito di tale discussione, come pure è stato deciso dalla Svizzera”. Salvini ha spiegato, poi, che l’Italia non parteciperà al summit Onu di Marrakesh, in Marocco, che tra il 10 e l’11 dicembre è chiamato ad adottare il documento (della vicenda aveva scritto Sette nel numero in uscita il 7 novembre). Di cosa si tratta - Il “Global compact for migration” è il patto lanciato dall’Onu, il 19 settembre 2016 a New York, nel corso di un summit straordinario su migranti e rifugiati, allo scopo di garantire a livello internazionale “una migrazione sicura, ordinata e regolare”. Supportato con forza da Barack Obama, appoggiato da Paolo Gentiloni che lo scorso luglio ne aveva sottolineato l’importanza, è stato respinto da Trump: il trattato mira all’individuazione di procedure e alla definizione di impegni condivisi da parte della comunità internazionale sull’emergenza immigrazione. Resistenze sono arrivate anche da altri Paesi che hanno firmato il documento nel 2016, come quelli del Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria). A questi si sono aggiunti Austria, Bulgaria, Svizzera e Polonia. Le posizioni in Italia - Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia definiscono “folle” il documento Onu in quanto “distrugge di fatto i confini e gli Stati nazionali favorendo l’immigrazione incontrollata”. Il Pd e Leu, in aula, attaccano il titolare del Viminale affermando che è lui il vero capo dell’esecutivo italiano visto che detta la linea. Il capogruppo dem Graziano Delrio è durissimo: “Il vero presidente del Consiglio è Salvini e ha smentito il ministro degli Esteri e il premier sull’adesione dell’Italia al “Global compact for migration”. Moavero e Conte avevano ribadito all’Onu che l’Italia avrebbe firmato l’11 dicembre. Ora Salvini cambia la linea del governo e si rimette al Parlamento. È un cambio di posizione sostanziale che fa ulteriormente perdere credibilità all’Italia, dopo la brutta figura sulla manovra”. Laura Boldrini (Leu) ricorda invece che “il Global compact, il cui esito non è vincolante, vuole solo essere un forum per trovare le soluzione e l’Italia si lamenta sempre di essere lasciata sola e quando c’è l’occasione non va all’incontro, smentendo clamorosamente il presidente del Consiglio: è gravissimo”. Tornare in Marocco da emigrato? Ci vuole un bel coraggio di Pier Luigi Vercesi Corriere della Sera, 29 novembre 2018 Il progetto “Je Suis Migrant” dà 2.000 euro a chi sceglie il rientro. Un incentivo per aprire un’attività. Chi torna spesso viene deriso, ma nascono anche storie di successo. Ci vuole coraggio per tornare indietro”. Rashid sta guidando l’auto da Casablanca a Oujda, al confine con l’Algeria. Non parla per sentito dire: è anche la sua storia. “Quando attraversi i confini, braccato come un animale, subisci violenze e giochi con il destino salendo su una chiatta per Lampedusa, hai dalla tua la speranza. Se torni senza soldi, sei un fallito. Prima per la tua famiglia, poi per lo Stato affamato di rimesse degli immigrati”. Da risorsa, diventi fardello. La ragazza seduta dietro lo interrompe: “Le cose stanno cambiando, Rashid. Il nostro lavoro comincia a dare risultati”. Sanda Vantoni ha 26 anni, la sua famiglia vive a Sorisole in provincia di Bergamo. Un anno fa rispose al bando di Servizio civile e il Cefa di Bologna la spedì in Marocco, dove aveva soggiornato alcuni mesi per realizzare la sua tesi di laurea. Lavora al progetto “Je Suis Migrant” per promuovere l’inclusione sociale, contrastare il radicalismo e favorire l’integrazione dei marocchini di ritorno. Per il suo impegno, il Focsiv le ha assegnato il “Premio giovane volontario europeo” 2018. L’abbiamo raggiunta, chiedendole di accompagnarci in questo viaggio tra i migranti di ritorno, ai quali viene assegnato un bonus di 2.000 euro affinché si inventino un lavoro, e tra quelli provenienti dall’Africa nera che interrompono qui il loro cammino della speranza: vengono aiutati ad associarsi in cooperative. Il primo di loro è proprio Rashid, laurea in Letteratura inglese, poi idraulico in nero nel bresciano rimbalzato in Marocco non per sua volontà ma perché vittima del racket dei matrimoni fasulli per ottenere la cittadinanza italiana. Ora lavora per il Cefa, mette a disposizione la sua esperienza: sa come parlare ai migranti di ritorno, li protegge dal ludibrio di chi li deride, conquistatori incapaci di trovare la terra da conquistare. A Oujda, appoggiata sul confine di filo spinato, un altro Rashid, 33 anni e molti mesi di delusione italiana, è diventato un esempio di successo. Lo ha accompagnato, passo a passo, Federica Gatti (di Alessandria), responsabile del progetto. Con i duemila euro ha comprato pulcini appena nati e li ha rivenduti quando avevano quindici giorni. È andato avanti così finché è riuscito a costruirsi una rudimentale incubatrice con le istruzioni reperite in Internet. Allora è passato alle uova: costano meno, rendono di più. In poco tempo il suo tugurio si è trasformato in una farm dove lavorano i suoi familiari. Ci racconta la sua storia con gli occhi rasi di lacrime: “Non ho il coraggio di dire a mia moglie che in Italia dormivo in una stazione”. Sanda, dopo esperienze universitarie in mezzo mondo, aveva ricevuto una proposta di lavoro interessante a Barcellona, da un’azienda che produce droni. Sei mesi e se ne è andata. Lo racconta mentre l’allevatore di pulcini saluta, stavolta con gli occhi aperti in un sorriso. “Hai capito il perché della mia scelta?”, dice. Sarà un caso, ma qui a Oujda 2.000 euro pare facciano miracoli. Saliamo su un taxi, due parole in italiano e Ismail, il taxista, attacca a raccontare. Anche lui emigrato di ritorno: tre anni in Italia e uno in Francia. Diploma di tecnico elettronico, poi contadino e magazziniere in nero, ora padroncino della sua auto. Gli manca l’Italia, ma in Italia gli mancava il Marocco, il profumo di qualcosa di cui conosce solo il nome arabo. Sfrecciamo sulla strada in direzione Mediterraneo, dopo una gola, su un muretto decine di persone urlano e si sbracciano. Quattro metri sotto, in un fossato, corre la rete con il filo spinato. Oltre sventola la bandiera algerina e altre donne e bambini rispondono ai richiami. In mezzo guardie armate e cani poliziotto. “Si danno appuntamento tutte le domeniche” spiega Ismail, “sono famiglie divise dal confine blindato, perché questo era il valico preferito dai passeur, i mercanti di uomini”. Mustafà, con gli aiuti, ha comprato un motore, una pompa e coltiva erba medica in un campo di famiglia. Non è più giovanissimo e ha la schiena spezzata da un paio di lustri passati in un capannone da dove usciva alle 5 di mattina per lavorare la terra di Puglia. “Mia moglie non crede ai racconti. La metto a tacere sempre con lo stesso ritornello: sarò pure uno sconfitto, ma so che il catrame di casa nostra è meglio del miele altrui”. In Marocco si ritorna perché incalzati dalla crisi economica europea, perché si è irregolari, anche per nostalgia. Nessuno li obbliga: le associazioni italiane li informano e loro decidono se provare a ricostruirsi una vita nel Paese d’origine. I 2.000 euro servono, ma uno scoglio insidioso è la capacità di reintegrarsi in un mondo nel frattempo cambiato, tanto più se vi sono bambini nati in Italia. Sanda ci accompagna a una di queste riunione in cui marocchini di ritorno, spesso laureati in sociologia o in filosofia, aiutano a trasfondere valori fondamentali in uomini e donne con scarsa istruzione. Un laureato in giurisprudenza ivoriano precisa: “Radicalizzazione è l’opposto di educazione”. Un animatore marocchino chiede: “Quali valori trasmettere ai vostri figli? Immagino tolleranza, contrasto delle discriminazioni...”. La prima risposta è fulminante: “Tolleranza? Ma è una parola brutta. Tollera chi si sente superiore, è un atteggiamento paternalistico. Non è meglio confrontarsi senza giudicare?”. Sanda si gira e bisbiglia: “Visto? Spesso sono loro a insegnare qualcosa a noi. Quando chiesi a un senegalese se si sentiva discriminato, rispose che tutti noi discriminiamo, in qualsiasi parte del mondo, e continueremo a farlo finché non avremo l’umiltà di aprirci alla conoscenza. Qui c’è gente che a vent’anni ha fatto esperienze di vita che noi nemmeno a sessanta”. Egitto. Caso Regeni, la Procura di Roma indagherà sugli agenti segreti egiziani di Grazia Longo La Stampa, 29 novembre 2018 Non verrà chiesto il loro arresto, perché non esistono indizi o prove sufficienti, ma si procederà a iscriverli nel registro degli indagati per il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni. La svolta della procura di Roma, guidata da Giuseppe Pignatone, riguarderà cinque o sei dei nove sospettati, tra agenti della polizia e dei servizi segreti civili egiziani. Il pm Sergio Colaiocco lo ha annunciato ieri al Cairo durante il decimo vertice con i colleghi egiziani. Ma l’accelerazione purtroppo è esclusivamente italiana: dall’Egitto hanno fatto capire chiaro e tondo, al di là dei convenevoli formali, che non intendono portare a processo i presunti autori della drammatica fine del ricercatore friulano perché non hanno la prova regina. E il loro sistema giudico non prevede la condizione dell’indagato. Il provvedimento della procura di Roma esclude i poliziotti e gli 007 sospettati per il depistaggio, in quanto il reato non ha coinvolto direttamente Regeni. I nove uomini erano stati identificati nei mesi scorsi dagli uomini di Ros e Sco. L’informativa è stata consegnata alle autorità egiziane nel vertice del dicembre 2017. Peccato però che gli egiziani non abbiano fatto passi in avanti. Anzi, ieri hanno ribadito la presenza di “buchi” nelle immagini delle videocamere della metropolitana registrate la sera della scomparsa di Giulio, il 25 gennaio 2016. La giustificazione è che i buchi sono dovuti ad una sovrascrittura. Resta il fatto che dall’analisi dei video non è stato possibile individuare alcuna immagine di Regeni. I filmati analizzati rappresentano il 5 per cento del totale ripreso il 25 gennaio 2016 dalle telecamere posizionate all’interno della metropolitana del Cairo (il restante 95 per cento non è risultato utilizzabile). Il lavoro ha riguardato i video di tutta la linea 2 della metro e non soltanto quelli presenti nelle stazioni El Bohoth e Dokki nell’orario compreso tra le 19 e le 21. L’unico progresso degli inquirenti del Cairo ha il sapore delle beffa. I soli ad essere processati saranno infatti due uomini accusati di omicidio per la vicenda del 24 marzo 2016: cinque criminali comuni vennero uccisi in una sparatoria con ufficiali della National Security egiziana, alla periferia del Cairo. I documenti di Giulio furono trovati quello stesso giorno in casa della sorella del capo della presunta banda e si disse che i cinque erano legati alla morte del giovane. Ma fu subito chiaro che in realtà si trattava dell’ennesimo depistaggio. Stop alle armi all’Arabia Saudita: che farà l’Italia? di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 novembre 2018 Chi a seguito del barbaro omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, chi preoccupato anche per la catastrofica situazione della popolazione civile in Yemen, martoriata da oltre tre anni di conflitto armato, negli ultimi 10 giorni tre governi europei (la Germania il 19, la Danimarca e la Finlandia il 22 novembre) hanno deciso di sospendere le forniture di armi all’Arabia Saudita. Anche a causa di quei trasferimenti, che hanno favorito bombardamenti indiscriminati su strutture civili quali scuole, ospedali, strade e porti, dal marzo 2015 sono state registrate - tra morti e feriti - oltre 17.000 vittime civili mentre 18 milioni di yemeniti si trovano in stato d’insicurezza alimentare. Anche il Parlamento italiano è finalmente ritornato ad occuparsi (dopo gli infruttuosi dibattiti del 2017) di questa drammatica situazione, in particolare con un’audizione di esponenti della società civile in seno alla Commissione Esteri della Camera che è diventata occasione di stimolo alla presentazione di testi parlamentari. La questione, com’è noto, riguarda da vicino l’Italia, che negli ultimi tre anni e mezzo ha ripetutamente autorizzato forniture all’Arabia Saudita di bombe prodotte in Sardegna dalla RWM Italia, di cui si è ventilato in questi giorni il raddoppio della produzione. Questa mattina la coalizione costituitasi allo scoppio del conflitto dello Yemen (composta da Amnesty International Italia, Fondazione Finanza Etica, Medici senza frontiere, Movimento dei Focolari, Oxfam Italia, Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo e Save the Children Italia) rivolgerà da una conferenza stampa in Senato un appello al Parlamento perché sia presentata una mozione che, in linea con le risoluzioni del Parlamento europeo del 4 ottobre e 25 ottobre 2018 e nel rispetto della normativa nazionale (legge 185/90), del Trattato internazionale sul commercio di armamenti e della Posizione Comune dell’Unione europea sull’export di armamenti, chieda al governo d’imporre un embargo immediato sulle armi e la sospensione delle attuali licenze di esportazione di armi a tutte le parti nel conflitto dello Yemen, in quanto è presente un chiaro rischio di gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Le associazioni chiederanno anche al Parlamento di sollecitare il governo ad attivare iniziative concrete per la risoluzione diplomatica e multilaterale del conflitto in corso in Yemen, impegnarsi a finanziare il fondo per la riconversione dell’industria militare previsto nella stessa legge 185/90 e intraprendere iniziative verso le parti in conflitto (in particolare chi utilizza maggiormente lo strumento dei bombardamenti aerei cioè la Coalizione guidata dall’Arabia Saudita e di cui fanno parte anche altri paesi destinatari dei sistemi d’arma italiani, come gli Emirati Arabi Uniti) affinché siano rigorosamente rispettati i divieti di bombardamento di ospedali e scuole, ricordando che gli ospedali e il personale medico sono esplicitamente tutelati da trattati e convenzioni dal diritto umanitario internazionale, che un attacco deliberato contro i civili e le infrastrutture civili costituisce un crimine di guerra e che gli attacchi alle scuole sono condannati dalla Safe Schools Declaration, di cui l’Italia è tra i primi firmatari. L’Italia infine dovrebbe sollecitare l’istituzione di una indagine internazionale indipendente per esaminare le possibili violazioni del diritto umanitario internazionale da parte di tutte le parti in conflitto, al fine di assicurare la giustizia, le responsabilità e il risarcimento per le vittime. Negli oltre tre anni di conflitto armato numerose sono state le segnalazioni riguardanti violazioni di diritti umani e crimini di guerra, come confermato anche nel rapporto recentemente pubblicato dal Gruppo di eminenti esperti delle Nazioni Unite. Brasile: Carcere alternativo: detenuti con chiavi delle celle e vero recupero iene.mediaset.it, 29 novembre 2018 Cizco ci racconta le comunità Apac del Brasile, dove i detenuti si controllano a vicenda e vengono davvero recuperati. A Coriano (Rimini) si fa lo stesso e il tasso di recidiva criminale scende dal 75 al 15%. Ne abbiamo parlato con Salvini. Vi raccontiamo dal Brasile, un Paese con uno dei sistemi penitenziari più violenti al mondo, l’esperimento di un metodo alternativo che potrebbe aiutare anche il nostro sistema carcerario. Si tratta di un “carcere alternativo”, chiamato Apac. Cizco ce lo racconta da dentro: i detenuti hanno le chiavi delle loro celle, si autogestiscono e si controllano l’uno con l’altro. Si lavora, dall’uncinetto al bricolage. Il fabbro e arrotino dell’Apac, per esempio, è stato condannato per omicidio, come l’allevatore che si occupa di maiali salvati pure loro (venivano usati dalle bande per mangiare e far sparire i cadaveri). Il sistema funziona: il tasso di recidiva dei reati una volta usciti scende dall’80% al 15% e le strutture costano un terzo delle carceri. In Italia l’Associazione Giovanni XXIII a Coriano (Rimini) sta sperimentando questo stesso metodo. Cizco ci racconta anche questa comunità che produce prodotti alimentari biologici. Marino, il primo detenuto arrivato qui (era stato condannato per il furto di una bicicletta), è la guida per tutti. C’è chi come Pietro ha ucciso la moglie e cerca di far capire agli altri l’orrore del suo “amore malato”. Ogni tipo di criminale vuole solo rimediare al male che ha fatto. Qui il tasso di recidiva è il 15% contro il 75% del carcere tradizionale. Abbiamo mostrato questo esempio, che conviene anche economicamente, al ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che si è detto interessato.