Quel muro di gomma impenetrabile che avvolge il carcere di Padova di Lorenzo Maria Alvaro Vita, 28 novembre 2018 Il racconto del tentativo frustrato di venire a capo della burocrazia per poter incontrare e raccontare le esperienze di Ristretti Orizzonti e Cooperativa Giotto che sono nate e cresciute tra le mura del Due Palazzi. Tre mesi di tira e molla tra mail e telefonate senza ottenere mai null’altro che attese proprio mentre, ironia della sorte, il Governo si appresta a varare il Decreto Sicurezza. Tutto era cominciato con una lettera aperta con cui Ornella Favero, fondatrice di Ristretti Orizzonti, aveva lanciato l’allarme sul numero della rivista di settembre. “A dicembre Ristretti ha “compiuto” vent’anni”, scriveva nel suo editoriale rivolgendosi ai lettori la fondatrice, “a gennaio nella Casa di reclusione di Padova c’è stato un cambio di direzione. Mettiamo insieme queste due cose perché pensavamo che vent’anni di vita di questa “creatura molesta ma utile”, come aveva definito il nostro giornale il precedente direttore, ci mettesse al sicuro: avevamo le carte in regola per presentarci come una realtà consolidata, attenta, onesta nel fare informazione. E invece le cose non sono andate così, e non perché il nuovo direttore voleva conoscere meglio tutto quello che funziona nel suo istituto, ma perché la decisione di ridimensionare tutti i progetti di Ristretti Orizzonti è stata presa dalla direzione prima di qualsiasi confronto”. Un articolo in cui Favero, oltre a spiegare il ridimensionamento cui Ristretti Orizzonti sta a andando incontro, chiedeva sostegno. A Vita abbiamo deciso di raccogliere l’appello e abbiamo deciso che sarebbe stato utile e bello raccontare le esperienze che rendono il carcere Due Palazzi di Padova un fiore all’occhiello della Giustizia italiana. Oltre a Ristretti infatti in quella struttura ha casa anche la Cooperativa Giotto che con i carcerati produce uno dei panettoni di pasticceria più apprezzati del Paese. Per poter raccontare queste buone pratiche naturalmente è necessario entrare in carcere dove laboratori e redazione hanno sede. Per entrare in carcere è necessario seguire un iter preciso. Ed è proprio la burocrazia che rende oggi il Due Palazzi un fortino inespugnabile e impenetrabile. Ma andiamo con ordine. La prima cosa da fare, per presentare una richiesta per una visita giornalistica è scrivere al direttore del carcere. Settembre - Così il 26 settembre 2018 ho chiamato direttamente il dott. Claudio Mazzeo, direttore della struttura penitenziaria da gennaio 2018. Durante la telefonata, che avrebbe dovuto solo annunciare l’arrivo della richiesta al direttore, negando che la prassi fosse quella mi ha invitato a rivolgermi via mail alla dott.ssa Assunta Borzacchiello, direttore dell’ufficio stampa del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), cosa che ho fatto lo stesso giorno. Quasi in tempo reale la dott.ssa mi ha chiarito che non era lei la persona giusta per questo tipo di pratiche indicandomi il dott. Andrea Cottone, capo ufficio stampa e portavoce del Ministro della Giustizia, come colui che deve dare i nulla osta necessari. Nella stessa data scrivo dunque anche al dott. Cottone. La risposta arriva il primo di novembre via mail. Il dott. Cottone scrive “Deve contattare, cortesemente, il direttore del carcere”. Cosa che faccio il 4 ottobre. Passa un’altra settimana e torno a scrivere al direttore Mazzeo chiedendo lumi. La risposta è che “l’autorizzazione deve essere richiesta al Provveditorato penitenziario del Triveneto con sede a Padova e al Dipartimento amm.ne penitenziaria in quanto sono loro i soggetti che autorizzano il servizio giornalistico che ha evidente diffusione esterna”. Siccome il tentativo con il Dap era stato il primo passaggio, chiamo il Provveditorato penitenziario del Triveneto. Mi fanno sapere che il provveditorato si occupa esclusivamente dei nulla osta che riguardano la stampa locale, quindi non un media nazionale come Vita. A questo punto non ci sono altri uffici. Nessuno nell’amministrazione penitenziaria italiana, a quanto pare, può approvare o rifiutare un servizio giornalistico in carcere. Né il Dap, né il Ministero della Giustizia, né il direttore, né il provveditorato del Triveneto. Ottobre - Così il 10 ottobre mando una mail a tutti gli uffici contestualmente per vedere se così si possa superare l’impasse. E così sembra essere. Risponde infatti il giorno dopo (11 ottobre) il dott. Marco Belli, dell’ufficio stampa del Ministero. “Mi spiace per il tortuoso iter di passaggi che ti ha portato a scrivere questa mail”, scrive, “la procedura per essere autorizzati ad entrare in carcere a fini giornalistici è molto semplice: indirizzare una richiesta via mail all’attenzione del direttore dell’istituto, specificando le attività per cui si richiede di essere autorizzati. Sarà cura dell’istituto inoltrarla (in ossequio ad una specifica nota del Capo del DAP del 10 agosto scorso) all’Ufficio Stampa del Ministero della Giustizia per il necessario nulla osta. A disposizione per qualsiasi chiarimento, ti auguro buon lavoro”. Il 15 di ottobre arriva anche una mail da parte del direttore Mazzeo che sottolinea come abbia “bisogno di capire meglio come vuole realizzare il servizio giornalistico. La visita con riprese fotografiche dei locali e dei detenuti?”. Provvedo a riepilogare nuovamente le esigenze e la ratio del servizio. La risposta sembra essere definitiva: “Oggi giro la sua richiesta all’Ufficio stampa, restiamo per la macchina fotografica. A presto”. Novembre - A questo punto inizia una lunga attesa. Che dura ancora oggi. Siamo al 27 novembre, tre mesi esatti dalla prima chiamata al direttore Mazzeo. Nel mezzo una mezza dozzina di mail di sollecito e un paio di chiamate telefoniche che invece di diradare le perplessità le aumentano. In particolare, l’8 novembre, dopo due giorni di tentativi decido di scrivere al dott. Belli che si era premurato di farmi sapere di essere “a disposizione per qualsiasi chiarimento”. Al numero in calce alla mail però non risponde nessuno e così scrivo via mail. Anche così nessuna risposta. Il 10 novembre chiamo l’ufficio stampa del Ministero chiedendo di parlare con Belli. E scopro però che Belli non è di istanza al Ministero, nel cui ufficio stampa lavora, ma è distaccato al Dap. Chiamo il Dap ma non mi possono aiutare perché il dott. Belli non è in sede. Finalmente il giorno seguente mi richiama per chiarirmi che “abbiamo molte cose da fare. Bisogna solo aspettare”. Cosa che stiamo ancora facendo. Ora che serva il tempo necessario per espletare le pratiche burocratiche è del tutto normale. Ma il ping pong di responsabilità era ed è evidentemente voluto. Perché? Perché proprio nel giorno in cui il Governo vota il Decreto Salvini mettendo al centro del dibattito pubblico proprio il tema della sicurezza dal carcere arriva solo silenzio. Perché esperienze straordinarie e meritorie come quelle del Due Palazzi invece di essere pubblicizzate vengono nascoste? Perché mentre Padova attende, per il 5 dicembre, la nomina a Capitale Europea del Volontariato 2020 si incontra tanta ritrosia da parte del sistema penitenziario nel dimostrare il tanto lavoro che il terzo settore della città ha messo in campo nel recupero e reintegro dei detenuti? Sicurezza, ok della Camera alla fiducia. Il sì dei M5S (senza festa) di Dino Martirano Corriere della Sera, 28 novembre 2018 Esultano i leghisti, che citano Oriana Fallaci: votiamo con rabbia e orgoglio. Freddo e disciplinato il voto del M5S che non ha applaudito i colleghi del Carroccio. Oggi il sì finale. Dopo il Senato, anche la Camera concede la fiducia al governo (336 favorevoli, 249 contrari) sul decreto sicurezza che oggi o domani, dopo il voto finale, verrà convertito. E così già ieri sera la Lega ha esultato per il testo che porta la firma del ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Votiamo con rabbia ed orgoglio la fiducia perché questa è casa nostra e non la terra di nessuno”, ha detto in Aula il capogruppo Riccardo Molinari citando la scrittrice Oriana Fallaci e l’eccidio del Bataclan. Freddo e disciplinato il voto del M5S che non ha applaudito i colleghi della Lega. Affidandosi poi a Federica Dieni capace, nella dichiarazione di voto, di non spendere una parola sui richiedenti asilo e invece di parlare a lungo di vitalizi e di ddl corruzione. Alla fine sono evaporati i ribelli del M5S: sono mancati all’appello, più o meno giustificati, solo 3 deputati della Lega e un grillino mentre gli assenti in missione erano uno del Carroccio e 7 pentastellati. Ma a favor della fiducia sono arrivati ancora un volta i voti del Maie, compreso quello di Catello Vitiello, autore giorni fa, dell’emendamento “Salva Lega” al ddl anticorruzione. Minniti preoccupato - Prima che il risultato fosse proclamato, Salvini era già davanti alle telecamere per incassare il dividendo di “una legge che porta tranquillità, ordine e regole”. Stavolta il leader della Lega ha capovolto l’indice del decreto mettendo “all’ultimo posto la parte sull’immigrazione”. Il ministro, prima della stretta sull’asilo, ha citato la vendita dei beni confiscati, i poteri concessi ai sindaci e alle polizie locali, il giro di vite sui parcheggiatori abusivi, i 30 milioni di euro dovuti dalle società di calcio per i servizi di ordine pubblico, la pistola elettrica. Salvini ha poi confermato di essere “assolutamente contrario” al Global compact con cui l’Onu sta cercando di coinvolgere le aziende di tutto il mondo. Davanti alla Camera alcune associazioni hanno celebrato il “funerale dei diritti umani”. L’ex ministro Marco Minniti (Pd), che ha presentato a Bologna il suo libro “Sicurezza e Libertà” con l’arcivescovo Matteo Zuppi, commenta: “Sono preoccupato. Questo è il decreto insicurezza in quanto si sta dando un colpo mortale alle politiche di integrazione”. Per il sindaco di Cerveteri Alessio Pascucci (ItaliainComune), “passano con la ruspa sugli Enti locali privati di 280 milioni per i servizi rivolti ai soggetti vulnerabili”. Laura Boldrini (Leu) parla di misure incostituzionali in un decreto che mira “alla propaganda e non alla sicurezza”. Mano pesante sulla sicurezza. Cittadinanza e soggiorno più difficili. E Daspo esteso di Giovanni Galli Italia Oggi, 28 novembre 2018 Abrogazione dell’istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Trattenimenti più lunghi nei Centri di permanenza per i rimpatri. Norme più severe per la concessione della cittadinanza; la domanda potrà essere rigettata anche se è stata presentata da chi ha sposato un cittadino italiano, il contributo richiesto per la domanda aumenta da 200 a 250 euro e sarà possibile revocarla o negarla a chi viene condannato in via definitiva per reati legati al terrorismo. Estensione del taser (la pistola ad impulsi elettrici) alle polizie municipali dei comuni con più di centomila abitanti. Daspo esteso anche a chi è indiziato per reati connessi al terrorismo e applicabile pure nei presidi sanitari, in aree in cui si stanno svolgendo fiere, mercati e spettacoli pubblici. Sono alcune delle previsioni contenute nel decreto legge sicurezza (113/2018) su cui la Camera dei deputati ha approvato ieri la fiducia: il dl Salvini, che prevede 39 articoli, suddivisi in quattro grandi aree non ha subito cambiamenti nel passaggio a Montecitorio rispetto a quello uscito da Palazzo Madama e sarà dunque convertito oggi in legge. Tra le altre novità (si veda anche la tabella in pagina) le disposizioni circa le controversie relative al rilascio dei permessi speciali, quanto a giudice competente e procedimento di trattazione delle impugnazioni. Si dispone che il giudice competente - ossia le Sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, istituite presso ciascun Tribunale ordinario del luogo nel quale hanno sede le Corti d’appello - decidano con rito sommario di cognizione. Il nuovo dispositivo di legge eleva da 90 a 180 giorni il periodo massimo di trattenimento dello straniero all’interno dei Centri di permanenza per i rimpatri. Parallelamente, eleva da 90 a 180 giorni il periodo di trattenimento dello straniero presso le strutture carcerarie, superato il quale lo straniero può essere trattenuto presso il centro di permanenza per i rimpatri per un periodo massimo di 30 giorni. Si stabilisce anche la costruzione di nuovi Cpr rispetto ai sei già operanti sul territorio nazionale. Con l’articolo 3 si introducono due nuove ipotesi di trattenimento motivate dalla necessità di determinare o verificare l’identità o la cittadinanza dello straniero richiedente protezione internazionale. Per quanto riguarda le disposizioni in materia di rimpatri la norma stabilisce l’avvio di un programma di rimpatrio volontario assistito. Una parte del decreto riguarda le disposizioni in materia di diniego e revoca della protezione internazionale. Si amplia il novero dei reati che, in caso di condanna definitiva, comportano il diniego e la revoca della protezione internazionale, includendo ulteriori ipotesi delittuose ritenute di particolare allarme sociale. L’articolo 17 del decreto estende le ipotesi di reato che consentono al giudice di adottare il provvedimento di allontanamento dalla casa di famiglia e prevede inoltre l’uso del braccialetto elettronico anche per imputati dei reati di maltrattamento domestico e stalking. Nel capitolo comprendente le misure per la sicurezza urbana il blocco stradale, che tornerà a essere un reato invece che una violazione amministrativa. Decreto sicurezza. Salvini festeggia: “Ora riscrivo le leggi sull’immigrazione” di Carlo Lania Il Manifesto, 28 novembre 2018 Il ministro esulta per l’esito scontato del voto di fiducia e promette nuovi interventi. Il M5S azzera il dissenso. Quando ormai è già sera Matteo Salvini sembra Neil Armstrong nel momento in cui mise piede sulla Luna: “E’ un primo grande passo per un’Italia più sicura e accogliente”, dice il ministro degli Interni dopo aver visto il decreto sicurezza superare senza problemi anche alla Camera l’ennesimo voto di fiducia (336 contro 249) facendo così un passo importante - lui sì - verso la sua trasformazione in legge. Tanto è l’entusiasmo, che il leghista non aspetta neanche il voto finale sul provvedimento, previsto per questa sera, per rilanciare: “La mia ambizione è lavorare nei prossimi mesi per una completa rivisitazione di tutte le norme che riguardano l’immigrazione”, annuncia. Roba da far tremare i polsi a quanti fino all’ultimo hanno sperato di riuscire a cambiare, seppure parzialmente, il provvedimento in discussione a Montecitorio, una parte dei quali mentre l’aula procede al voto, manifesta fuori lanciando per protesta piccole ruspe giocatolo contro il palazzo. Poco prima, intervenendo in aula, era stato il deputato di +Europa Riccardo Magi ad accusare la maggioranza giallo verde di fare un uso improprio del mezzo meccanico: “Avete iniziato a usare la ruspa contro il parlamento”, aveva scandito criticando il ricorso al voto di fiducia. Per il via libera al decreto la giornata fila liscia senza riservare sorprese. Eppure verso l’ora di pranzo si sparge la voce che il drappello di deputati 5 Stelle critici verso il provvedimento avrebbe potuto rendere visibile il suo dissenso. Stando infatti alle voci che circolano, cinque di loro avrebbero dovuto votare contro la fiducia e altri sette sarebbero usciti dall’aula al momento del voto (alla fine solo uno non parteciperà al voto). Un gesto inutile dal punto di vista dell’esito finale (alla Camera la maggioranza è blindata), ma che comunque avrebbe rappresentato un segnale forte del malumore esistente nel Movimento. La decisione, che sarebbe stata presa lunedì sera al termine di una riunione alla quale avrebbero partecipato 19 deputati “dissidenti”, se mai c’è stata davvero è però rientrata poche ore prima del voto, rendendo così ancora più in discesa la strada al decreto. In attesa di capire come il ministro leghista intenda rimettere mano alle leggi sull’immigrazione, diventano legge le misure inserite nel decreto. Tra le più discusse c’è l’abrogazione della protezione umanitaria, la creazione di una lista dei Paesi di origine sicuri utili per accelerare l’esame delle richieste di asilo, ma anche una forte riduzione del sistema Sprar gestito dai Comuni e che in futuro sarà riservato ai soli minori non accompagnati e a quanti si saranno visti riconosciuto lo status di rifugiato. Tutti provvedimenti che a parere dei critici, tra i quali figurano anche molti giuristi e l’Anci, l’associazione dei Comuni italiani, anziché creare “sicurezza” sono destinati ad aumentare situazioni di illegalità. Pareri dei quali il ministro degli Interni non ha però nessuna intenzione di tener conto più di tanto. “Non sono misure spot, ma interventi organici”, ha detto ieri difendendo ancora una volta il decreto. Entro stasera si dovrebbe si dovrebbe arrivare al voto definitivo, anche se il Pd ha già detto di voler fare ostruzionismo durante la discussione sui 146 ordini di giorno presentati. Un modo per rallentare il provvedimento che non servirà però a fermarlo. Tre errori sulla giustizia con rovinose conseguenze di Carlo Nordio Il Messaggero, 28 novembre 2018 Tre eventi, apparentemente senza rapporti, sono sintomatici della crisi non solo della politica, ma del modo di dibatterne i problemi. Primo esempio. Il decreto sicurezza oggi, salvo sorprese, verrà approvato dalla Camera. Ebbene, in un lettera pubblicata dal Corriere due giorni fa, Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha scritto: “Assimilare sicurezza e immigrazione in un unico decreto non mi pare né utile, né giusto. Favorisce una percezione della migrazione e dei movimenti dei rifugiati come minacce alla sicurezza pubblica. Questo è profondamente fuorviante”. Ebbene, in poche righe ci sono tre contraddizioni. La prima, che il concetto di “rifugiati” è un concetto giuridico, e si riferisce ai richiedenti asilo in quanto perseguitati “per razza, religione, cittadinanza, gruppo sociale o opinioni politiche”. Ne sono comunque esclusi i migranti per ragioni economiche. Ebbene, la stragrande maggioranza dei nostri “rifugiati” non è affatto perseguitata: non lo sono i marocchini, gli algerini e i tunisini, e tanti altri provenienti da Paesi che non saranno modelli di rispetto dei diritti umani, ma che comunque non sono brutali dittature. La seconda contraddizione è che anche i Paesi “persecutori” siedono all’Onu, e quindi contribuiscono a nominare, direttamente o meno, proprio l’Alto Commissariato. Quell’Alto Commissariato che invoca la protezione di chi scappa da loro. La terza contraddizione è che probabilmente il binomio insicurezza-immigrazione non sarà percepito a Ginevra, sede dell’Alto Commissariato, dove non entrano migranti né regolari né irregolari, ma lo è in modo doloroso nelle nostre periferie, dove spaccio di droga, e cosiddetta microcriminalità sono appannaggio di organizzazioni che sfruttano gli immigrati. E non è affatto una percezione suscitata dalla “fuorviante assimilazione di sicurezza e immigrazione”: è una statistica che si trae dalle denunce e dal numero dei detenuti. Probabilmente Grandi non poteva dire altrimenti, visti i vincoli postigli dai suoi committenti. Ma le contraddizioni rimangono. Secondo esempio. Malgrado le critiche di ordine tecnico provenienti praticamente da tutte le parti, opposizioni, avvocati e anche magistrati, il Ministro della Giustizia persiste nel mantenere quella mostruosità illiberale della sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. La risposta del Guardasigilli è di disarmante freschezza: fa parte del contratto di governo. Ora, a parte il fatto che l’accordo prevede soltanto che la prescrizione venga cambiata, non dice affatto che debba esserlo in modo così radicale, incostituzionale e irragionevole. Soprattutto in assenza di garanzie di contemporanea riforma del processo penale che altrimenti verrebbe snaturato. Terzo esempio. Il caso di papà Di Maio, che avrebbe violato le norme di assunzione di lavoratori, invitandoli poi al silenzio. In un paese normale questa storia non dovrebbe avere nessun riflesso politico nei confronti del figlio vicepremier. Durante la Prima Repubblica, le colpe dei padri non ricadevano sui figli, e viceversa. Pochi esempi, come quelli di Piero Piccioni e di Marco Donat Cattin confermano la regola: lì si trattava di sospettati di omicidio, droga e terrorismo: reati aggravati per il primo dalla “pruderie” degli anni Cinquanta, e per il secondo dalla voce che il padre Carlo avesse aiutato il rampollo nella fuga. Ora invece, di fronte a un caso di poco conto, si sta scatenando il putiferio. Perchè? Perchè lo stesso partito di Di Maio, a suo tempo, si servi di quest’arma impropria per attaccare gli avversari a cominciare da Renzi e da Maria Elena Boschi. I quali hanno reagito con signorilità compassionevole, ma hanno ricordato il linciaggio - politico e umano - cui furono sottoposti per presunte colpe altrui. E cosa fanno ora i grillini? Invece di ammettere che a suo tempo furono profittatori forcaioli, e di manifestare il fermo proposito di astenersi nel futuro da simili sciacallaggi, si limitano a fare spallucce borbottando che qui si tratta di fatti diversi. Concludo. Cosa hanno in comune questi tre eventi? Una cosa assai evidente: che gravi e urgenti problemi politici non vengono affrontati con argomentazioni raziocinanti, ma con una sorta di emotività che sconfina negli slogan. L’appello a un generico solidarismo dell’Alto Commissario, l’impacciato rinvio all’impegno contrattuale del ministro, e un generico fare spallucce da parte dei colleghi di Di Maio. In definitiva, un approccio improprio alla politica che dimostra i condizionamenti e i limiti di chi la gestisce. Decreto sicurezza al traguardo (ma sarà costituzionale?) di Giulia Merlo Il Dubbio, 28 novembre 2018 Il decreto sicurezza è al traguardo. Per Salvini è un successo perché il decreto è molto più suo che di Di Maio. E Salvini infatti esulta. Parla di svolta storica, di “rivoluzione”. Molti 5 Stelle invece dissentono: lo considerano un provvedimento eccessivamente reazionario. Si chiama decreto sicurezza ma c’entra poco con la sicurezza. E’ un decreto che serve essenzialmente a rendere difficile la vita agli immigrati e a ridurre il numero dei regolari. Probabilmente provocherà un netto aumento degli extracomunitari irregolari. Il governo ieri sera ha ottenuto la fiducia sul decreto che sarà approvato definitivamente oggi. Dopodiché si tratterà di vedere se, nel corso dei prossimi mesi, non ci saranno interventi della Corte Costituzionale. I dubbi di costituzionalità riguardano almeno tre punti. Il primo è il carattere di urgenza di un decreto che affronta una questione almeno ventennale, cioè strutturale: l’immigrazione. Difficile vedere il carattere d’urgenza. E’ però vero che gran parte dei decreti approvati negli ultimi anni erano privi di urgenza. Poi c’è la questione dell’articolo 14 e della revoca della cittadinanza agli italiani di origine straniera, e delle barriere burocratiche poste all’ottenimento della cittadinanza da parte di chi ne ha diritto (nessuno potrà ottenere la cittadinanza fino alla fine della legislatura). Infine la questione dell’abrogazione della “protezione umanitaria” che appare in aperto contrasto con l’articolo 10 della Costituzione. Il quale dice: “ Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica”. Il governo regge e ieri ha votato compatto la fiducia sul dl Sicurezza caro alla Lega. I testo, che ha già superato lo scoglio del Senato, verrà approvato oggi e diventerà legge dello Stato. “Sono orgoglioso che in soli 5 mesi governo e Parlamento stiano per approvare una rivoluzione nel campo della sicurezza e della immigrazione”, ha commentato il vicepremier Matteo Salvini, che ieri ha presidiato l’aula della Camera durante tutte le votazioni e ha definito il testo “un decreto che porta più sicurezza alle città d’Italia, che dà più poteri ai sindaci, che stronca il business della immigrazione clandestina, che aumenta che poteri della lotta antimafia, antidroga e antiracket”. Contro la mossa del governo di porre la fiducia e procedere a ritmi serrati sono insorte le opposizioni. Ostruzionismo compatto è stato portato avanti dal Partito Democratico. “Il Pd voterà convintamente contro”, ha ribadito Emanuele Fiano, che nel suo intervento si è rivolto in particolare ai 5 stelle: “Voi M5s, con la vostra muta complicità, state costruendo una dittatura della maggioranza pur dicendo di non condividere norme del decreto. Voi permettete che, con un voto di fiducia sulla tenuta di una maggioranza che scricchiola, si calpestino i diritti delle persone. Fate attenzione a quello che state facendo, soprattutto voi che dite di essere contrari e poi chinate il capo”. Su una linea diversa, invece, i forzisti. Per bocca della capogruppo, Mariastella Gelmini, infatti, il gruppo di Fotza Italia ha dichiarato di votare contro la fiducia posta dal governo, mentre “In merito al voto finale di domani il direttivo del Gruppo FI alla Camera ha deciso di votare sì. Poteva essere provvedimento più coraggioso, ma va comunque nella direzione del programma del centrodestra”. Dopo il voto sulla fiducia, sono stati discussi i 146 ordini del giorno presentati in Aula e questo ha fatto slittare ad oggi il voto finale sul provvedimento. “Tutto dipenderà dall’atteggiamento delle opposizioni”, ha detto il ministro per la Semplificazione, Riccardo Fraccaro, riferendosi in particolare di Pd e Leu. I dem, infatti, si starebbero orientando verso un duro ostruzionismo parlamentare sugli ordini del giorno, dopo che il dibattito nel merito del decreto è stato tagliato: “Interverremo a raffica su ogni odg”, è la linea. Quanto alla maggioranza, la soddisfazione leghista fa il paio con il fermento interno al Movimento 5 Stelle. Pubblicamente, i grillini si dicono compatti: “È un provvedimento coerente dopo tutti i miglioramenti che il Movimento 5 stelle ha apportato al testo”, ha detto in Aula la pentastellata Federica Dieni, annunciando il voto favorevole. “Noi votiamo convintamente e con senso di responsabilità il decreto, senza differenze perchè uniti dal medesimo interesse, la sicurezza dei cittadini”. All’interno del gruppo, però, rimane forte la fronda critica al contenuto del decreto. Voteranno il testo, pur col mal di pancia, tenendo incrociate le dita perchè sia la Consulta a bocciarlo per incostituzionalità. “Manteniamo delle perplessità sul decreto Sicurezza. Il dibattito sull'immigrazione è preoccupante. Tocca alla Consulta garantire un equilibrio”, ha detto in aula la dissidente Valentina Corneli, avvocato con un dottorato di ricerca in diritto costituzionale (tra i 18 firmatari pentastellati dell’appello per chiedere le modifiche al testo). E che ci sia grande freddezza nei confronti di un testo difficile da digerire (ma ormai legato a doppio filo alle più ampie dinamiche di tenuta del governo) lo dimostrano le numerose assenze sui banchi del governo dei ministri grillini. La Lega, invece, era presente al gran completo, sottosegretari compresi. E a nulla sono valse le richieste di ripensamento gridate da associazioni, movimenti e sindacati scesi in piazza. “Il processo penale è fallito. È il momento di depenalizzare” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 28 novembre 2018 Intervista a Antonio Lepre, di Magistratura Indipendente. “Quando sento parlare di riforme nel settore giustizia mi vengono subito i brividi”, dichiara Antonio Lepre, pubblico ministero a Paola e ora consigliere del Csm eletto nelle liste di Magistratura indipendente, commentando alcune delle proposte di riforma della giustizia in discussione in Parlamento. Consigliere, non è contento che il ministro della Giustizia voglia mettere mano al processo penale e a quello civile? Guardi, io ho grande rispetto della volontà del legislatore. E credo che il ministro sia mosso da buoni propositi. Ho però il timore che si possa pensare che cambiando ancora una volta le regole per prodigio il sistema giudiziario poi funzioni benissimo. Prima di cambiare le regole, da dove bisognerebbe partire? Dagli organici e dalle strutture. Un tema ricorrente … Si, ma che fino ad oggi nessuno ha avuto il coraggio di affrontare in maniera complessiva. Nell’ultimo Plenum, a nome di tutto il mio gruppo, sono intervenuto per proporre l’istituzione di una Commissione tecnica all’interno del Csm che abbia lo scopo di effettuare una seria mappatura degli uffici giudiziari italiani. Molti sono in condizioni talmente fatiscenti che non consentono l’esercizio della giurisdizione in modo degno e rispettoso del cittadino. E su questo aspetto anche gli avvocati saranno d’accordo. Non pensa che questa Commissione tecnica, se istituita, possa sovrapporsi alle competenze del Ministero della giustizia? No. Noi vogliamo solo essere d’aiuto al Ministero. A parte i casi limite di Bari o di Vibo Valentia, credo che se applicassimo ai Tribunali italiani le normative sulla sicurezza nei luoghi di lavoro al pari delle aziende private molti dovrebbero essere chiusi immediatamente. Ha fatto l’esempio di Bari. Perché gli uffici giudiziari cadono a pezzi? Penso che le inefficienze attuali siano il frutto di sottovalutazioni dei governi precedenti, che non hanno mai voluto affrontare in radice i problemi. Posso fare un esempio? Prego. Il processo civile telematico non funziona. Si blocca in continuazione ed è fonte di disagio perenne. Possibile che non si riesca a trovare una soluzione dopo anni dalla sua entrata in vigore? In concreto, come pensate di muovervi? Si potrebbe pensare ad un semplice questionario. Che tocchi i casi concreti. Quindi chiedere al giudice quali sono le sue condizioni lavorative, se ha difficoltà con le dotazioni informatiche, e cosi via. Gli altri gruppi associativi vi accuseranno di essere interessati solo a temi prettamente “sindacali”. Tipo i carichi esigibili (il numero medio di fascicoli che un magistrato può trattare in un anno, ndr). Come risponde? Non bisogna sempre pensare ai massimi sistemi del diritto. Sono anni che si punta tutto sulla produttività del giudice. Io poi vorrei vedere la qualità di queste sentenze. Dovrebbe essere chiaro a chiunque che fare il magistrato è una attività complessa e delicata. A parità di tempo, è diverso scrivere dieci o cento sentenze. Questo mi sembra un concetto chiaro. Bisogna cambiare la prospettiva? Ripeto, ho fiducia nell’attuale ministro. Si è insediato da poco e nessuno ha la bacchetta magica. Però qualcuno si è chiesto come mai il numero dei fascicoli è abnorme? Qualche suo collega dice perché ci sono troppi avvocati. Io do una risposta diversa: moltissimo contenzioso nel civile è prodotto dall’inefficienza della pubblica amministrazione. Pensi solo alle denunce per le buche stradali o per i servizi non erogati o erogati mali. Oppure, per quanto riguarda le banche e le assicurazione, gli effetti nefasti dell’omesso controllo su questi oligopoli economici. Il ministro Alfonso Bonafede ripete sempre che riformando la prescrizione del reato si risolveranno i problemi nel settore penale. Condivide? A me sembra un escamotage. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che il processo penale è completamente fallito. Oggi si ferma tutto nella fase cautelare. E, per quanto concerne il blocco della prescrizione, da giurista ho forti perplessità che sia rispettoso del dettato costituzionale della ragionevole durata del processo. Proposte? Subito una seria depenalizzazione. Su questo aspetto sono d’accordo gli avvocati e i magistrati. Però non i politici. A molti piace la durezza e la severità delle parole, con una equazione: più reati più giustizia. Mi sembra un fatto di grande arretratezza culturale. Da anni si assiste ad un innalzamento generalizzato delle pene per molti reati. La sua opinione? Credo si stia perdendo il senso della proporzionalità. E poi sono sanzioni solo sulla carta. L’effetto “mediatico” del reato? Si, spesso si tratta di reati che hanno come unico scopo quello di rassicurare l’opinione pubblica. Se i diritti dell’imputato ora vacillano è anche perché l’università ha fallito di Rita Dedola* Il Dubbio, 28 novembre 2018 Alla manifestazione organizzata dall’Unione delle Camere Penali al Teatro Manzoni di Roma il 23 novembre scorso, a chiusura delle quattro giornate di astensione per la difesa della Costituzione e dei diritti individuali, era presente tutto il mondo accademico che si occupa di diritto e di processo penale. Gli interventi che si sono succeduti, serrati e corposi, tutti concordi nello stigmatizzare la riforma che blocca il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, hanno avuto anche un contenuto sul quale è necessario riflettere per leggere e interpretare i tempi bui che ci stiamo accingendo a vivere. "L’accademia”, da Enrico Amati a Giampaolo Voena, infatti ha in qualche modo fatto ammenda sul ruolo svolto negli ultimi decenni nell’insegnamento del diritto, della procedura penale e, più in generale, dei diritti della persona che intorno a questi ruotano. È infatti lecito chiedersi che cosa abbia imparato chi oggi ci governa o forse che cosa e come abbiano insegnato i loro professori su tali materie. Interrogativo che pare legittimo se si considera quanto poco sia chiaro, a molti, che l’istituto della prescrizione è il contrappeso imposto dallo stato di diritto alla eccessiva durata del processo; e che il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio rende il processo interminabile non solo per l’imputato, ma anche per le persone offese dal reato. Così come pesa, quell’ombra sulla qualità degli insegnamenti, alla luce del fatto che tanti non hanno chiaro come la riforma Orlando, e prima di questa altre modifiche normative, abbiano reso i reati di fatto imprescrittibili. A costoro pare sfuggire, ancora, che se è la difesa a chiedere un rinvio del processo, i termini di prescrizione non decorrono; e che solo un processo penale quale quello delineato dall’articolo 111 della Costituzione è proprio di uno stato democratico che tutela i diritti e le garanzie. Evidentemente quella pedagogia non ha funzionato. Allora è venuto il momento, prima che sia troppo tardi, di cambiare passo e sistema pedagogico, e soprattutto di essere tutti uniti come ha saggiamente detto Giorgio Spangher. La giornata del 23 novembre perciò deve rappresentare un punto di ripartenza per la comunità dei penalisti, degli avvocati, dei “lobbisti della Costituzione”, come efficacemente e ironicamente definiti dal presidente dell’Unione delle Camere penali, Caiazza, per approntare un nuovo linguaggio con cui spiegare al di là delle logiche di convenienza e delle contingenze politiche, ai giovani avvocati, agli studenti delle nostre facoltà e ancora prima ai cittadini di questo Paese, che il processo penale è il luogo nel quale più di ogni altro si testa la tenuta dei diritti individuali dei cittadini - che hanno diritto a un processo la cui durata deve essere ragionevolmente commisurata al caso singolo - e non il luogo ove consumare la rabbia o la vendetta del popolo. Se il processo è diventato terreno e argomento di scontro politico è segno che si vogliono minare le basi dello Stato democratico così come configurato dai nostri padri costituenti, chiamato a tutelare i diritti di ciascuno nel patto sociale che ci siamo dati. Allora chi si è battuto per l’introduzione del codice di procedura penale di stampo accusatorio e per la modifica conseguente dell’articolo 111 della Costituzione, ha la responsabilità di aiutare i giovani a ritrovare il linguaggio delle libertà individuali, delle garanzie, dei pesi e dei contrappesi, a fronte della retorica populista che in nome e per conto nostro, forte della investitura elettorale frutto di una colossale truffa delle etichette, vuole costruire una democrazia senza diritti. *Avvocata Consulta. “Non è punibile il padre che evade dai domiciliari entro le 12 ore” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 novembre 2018 La Corte costituzionale equipara la detenzione ordinaria in casa a quella speciale. La Consulta interviene ancora una volta in favore del diritto del figlio minore del detenuto a non entrare in carcere e questa volta riconosce al padre, come già aveva fatto per la madre detenuta, il margine di non punibilità delle 12 ore di allontanamento, per il caso di detenzione ordinaria, al pari di quella speciale. Quest’ultima misura è concessa alle condannate, che abbiano espiato almeno un terzo della pena, o almeno 15 anni in caso di condanna all’ergastolo, madri di bambini di età inferiore ai anni dieci, di espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli. Misura che viene concessa anche al padre di bambini di età inferiore ad anni dieci con lui conviventi, quando la madre sia deceduta, o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza ai figli. La ratio della decisione della Corte costituzionale è quella di dare la prevalenza ai bisogni del minore rispetto alle esigenze di sicurezza sociale, solo pretendo un margine di valutazione della pericolosità sociale a cui subordinare l’estensione. Con la sentenza 211 del 24 ottobre 2018, depositata il 22 novembre, la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art 47 ter comma 1 lett. b) e comma 8 dell’ordinamento penitenziario in relazione all’art 3 Cost, nella parte in cui la punibilità per il reato di evasione, di colui che stia eseguendo la misura della detenzione domiciliare ordinaria per cura della prole e si allontani dal domicilio, non è trattata dal punto di vista sanzionatorio come la detenzione speciale, che prevede il margine delle 12 ore di allontanamento. E’ violato l’art 3 della Costituzione e la questione è stata ritenuta fondata perché è illegittimo per la Consulta punire più severamente la detenzione domiciliare ordinaria rispetto a quella speciale, in presenza della medesima ratio, ovvero garantire la cura dei figli minori, da parte del genitore detenuto, con accesso alle misure extra-murarie. Infatti, le due misure prese in considerazione dalla sentenza riguardano in entrambi i casi, il diritto del padre, condannato, di prendersi cura del figlio minore: si tratta da un lato del caso in cui la madre sia deceduta o impossibilitata a dare assistenza - l’art 47ter comma 1 lett. b), cioè il caso in questione -, e dall’altro - art 47 sexies op - quello in cui la madre sia deceduta o non possa affidare la prole ad altri se non al padre. La Corte Costituzionale si affida ai principi di ragionevolezza ed uguaglianza per sostenere le sue motivazioni e osserva che sarebbe irragionevole prevedere la sanzione per l’evasione nel primo caso, indipendentemente dalla durata dell’allontanamento - che non tenga cioè conto anche delle incombenze del ruolo del padre come custode del figlio -, e stabilire invece un limite di 12 ore, oltre il quale subordinare la punibilità per il reato nel caso della detenzione speciale. Peraltro già in una pronuncia di illegittimità (sentenza n. 177/ 2009, gli stessi motivi di ragionevolezza e uguaglianza avevano riguardato il caso della madre detenuta. E’ proprio nel ricordare questa pronuncia che la Corte, riconoscendo che la ratio delle misure, ordinaria e speciale - concesse alla madre o al padre - sia identica, approfitta per ribadire che “il medesimo ragionamento non può che essere esteso al raffronto del trattamento penale degli allontanamenti al domicilio dei detenuti padri”, in modo che una volta che egli sia ammesso al regime di tali misure, “non può che essergli applicato il medesimo regime previsto per la madre”. E’ dunque di tutta evidenza che il punto di equilibrio nella scelta di questo più duttile trattamento sanzionatorio, verso il padre e la madre in detenzione domiciliare ordinaria per la cura del figlio, si trovi dunque nel contemperamento tra le esigenze di difesa sociale, da una parte, e la considerazione dei bisogni della prole minore dall’altra. Nella scelta di dare prevalenza alla seconda viene però imposta una verifica di non pericolosità sociale, vincolando la non punibilità alla prognosi favorevole in assenza di pericolosità sociale. Cassazione, la contenzione non è atto terapeutico di Giovanni Rossi* Il Manifesto, 28 novembre 2018 La Corte di Cassazione nei giorni scorsi ha depositato le motivazioni della sentenza con cui ha confermato la condanna per sequestro di persona e falso ideologico nei confronti di sei medici e undici infermieri coinvolti nella morte di Franco Mastrogiovanni, deceduto legato al letto, il 31 luglio 2009 nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo di Lucania, dove era stato ricoverato in Trattamento Sanitario Obbligatorio. Franco Mastrogiovanni morì, legato al letto, il 31 luglio 2009 nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo di Lucania, dove era stato ricoverato in Trattamento Sanitario Obbligatorio, poco meno di novanta ore prima. La Corte di Cassazione nei giorni scorsi ha depositato le motivazioni della sentenza con cui ha confermato la condanna per sequestro di persona e falso ideologico nei confronti di sei medici e undici infermieri. Secondo la Corte, la contenzione meccanica non è mai un atto terapeutico. Il medico non può giustificarla con la libertà di cura, costituzionalmente tutelata. Viceversa, nel caso della contenzione, gli compete una specifica responsabilità perché egli più di altri è professionalmente consapevole dei danni alla salute che la contenzione può arrecare. Priva di qualsiasi valenza terapeutica, ma anzi dannosa per la salute, la contenzione ha una pura finalità “cautelare” diretta a salvaguardare l’incolumità fisica del paziente o di coloro che vengono a contatto con lui. Allorché si configuri un pericolo grave, e tale pericolo sia attuale od imminente. Si tratta di una condizione immediata e momentanea. Per esempio, quando stiamo intervenendo ai bordi di un autostrada o in cima ad una montagna. Risulta difficile immaginare che tali condizioni si determinino in strutture sanitarie che dovrebbero essere organizzate proprio per impedire che pericoli prevedibili e potenziali si concretizzino. L’esperienza dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura no restraint dimostra la praticabilità di questa strategia. Le istituzioni sanitarie e le Regioni dovrebbero emanare precise indicazioni organizzative perché le pratiche no restraint vengano messe in atto in tutte le strutture. Le organizzazioni professionali dovrebbero sostenere tali indirizzi, che non mettono in discussione alcuna l’autonomia e la libertà di cura. Anzi: ciascun professionista, essendo la contenzione meccanica un atto non terapeutico e potenzialmente lesivo per la salute, dovrebbe sentirsi deontologicamente obbligato a vigilare affinché non si determini nessun abuso o utilizzo routinario. Come ricorda la Cassazione anche gli infermieri hanno una propria autonomia professionale e, dunque, nel caso Mastrogiovanni, non avendola esercitata sono stati condannati. Cade anche l’ultimo baluardo “legale” della contenzione meccanica: il regolamento del 1909 sui manicomi. La Cassazione chiarisce di non ritenere più in vigore quel regolamento. E comunque fa notare che la ratio di quella disposizione fu quella di limitare la contenzione a casi eccezionali. Dunque, nemmeno in quel testo era rintracciabile una qualche autorizzazione a un uso routinario e “terapeutico” della pratica di legare i pazienti. Infine, la Corte prende in esame il motivo per cui inizialmente Mastrogiovanni venne contenuto: eseguire un prelievo di urine. Motivo assolutamente ingiustificato, e non solo per la mancanza di qualsiasi pericolo grave e urgente necessità, ma anche per il fatto che non può esservi alcun obbligo al riguardo ma è sempre necessario il consenso della persona cui l’esame viene proposto. Le motivazioni della Cassazione portano implicitamente a considerare quanto si abusi di strumenti che limitano la libertà delle persone, anche col ricorso routinario al Trattamento Sanitario Obbligatorio, dimenticando quanto dovrebbero essere personalizzati e giustificati tutti i passaggi che portano al Tso; o con l’eccessivo uso degli Accertamenti Sanitari Obbligatori, che rappresentano una “via breve” per mettere in atto il controllo senza che lasciare traccia. E ci interrogano sul ruolo di garanzia che dovrebbero svolgere le diverse figure a ciò dedicate, a partire dal Sindaco, nei confronti delle persone in difficoltà per ragioni di salute mentale. A tutela della libertà personale, dell’integrità fisica, della dignità umana. *Psichiatra Noto (Sr): muore in cella a 42 anni per infarto, una lettera solleva dubbi sui soccorsi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 novembre 2018 Si chiamava Giuseppe Viola, 42 enne, ed è morto d’infarto nel carcere siciliano di Noto il 19 novembre scorso. A nulla sono valsi i soccorsi che prontamente sarebbero giunti nell’arco di pochi minuti. Ma c’è da usare il condizionale perché questa è la versione data dagli operatori del carcere che, però, presenta punti poco chiari e non combaciano con la testimonianza di altri detenuti che avrebbero assistito alla scena. La moglie di Giuseppe, Sara, non ci crede e ha trovato conferma ai suoi dubbi in una lettera di un detenuto che racconta tutta un’altra storia. “Quel giorno l’avevo sentito al telefono - spiega la moglie a Il Dubbio, erano le 10 e 30 di mattina ed era tranquillo, poi dopo qualche ora mi è giunta la chiamata dal carcere per dirimi che Giuseppe è morto di infarto”. Lei, accompagnata dai familiari e amici, ha raggiunto il carcere la mattina seguente e ha potuto vedere suo marito, sopra il lettino dell’obitorio del carcere. Gli operatori dell’istituto penitenziario hanno raccontato per via informale - ai familiari che Giuseppe si è sentito male e a quel punto sarebbe intervenuto prontamente il medico, con massaggi cardiaci e, all’arrivo del 118, con il defibrillatore. Ma nulla, non sono riusciti a rianimarlo. “Sono stati gentilissimi, fin troppo, - spiega Domenico, il fratello del detenuto, ci hanno fatto entrare tutti, compresi zii e amici, e quindi ci siamo trovati a nostro agio, e, con il senno di poi dico ingenuamente, abbiamo detto che non c’era bisogno dell’autopsia”. Non hanno avuto nessun referto medico, solamente il certificato di morte rilasciato dal comune. Ma è andata veramente così? Che l’assistenza sanitaria nelle carceri, in generale, è problematica, questo è un dato di fatto. Se poi c’è il rischio che qualcuno ci rimetta la vita per un presunto ritardo nel soccorso, o sottovalutazione del problema, il problema si trasforma in un dramma. La moglie di Giuseppe, a distanza di qualche giorno, ha ricevuto la lettera di un detenuto che le ha raccontato fatti che destano inquietudine. E’ giusto - scrive - che sappiate la verità, anche se fa molto male”. Chi scrive è stato testimone dell’evento e si è detto pronto a testimoniare. “A Giuseppe non gli è stato dato subito aiuto - si legge nella lettera -, anche se si trovava vicino in un reparto dove ci sono più guardie”. Il detenuto spiega che non sarebbe stato portato subito in infermeria e il medico sarebbe intervenuto dopo più di 20 minuti. Pare che - sempre secondo la testimonianza, il medico stesse visitando un detenuto che era appena entrato in carcere e quindi non avrebbe avuto tempo per dedicarsi a Giuseppe. Sono testimonianze, non prove. Però il dubbio, atroce, rimane. “Io ho visto il corpo di mio marito - racconta Sara, e non ho visto nessun segno al petto. Possibile che un defibrillatore non lasci alcuna traccia?”. L’avvocato Silvestro Salvatore, il legale dei familiari di Giuseppe, ha fatto un esposto alla procura di Siracusa, segnalando - attraverso le notizie che gli sono giunte - “la sottovalutazione - riferisce a Il Dubbio - della sintomatologia del detenuto e che sarebbe stato visitato dopo 25 minuti quando oramai era morto”. Sono delle ipotesi, due versioni che non combaciano. Sarà quindi l’autopsia e le eventuali indagini a fare chiarezza. La questione che non lascia dormire la moglie è questa: “Se la testimonianza dei detenuti fosse vera, mio marito poteva essere salvato in tempo”. Giuseppe era in carcere da luglio dello scorso anno e sarebbe uscito a febbraio prossimo. L’assistenza sanitaria, come detto, è un problema nelle carceri. Rita Bernardini del Partito Radicale spiega a Il Dubbio che casi del genere possono benissimo sfociare in tragedia. “Basti pensare - racconta Bernardini - che molti medici sottovalutano le lamentele dei detenuti perché partono con il pregiudizio che ci vogliono marciare. Il che - sottolinea, alcune volte, è vero visto che è una possibilità per uscire poche ore dalle celle ed entrare in infermeria, ma questo pregiudizio preclude l’accertamento di eventuali gravi malattie”. L’esponente del Partito Radicale cita un caso di un detenuto di Padova che zoppicava, sentiva dei dolori, e il medico ha sempre rimandato perché pensava che fingesse, “quando poi si decise a visitarlo - spiega Bernardini - scoprirono che aveva un tumore in stato avanzato”. Pisa: la telemedicina arriva in tre carceri toscani quinewselba.it, 28 novembre 2018 Un progetto sperimentale per diagnosticare patologie cardiache che coinvolgerà le tre strutture penitenziarie di Pisa, Porto Azzurro e Gorgona. La telemedicina sarà attivata in tre strutture penitenziarie della Toscana grazie alla sperimentazione del teleconsulto per diagnosticare patologie cardiache, che sarà presentata nelle prossime settimane al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Un progetto nato dalla stretta collaborazione fra Ordine degli avvocati di Pisa, Scuola Forense dell’ Alto Tirreno e Fondazione “Gabriele Monasterio”, con il Provveditorato toscano dell’amministrazione penitenziaria. “La sperimentazione del progetto denominato “Cuore di tutti” - hanno spiegato i promotori - coinvolgerà la casa di reclusione maschile di Porto Azzurro all’Elba (circa 300 detenuti), il centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa, che ha anche una sezione femminile e la casa di reclusione sull’isola di Gorgona. Obiettivo è quello di evitare, almeno in una prima fase, il trasferimento di detenuti in altre strutture sanitarie, se non in condizioni di effettiva emergenza clinica, e attuare così un’attività di prevenzione delle patologie cardiovascolari. Grazie a questo sarà realizzato “uno studio scientifico sulle condizioni sanitarie dei detenuti e degli operatori penitenziari per individuare un protocollo di monitoraggio delle loro condizioni di salute”. Secondo il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria di Toscana e Umbria, Antonio Fullone, il progetto “contribuirà a migliorare la vita dei detenuti, consentendo diagnosi maggiormente approfondite con la tempistica necessaria”. Il progetto è supportato anche dal garante nazionale dei detenuti, Emilia Rossi. Lucca: il Comune contatterà il ministero per inaugurare il nuovo padiglione del carcere lagazzettadilucca.it, 28 novembre 2018 “Venerdì 23 novembre la Commissione socio-sanitaria comunale si è recata in visita al carcere (Casa circondariale) di Lucca, “San Giorgio”. La visita era stata richiesta da tempo, ma soltanto la scorsa settimana ci è stata autorizzata dal Ministero - scrive il presidente della commissione Pilade Ciardetti (Sinistra con Tambellini. Un incontro utile, perché tra l’altro coincide con il passaggio di consegne sia del direttore del carcere dottor Ruello, sia della garante dei diritti dei carcerati dottoressa Mia Pisano. Questo ci offre l’opportunità di fare il punto della situazione e rilanciare le nostre iniziative”. “Il direttore coadiuvato dalle due educatrici ha fatto il quadro della situazione - prosegue Ciardetti -. L’ambiente è quello che è: un antico convento, riadattato a prigione dove vivono 103 detenuti (camere da due o da quattro posti) distribuiti su 4 sezioni. La capienza massima potrebbe raggiungere 160 ospiti. Gli agenti di polizia penitenziaria sono 93, ma il numero è insufficiente: ce ne vorrebbero almeno altri 5/7 per fa funzionare adeguatamente la struttura. “San Giorgio” è un istituto di media sicurezza con detenuti di non elevata pericolosità (reati di patrimonio, stupefacenti). Gli italiani sono 48 e bilanciano gli stranieri che sono rispettivamente: 17 del Marocco, 10 della Romania 12 dell’Albania,9 della Tunisia 7 di altri stati. L’ambiente è quello di un antico convento del 1500 destinato alle monache di clausura domenicane, sicuramente molto suggestivo, ma poco adatto per un carcere, anche se gli interventi, in particolare quelli degli ultimi tempi, lo hanno reso più accettabile. Al di là di alcuni episodi riportati, da quanto riferito dal direttore il clima nel carcere è relativamente discreto. Una buona parte di detenuti gode all’interno del carcere di libertà di movimento in un lungo corridoio su cui affacciano le celle che restano aperte quasi tutto il giorno. Un regime più rigoroso è riservato ai detenuti più pericolosi. Il problema è il tempo libero e l’assenza di lavoro, quest’ultima legata al fatto che questo è un carcere di passaggio, dove non si rimane in genere più di tre o quattro mesi”. “Per la maggior parte del tempo i detenuti restano in cella - scrive il consigliere -; talvolta partecipano alle attività organizzate dai volontari, in particolare da quelli Caritas. I carcerati si occupano della cucina interna e del verde; in carcere sono attivi corsi di teatro, cucina, cineforum italiano, corso di barbiere. C’è una biblioteca e una palestra che sta aperta solo tre giorni perché attualmente mancano dei volontari per trasformarla in un’attività continuativa. Novità sono la ciclo-officina e un nuovo progetto Asl-Caritas che dovrebbe prevedere l’impiego di detenuti. L’obiettivo naturalmente è creare competenze da spendere una volta fuori”. “La visita al carcere - prosegue il direttore, guidati dal direttore, ha confermato il clima relativamente tranquillo, dovuto molto alle 2 educatrici, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria che grazie a una professionalità per molti di loro di lunga data, cercano di alleggerire le tensioni. Stupore ha suscitato il padiglione ancora da inaugurare, vuoto, che dovrebbe ospitare la mensa e un grande spazio culturale e ricreativo: è costato 90mila euro, ne abbiamo sollecitato il collaudo al fine di poterlo mettere in funzione quanto prima. Il collaudo c’è stato, ma mancano 6/7 agenti per poterlo aprire: per ora, quindi, resta chiuso. Una situazione davvero triste, soprattutto per i detenuti e per la vivibilità complessiva della struttura: tavoli, sedie, armadi sparsi sul pavimento in attesa di essere montati che rischiano di essere vecchi prima dell’uso”. “La visita della commissione sociale è solo il primo passo di un impegno che l’amministrazione si è presa per il 2019 - conclude Ciardetti: concordare iniziative con la Caritas, già presente con progetti di borse lavoro in collaborazione con la Asl; rilanciare e articolare meglio l’impegno del Gruppo Volontari Carcere, non solo per l’utilizzo della casa S. Francesco (che accoglie gli ex detenuti), ma anche per attività all’interno del carcere; infine, nell’ambito delle relazioni fra istituzioni, l’Amministrazione cercherà in ogni modo di far arrivare la voce della casa circondariale di Lucca fino al Ministero della Giustizia in modo da far presente la necessità impellente e assoluta dell’utilizzo dei nuovi padiglioni, affinché possa arrivare l’organico necessario e ad oggi mancante”. Rossano (Cs), delegazione dell’Unical visita il carcere, 20 i detenuti-studenti di Emilio Enzo Quintieri* iacchite.com, 28 novembre 2018 Cresce sempre di più il numero dei detenuti, ristretti nella Casa di Reclusione di Rossano, che decidono di iscriversi all’Università della Calabria ed in modo particolare ai corsi di laurea in Scienze del Servizio Sociale e Scienze Politiche. Al momento, sono 20 i detenuti, quasi tutti appartenenti al circuito penitenziario dell’alta sicurezza, ad essere iscritti presso l’Unical, il più grande ateneo calabrese, situato ad Arcavata di Rende, nell’area urbana di Cosenza, guidato dal Magnifico Rettore Gino Mirocle Crisci. Molti degli studenti, sono detenuti da tantissimi anni, ed alcuni di loro sono condannati alla pena perpetua. Nei giorni scorsi, una delegazione di studenti del corso di laurea magistrale in “Intelligence ed Analisi del Rischio” del Dipartimento di Lingue e Scienze dell’Educazione dell’Università della Calabria, guidati dal Prof. Mario Caterini, Docente di Diritto Penale, si è recata a visitare l’Istituto Penitenziario di Rossano, accompagnata dall’ex Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani e candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Emilio Enzo Quintieri, previamente autorizzato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Nella circostanza, all’interno dell’Istituto, vi era anche la Prof.ssa Franca Garreffa, Docente di Sociologia della Devianza dell’Unical insieme ad altri studenti, per una lezione didattica. Attualmente, riferisce il radicale Quintieri, nel Carcere di Rossano, il cui reggente è il Direttore della Casa Circondariale di Paola Caterina Arrotta, a fronte di una capienza di 263 posti, sono presenti 282 detenuti, 62 dei quali stranieri (prevalentemente albanesi, tunisini ed iracheni). 81 detenuti appartengono al circuito della media sicurezza e 201 a quello dell’alta sicurezza. Tra questi ultimi, 179 al sotto circuito As3 (criminalità organizzata) e 22 al sotto circuito As2 (terrorismo internazionale di matrice islamica). Essendo una Casa di Reclusione, la maggior parte dei detenuti (262) sono definitivi e vi sono molti ergastolani (33). Per 5 di loro il “fine pena mai” è di tipo condizionale mentre per gli altri 28 è ostativo, a meno che non collaborino con la giustizia o che la loro collaborazione sia dichiarata dall’Autorità Giudiziaria impossibile o inesigibile. Pochissimi sono quelli in attesa di primo giudizio (4) e pochi sono anche gli appellanti (7) ed i ricorrenti (9). Più che altro i detenuti con queste posizioni giuridiche sono gli appartenenti al sotto circuito As2 cioè quelli accusati di terrorismo internazionale di matrice islamica. A Rossano vi sono 20 studenti universitari e non sono pochi considerato che in tutta Italia risultano iscritti all’Università soltanto 590 persone detenute. Vi è anche un detenuto in semilibertà, fruitore anche di licenza premio. Nell’Istituto, alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, lavorano solo 83 detenuti, abbastanza pochi poiché per i condannati il lavoro è obbligatorio secondo quanto stabilisce l’Art. 20 della Legge Penitenziaria. Pochissimi detenuti sono impegnati in lavori esterni di pubblica utilità (canile municipale) e pochi altri sono dipendenti di una impresa esterna (ditta di ceramica). Ma non è tutto rose e fiori a Rossano perché vi sono anche delle criticità, in parte già denunciate all’esito delle precedenti visite, che debbono essere risolte al più presto. Tra queste la mancanza di un Direttore titolare (è pendente un interpello straordinario per la Direzione dell’Istituto di Rossano poiché il precedente Direttore Giuseppe Carrà è stato trasferito alla Casa Circondariale di Castrovillari), l’assenza di un funzionario della mediazione culturale e la carenza del personale di Polizia Penitenziaria. Il Reparto, guidato dal Commissario Capo Elisabetta Ciambriello, dovrebbe essere composto da 153 unità ma ve ne sono assegnate soltanto 131 che non sono tutte in servizio poiché 3 sono distaccate in altra sede penitenziaria, 2 sono in missione ed altre 6 in missione per partecipare al corso di Vice Ispettore presso le Scuole di Formazione dell’Amministrazione Penitenziaria. In servizio, vi sono, a malapena, 120 unità di Polizia Penitenziaria (di cui 12 addetti al Nucleo Traduzioni e Piantonamenti) che sono assolutamente insufficienti per un Istituto particolare e complesso come Rossano con circuiti di media ed alta sicurezza. Tale carenza, non riguarda esclusivamente il profilo della sicurezza, ma anche quello del trattamento perché senza sorveglianza non possono essere svolte attività trattamentali di nessun genere, ricreative, culturali, sportive. Recentemente, grazie all’impegno profuso dal Prof. Mario Caterini dell’Università della Calabria ed alla disponibilità dell’Amministrazione Penitenziaria, sia nella Casa di Reclusione di Rossano che nelle Case Circondariali di Castrovillari, Cosenza e Paola, gli studenti di Giurisprudenza che sono al quinto anno, potranno svolgere attività di tirocinio. Il Dipartimento di Scienze Giuridiche ed Aziendali dell’Unical ha già fatto apposito bando e, prossimamente, ad ogni Istituto Penitenziario verranno assegnati 2 tirocinanti per 4 mesi. Ma non basta il lavoro e l’impegno svolto dall’Amministrazione Penitenziaria, dall’Università o dagli altri Enti ed Associazioni, conclude l’ex Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani Emilio Enzo Quintieri. Bisogna che le Istituzioni Pubbliche ed in particolare modo la Regione Calabria facciano la loro parte per sostenere tutte le attività finalizzate alla rieducazione ed al reinserimento sociale. Ad esempio nel Carcere di Rossano, gli studenti-detenuti, hanno solo un computer stravecchio, possibile che la Regione Calabria non provveda a fornire quantomeno dei nuovi personal computer all’Istituto per consentire ai detenuti di poter espletare l’attività di studio e di ricerca? *Movimento Nazionale Radicali Italiani Catanzaro: convenzione con istituti penitenziari per il reinserimento dei detenuti calabriaeconomia.it, 28 novembre 2018 Sottoscritte nei giorni scorsi, nella sede della Cittadella a Catanzaro, le convenzioni con gli Istituti penitenziari per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. L’atto è stato firmato, per la Regione, dal dirigente generale del Dipartimento lavoro, formazione e politiche sociali Fortunato Varone e della dirigente del settore politiche sociali Rosalba Barone, per gli istituti penitenziari, dal direttore dell’ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna Emilio Molinari, dal direttore della Casa circondariale “Panzera” di Reggio Calabria Maria Carmela Longo, dal direttore dell’Istituto custodia attenuata “Luigi Daga” di Laureana di Borrello Angela Marcello, dal direttore dell’Istituto penale minorile di Catanzaro Francesco Pellegrino. La sottoscrizione delle convenzioni rappresenta l’atto finale di un percorso, attivato dal presidente Mario Oliverio, con il protocollo d’intesa tra il Ministero della giustizia e la Regione Calabria per la realizzazione di interventi di “Reinserimento socio-lavorativo delle persone in esecuzione penale nel territorio calabrese”. Durante l’iniziativa, l’assessore regionale al lavoro e welfare Angela Robbe, nel porgere i saluti del presidente Oliverio, ha evidenziato che “la Regione Calabria, tra le linee di intervento strategiche e di indirizzo, intende promuovere un mercato del lavoro inclusivo, in linea con le politiche comunitarie, ritenendo ciò una priorità fondamentale a garanzia di quanti sono a rischio di povertà e di emarginazione sociale. L’obiettivo dell’iniziativa regionale - ha rimarcato - è quello di dare alle persone in stato di detenzione e quindi fragili, soprattutto dopo il periodo di isolamento detentivo, la possibilità di fruire delle opportunità e delle risorse necessarie per partecipare pienamente alla vita economica e sociale. la capacità di lavorare in sinergia, di fare rete con tutti i soggetti coinvolti nel trattamento dei detenuti e nel loro reinserimento sociale - ha dichiarato infine la Robbe - è fondamentale e strategico per un percorso positivo al fine di restituire dignità, speranza, opportunità di riscatto alle fasce svantaggiate”. Il protocollo è finalizzato a porre in essere la realizzazione di percorsi personalizzati di rieducazione, sostegno e reinserimento sociale in favore dei soggetti in esecuzione penale ivi compresi i minori e i giovani adulti, attraverso opportunità formative, lavorative e valorizzandone delle potenzialità. Il lavoro rappresenta lo strumento principale per favorire il processo di inclusione sociale e l’adozione di modelli di vita volti a facilitare il reinserimento sociale, di primaria importanza per la riduzione dei tassi di recidiva e soprattutto attua quanto espresso dai principi contenuti nell’ art. 27 della nostra Costituzione. I dettagli di ogni specifico progetto sono stati definiti nell’ambito di apposite appendici operative, quali: progetto pilota per la “Produzione di olio di oliva”- Icat di Laureana di Borrello, progetto pilota “Sartoria sociale” - CC Panzera di Reggio Calabria, progetto pilota “Il forno invisibile” - Ipm di Catanzaro, progetto pilota volto al “Potenziamento delle competenze professionali dei giovani adulti” - Uiepe di Catanzaro Ascoli Piceno: un orto sociale per coltivare speranza di Vincenzo Varagona Avvenire, 28 novembre 2018 Un orto sociale, in cui sperimentare quanto imparato da coltivatori di professione. È l’ultimo passo di un progetto avanzato di recupero personale dei detenuti del carcere di Marino del Tronto (Ascoli Piceno). L’orto è stato creato davanti alla struttura di detenzione, in un campo recuperato dall’abbandono dopo che - negli anni 80 - era stato utilizzato come rettangolo di gioco dagli stessi ospiti del carcere, ma anche per allenare l’Ascoli quando era in serie A. Oggi il terreno è tornato a rianimarsi, in parte destinato a piccolo campo da gioco, in parte ad area verde per i colloqui con le famiglie e per il resto come orto sociale. Quest’ultimo progetto è stato realizzato grazie alla Regione, attraverso l’Agenzia per i servizi agricoli e il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria Marche-Emilia Romagna, soggetti legati da un accordo siglato 10 anni fa, che ha già dato ottimi risultati nel carcere anconetano di Barcaglione. Il problema del rifornimento idrico è stato risolto grazie a un innovativo sistema di riutilizzo delle acque che escono dall’impianto di depurazione dello stesso carcere. L’orto si sviluppa su una superficie di circa 100 metri quadrati destinata a coltura: altri diversi appezzamenti sono utilizzati per la messa a dimora di piante da frutto, ornamentali e aromatiche. Sono state installate due cisterne di stoccaggio, una da 2.000 litri nei pressi dell’impianto di depurazione e una da 10mila vicino all’orto. L’acqua utilizzata per l’orto viene sanificata attraverso tecnologia a ultravioletti. Milano: confronto delle Associazioni con il direttore del carcere di Opera di Silvio Mengotto azionecattolicamilano.it, 28 novembre 2018 “I volontari - dice Silvio Di Gregorio - sono assolutamente determinanti. Come è determinante far scoprire alle persone detenute la propria auto-stima”. “Impariamo a uscire - dice papa Francesco - da noi stessi verso le periferie dell’esistenza”. Una di queste periferie sono le persone del carcere. Con l’obiettivo di costruire un ponte tra il carcere e la società civile, l’Azione Cattolica della parrocchia San Michele Arcangelo e Santa Rita (zona Corvetto di Milano), il 15 novembre 2018 ha organizzato l’incontro “Accogliere per generare”, con la presenza di Silvio Di Gregorio, direttore del carcere di Opera. Hanno partecipato anche le voci che nel quartiere fanno accoglienza: da ‘Nocetum’ al ‘Sole e l’azzurro’, dal gruppo ‘San Vincenzo’ al ‘Centro culturale’. Silvio Di Gregorio ha posto al centro una serie di domande rivolte direttamente al pubblico: “Come far incontrare il mondo sconosciuto del carcere alla società civile? Che cosa significhi rieducare in carcere? È importante che la collettività civile sappia accogliere e come accogliere? E attorno a queste domande si è sviluppato un nutrito e appassionato confronto tra il pubblico presente e il direttore di Opera. “Ci sono porte e finestre - dice Silvana Ceruti, fondatrice del Laboratorio di lettura e scrittura creativa nel carcere di Opera - che interrompono la comunicazione, anziché aprirsi a nuove relazioni: sono le porte e le finestre delle nostri carceri”. C’è un fossato tra i due mondi che deve essere superato. “Soprattutto - dice il direttore di Opera - facendo capire alla società civile che non può disinteressarsi del carcere, altrimenti rimane come fosse solo un costo. Se invece si interessa del carcere, le persone detenute diventano una risorsa della collettività. Se isoliamo il carcere non risolviamo il problema, proprio perché il detenuto prima o poi esce, quindi quanto prima la si accoglie, tanto prima diventa una risorsa per il benessere collettivo”. “Sarebbe molto costruttivo - dice Antonio Da Ponte, persona detenuta nel carcere di Opera - cercare di apprezzarci per ciò che siamo, in quanto abbiamo capito e amato la vita nel profondo, ma soprattutto il rispetto delle regole. Vorremmo credere che vi sia anche per noi un futuro. Riteniamo altresì che non necessariamente il compiere azioni non giuste (i reati) agli occhi dell’opinione pubblica, sia un motivo per disprezzarci o biasimarci”. Silvana Ceruti, da oltre vent’anni presente nel carcere di Opera con il suo Laboratorio, come volontaria ancora oggi continua ad animarlo con la collaborazione della fotografa Margherita Lazzati. “L’obiettivo fondamentale - dice Silvana Ceruti - è quello di fare un pezzo di strada insieme tra persone ‘dentro’ e persone ‘fuori’. Scoprire sentimenti propri e altrui, sperimentare linguaggi e, attraverso la poesia, dire “Ci sono anche io, posso produrre bellezza, non dimenticarmi”. Questo è lo spirito che ha spinto molte persone detenute a Opera ha riscoprire, nella frequenza del Laboratorio, sia la relazione mancata con se stessi, sia con la società, pubblicando con l’editore Gerardo Mastrullo molte antologie: ‘Nessuna pagina rimanga bianca’, ‘Attraversando muri di silenzio’, ‘Pane, acqua e...’, ‘Preghiere dal carcere’, ‘Cara vita ti scrivo’ (Pino e Silvana). “I volontari - continua Di Gregori - sono assolutamente determinanti. Come è determinante far capire che ogni persona, ognuno di noi, ha una risorsa che deve essere valorizzata e messa a disposizione della collettività. Puntando su questo si può trovare la strada per reinserire le persone detenute nella società. Quindi queste attività di volontariato sono un aiuto in questo cammino positivo”. “Ora mi sono levata la cispa dagli occhi, e giuro che mai più tradirò me stesso se non per quello o quella che respirerà con me aria pura”. Queste le parole conclusive di una poesia di Giuseppe Carnovale, ex detenuto di Opera, che ha dato il titolo al documentario ‘Levarsi la cispa dagli occhi’, di Carlo Concina e Cristina Maurelli proiettato in molte case di detenzione italiane e in centri culturali in Italia. Il regista racconta la vita e la realtà carceraria di Opera nella sua più cruda realtà. Dalle immagini, dai volti e dalle parole ci si accorge subito che, contrariamente a quanto si legge sui giornali, i detenuti scontano integralmente la loro pena. Per la prima volta la narrazione è ambientata nei luoghi della detenzione: celle, corridoi lunghissimi, passeggi, infermeria e centro clinico. Il più nasce dalle riprese effettuate all’interno dei diversi laboratori dove si sono svolti gli incontri importanti e con scrittori importanti, come Vito Mancuso e Duccio Demetrio. “Se apri gli occhi - scrive Giuseppe Carnovale nella poesia ‘L’evento’ - vedi da dove arriva l’ombra di ogni luce; si allunga la vista all’orizzonte che accende il bagliore delle stelle”. Palermo: la direttrice dell’Ucciardone va in pensione “vi racconto gli anni in carcere” di Roberto Puglisi livesicilia.it, 28 novembre 2018 Ultimi mesi di lavoro per Rita Barbera, direttrice dell’Ucciardone. Le sue “confessioni”. Se le panchine davanti all’Ucciardone potessero parlare, verrebbero fuori le attese, i sospiri e la rassegnazione a cui ogni dolore prima o poi approda. Ma anche la speranza che segue sempre il dolore. E le fisionomie in forma ombre cinesi contro la parete delle vite recluse. La madre che aspetta di visitare il figlio, la moglie con la biancheria di ricambio per il marito, il figlio che desidera l’abbraccio del padre. E forse si assottiglierebbero un po’ le lame delle nostre certezze su colpevoli e innocenti. Ogni colpa merita una sanzione. Ma nessuno ha il diritto di considerare uno scarto l’essere umano che, un giorno, la commise. Entrare in carcere offre comunque un brivido di smarrimento, che tu sia innocente o colpevole, quando il portone si chiude alle spalle. Un agente cortese guida i passi tra cortile e palazzine. “La direttrice è qui, prego, si accomodi”. La direttrice è la dottoressa Rita Barbera che qualcuno pare abbia ribattezzato la ‘Signora dei sorrisi’. Il prossimo aprile andrà in pensione e c’è già chi piange, tra chiavistelli e fessure, immaginando il distacco. Rita Barbera, infatti, è il volto di un’amministrazione penitenziaria che non si è accontentata di seguire, impeccabilmente, le regole, aggiungendo alla propria missione il vizio buono della sensibilità. Qui racconta un po’ i suoi anni di carcere, da persona libera, un impegno difeso con chi, dentro e fuori il muro, l’ha condiviso. “Sì - spiega lei - sarò qui fino al primo aprile. Sono già trentasette anni di servizio”. Uno studiolo accogliente, uno spazio interno di persone laboriose e il penitenziario non sembra più soltanto l’incubo di cui si narra nelle chiacchiere degli adulti. “Come è noto - dice la dottoressa Barbera - il carcere psicologicamente è un’idea rifiutata dai più. Si pensa per tradizione a un luogo buio dove avvengono, per forza, cose fuori dagli schemi. E’ una istituzione chiusa e per troppo tempo lo è stata eccessivamente. Io ho cercato di favorire qualche apertura, di rendere il contesto permeabile, una casa trasparente, un’occasione di speranze. Negli anni con certe situazioni di emergenza si è magari un po’ condizionata l’evoluzione verso la modernità. Ancora, per tanti, questo è un posto in cui si deve soffrire e basta”. Trentasette anni di esperienza sul campo, lì dove la mischia non è mai stata semplice. Il catalogo è questo. “A Marsala, nell’ottantacinque, poi qui all’epoca del maxi-processo, da vice. Termini Imerese, Pagliarelli e il Minorile a Palermo, Castelvetrano, una parentesi a San Gimignano in Toscana... Infine il ritorno quaggiù nel giugno del 2011, una realtà impegnativa. Ho tentato di fare del mio meglio. Ucciardone era una casa circondariale fino al 2015, ora è tutta reclusione, cioè ospita chi ha riportato condanne definitive. Ho cercato di favorire un clima sereno, con la collaborazione di tutti, che è stata importantissima. Io penso che, se si rispetta l’uomo, il riscontro sarà sempre positivo. Il rispetto dell’uomo e della sua dignità pagano sempre. Acquisti in stima e in autorevolezza. I detenuti si fidano di te, delle tue azioni, ed è più facile, perché sanno che non eserciti un potere se non ce n’è bisogno e che non ne abusi”. La Signora del sorriso, seppure si schermisca, è stata essenziale nel percorso di una rinascita. Sotto la sua direzione sono sbocciati spazi più vivibili per l’incontro tra reclusi e famiglie. “Siamo partiti dalla ludoteca nelle stanze dei colloqui, con il contributo del Rotary. Abbiamo tolto i banconi divisori e sistemato i tavolini, come è peraltro previsto. Ora sono ambienti carini, colorati, così i bambini in visita si rilassano. C’è l’area verde che è bella e funzionale per la stagione migliore. Ricordo la Pasqua di quest’anno, il pranzo tipico con l’agnello, con la pasta al forno. Sembrava di stare alla Favorita. C’erano i detenuti con le famiglie. E’ stato un momento assai commovente”. E tornano alla memoria storie, tra panchine e celle, che hanno il sapore di una ricercata e forse meritata felicità. La faccia di un ragazzo, abbracciato al maestro Lollo Franco che qui impartisce lezioni di teatro da volontario. Le parole di quel ragazzo durante il Festino: “Ora sono pieno di speranza. Ringrazio Dio. Ringrazio i compagni che mi sostengono, sono importanti. Ringrazio Lollo Franco. Ringrazio la direttrice, Rita Barbera, una persona speciale, e il personale che ci viene incontro. Ho una preghiera per la Santuzza, che mi aiuti a conservare la mia nuova vita”. Qualcuno, dunque, già osserva la normalità che verrà dallo spioncino di un cambiamento. Qualcuno che ama le sue bambine ha giurato: “Qui dentro non ritornerò mai più”. Una nuova vita è possibile, se hai sbagliato? Rita Barbera risponde senza incertezze: “Io penso che nessuno possa affermare che un uomo è irrecuperabile, qualunque cosa abbia fatto. Credo che sia necessario offrire opportunità, mostrare che può esserci altro, che puoi vivere in maniera diversa. Poi sei tu che scegli”. Dottoressa, le spiace andarsene? “C’è un tempo per tutto. Mi sta molto a cuore che non vengano disperse le piccole cose positive che sono state messe su con fatica. Ecco, vorrei soprattutto questo”. Parma: come ripensare il carcere ripartendo dalle famiglie di Mattia Fossati parmateneo.it, 28 novembre 2018 Perché far pagare ai figli le colpe dei padri? “I bambini sono le prime vittime della carcerazione dei genitori”. Parola di Elisabetta Musi, docente di pedagogia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, ospite dell’incontro organizzato da Udu Parma per trattare il tema della genitorialità dietro le sbarre di un penitenziario. Un’occasione per raccontare non solo la vita dei detenuti ma anche per gettare un fascio di luce su tematiche più oscure legate al mondo del carcere: l’affettività e la sessualità vissuta dai condannati. Punire non serve - Lo sbandiera apertis verbis Francesco Zacchè, professore di procedurale penale della Bicocca di Milano: “L’idea che chi sbaglia lo chiudiamo a chiave e poi la buttiamo via non funziona più”. I tassi di recidiva, cioè di chi torna a delinquere, costituiscono una spia per i criminologi: se c’è un passaggio in carcere, dal 50% fino al 80% degli ex detenuti compiono nuovi reati. Motivo? A livello pratico, la pena presenta ben pochi caratteri rieducativi nel nostro ordinamento. “L’obiettivo minimo - prosegue il docente della Bicocca - è smettere di delinquere una volta usciti dal penitenziario”. Quindi, come riferisce la stessa professoressa Musi, “chi esce dal carcere è arrabbiato con la società”. Ed è proprio tutto ciò a comportare una grande sofferenza sia per il detenuto che per la propria famiglia. “Capita spesso che i parenti attendano delle ore prima di poter vedere i detenuti durante i colloqui in carcere”, spiega Zacché. Oltre all’organizzazione delle carceri, molto spesso vi sono impedimenti geografici. “Immaginate se un detenuto che risiede a Perugia viene mandato in carcere a Venezia, - continua il professore - per la famiglia diventa un impedimento andarlo a trovare tutte le settimane”. Figli dietro le sbarre - Peggio ancora se il detenuto è genitore di un bambino piccolo: “Il problema dell’affettività dietro le sbarre non riguarda solo le madri ma anche i padri. - spiega Zacché -. Spesso le madri inventano delle scuse per evitare di dire al figlio come mai il loro papà si trova dietro le sbarre”. “Dicono che si trova all’ospedale oppure che lavora all’estero - aggiunge Musi - È indispensabile affermare il diritto alla verità verso i figli invece di mentire pensando di non ferirli”. I dati sono abbastanza inquietanti: sono quasi due milioni i bambini che nel 2017 hanno varcato la soglia dei penitenziari per andare a trovare la mamma o il papà detenuti. Sono ancora pochissime le strutture che si sono dotate di stanze nelle quali i bambini possano giocare prima e dopo aver incontrato i genitori. Quasi fosse una camera di decompressione. Lo ha fatto, per esempio, l’associazione milanese ‘Bambini senza sbarre’ nel carcere di San Vittore creando ‘Spazio Giallo’, che permettere ai ragazzi di essere accolti in un luogo a loro dedicato prima di incontrare il genitore detenuto. Solo in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Campania sono stati predisposti spazi simili nelle carceri. Nelle restanti 16 regioni d’Italia nulla è cambiato. Nella casa di Reclusione di Parma, come spiega il responsabile dei detenuti per il Comune, Roberto Cavalieri: “E’ presente uno spazio dove i minori possono sostare e distrarsi con giochi o libri e con personale di un’associazione di volontariato”. Però, continua lo stesso Cavalieri, “siamo lontani dal pensare al carcere a misura di minore e di tutela del valore del dialogo e affettività tra padre e figli”. Di conseguenza, l’impatto di un bambino con le strutture carcerarie risulta molto violento e in alcuni casi può provocare dei traumi. “È indispensabile - conclude la docente di pedagogia del Sacro Cuore - creare delle strutture che siano un punto d’incontro tra i genitori detenuti e i figli, i quali devono riuscire ad accettare l’esperienza carceraria senza vergognarsi”. Servono quindi, sostiene la Musi, dei gruppi di genitori detenuti che rileggono le loro storie smarcandosi dall’esperienza criminale. Una situazione ancora più precaria è vissuta dalle madri detenute con un bambino piccolo al seguito. Nel 2018 (i dati non sono ancora definitivi) sono circa 57 mila i detenuti, di cui 2.402 donne. Di queste, 52 vivono con uno o più figli in carcere, per un totale di 62 bambini costretti a passare un periodo della propria vita in un penitenziario. La legge n.62/2011 ha predisposto la creazione di Icam (Istituti a custodia attenuta per detenute madri), vale a dire carceri senza sbarre e guardie in borghese per simulare un’ambiente domestico e quindi rendere meno traumatico la convivenza dei figli con le madri detenute. In questo modo i bambini possono vivere con i loro genitori fino a dieci anni. Queste strutture però non sono presenti in tutta Italia quindi, così come succedeva in passato, ancora oggi i figli trascorrono i primi tre anni della loro vita assieme alla madre dietro le sbarre di un penitenziario. “L’Amministrazione penitenziaria - commenta il responsabile dei detenuti di Parma Roberto Cavalieri - non ha mai manifestato una reale intenzione di risolvere il tema. I recenti casi, drammatici sulle condizioni detentive dei bambini e madri dovrebbero imporre una riflessione da parte di tutti”. Quindi, cosa si potrebbe fare per rendere più civile e meno alienante la vita in carcere per i detenuti? “Aumentare la durata delle telefonate per parlare con le mogli, figli e genitori - propone Cavalieri. Non si capisce perché si debba telefonare per massimo 10 minuti una volta alla settimana. Bisogna favorire i colloqui alla domenica o negli orari pomeridiani per i detenuti che hanno figli minori, evitando ai familiari di prendere permessi dal lavoro oppure giorni di ferie. Infine facilitare i permessi premio per i detenuti che hanno le idonee condizioni giuridiche. Un permesso da passare a casa con i figli vale molto di più di una stanza verniciata di un colore invitante dentro un carcere”. Ed è l’immagine migliore per capire che nel nostro ordinamento c’è ancora tanto da fare. Pesaro: “Vite ristrette”, un ciclo di seminari sul volontariato in carcere viverepesaro.it, 28 novembre 2018 Quattro incontri sulla realtà penitenziaria: apertura sabato 1° dicembre con la relazione di Andrea Nobili, Garante regionale per i diritti dei detenuti. “Vite ristrette: introduzione al volontariato in carcere” è il titolo del seminario formativo in quattro incontri che l’associazione “Isaia - Volontari col carcere” organizza a Pesaro in partenership con l’associazione “Bracciaperte” di Montelabbate, grazie al finanziamento del “bando formazione” promosso come ogni anno dal Centro Servizi Volontariato (Csv). Aprirà il seminario il Garante regionale dei diritti dei detenuti, avv. Andrea Nobili, con un incontro pubblico sul tema “La situazione delle carceri marchigiane oggi”, che avrà luogo sabato 1° dicembre dalle ore 10.30 alle 12.30 nella sala conferenze della Casa di riposo per anziani “Padre Damiani”, con ingresso da viale Napoli 38 (Pesaro, zona porto). Il seminario si protrarrà con altri tre incontri, tutti calendarizzati il martedì dalle ore 18.00 alle 21.00 sempre a Casa Padre Damiani. Ogni incontro prevedrà due o tre relazioni. Martedì 4 dicembre interverrà Enrichetta Vilella, da anni responsabile dell’area pedagogica della Casa Circondariale di Pesaro, parlando de “L’istituzione carceraria”. Martedì 11 dicembre aprirà Pierpaolo Bellucci su “La comunicazione in carcere”. La seconda parte dell’appuntamento prevedrà la testimonianza di vita di Giovanni Pollastrelli. Conclusione martedì 18 dicembre con tre relazioni: Mario Di Palma di “Bracciaperte” parlerà de “Il lavoro in carcere”, partendo dal racconto delle molteplici esperienze ed attività svolte dalla sua associazione nella Casa Circondariale di Pesaro. A seguire, Francesca Darpetti, già volontaria con l’associazione “Antigone”, parlerà su “La vita in carcere: dalla parte dei volontari”, illustrando il funzionamento dello sportello informativo per i detenuti, ed in conclusione Stefano Danti parlerà sul tema “Il volontariato in carcere”. Danti è il fondatore dell’associazione “Isaia, per anni volontario alla Casa Circondariale di Pesaro e maestro alla scuola elementare interna al carcere. Per informazioni ed iscrizioni al seminario formativo è possibile scrivere all’indirizzo e-mail isaiapesaro@libero.it, oppure telefonare al 338.5761461. Il seminario è ad accesso libero e gratuito, e prevedrà il rilascio di un attestato di frequenza a quanti parteciperanno ad almeno tre incontri su quattro. Brevi note su “Isaia”. “Isaia - Volontari col carcere” è un’associazione di volontariato che opera nella Casa Circondariale di Villa Fastiggi (Pesaro) dal 2001. Attraverso le attività svolte dai propri volontari, opera secondo i principi della solidarietà, della rieducazione e del reinserimento sociale dei detenuti. Svolge colloqui, organizza corsi, procura vestiario a chi è indigente e si adopera in un lavoro di sensibilizzazione nelle scuole. Cassino (Fr): al carcere un progetto per eliminare la violenza contro le donne di Adriana Letta diocesisora.it, 28 novembre 2018 Nella Casa Circondariale di Cassino, Presentazione del Progetto Europeo “Conscious” - Trattamento degli autori di violenza contro le donne e i bambini. In occasione della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, si è tenuto martedì 27 presso la Casa Circondariale di Cassino, alla presenza del Prefetto di Frosinone Ignazio Portelli e di altre autorità anche dell’Amministrazione Penitenziaria, un importante Convegno per la presentazione del Progetto Europeo Conscious - Trattamento degli autori di violenza contro le donne e i bambini. Si tratta di un progetto che verrà realizzato nell’Istituto penitenziario cassinate dalla Direzione e dalla Asl di Frosinone e sarà rivolto sia ai detenuti che hanno commesso reati a sfondo sessuale sia ai detenuti per reati comuni, sia a soggetti liberi (o che hanno già espiato la pena) con comportamenti di maltrattamento domestico. Ha coordinato i lavori la Dott.ssa Irma Civitareale, Direttore della Casa Circondariale di Cassino, la quale ha subito indicato il punto di partenza del progetto: va bene l’indignazione di fronte a crimini di violenza contro le donne che si ripetono e aumentano, ma occorre “Oltre l’indignazione, l’impegno!”, occorre l’impegno di tutto il sistema sociale e istituzionale. Il primo intervento è stato quello della Dott.ssa Adele Di Stefano, ASL di Frosinone, Responsabile del Progetto, che ne ha illustrato i vari aspetti. Per l’attuazione del Progetto Conscius, la Asl Frosinone è Capofila ed ha come partners: il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, l’ European Network for the Work with Perpetrators of Domestica Violence (Wwp) ed il Centro Nazionale Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia e dei Minori. Sostenitori del progetto sono: la Casa Circondariale di Cassino, il Provveditorato del Lazio, Abruzzo e Molise (Prap) del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, il Tribunale di Sorveglianza di Roma, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Frosinone (Uepe), l’Ordine degli Avvocati di Frosinone. Due sono gli elementi principali, ha spiegato, che descrivono la drammaticità del fenomeno violenza: 62 milioni (cioè una su tre) sono le donne che nell’Unione Europea hanno subito una violenza fisica o sessuale a partire dall’adolescenza; più di 8 uomini su 10 rischiano di tornare a commettere gli stessi reati se non sono presi in carico da un servizio o un centro d’ascolto per uomini maltrattanti. Il clima di isolamento ed emarginazione in cui scontano la pena, amplifica il rischio di recidiva e di vittimizzazione secondaria. Il Progetto integra attività trattamentali e percorsi di rieducazione e reinserimento sociale, secondo il principio di Giustizia riparativa, che potranno non solo ridurre la recidiva, ma anche divenire modello da estendere a tutto il sistema carcerario. Personale delle diverse Amministrazioni coinvolte (personale della Casa Circondariale di Cassino, operatori Uepe, personale Asl e volontari) prende parte ad attività di formazione e capacity building, di apprendimento reciproco e all’implementazione di protocolli e metodi di lavoro. Un gruppo di esperti garantirà la valutazione sull’impatto degli interventi previsti, il network europeo realizzerà anche la disseminazione dei risultati del Progetto e una conferenza internazionale. Il Progetto ha la durata di 20 mesi dal 22 ottobre 2018. E’ intervenuta poi la Dott.ssa Carla Maria Xella, Responsabile Cipm (Centro per la Promozione della Mediazione, Milano - Roma) che ha introdotto in Italia il modello canadese di trattamento a cui il Progetto fa riferimento. La dott.ssa Xella ha posto la domanda: Perché trattare gli autori di reati di violenza di genere e di violenza sessuale? per rispondere alla quale ha illustrato la storia degli interventi via via più mirati e meglio organizzati, per arrivare al Presidio criminologico territoriale, nato nel 2016, e alle reti nazionali istituite più di recente. Tutto il lavoro del Cipm mira a proteggere le vittime ed evitare che ve ne siano altre, perciò ritiene essenziale valutare in modo scientifico e basato sull’evidenza il grado di pericolosità e/o il rischio di recidiva. E’ necessario, ha affermato, che siano formati in questo senso tutti quelli che prendono decisioni rispetto agli autori di violenza e alle loro vittime: polizia, carabinieri, magistrati, operatori penitenziari, operatori Uepe ecc. Infine ha letto un testo scritto da “Mauro”, nome di fantasia di uno che ha fatto esperienza del trattamento nel suo secondo periodo di detenzione e ne dichiara tutta la utilità ed efficacia. Infine ha preso la parola la Dott.ssa Fiorenza Taricone, Prof. associato Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale, la quale nel suo insegnamento di Pensiero politico e questione femminile, constata la persistenza di molti stereotipi e automatismi mentali e di modelli femminili e sociali arcaici che contrastano con la modernità spesso esibita da uomini e donne. E’ questo che l’ha indotta a focalizzare l’attenzione sulla condizione femminile ed è difficile trovare la strada giusta tra studio intellettuale serio e realtà circostante spesso fatta di passività, di alibi, di conformismo. C’è lo sforzo di denuncia, ma il fenomeno è ancora tanto sommerso, presente anche in persone apparentemente insospettabili. Perciò, ha asserito, occorre un’educazione nuova e un sapere non “neutro”, che certo non aiuta. Interessanti tutte le relazioni, che sono state intervallate dalla lettura di brani da parte di quattro detenuti partecipanti al Progetto “Parole che aprono gli occhi”, diretto da Paola Iacoboni che li ha indotti a riflettere sul fenomeno della violenza contro le donne facendo scrivere loro un testo poetico o un racconto mettendosi nei panni di una donna maltrattata. E sono stati momenti davvero toccanti. Soprattutto l’ultimo, che con la poesia “Tu meriti” ha lanciato una parola di speranza. Chiavari (Ge): musica e poesie in carcere contro la violenza sulle donne di Eloisa Moretti Clementi Il Secolo XIX, 28 novembre 2018 Emozioni declinate in più forme artistiche per l’iniziativa organizzata all’interno della casa di reclusione di Chiavari: all’indomani della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, l’istituto diretto da Paola Penco ha promosso un pomeriggio di riflessione con numerosi ospiti: i cantanti impegnati nel sociale Marina Peroni e Nicolò Pagliettini, l’attrice Franca Fioravanti, che con il teatro Le Nuvole segue un progetto di poesia all’interno del carcere chiavarese, Giorgio “Getto” Viarengo che ha letto dei versi di Bertold Brecht, le socie del Zonta Club con la past president di zona Antonella Arpe. Moderato dal responsabile dell’edizione Levante del Secolo XIX Roberto Pettinaroli, l’incontro ha visto la partecipazione dei detenuti, due dei quali hanno aderito al momento di letture proponendo dei loro componimenti poetici sul tema dell’amore. “I nostri ospiti sono uomini, le loro mogli sono fuori e crescono i figli. Loro devono averne cura, comportarsi bene, cercare di farsi aspettare. Solo così, davvero, il loro percorso di reinserimento si potrà dire completo. La giornata di oggi vuole sensibilizzarli a questo” ha spiegato la direttrice Penco. Presente anche il magistrato di sorveglianza Antonella Bernocco. La sala è stata tappezzata di fogli di giornale, a simboleggiare i tanti, troppi, fatti di cronaca che testimoniano un fenomeno drammatico. “L’informazione ha usato a volte un linguaggio sbagliato e discriminatorio per raccontare la violenza di genere, finendo quasi per giustificare fatti gravissimi come gesti passionali o frutto di raptus” l’autocritica del giornalista Pettinaroli, che ha proposto degli incontri con i detenuti sul tema delle fake news. Sono già 106 le vittime di femminicidio nel 2018, come ha ricordato la direttrice della Asl 4 Chiavarese Bruna Rebagliati: “I nostri servizi sono impegnati tutti i giorni ad aiutare le donne. Con la ristrutturazione del pronto soccorso di Lavagna, potenzieremo il codice rosa per le vittime di violenza di genere con un accesso prioritario e uno spazio riservato”. La musica ha allietato il pomeriggio, offrendo spunti di riflessione e momenti di commozione: Marina Peroni, intervenuta insieme al compagno Sandro Giacobbe, ha interpretato con grande pathos “Quello che le donne non dicono” e “Sally”, trascinando anche i detenuti in un canto a bassa voce. Pagliettini ha invece scelto un brano di Ermal Meta che racconta una storia di violenza domestica. Casa di reclusione di Chiavari, arte contro la violenza Musica e poesia per sensibilizzare sul tema della violenza contro le donne, anche (ma non solo) in carcere. Volterra (Pi): anteprima natalizia per la nuova edizione delle Cene Galeotte ilviaggiatore-magazine.it, 28 novembre 2018 Conto alla rovescia cominciato per la nuova attesissima edizione delle Cene Galeotte (cenegaleotte.it), progetto ideato dalla direzione della Casa di Reclusione di Volterra e sostenuto da Unicoop Firenze che dal 2006 fa della struttura toscana non solo un luogo unico di integrazione e solidarietà, ma anche un punto di riferimento per tanti altri istituti italiani che propongono oggi analoghi percorsi rieducativi. Protagonista dell’anteprima natalizia in programma venerdì 14 dicembre - che come da tradizione anticipa il calendario di serate in programma da marzo ad agosto - sarà Roberto Rossi, chef e titolare del ristorante Il Silene di Seggiano (GR), che affiancherà i detenuti coinvolti in una serata speciale il cui ricavato andrà a sostegno del progetto per aiutare i bambini di Aleppo della Fondazione Il Cuore Si Scioglie in collaborazione con l’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze. Roberto Rossi, toscano d’origine, fin da giovanissimo dimostra la sua innata passione ai fornelli, diventando nel 1992 chef e titolare del Ristorante Silene, antica e storica locanda dal 1830. E’ in questo luogo che affina e matura la sua idea di cucina, un percorso fatto di ricerca e sperimentazione che si sviluppa attraverso la voglia di portare in tavola il cibo delle proprie origini e i prodotti d’eccellenza della sua terra. Il Ristorante Silene diventa così un’apprezzatissima tappa gourmet, un punto di riferimento nel panorama italiano e mondiale che viene consacrato nel 2014 con la Stella Michelin. La cucina di Roberto Rossi trova le migliori caratteristiche nella semplice eleganza dei sapori di un territorio toscano e nella tecnica di lavorazione e cottura. Il menu pensato per la serata, realizzato con il prezioso supporto della brigata galeotta di cucina, sarà accompagnato dai vini offerti dal Podere La Regola di Riparbella (PI), rinomata azienda toscana che di recente ha inaugurato la nuova cantina “artistica” ecosostenibile alimentata ad energia pulita e che sin dall’inizio ha supportato le Cene con i sui vini oggi interamente biologici. Le Cene Galeotte confermano come sempre il loro scopo solidale, con il ricavato di ogni serata interamente devoluto alla Fondazione Il Cuore si Scioglie Onlus (ilcuoresiscioglie.it) per progetti di beneficenza realizzati in collaborazione con il mondo del volontariato laico e cattolico: questa edizione in particolare andrà a sostenere iniziative di solidarietà dedicate ai bambini, partendo non a caso dal progetto per i bambini di Aleppo, in collaborazione con una delle punte di diamante del settore ospedaliero pediatrico nazionale quale appunto l’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze. Dopo l’anteprima natalizia il calendario delle Cene Galeotte riprenderà da aprile ad agosto - sempre di venerdì, il 5 aprile, 10 maggio, 7 giugno, 5 luglio e 9 agosto 2019 - con altri cinque impedibili appuntamenti: si rinnova dunque la possibilità di un’esperienza irripetibile per i visitatori, ma anche un momento vissuto con grande coinvolgimento da parte dei detenuti che, grazie al percorso formativo in sala e cucina, acquisiscono un vero e proprio bagaglio professionale. Le Cene Galeotte sono possibili grazie al sostegno economico di Unicoop Firenze, al fianco della struttura carceraria di Volterra fin dalla nascita del progetto, che oltre a fornire gratuitamente le materie prime necessarie alla realizzazione dei menu e assume regolarmente i detenuti per tutti giorni in cui sono impegnati nella realizzazione dell’evento. Il progetto è realizzato dalla Casa di Reclusione di Volterra. Ogni serata vede inoltre la partecipazione di importanti cantine toscane e non, i cui vini - offerti gratuitamente - sono abbinati e serviti ai tavoli con il supporto dei detenuti dai sommelier della Fisar-Delegazione Storica di Volterra, dal 2007 partner storico del progetto impegnato anche nella realizzazione di corsi di avvicinamento al vino tesi a favorire il reinserimento dei carcerati. Per informazioni: cenegaleotte.it. Per prenotazioni: Agenzie Toscana Turismo, Argonauta Viaggi (gruppo Robintur), Tel. 055.2345040 Libia. Ecco dove la guardia costiera libica rispedisce i profughi “soccorsi” di Alessandro Puglia Vita, 28 novembre 2018 Sono tra le 25 e le 33 le prigioni “ufficiali” dove vengono rinchiusi i migranti per periodi indefiniti di detenzione, subendo ogni tipo di abuso e maltrattamento. Global detention project ha creato una mappa, ma sono ancora tanti i centri di detenzione che mancano all’appello per ragioni di sicurezza o perché in mano alle milizie. Ad esserne complici i governi dell’Ue che negli anni hanno stretto accordi con varie entità presenti in Libia. Torturati, violentati, smistati nei centri di detenzione e costretti nuovamente a pagare. I migranti “soccorsi” e “intercettati” dalla così soprannominata guardia costiera libica vivono l’inferno dei centri di detenzione all’andata e al ritorno del loro viaggio, subendo ogni tipo di abuso e maltrattamento e costretti a pagare una forma di riscatto che non fa altro che alimentare il traffico di esseri umani. Una volta “soccorsi” e riportati in Libia i migranti vengono prima trasferiti nelle 16 zone di smistamento che si affacciano sulla costa e successivamente nelle carceri sparse per il paese. É uno degli aspetti più inquietanti che emerge dal report di Global Detention Project, associazione con sede a Ginevra che promuove i diritti umani delle persone prive di cittadinanza. Incrociando i dati delle maggiori organizzazioni internazionali e non governative presenti sul territorio, come Unhcr, Oim, Amnesty International, ma soprattutto grazie al contributo di ricercatori e giornalisti presenti sul luogo, Global Detention Project già dal 2009 lavora per creare un database che mira a individuare i centri di detenzione in Libia, come già fatto in altri paesi del mondo. Catalogarli tutti è impossibile e anche una classificazione tra centri di detenzione “criminali” e “amministrativi” è più che mai difficile. Questo perché i governi europei non possiedono dati sufficienti e perché un numero indefinito di centri di detenzione sono nelle mani di milizie e trafficanti, impedendo così l’accesso alle organizzazioni presenti sul territorio che svolgono un importante lavoro di assistenza ed evacuazione. La Libia, da Sud a Nord, da Est a Ovest, è costellata di centri di detenzione, definiti anche “holding centres”: alcuni hanno la forma di prigioni, altri sorgono improvvisamente in vecchie scuole o fabbriche abbandonate. Qui migranti e richiedenti asilo subiscono ogni forma possibile di abuso, in assenza di leggi, con periodi di detenzione indefiniti, senza cibo, acqua, cure mediche e costretti ai lavori forzati. Donne e bambini non sono considerati soggetti vulnerabili. I centri ufficiali, quelli controllati dal Dipartimento governativo contro l’immigrazione clandestina sono tra i 25 e i 33 (ad aprile 2018 l’Unhcr ne ha contati 33), ma in realtà i centri di detenzione sono molto di più. A gestirli sono milizie, gang criminali, trafficanti di esseri umani che, come è già stato dimostrato, godono dei finanziamenti del governo, in un paese, la Libia, che occupa il 171esimo posto su 180 nella classifica dei governi con il più alto grado di corruzione al mondo, stando all’indice di Transparency International’s 2017. Torture e violenze nei centri di detenzione in Libia sono solo in parte documentate. Nel 2013 Amnesty International ha verificato casi di violenze sessuali dove di notte uomini armati portavano via ragazzine di 13 anni per poi farle rientrare il giorno successivo. In quel lasso di tempo venivano violentate e se una di loro provava ad opporsi veniva minacciata con le armi o uccisa. Nei centri di detenzione libici - sottolinea Gdp - bambini e donne non sono separati e l’assenza di guardie di sesso femminile, che è una violazione delle norme per il trattamento dei prigionieri, espone ancora di più le donne ad abusi sessuali. Tra i centri dell’orrore si annovera quello di Az- Zawiyah, nella costa ovest della Libia sul quale comunque vi è mancanza di informazioni a causa degli sviluppi militari in questa parte del paese. Qui le Nazioni Unite hanno indagato su una sparatoria da parte delle guardie nei confronti dei migranti. La prigione di Az- Zawiya è nata in una vecchia fattoria durante l’era di Gheddafi per ospitare più di mille persone. Come documentato da Amnesty International è questa una delle prigioni dove vengono trasferiti i migranti “intercettati” dalla guardia costiera libica. Az-Zawiya appartiene ufficialmente al Dipartimento governativo contro l’immigrazione clandestina, ma di fatto è controllato dalle milizie di Al-Nasr, tanto da essere chiamato dai migranti “Ossama centre”. La brigata di Al Nasr è stata fondata da Mouhammad e Walid al-Koshlaf che vendevano petrolio rubato ai trafficanti locali dalla vicina raffineria di Zawiya. I Koshlafs erano connessi con l’ex comandante della guardia costiera locale Abdulrahman Al Milad, detto “Bija”, conosciuto per la sua stretta collaborazione con la rete di trafficanti e da qualche mese nella lista nera delle Nazioni Unite. Da comandante della guardia costiera locale “Bija” ha ricevuto fondi italiani e europei. Sempre sulla costa ovest della Libia i centri di Al- Hamra e Aburshada - interconnessi tra loro - sono tra i peggiori. Qui ad ottobre 2016 sono state documentate una serie di morti da parte dell’Oim. Altri centri di detenzione sono a Zuwarah dove agli inizi del 2018 si contavano 800 migranti nigeriani, ivoriani, maliani e senegalesi; a Sabratah dove un centro di detenzione è stato improvvisato in una vecchia scuola; a Khoms (una vecchia fabbrica cinese) dove a luglio 2018 si registravano 283 migranti, mentre altri centri si trovano a Zliten e Kararim, il nuovo centro di detenzione di Misurata che ha sostituito la vecchia base militare di Al Kharouba. Nella costa est, nonostante anche qui vi sia mancanza di informazioni, si trovano i centri inaccessibili di Alabyar, Albayda, Almarj, Assahel, Alqubba, Jaghbub, Jalu e Tamimi, e quelli governativi di Ajdabiya, Ganfuda (fino al 2014 in mano delle milizie), Tocra, Shahhat e Tobruk, quest’ultimo annoverato dall’Unchr come il 19 su 33 centri regolarmente visitato. Nel Sud del paese, dove transitano i migranti provenienti dal Niger, ci sono altri centri di detenzione dell’orrore, come a Kufra dove diversi osservatori hanno riportato le condizioni inumane dove i migranti sono costretti a vivere. Senza luce, ventilazione, bagni, letti e con i pasti serviti una volta al giorno. Nel 2016 un uomo etiope, detenuto a Kufra, ha raccontato di essere picchiato regolarmente, chiuso in un container e torturato con l’acqua calda, mentre la moglie e altre donne sono state violentate. Altri centri di detenzione si trovano a Jufra (Al-Jufra), quest’ultimo giudicato uno dei quattro centri al Sud del paese dichiarati inaccessibili dall’Unhcr, insieme a quelli di Shati e Ghat. Ad Al Qatrun non è stato invece possibile verificare le condizioni dei migranti per motivi di sicurezza, il centro collocato ai confini con il Niger e il Ciad ha una capacità per ospitare 1500 persone. I centri di detenzione attorno a Tripoli ad essere visitati da organizzazioni internazionali sono sostanzialmente cinque: Triq al-Seka, Hamza (Tariq al-Matar) dove a luglio 2018 si trovavano 1770 migranti, 680 eritrei, 240 sudanesi e 200 somali, Quasr (bin Gashir), con 472 migranti detenuti a Febbraio 2018, Ain Zara con 700 migranti detenuti a luglio 2018 e Tajura, quest’ultimo monitorato dall’Unhcr. Già nel 2017, Medici senza frontiere che aveva avuto accesso a 7 centri di detenzione nell’area di Tripoli, tramite il suo direttore generale Arjan Hehenkamp aveva descritto le condizioni inumane e degradanti del luogo, senza luce né ventilazione e pericolosamente stracolmo di persone. Le condizioni inumane nei centri di detenzione in Libia non sono una novità e già nel 2005 i servizi segreti italiani riportavano come i poliziotti dovessero indossare delle maschere per via degli odori nauseanti. Nonostante la caduta del regime di Gheddafi nel 2011, l’Europa - sottolinea Gdp - ha continuato a negoziare con varie entità presenti in Libia per controllare il flusso di migranti. Centinaia e centinaia di milioni di euro destinati proprio alle infrastrutture di detenzione e per equipaggiare le forze marittime, come nel caso della creazione della guardia costiera libica in base al Memorandum di intenti siglato dall’Italia nel 2017 (memorandum che segue il trattato d’amicizia tra l’Italia e la Libia del 2008) per cui dopo gli incidenti avvenuti il 6 novembre 2017 tra l’Ong Sea-Watch e i guardacoste libici è stato presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti umani da parte del Global legal action network e da altri soggetti inclusi l’Arci e la Yale Law School’s Lowenstein International Human Rights Clinic. Come se non bastasse da giugno 2018 la Libia possiede una zona di ricerca e soccorso in mare (Sar zone). Ucraina. La strana guerra ignorata di Sergio Romano Corriere della Sera, 28 novembre 2018 Il Paese, prima della sua unificazione, ha vissuto sotto molte bandiere. Questo non significa che debba rinunciare alla propria indipendenza. Ma ha bisogno di un leader. Avevamo dimenticato, prima dell’ultimo incidente nel mare di Azov, che in Ucraina vi era ancora una guerra? No, naturalmente. Sapevamo che nel Donbass le formazioni militari dei due campi non avevano mai smesso di provocarsi a vicenda. E non potevamo ignorare che la costruzione di un grande ponte sullo stretto di Kerch, trionfalmente battezzato da Putin nello scorso maggio “ponte di Crimea”, avrebbe preoccupato e irritato gli ucraini. Ma non vi è vicenda, per quanto grave e inquietante, che non venga logorata dal tempo e scavalcata da altre notizie. Nell’era della comunicazione globale, durante gli scorsi mesi, abbiamo dovuto rincorrere sulla scacchiera mondiale la crisi libica e quella siriana, gli scontri verbali fra Istanbul e Riad dopo il brutale assassinio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato dell’Arabia Saudita in Turchia, il tentativo europeo di salvare l’accordo nucleare con l’Iran e i rapporti delle loro aziende con la Repubblica islamica di Teheran, per non parlare degli immancabili tweet quotidiani di Donald Trump sul tema del giorno e, beninteso, dell’atto conclusivo (?) di Brexit. In questo caleidoscopio di crisi più o meno gravi, i bollettini che ci arrivavano dalle zone calde della Ucraina sembravano più o meno eguali a quelli della settimana precedente e quindi poco interessanti. Mi chiedo se le stesse riflessioni non siano state fatte da alcune delle parti interessate alla crisi ucraina e preoccupate dal velo di silenzio che stava calando sulle sue vicende. Il presidente ucraino Petro Poroschenko dovrà chiedere al Paese nel prossimo marzo il rinnovo del suo mandato; e i sondaggi non gli sono favorevoli. La legge marziale proclamata subito dopo l’incidente, se confermata dal parlamento di Kiev e giustificata dalle Nazioni Unite, potrebbe permettere al presidente di rinviare il voto o convincere gli elettori che la continuità, in questi frangenti, è un valore apprezzabile. L’incidente precede di qualche settimana il vertice dell’Unione Europea che dovrà decidere se rinnovare o meno le sanzioni imposte alla Russia. Sapevamo che alcuni Paesi, fra cui forse l’Italia, avrebbero probabilmente manifestato qualche dubbio. Quali saranno gli umori del vertice dopo quello che è accaduto domenica scorsa? E Putin? Non poteva immaginare quali sarebbero state le reazioni occidentali? Non sapeva che l’”amico Trump”, preoccupato dalla prospettiva dell’impeachment dopo il successo dei democratici nelle elezioni per il rinnovo parziale del Congresso, non avrebbe potuto, in questa circostanza, dargli una mano? Ignorava che uno scontro a fuoco sarebbe parso a molti, non necessariamente ostili alla Russia, un tentativo per annettere l’intero mare di Azov? Credo che il presidente russo abbia altri timori, per lui più importanti. Dal vertice atlantico di Bucarest, nel 2008, quando il presidente George W. Bush propose l’ingresso dell’Ucraina e della Georgia nella Nato, la Russia di Putin vive in stato d’allarme. Ha accettato l’adesione alla Nato dei Paesi che appartenevano al Patto di Varsavia e delle repubbliche baltiche che Stalin aveva brutalmente annesso all’Urss dopo il patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939. Ma dubito che accetterebbe il passaggio all’Ovest di due Stati che furono per qualche secolo parte integrante della Russia zarista e di quella sovietica. Le democrazie occidentali non sono tenute a condividere le preoccupazioni geopolitiche di Putin. Ma se daranno un’occhiata alla storia ucraina del secolo scorso constateranno che il Paese, prima della sua unificazione, ha vissuto sotto molte bandiere: austriaca, polacca, tedesca, russa, sovietica. Questo non significa che l’Ucraina debba rinunciare alla propria indipendenza. Ma non ha bisogno di presidenti che pendono dal lato della Russia, come Yanukovich, o da quello dei Paesi della Nato, come, Yushchenko ieri e Poroschenko oggi. Ha bisogno di un leader come Tito che durante la guerra fredda seppe rendere il non impegno della Jugoslavia utile e gradito a tutti i Paesi con cui confinava. Arabia Saudita. Omicidio Khashoggi, il sangue lavato col petrolio di Giampiero Gramaglia Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2018 È tormentata, ma non più di tanto, la strada che conduce il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman al vertice del G20 in programma a Buenos Aires venerdì 30 e sabato 1 dicembre: l’accompagnano gli anatemi dei difensori dei diritti dell’uomo, dopo l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, un oppositore del regime saudita. Per l’intelligence turca e americana il delitto è avvenuto a Istanbul e bin Salman sapeva. Ma nella capitale argentina il principe, noto con l’a c ro n im o Mbs, troverà anche amici d’affari: quelli per cui pecunia non olet e il petrolio lava il sangue. Ieri, persino a Tunisi centinaia di persone hanno manifestato oggi nella Avenue Bourguiba contro la visita di bin Salman: cartelli, striscioni e slogan dicevano “Vai via assassino”, riferendosi all’eliminazione di Khashoggi. In una lettera aperta al presidente Béji Caïd Essebsi, i promotori delle proteste scrivono che la visita di Mbs è “provocatoria”. Dai leader del mondo invece, nulla. Nel fine settimana, Buenos Aires sarà il crocevia di tutte le crisi internazionali: quelle economiche e commerciali come la guerra dei dazi tra Usa e Cina: ieri il consigliere economico alla Casa Bianca Larry Kudlow ricordando il faccia a faccia previsto tra i presidenti Donald Trump e Xi Jinping ha detto: “Ci sono buone possibilità che al G20 si raggiunga un accordo”. Quelle politico-militari con le tensioni tra Russia e Ucraina e quelle endemiche e ormai croniche come la guerra civile in Siria, le tensioni sul nucleare con l’Iran. Crogiolo di tutti i contrasti mondiali la capitale di un Paese a sua volta sull’orlo di una crisi di nervi, dov’è difficile garantire anche la sicurezza di una partita di calcio. In questo clima, molti occhi saranno puntati sul principe ereditario saudita, che cerca il confronto con i suoi interlocutori dopo essere stato indicato da inquirenti turchi e dalla Cia come il mandante dell’assassinio di Khashoggi, i cui editoriali sul Washington Post getta - vano discredito sul regime. Chi gli darà la mano? Il presidente Trump ha sfidato la sua intelligence e il suo Congresso, facendo sapere che non avrà problemi a incontrarlo perché “nessun può dire se Mbs sapesse, o meno, quanto sarebbe avvenuto nel consolato saudita di Istanbul in 2 ottobre, se ne abbia dato o meno l’ordine”. Criticato da senatori che vogliono aprire un’inchiesta, Trump non fa mistero delle sue convinzioni: prima gli affari poi i princìpi. E di affari con i sauditi gli americani ne fanno un sacco: armi per oltre cento miliardi di dollari in dieci anni, petrolio che Ryad lascia calare (anche se la caduta dei prezzi ieri s’è arrestata), gli interessi diretti della famiglia Trump e del primo genero Jared Kushner. Trump resterà poco al G20: lascerà i Grandi la sera del primo giorno per andare all’insediamento del nuovo presidente messicano, Andres Manuel Lopez Obrador. A Buenos Aires, Mbs non godrà della sponda egiziana del presidente al Sisi, suo sodale di guerra nello Yemen, convinto come lui che la ragion di Stato, o di potere, possa prevalere sul rispetto dei diritti umani e sul perseguimento della giustizia, come le vicende di Giulio Regeni e di migliaia di vittime della repressione mostrano. Ci sarà, invece, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, durissimo con i sauditi nei giorni scorsi. Mbs lo vuole incontrare e il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha sorprendentemente detto che “non ci sono motivi” per cui ciò non avvenga. Il contraddittorio viluppo d’interessi condizionerà l’atteggiamento di molti leader presenti al G20 verso il principe ereditario saudita: sulla carta, i più freddi dovrebbero essere canadesi e olandesi; in genere, gli europei non dovrebbero sdilinquirsi nei confronti di Mbs, anche se l’Italia gli vende bombe e la Francia non è adamantina con l’Arabia saudita. Quanto alla Gran Bretagna, non mostra nella vicenda Khashoggi lo stesso zelo che ha avuto, contro la Russia, nella vicenda Skripal. Russia e Cina, che certo non fanno della tutela dei diritti una loro bandiera, sono più vicini all’Iran che all’Arabia saudita - ma la questione è indipendente dal caso Khashoggi. Asiatici e africani faranno i pesci in barile, il padrone di casa Mauricio Macri darà mostra di buona creanza. Human Right Watch ha chiesto all’Argentina di aprire un’in - chiesta contro il principe, ma è improbabile che ciò avvenga. Mbs entrerà ed uscirà dal G20 a testa alta, ché i problemi morali non sono affare suo.