IV Giornata di digiuno nazionale per l’abolizione dell’ergastolo in Italia Ristretti Orizzonti, 27 novembre 2018 Si svolgerà il 10 dicembre 2018. “Gli ergastolani non hanno nessun domani, hanno solo un passato che non passa e corrono con la morte per la morte. Non c’è giorno in cui un ergastolano non pensi alla morte o non si domandi chi arriverà prima, la libertà o la morte. C’è la speranza: però a me la speranza non consola, piuttosto sento che mi inganna il cuore”. (dal libro di Carmelo Musumeci “La Belva della cella 154”) La vita dell’ergastolano è una schiavitù di tutti i giorni della settimana, di tutte le settimane dell’anno e di tutti gli anni della sua vita. La pena di morte, la vendetta, la tortura fanno parte della cultura di ogni società, sia antica che moderna, invece l’usanza di punire tenendo chiusa una persona in una cella per anni e anni è un fatto relativamente nuovo. Non più il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e ostentato esempio di un uomo privo di libertà. La condanna all’ergastolo è peggiore della morte perché più dura, più lunga da scontare. La pena viene rateizzata nel tempo e non condensata in un momento, come la morte: è proprio questa la sua forza ammonitrice ed esemplare. Il carcere è un’invenzione laica, ma è stata presa come esempio dalla religione cristiana, perché il carcere assomiglia molto all’inferno dei cristiani: il luogo in cui i dannati e gli angeli ribelli espiano la loro pena. Gli ergastolani sono chiusi per un’intera vita in un piccolo spazio, dove quel niente che capita oggi capiterà anche domani e dopodomani ancora. Per questo non c’è giorno in cui un condannato alla pena perpetua non pensi alla morte, perché solo la morte, nella maggioranza dei casi, può liberare gli ergastolani dalle catene. Gli ergastolani, per la maggioranza della società, sono come dei pesci, perché come scriveva Italo Svevo: “Al pesce manca un mezzo di comunicazione con noi e non può destare la nostra compassione. Il pesce boccheggia anche quando è sano e sobrio nell’acqua. Persino la morte non ne altera l’aspetto. Il suo dolore, se esiste, è celato perfettamente sotto le sue squame”. È difficile combattere l’ergastolo, perché questa terribile condanna non dà sconti, non dà scampo. Scontare l’ergastolo è come giocare a scacchi con la morte: non puoi vincere perché è una pena senza tempo. E l’anima del condannato all’ergastolo non vede l’ora di bruciare all’inferno pur di finire la sua pena sulla terra. Perché quando manca la speranza, anche se hai l’energia per pensare e per amare, ti manca la forza di vivere. Penso che l’ergastolano possa perdere la speranza di uscire, ma non dovrebbe mai perdere la forza di lottare per far sapere alla società che una sofferenza inutile non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati. Per questo l’Associazione Liberarsi dà il via alla nuova campagna contro il carcere a vita, con il quarto giorno di digiuno nazionale fissato per lunedì 10 dicembre 2018, anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani, sostenuta anche da Associazione “Fuori dall’ombra”, Associazione “Yairaiha Onlus”, “Ristretti Orizzonti” e “Comunità Papa Giovanni XXIII” fondata da Don Oreste Benzi. Chi ha paura della giustizia? di Roberto Scarpinato Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2018 Perché nelle carceri italiane ci sono tantissimi “poveracci” e pochi colletti bianchi? Perché le norme, anche in questi anni, hanno voluto salvare i “potenti” (finendo per fare un favore anche agli altri delinquenti). Per capire come funziona in concreto il sistema di giustizia in un Paese, non ci si può limitare a esaminare le leggi penali che prevedono i reati, i codici che disciplinano i processi, l’organizzazione della magistratura e delle forze di polizia. Esiste infatti uno scarto molto grande, a volte un abisso, tra legalità formale (law in book) prevista dalle leggi e legalità reale (law in action). Nel 2013 è stato pubblicato un documentato studio del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia sulla composizione della popolazione detenuta in carcere in espiazione definitiva di pena. Da quello studio risultava che 14.970 detenuti, pari al 50 per cento del totale, erano stati condannati per violazione della legge sugli stupefacenti, 6.069 per omicidio, 5.892 per rapina, 2.250 per furto, 2.221 per estorsione, 2.052 per violenza sessuale, 1.954 per ricettazione e così via per altri reati di strada. Le voci “reati contro la Pubblica amministrazione” (che comprende i reati di corruzione in senso lato) e “reati economici” (cioè bancarotte, reati fiscali) non risultavano quotate per l’irrilevanza statistica delle persone detenute per tali tipologie di reato. Per completare il quadro è interessante comparare la composizione della popolazione carceraria dell’Italia attuale con quella dell’Italia degli inizi del XX secolo. Ebbene, nonostante dagli inizi del Novecento ai nostri giorni siano cambiate più volte le forme dello Stato - con la transizione dalla monarchia costituzionale al fascismo e poi alla Repubblica -nonostante il succedersi di eterogenee maggioranze politiche nel corso della storia repubblicana, permane una costante: in carcere, a espiare effettivamente la pena, oggi come ieri e l’altro ieri finiscono coloro che occupano i piani più bassi della piramide sociale. Tenuto conto che il carcere rappresenta una tra le più rilevanti cartine di tornasole degli esiti concreti della giurisdizione penale, i dati statistici sembrerebbero avvalorare l’ipotesi di una straordinaria continuità storica di un duplice volto della giustizia: debole e inefficiente con i potenti, forte ed efficiente con gli impotenti. Nell’Italia repubblicana, ove la Costituzione ha garantito l’indipendenza della magistratura dal potere politico e ha consentito la crescita democratica del Paese, l’impunità dei colletti bianchi si è di fatto realizzata attraverso meccanismi molto complessi e sofisticati per comprendere i quali dobbiamo procedere a un censimento dei grandi assenti nella popolazione carceraria. Chi non ha paura della giustizia? I complici occulti degli stragisti. Mi riferisco ai mandanti politici e ai complici occulti delle stragi che hanno insanguinato la storia del nostro Paese. Ebbene, nonostante gli sforzi profusi, gli esiti di quasi tutti i processi per stragi sono stati talora fallimentari, talora molto parziali. Un’altra categoria di “ingiusti” assente dalla popolazione carceraria è quella dei corrotti e dei corruttori, i quali sino a oggi pure non hanno avuto motivo di avere paura della giustizia. (...) La tangentopoli italiana non si è mai fermata e ha attraversato il fascismo, la Prima e la Seconda Repubblica giungendo sino ai nostri giorni. Nell’Italia pre-repubblicana e pre-costituzionale, l’impunità veniva assicurata mediante la subordinazione gerarchica del pubblico ministero al ministro della Giustizia e il controllo politico sui vertici della magistratura. Nella cosiddetta Prima Repubblica, l’impunità è stata garantita mediante la negazione sistematica delle autorizzazioni a procedere, il trasferimento della competenza sui processi verso uffici giudiziari diretti da vertici ritenuti affidabili dal sistema politico (restati nella memoria collettiva con la significativa denominazione di “porti delle nebbie”), il varo di ben 33 amnistie e indulti, e altri metodi che, per ragioni di tempo, tralascio. Dopo la breve parentesi storica dei processi di Tangentopoli dei primi anni Novanta, quando a seguito del collasso del sistema di potere della cosiddetta Prima Repubblica (conseguente alla caduta del Muro di Berlino e al mutamento degli equilibri macro-politici internazionali e nazionali) il principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge sembrò potersi trasformare da law in book (principio astratto) in law in action (diritto vivente), il ripristino dello statuto impunitario dei colletti bianchi è stato attuato, a fronte di un ordine giudiziario che non appariva condizionabile politicamente o per le vie gerarchiche, a seguito dell’emanazione di una sequenza di leggi che hanno pienamente raggiunto l’obiettivo. Non potendo dilungarmi in una dettagliata esposizione, mi limito a ricordare solo alcuni passaggi strategici. Nel luglio del 1997 una maggioranza di centrosinistra, con la convinta adesione della minoranza di centrodestra, varava una riforma dei reati contro la Pubblica amministrazione che, per un verso, aboliva il reato di abuso di ufficio non patrimoniale e, per altro verso, modificava la disciplina del reato di abuso di ufficio patrimoniale, rendendo estremamente difficile la prova della sua consumazione. Negli anni seguenti venivano approvate poi una serie di leggi che legalizzavano il conflitto di interessi in settori strategici, creando un habitat ideale per l’abuso d’ufficio, per la proliferazione della corruzione, riducendo ulteriormente, anche per tale via, il rischio penale. Altra riforma legislativa che ha minimizzato il rischio e il costo penale per i reati di colletti bianchi, è stata la legge 5 dicembre 2005, n. 251, cosiddetta ex-Cirielli, con la quale è stato modificato il regime dei tempi di prescrizione dei reati. Grazie alla combinazione prescrizione breve/processo lungo, si creava una micidiale falla di sistema che, come una sorta di triangolo delle Bermude, inghiotte nei gorghi della prescrizione centinaia di migliaia di processi ogni anno. Un’altra categoria di grandi assenti nella popolazione carceraria italiana è quella dei condannati definitivi per reati economici e finanziari, bancarottieri e grandi evasori fiscali. Per comprendere appieno come si sia determinata l’anomala composizione della popolazione carceraria rilevata nello studio del Dap al quale ho accennato all’inizio, nella massima misura composta solo da soggetti appartenenti alle classi meno abbienti, occorre considerare che, nello stesso periodo nel quale venivano emanate una serie di leggi che in modi diversi sortivano l’effetto di evitare il carcere per i reati dei colletti bianchi, venivano emanate altre leggi che andavano nella direzione esattamente opposta, elevando le pene previste per i reati di strada e quelli commessi da immigrati irregolari, introducendo nuove fattispecie di reato, allungando i tempi di prescrizione per i reati commessi dalla criminalità comune. L’illegalità impunita dei piani alti contribuisce ad alimentare, come in un rapporto di causa effetto, quella dei piani bassi, dando vita a una spirale per - versa nelle cui volute si perdono giorno dopo giorno la credibilità della classe politica, la fiducia nelle istituzioni, il sentimento della coesione sociale, consegnando ciascuno a una perdente solitudine e a una rabbia impotente che rischia di scaricarsi su capri espiatori offerti come valvola di sfogo da abili manipolatori. Decreto sicurezza, seconda fiducia. Il M5S mette in riga i dissidenti di Carlo Lania Il Manifesto, 27 novembre 2018 Stasera il via libera definitivo. La senatrice Nugnes: “In passato saremmo saliti sui tetti”. L’unica vera novità di oggi potrebbe arrivare da un improbabile colpo di scena di almeno qualcuno dei 18 deputati del M5S che si sono detti contrari al decreto sicurezza. Non a caso ieri pomeriggio, dopo che il ministro per i rapporti con il parlamento Riccardo Fraccaro ha annunciato la decisione (scontata) del governo di porre la fiducia sul decreto sicurezza anche alla Camera, doppiando così la scelta già fatta al Senato, il dem Enrico Borghi ha avvertito i colleghi grillini: “È una fiducia contro di voi”. Ed è vero. La decisione presa in commissione Affari costituzionali dalle opposizioni di ritirare molti emendamenti rinunciando così a qualsiasi forma di ostruzionismo, avrebbe potuto portare al via libera definitivo del testo senza per forza fare ricorso all’ennesimo voto di fiducia. Cosa che i numeri di cui la maggioranza dispone alla Camera permetterebbe senza problemi. E invece così non è stato, a ulteriore dimostrazione del clima che regna tra gli alleati. Del resto basta ascoltare cosa dice Matteo Salvini per averne la riprova. Se da un lato continua a mostrare fiducia verso le sorti del provvedimento che porta il suo nome, dall’altro il ministro degli Interni continua a diffidare dei pentastellati. Al punto da decidere di presidiare l’aula di Montecitorio fino ad approvazione avvenuta. “Per me da oggi fino a mercoledì l’ordine del giorno è il dl sicurezza”, è il messaggio che invia. “O passa entro questa settimana o salta e quindi sarò in aula giorno e notte per verificare che questo decreto possa diventare legge”. L’attenzione passa quindi a deputati del Movimento che hanno criticato il decreto. Cosa faranno al momento del voto? Abbandoneranno l’aula come hanno fatto alcuni colleghi del Senato o rispetteranno l’ordine di scuderia? Sia chiaro. Il gesto non sarebbe di nessun ostacolo all’approvazione del testo (scontata anch’essa come la fiducia), ma rappresenterebbe un gesto di autonomia da parte dei parlamentari verso un provvedimento che con il M5S avrebbe in teoria poco a fare. Su Facebook la senatrice Paola Nugnes - una dei cinque dissidenti del Senato sui quali pende la decisione dei probiviri - dà sfogo a tutta la sua amarezza pensando proprio al Movimento che fu: “Cosa avremmo fatto noi ieri di fronte a un provvedimento tecnicamente sbagliato, imposto per ideologia, che avrà conseguenze gravi sulla sicurezza dei cittadini italiani, sugli stranieri, che non risolve nulla ma crea molti problemi in più? Su quali tetti saremmo saliti a denunciare?”, ha scritto la senatrice “Avrei voluto discutere ulteriori proposte emendative”, ha detto durante il dibatto la deputata Valentina Corneli auspicando un futuro intervento della Corte costituzionale. Una delle poche voci che si sono fatte sentire. Non a caso ieri, quando il ministro Fraccaro ha chiesto la fiducia a nome del governo, oltre che dai banchi della Lega applausi sono arrivati anche da quelli del M5S. Segno che difficilmente oggi si vedranno le stesse scene viste al Senato: “Hanno minacciato di sospenderci se non votiamo la fiducia”, confida in serata alle agenzie una deputata. “Chiudere la bocca alle considerazioni dei deputati cinque stelle è l’unico motivo per cui è stato bloccato il confronto in aula”, accusa anche il capogruppo dem alla Camera Graziano Delrio, mentre Riccardo Magi (+Europa), lascia intendere uno scambio tra alleati: “Dopo aver incassato l’approvazione del cosiddetto anticorruzione - dice il deputato radicale - il M5S ha contribuito alla blindatura del testo obbedendo a Salvini e applicando una tagliola in commissione”. Il voto finale è atteso per questa sera. I magistrati di sinistra scendono in campo di Francesco Grignetti La Stampa, 27 novembre 2018 “Viviamo una fase di attacco ai diritti in cui conquiste di libertà, di eguaglianza e di sicurezza sociale vengono messe in discussione”. Si profila un temibile avversario per la maggioranza giallo-verde. I magistrati di Area, la corrente di sinistra, eredi della famosa Magistratura democratica, mandano da tempo segnali di contrarietà alle scelte del governo. Da ora, con il documento votato dall’assemblea nazionale, riunita a Roma il 23 e 24 novembre, le posizioni sono chiare: “Viviamo - scrivono - una fase di attacco ai diritti in cui conquiste di libertà, di eguaglianza e di sicurezza sociale vengono messe in discussione. Una fase che chiede alla magistratura di essere presente e di riaffermare il proprio ruolo costituzionale di difesa dei diritti e di garanzia in particolare per gli ultimi e per le minoranze. Questo è oggi il nostro impegno”. Ricapitolando: difesa dei diritti, garanzia per le minoranze, attacco alle conquiste sociali e di libertà. È un orizzonte fosco, quello che disegnano. Questo il loro programma: “Dobbiamo ribadire la Costituzione come nostro faro e l’Europa e la costruzione di un magistrato europeo come obiettivo”. Era forse scontato. Basta rileggere le ultime prese di posizione. Di Maio attacca i giornalisti? I vertici di Magistratura democratica esprimono la loro “preoccupazione a fronte dei recenti rinnovati attacchi ai professionisti dell’informazione”. Il sottosegretario leghista alla Giustizia, Jacopo Morrone, prefigura l’uso del taser nelle carceri? “Con il taser nelle celle si torna agli anni ‘70”, sostiene Riccardo De Vito, presidente Md. E ancora. Matteo Salvini porta avanti con il decreto Sicurezza una stretta inaudita sull’immigrazione? Già il 21 agosto Magistratura Democratica attaccò il ministro, a sostegno dell’azione della procura di Agrigento e dubitando della legittimità delle sue azioni, con un appello a “non rimanere in silenzio”. E quando il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha fatto un blitz sulle regole della prescrizione, sempre Md è scesa in campo così: “Pericoloso pensare alla prescrizione e non alla durata del processo”. Non meraviglia, allora, che l’assemblea nazionale, a difesa delle garanzie, ma anche dell’associazionismo stesso della magistratura, si opponga alla deriva securitaria: “Mai come in questo momento è necessario cercare un confronto con l’avvocatura”. Per concludere: “Crediamo alla giurisdizione come fondamentale presidio dei diritti e tutela dei più deboli, per questo vogliamo una giurisdizione autonoma, libera ed efficiente”. Non finisce qui. Le toghe progressiste al governo: “Dov’è il dialogo con avvocati e magistrati?” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 27 novembre 2018 L’assemblea di Area incalza l’esecutivo. Una critica senza appello rivolta dalle toghe progressiste di Area al governo gialloverde: “Viviamo una fase di attacco ai diritti in cui conquiste di libertà, di eguaglianza e di sicurezza sociale vengono messe in discussione”. Parole forti che i magistrati di Area, il raggruppamento di cui fa anche parte Magistratura democratica, hanno pronunciato durante la loro Assemblea nazionale tenutasi a Roma lo scorso fine settimana. Un incontro nato per fare il punto sullo stato dell’associazionismo giudiziario, ma che si è trasformato in un bilancio sui primi mesi del “governo del cambiamento”. Il malcontento nei confronti dell’esecutivo è tangibile. “Rivendichiamo con fermezza il nostro diritto e dovere come gruppo della magistratura associata di fornire alla società ed al dibattito pubblico sui temi della giustizia e della giurisdizione, un qualificato contributo tecnico giuridico di conoscenza, informazione e di giudizio”, ha affermato Cristina Ornano, la segretaria generale di Area, nella sua relazione. “Siamo preoccupati - ha proseguito - dalle iniziative di riforma finora messe in campo, sia quanto al metodo, perché al di là degli intenti dichiarati, di fatto non v’è stata alcuna interlocuzione seria con la magistratura, l’avvocatura e l’accademia; sia quanto ai contenuti, perché gli interventi normativi approvati, proposti o annunciati mirano a dare risposte all’insicurezza percepita e la alimentano, ma non danno risposta all’insicurezza reale e diffusa che esiste nel Paese e che necessita di soluzioni diverse dalle “leggi spot”, quali ci paiono quelle finora approvate o proposte”. Nel mirino, il decreto sicurezza e la riforma della legittima difesa. Il primo, in particolare, “un autentico vaso di Pandora in cui è confluito di tutto, ma che suona principalmente come una “legge manifesto” contro i poveri, gli emarginati e gli immigrati. Con esso, infatti, tra le altre cose, si reintroduce il reato di accattonaggio, nonostante l’incostituzionalità nel 1999 dell’analoga norma contenuta nel codice Rocco; si indica come priorità gli sgombri degli immobili occupati pur in assenza di una reale urgenza e di piani di collocamento abitativo; si raddoppiano i temi di permanenza dei migranti nei centri di permanenza, si riduce drasticamente l’intero sistema di accoglienza e integrazione: l’eliminazione della protezione umanitaria prevista dal decreto ha l’effetto di ridurre drasticamente la platea dei migranti ammessi al sistema di accoglienza e di integrazione, con la conseguente marginalizzazione di fasce crescenti di migranti che vengono così sospinti verso l’illegalità”. Il risultato, per i magistrati di Area, è quello di fornire una “risposta ideologica all’insicurezza percepita, mentre si aggrava l’insicurezza reale”. Fra le cause di questa deriva “securitaria”, per le toghe progressiste, certamente la “crisi profonda della democrazia rappresentativa, della quale in Italia l’esito del voto del 4 marzo è stato solo l’epilogo. Da tempo è in atto una campagna di delegittimazione dei corpi intermedi, partiti, sindacati, gruppi associati, additati alla opinione pubblica come centri di potere dediti alla cura di interessi particolari contro l’interesse generale”. E, a tal proposito, il “Parlamento appare essere sempre meno quel luogo, disegnato dalla Costituzione repubblicana, di confronto e di sintesi tra le diverse opzioni politico- culturali, per assumere sempre più spesso un ruolo notarile di ratifica di decisioni già prese dal Governo o, peggio, in taluni casi, altrove”. Un rischio per la democrazia rappresentativa viene dalle “piattaforme, algoritmi e social che consentono un contatto diretto tra la persona ed il leader, creando così l’illusione di un nuovo e più autentico circuito democratico. L’illusione, perché l’assenza di intermediazione e, quindi, di luoghi di autentico confronto, unito alla diffusa incultura generale e politica, alla delegittimazione delle Istituzioni, delle competenze e dei saperi, finisce per alimentare una “politica circolare”, nella quale la sollecitazione a determinate scelte politiche proviene da un’indistinta base, cui si risponde con la demagogia, il populismo, la propaganda”. Strumenti, quest’ultimi, che altro non sono che “la scorciatoia per ottenere consenso, evitando risposte complesse e, quindi, perciò in genere impopolari, a problemi complessi, quali sono quelli che la società contemporanea vive e deve affrontare”. Non un bel viatico per un esecutivo che, sulla carta, si professa “amico” dei magistrati. La riforma del processo civile punta sulla negoziazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2018 Un rito semplificato per la maggior parte delle cause. Un potenziamento della negoziazione assistita. Un ridimensionamento della conciliazione. Su questi tre pilastri si regge la riforma del processo civile che è ormai in dirittura d’arrivo con un disegno di legge di 14 articoli che a breve sarà messo in consultazione dal ministero della Giustizia. Un dossier a elevato tasso tecnico certo, ma anche di indubbio spessore per il sistema Italia, visto che alle condizioni della giustizia civile sempre più spesso guardano gli investitori stranieri. E tanto più significativo se abbinato a una riforma della disciplina della crisi d’impresa che si sta avviando al traguardo. Obiettivo non tanto il taglio delle cause, quanto piuttosto la riduzione dei tempi di decisione. Tanto per dare un’idea delle conseguenze, già un anno fa l’allora maggioranza di centrosinistra provò a introdurre con un blitz nella manovra una drastica estensione di forme processuali accelerate, prevedendo che a tutte le controversie di competenza del giudice unico si dovesse applicare il rito sommario di cognizione. Con un drastico taglio dei tempi di decisione, visto che la durata media dei procedimenti sarebbe passata dagli 840 giorni del processo “classico” ai 385 di quello accelerato. Con effetti immediati su quella classifica Doing Business sulla lunghezza dei giudizi che rappresenta, piaccia o meno, un punto di riferimento internazionale, facendo passare l’Italia dalla 111esima posizione alla 42esima. Oggi uno dei cardini è in buona sostanza analogo. Non si parla più di rito sommario di cognizione, già previsto nel Codice di procedura civile, ma di una forma “ibrida”, da riservare alle cause di minore complessità, in grado di coniugare alcuni aspetti del processo del lavoro con forme specifiche di contrazione dei tempi. Nel dettaglio, come già anticipato sul Sole 24 Ore del 2 novembre, si tratta di un modello che sarà applicato a tutte le cause, e sono la maggioranza, di competenza del giudice unico. La domanda sarà proposta con ricorso; saranno cancellate le udienze di semplice rinvio; tra deposito del ricorso e prima udienza non potranno passare più di 120 giorni; il giudice avrà autonomi poteri istruttori sulle questioni che considera rilevanti; si cancellerà ogni formalismo privo di utilità per il contraddittorio: la sentenza potrà essere emessa anche al termine dell’udienza. Il progetto Bonafede punta a un recupero di risorse anche attraverso una riduzione del numero dei casi in cui la causa deve essere trattata da un collegio di giudici e non più da un giudice unico. Previsto anche un inasprimento delle sanzioni economiche che dovranno pagare le parti che agiscono o resistono in giudizio con dolo o colpa grave. Rafforzata la parte istruttoria con sanzioni amministrative e processuali per il mancato rispetto dell’ordine di esibizione. Se il rito semplificato potrà essere di dubbia digestione da parte degli avvocati, più favorevolmente è prevedibile che sarà accolta l’estensione del perimetro della negoziazione assistita, una procedura interamente gestita dai legali delle parti, che si può concludere senza passare per l’aula di tribunale. La negoziazione infatti si allargherà sia alle cause di lavoro sia a quelle che hanno per oggetto il pagamento di una somma di denaro, con il limite di 50.000 euro. Cambia assetto anche la mediazione. Già il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede aveva annunciato di volerla sottoporre a un test di efficacia. Che oggi si riflette nella scelta del disegno di legge di abbandonare la mediazione in materia sanitaria: su questa decisione pesa sicuramente il fatto che molto spesso le Asl, controparte naturale in questo tipo di controversie, sono assai restìe a trovare un accordo con esborso economico, temendo la possibile contestazione di una responsabilità erariale. Alla mediazione saranno poi sottratte sia le controversie in materia bancaria e assicurativa che, quanto a tentativo di soluzione stragiudiziale passeranno rispettivamente sotto la competenza dell’arbitro bancario e della Consob. Per il whistleblowing in arrivo le regole Ue di Angelo Zambelli Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2018 Il 29 dicembre spegnerà la sua prima candelina la legge 30 novembre 2017, n.179, il più significativo intervento legislativo in materia di whistleblowing attuato in Italia. Il legislatore, da un lato, ha introdotto sanzioni per le amministrazioni pubbliche che omettano di istituire procedure per le segnalazioni, ovvero non vi diano seguito, o ancora adottino misure ritorsive nei confronti del segnalante; dall’altro, ha ampliato il novero dei requisiti che devono essere soddisfatti dai modelli di organizzazione e di gestione che i datori di lavoro privati possono adottare per vedere esclusa la loro responsabilità in caso di reati commessi nel loro interesse, inclusi la previsione di canali di segnalazione interna e un efficace apparato sanzionatorio. A livello europeo, il Parlamento - con la risoluzione del 24 ottobre 2017 - ha invitato la Commissione ad adottare una direttiva in materia perché “le disparità tra gli Stati membri portano a un’incertezza giuridica, a una ricerca del foro più vantaggioso e a rischi di trattamenti iniqui”. La Commissione il 23 aprile ha formulato una proposta di direttiva: se e quando questa verrà tradotta in un atto normativo vincolante, tutti gli Stati membri dovranno introdurre l’obbligo, per i datori di lavoro privati che soddisfino determinati requisiti dimensionali, ovvero operino in settori esposti al rischio di riciclaggio e finanziamento del terrorismo, di istituire appositi “canali e procedure di segnalazione interna”. In tale quadro, gli Stati membri dovranno altresì adottare uno specifico sistema sanzionatorio contro gli autori di misure ritorsive nei confronti dei whistleblower, nonché creare organismi indipendenti che offrano gratuitamente consulenze circa modi e procedure per ottenere protezione dalle ritorsioni. a proposta di direttiva ha già ricevuto il via libera da parte della Corte dei conti europea (26 settembre) e del Comitato economico sociale europeo (18 ottobre). L’intervento della Commissione sembra però prestare il fianco a talune critiche in quanto, a parere di alcuni, l’impulso alla segnalazione non dovrebbe esaurirsi in un seppur adeguato sistema sanzionatorio contro eventuali ritorsioni o discriminazioni: per essere veramente efficace, accanto a esso potrebbe prevedersi un ragionevole meccanismo premiale in favore dei segnalanti, da riconoscere ogniqualvolta la segnalazione consenta alle autorità pubbliche di conseguire concrete ed effettive utilità economiche. Del resto, l’efficacia di un siffatto meccanismo è dimostrata dall’esperienza statunitense, ove nel 1863 venne inserito per la prima volta in un atto normativo (il False claim act), poi confermato in numerosi interventi legislativi successivi, sino al Dodd-Frank act del 2010, in ossequio alle cui disposizioni tre whistleblower, nel marzo di quest’anno, si sono visti riconoscere complessivamente dalla Sec (organo di vigilanza dei mercati di borsa) un compenso record di ben 83 milioni di dollari. Interdittive. Usa e Gran Bretagna prevedono la messa alla prova di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 novembre 2018 Il sistema evita le spese processuali e il fallimento, proteggendo i posti di lavoro. In Italia diverse aziende finite nel mirino della magistratura vanno in fumo e a rimetterci sono soprattutto i lavoratori e quindi l’economia in generale. Con la legge Orlando del 2017, si aggiunge un’altra questione: la confisca preventiva dei beni quando scatta l’accusa di corruzione. Prima valeva solo per l’accusa di mafia. L’esempio che viene sempre riportato è quello anglosassone, soprattutto statunitense, dove la corruzione viene punita severamente. Ma quello che non si dice è che esiste un istituto giuridico dal nome Deferred prosecution agreement (Dpa) che consiste in una messa alla prova allargata alle imprese in funzione della sospensione del processo. Nell’ordinamento statunitense, gli accordi per differire, ovvero per non procedere, con l’incriminazione (rispettivamente, deferred prosecution agreement e non prosecution agreement, di seguito Dpa e Npa) furono originariamente impiegati, già agli inizi del 900, per i crimini commessi dai minorenni al fine di evitare le ripercussioni, a livello personale e sociale, derivanti dalla condanna in sede penale. A partire dagli anni 90, tale messa alla prova viene estesa alle aziende o grosse Corporation con due obiettivi principali: chiamare a rispondere degli illeciti commessi in ambito aziendale un numero sempre maggiore di imprese, seppur mediante meccanismi di diversi più flessibili e più rapidi; scongiurare le ricadute negative che i procedimenti penali normalmente riversano sul mercato. Negli ultimi anni, negli Usa si registra un impiego sempre più massiccio di questo istituto giuridico, tanto che è diventato lo strumento privilegiato per fronteggiare la criminalità dei colletti bianchi. In Inghilterra l’ istituto c’è con qualche variazione. L’accordo, cioè, consente di sospendere un’azione legale per un periodo definito a patto che l’organizzazione soddisfi determinate condizioni specificate. Consentono a un ente aziendale di fornire una riparazione completa per il comportamento criminale senza il danno collaterale di una condanna (ad esempio sanzioni o danni alla reputazione che potrebbero mettere la società fuori dal mercato e distruggere i posti di lavoro e gli investimenti di persone innocenti). Sono conclusi sotto la supervisione di un giudice, che deve essere convinto che l’accordo di pace è “nell’interesse della giustizia” e che i termini sono “giusti, ragionevoli e proporzionati”. Un sistema che evita le spese processuali, il fallimento delle aziende o la fuga delle stesse in altri Paesi, proteggendo quindi i posti di lavoro. Uno strumento giuridico simile non esiste, invece, in Italia. E così le imprese commissariate dalla magistratura, o confiscate in via preventiva, hanno creato, di fatto, una specie di Tribunale spa che, ad oggi, risulta avere più dipendenti di una grossa azienda italiana. I magistrati, secondo un rapporto di Infocamere, gestiscono un portafoglio di quasi 18 mila imprese, che tutte insieme hanno un fatturato di 21 miliardi di euro. I manager nominati dai giudici spesso non hanno dato grande prova di sapere amministrare le aziende sequestrate, che molte volte sono fallite lasciando per strada i lavoratori. Ricordiamo che tra le otto proposte di legge di iniziativa popolare promosse dal Partito Radicale, c’è quella riguardante gli interventi di modifica in chiave garantista alle norme del decreto legislativo antimafia n. 159/ 2011, in materia di misure di prevenzione e informazioni interdittive. Le proposte mirano a contemperare l’esigenza di impedire le infiltrazioni della criminalità organizzata nel sistema economico con quella di non distruggere questo sistema ma di salvaguardarne la continuità delle aziende e dei relativi posti di lavoro cosi da combattere la mafia e la corruzione, ma senza calpestare i principi e le garanzie dello Stato di Diritto. La simulazione del possesso di un’arma non è circostanza aggravante nel reato di rapina Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2018 Delitti contro il patrimonio - Mediante violenza alle persone o alle cose - Rapina - Circostanze aggravanti - Uso di arma - Configurabilità - Possesso solo apparente dell’arma - Esclusione. Non può ritenersi sufficiente la minaccia, nel corso di una rapina, della detenzione di un’arma ai fini della configurabilità della circostanza aggravante prevista all’art. 628 c.p., essendo necessario che il soggetto agente sia palesemente armato e che dunque l’arma sia mostrata perché ricorra l’effetto intimidatorio. (Nella fattispecie uno dei rapinatori, all’invito del complice a “cacciare la pistola” si era alzato la felpa mostrando un rigonfiamento nella cintola dei pantaloni, così simulando il possesso di una pistola e bloccando ogni reazione della vittima). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 16 novembre 2018 n. 51911. Reato - Circostanze - Aggravanti in genere - Uso di un’arma - Necessità che l’arma sia impugnata - Esclusione - Fattispecie. In tema di delitto circostanziato, ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’arma, è necessario che il reo sia palesemente armato, ma non che l’arma sia addirittura impugnata per minacciare, essendo sufficiente che essa sia portata in modo da poter intimidire, cioè in modo da lasciare ragionevolmente prevedere e temere un suo impiego quale mezzo di violenza o minaccia per costringere il soggetto passivo a subire quanto intimatogli. (Fattispecie di violenza sessuale e rapina, nella quale la S.C. ha ravvisato l’aggravante in oggetto nella condotta dell’imputato consistita nell’aver appoggiato al torace della persona offesa uno strumento duro ed appuntito e nell’averla costretta, mantenendo tale strumento accostato al collo della stessa, a recarsi in una zona isolata dove i predetti reati sarebbero stati poi consumati). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 30 dicembre 2016 n. 55302. Reati contro il patrimonio - Delitti - Rapina - Circostanze aggravanti - Armi - Simulazione della disponibilità di un’arma - Configurabilità dell’aggravante - Esclusione. In tema di rapina, la circostanza che il soggetto imputato abbia tenuto una mano in tasca e che tale atteggiamento sia stato tenuto allo scopo di simulare a scopo intimidatorio la disponibilità di un’arma non integra l’aggravante della minaccia con armi, per la cui sussistenza è invece necessario che l’arma sia mostrata. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 30 agosto 2010 n. 32427. Reati contro il patrimonio - Delitti - Rapina - Circostanze aggravanti. L’uso di un’arma apparente, mentre costituisce minaccia idonea per la sussistenza del delitto di rapina, non è tale, per difetto dell’elemento materiale, da rendere configurabile la circostanza aggravante. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 18 dicembre 1989 n. 17431. Omesso versamento ritenute, penale lo sforamento della soglia di 12mila euro di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2018 Corte di cassazione -?Sentenza 26 novembre 2018 n. 52974. Non rientra nella “non punibilità per particolare tenuità del fatto”, l’omesso versamento di ritenute previdenziali che sfori di 12mila euro la soglia di rilevanza penale che nel 2015 è passata da 50mila a 150mila euro. Lo ha stabilito la Cassazione, sentenza n. 52974 del 26 novembre 2018, restringendo ancora di più il campo di applicazione dell’istituto della “particolare tenuità” ai reati tributari. La Corte ha così rigettato il ricorso del legale rappresentante di una azienda di costruzioni, attiva nel settore nautico, che lamentava l’esiguità dello scostamento - soltanto l’8% - dal valore soglia della non punibilità penale. Il ricorrente, fra l’altro, lamentava la mancata considerazione del fatturato complessivo dell’azienda che toccava i 14milioni di euro. Per la Suprema corte va ribadito il principio per cui la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto “è applicabile solo se l’ammontare dell’imposta non corrisposta è di pochissimo superiore a quello fissato dalla soglia di punibilità, atteso che l’eventuale tenuità dell’offesa non deve essere valutata con riferimento alla sola eccedenza rispetto alla soglia di punibilità prevista dal legislatore, bensì in rapporto alla condotta nella sua interezza, avendo dunque riguardo all’ammontare complessivo dell’imposta non versata”. Su questa linea, ricordano i giudici, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto “non particolarmente tenue, sul piano oggettivo l’omesso versamento Iva pari a 255.486 euro a fronte di una soglia di 250mila (n. 51020/2015); come ha escluso l’applicabilità del 131 bis c.p.a fronte di un omesso versamento pari a poco più di 112mila euro, in presenza di una soglia di punibilità fissata in 103.291 (n. 40774/2015), ed ha anche ritenuto non particolarmente tenue l’omesso versamento di 270.703 euro, rappresentante un’eccedenza dunque di poco più di 20 mila euro rispetto alla soglia (n. 13218/2015). In definitiva, per i giudici, “ai fini dell’applicabilità della causa di non punibilità per “particolare tenuità del fatto”, occorre sempre valutare la condotta in base ai criteri generali dettati dall’art.131-bis cod. pen., con particolare riferimento alla sua reiterazione negli anni di imposta e alla messa in pericolo del bene protetto (n. 38488/2016)”. Per cui, conclude la decisione, correttamente i giudici di merito hanno considerato che “l’omesso versamento di oltre 162 mila euro, superando di 12 mila euro la soglia di punibilità prevista dalla fattispecie”, comportasse un inadempimento che “non poteva essere considerato particolarmente tenue, con conseguente inapplicabilità dell’art. 131 bis c.p.”. Appropriazione indebita per l’ex che non restituisce le cose del marito di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2018 Cassazione Sent. n. 2556/2018. La ex moglie che per “dispetto” si libera degli oggetti appartenenti al marito, rifiutando la restituzione rischia una condanna per appropriazione indebita. E il reato scatta anche se l’uomo “parcheggia” le sue cose in cantina e le reclama a distanza di due anni. È quanto avvenuto nel caso esaminato, in cui l’uomo aveva chiesto di riavere i suoi beni - custoditi in un locale nella disponibilità della ex dolce metà - a 24 mesi di distanza dal provvedimento di separazione con il quale il giudice lo autorizzava a recuperarli. Un argomento che la difesa della donna aveva utilizzato per contestare la tardività della querela arrivata a due anni dalla separazione: un tempo troppo lungo per contestare il reato. La Cassazione non la pensa così. Per i giudici l’inversione del possesso “incriminata” era scattata quando l’uomo aveva comunicato alla ex moglie la sua intenzione di andare a prendere gli oggetti e si era sentito rispondere che la cantina era stata svuotata, proprio per impedirgli di riaverli. Una ripicca che la donna paga con una condanna penale, anche se i giudici gli concedono la sospensione condizionale della pena. Le ex vendicative sono avvertite, vestiti e cose varie di proprietà dell’ex devono tornare al legittimo proprietario. Una strada per evitare strascichi penali raggiungendo l’obiettivo di liberare gli spazi é mettere nero su bianco un “invito” allo sgombero. Ma la moglie dispettosa “reo confessa” non può essere assolta. Pisa: il “Cuore di tutti” batte nel carcere di Valentina Stella Il Dubbio, 27 novembre 2018 Presentato oggi il progetto pilota per il servizio di teleconsulto per i detenuti. Verrà presentato oggi a Pisa il progetto pilota “Cuore di tutti” per la realizzazione del servizio di teleconsulto e screening cardiologico a favore dei detenuti reclusi al Don Bosco di Pisa, a Porto Azzurro sull’Isola d’Elba, e sull’Isola Gorgona, in vista di una diffusione a livello nazionale. L’iniziativa nasce dalla collaborazione dell’Ordine degli Avvocati di Pisa, dalla Fondazione scuola Forense - Alto Tirreno e dalla Fondazione Toscana Gabriele Monasterio Ricerca Medica e di sanità pubblica, in collaborazione e con il patrocinio del Consiglio Nazionale Forense, del Dap, della Camera Penale di Pisa, del Soroptimist International Club di Pisa. Gli obiettivi sono molteplici, tra cui effettuare sia una diagnosi in ipotesi di primo soccorso nel caso di eventi acuti sospetti, ma anche una serie di controlli programmatici per i cardiopatici cronici e infine predisporre indagini clinico- scientifiche di supporto per lo sviluppo di un programma di screening delle patologie cardiovascolari. I vantaggi saranno notevoli, il progetto, infatti, consentirà di evitare, almeno in una prima fase, il trasferimento in altre strutture sanitarie dei reclusi, se non vi sono condizioni di effettiva emergenza clinica riducendo così in maniera significativa i tempi di risposta diagnostica oltre che i costi organizzativi per il trasferimento del detenuto con particolare riguardo per sedi particolarmente disagiate, quali ad esempio gli istituti collocati nelle isole minori; di assicurare l’immediato trasferimento in un centro idoneo in caso di emergenze cardiologiche; di realizzare una attività di prevenzione delle patologie cardiovascolari nei detenuti. Ma come avverrà praticamente il consulto? La tele-ecocardiografia “in tempo reale” sarà implementata utilizzando un apparato di video conferenza, dotato di dispositivo per acquisire il segnale video dall’ecografo e in grado di trasmetterlo in rete (streaming). Le immagini esaminate dal medico presso l’istituto di detenzione sono replicate in diretta su un monitor presso il centro clinico specialistico ove il cardiologo può guidare il collega da remoto, collaborando alla valutazione diagnostica del paziente e/ o al controllo delle sue condizioni nel follow-up. Un aspetto importante sarà l’elaborazione del “Fascicolo elettronico personale di teleconsulto”, destinato ad accompagnare il paziente ristretto nel periodo di permanenza e negli eventuali successivi trasferimenti presso altri istituti e all’esito della detenzione, nell’ordinaria gestione della propria vita. All’incontro di oggi sarà presente l’avvocato Laura Antonelli, Presidente Camera Penale di Pisa, l’avvocato Emilia Rossi, membro del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, il Provveditore per gli istituti penitenziari della Toscana e dell’Umbria, Antonio Fullone, Cettina Battaglia, presidente di Soroptimist e l’avvocato Alberto Marchesi, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Pisa che al Dubbio evidenza l’importanza di un tale progetto all’interno di un panorama critico della sanità in carcere: “Il progetto in questione, che spero possa trovare diffusione in tutte le carceri, oltre a rispondere a primarie esigenze di tutela della persona e della dignità umana, dimostra come l’Avvocatura, a pieno titolo, si ponga come soggetto di riferimento per la tutela dei diritti e delle garanzie di tutti i cittadini, anche e soprattutto di quelli più deboli e svantaggiati, quali sono le persone private della libertà personale. Non posso che esprimere il mio ringraziamento a tutti coloro che, nelle rispettive vesti istituzionali, hanno offerto il loro prezioso contribuito all’iniziativa, in un momento storico nel quale la condizione carceraria sta diventando sempre di più drammatica e dove le ideologie punitive stanno lentamente erodendo i sentimenti di umanità e rispetto per la persona, che il sistema giudiziario di uno stato democratico deve invece assicurare. Domani, sempre a Pisa, presso le Officine Garibaldi, alle ore 15:30, il professore Tullio Padovani terrà una relazione dal titolo “Pena detentiva e diritti della persona”. Milano: convenzione Università Statale-Prap, Francesca Poggi nuova delegata unimi.it, 27 novembre 2018 Il rettore Elio Franzini ha delegato la docente di Filosofia del diritto a coordinare e dirigere i programmi scientifici e didattici in carcere. A seguito del rinnovo della convenzione tra il nostro Ateneo e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia (Prap), è stata conferita alla professoressa Francesca Poggi (del Dipartimento di Scienze giuridiche “Cesare Beccaria”) la delega rettorale per la definizione e l’attuazione dei relativi programmi didattici e scientifici; in tale funzione, la professoressa Poggi sarà supportata dal Prorettore, professoressa Marina Brambilla. Tra i punti fondamentali della Convenzione vi è il sostegno allo studio per i detenuti degli istituti penitenziari di Milano-Bollate, di Milano-Opera e della Casa Circondariale di Milano-San Vittore, attuato sia a livello amministrativo, mediante l’assistenza all’iscrizione e ad altre pratiche procedurali, sia a livello didattico, mediante l’erogazione di apporti su base volontaria e nell’ambito di progetti finalizzati da parte di docenti e studenti dell’Università. Nel prossimo triennio, oltre a continuare e potenziare tale attività, l’Ateneo si impegna a dare attuazione anche ad altri obiettivi previsti dalla Convenzione, quali: 1) la creazione di opportunità formative per il personale del comparto sicurezza, del comparto funzioni centrali e dei Dirigenti dell’Amministrazione in servizio presso le sedi lombarde; 2) la costituzione di rapporti scientifici e di scambio con organizzazioni che si occupano del rapporto carceri-università in altre realtà, sia italiane sia internazionali; 3) l’ampliamento dell’offerta didattica organizzata dall’Ateneo negli istituti penitenziari e, ove necessario, a distanza. Monza: accordo con il Comune per sviluppare la biblioteca del carcere monzatoday.it, 27 novembre 2018 Il municipio ha siglato una convenzione quinquennale con la casa circondariale. È stata siglata nel pomeriggio di venerdì 23 novembre, presso la casa circondariale di via Sanquirico, la convenzione quinquennale con il Comune di Monza per dare continuità al progetto di promozione della lettura e del reinserimento sociale avviato una decina di anni fa. L’accordo siglato alla presenza dell’assessore Pierfranco Maffè e del direttore della casa circondariale di Monza Maria Pitaniello, conferma la collaborazione in corso per garantire continuità e risorse ad un servizio che costituisce una opportunità preziosa di accesso ampio e qualificato alla conoscenza, all’informazione e alla cultura. Il testo sottoscritto, in particolare, garantisce la condivisione delle competenze necessarie ad organizzare e gestire il servizio bibliotecario carcerario, anche attraverso la formazione professionale di alcuni detenuti per lo svolgimento delle attività di catalogazione del patrimonio librario delle biblioteche dell’istituto. Previste inoltre iniziative culturali, momenti formativi e reali possibilità per alcuni detenuti di svolgere attività presso le biblioteche cittadine. Garantita inoltre l’organizzazione e la gestione del prestito interbibliotecario, grazie alla rete territoriale di Brianza Biblioteche che sarà affiancata dall’Associazione monzese La biblioteca è una bella storia che già collabora con il Sistema Bibliotecario Urbano in diverse iniziative. L’Assessore Maffè ha voluto ricordare alcuni dati significativi che confermano il valore ormai consolidato della biblioteca presso la casa circondariale che in pochi anni conta un patrimonio di 10.000 titoli e 2mila prestiti annuali. “Penso che la lettura, particolarmente in questo luogo assuma un significato profondo, quale strumento privilegiato di crescita, di apprendimento e di promozione personale anche ai fini di un reinserimento sociale che resta l’obiettivo primario di tutti i soggetti istituzionali coinvolti”, ha osservato l’Assessore. Rovigo: un coro di voci per “No prison”, il manifesto contro il carcere rovigoindiretta.it, 27 novembre 2018 Scritto da Livio Ferrari e Massimo Pavarini, il volume sarà presentato il 14 dicembre. Un coro di voci che dicono no al carcere, “quella gabbia per esseri umani istituzionalizzata in risposta a reali o supposte violazioni del contratto sociale”. È la descrizione del volume “Basta dolore e odio. No prison” scritto da Livio Ferrari, già garante dei detenuti del Comune di Rovigo, insieme a Massimo Pavarini ed edito da Apogeo Editore. Dopo un tour di presentazione che ha toccato in lungo e in largo varie città della Penisola (da Avellino, Napoli e Torre del Greco a Venezia passando per Roma e Firenze), ora è la volta di Rovigo. Venerdì 14 dicembre a partire dalle 17.30, l’appuntamento con il libro “Basta dolore e odio. No prison” è fissato nella sala convegni di Palazzo Roncale, in piazza Vittorio Emanuele II. “Il dire no al sistema carcerario - si legge in una nota stampa - deve essere compreso nel senso che la prigione non è ciò che si crede sia, infatti non è parte della soluzione al problema del crimine ma è parte del crimine stesso. La Canadian Society of Friends (Società Canadese degli Amici), più spesso nota come i Quaccheri, è giunta a queste conclusioni già nel 1981 quando è stata votata una mozione per l’abolizione della prigione che conteneva, tra le altre intuizioni degne di nota, anche questa: “Il sistema carcerario è sia una causa che un risultato della violenza e della ingiustizia sociale. La storia conferma che la maggioranza dei carcerati sono stati emarginati ed oppressi. È sempre più chiaro che l’imprigionamento di esseri umani, così come la loro schiavizzazione è intrinsecamente immorale e distruttiva sia per chi imprigiona che per gli imprigionati”. Non ci sono alternative morali all’abolizione del carcere perché la crudeltà della condanna al carcere è un fatto innegabile. Un altro fatto innegabile è che non si può trovare la verità sulla prigione nelle relazioni governative e nelle promesse elettorali. La verità sulle prigioni sta nella conoscenza della carcerazione vissuta in tutto il mondo, dall’esperienza della stragrande maggioranza dei più di dieci milioni di carcerati del pianeta, costretti in spazi angusti, con gabinetti sporchi e pasti scadenti, in condizioni che alimentano la cattiveria, le malattie e la paura costante. Di fronte a questa situazione di esperienze di vita vissuta il no verso questo luogo di vendetta e odio è totale, tutto il resto sono solo pubbliche relazioni per un business a danno dei poveri, propaganda, negazione, ingenuità o soltanto finzione”. Nel volume, oltre al manifesto “No Prison” scritto da Livio Ferrari e Massimo Pavarini, si trovano una serie di capitoli scritti da: Stefano Anastasia, Deborah H. Drake, Johannes Feest, Livio Ferrari, Ricardo Genelhu, Hedda Giertsen, Thomas Mathiesen, Giuseppe Mosconi, Massimo Pavarini, Gwenola Ricordeau, Vincenzo Ruggiero, Simone Santorso, Sebastian Scheerer, David Scott. Roma: Giornata contro la violenza sulle donne, workshop europeo sulle vittime di tratta Ristretti Orizzonti, 27 novembre 2018 Promosso dal Garante nazionale delle persone private della libertà. “In Europa non era mai accaduto che un organismo incaricato della prevenzione dei trattamenti inumani e degradanti dedicasse un’intera giornata di studi al tema del traffico di esseri umani”. Lo afferma Petya Nestorova, Segreterio esecutivo del Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sul traffico di esseri umani, in apertura del suo intervento al workshop promosso a Roma dal Garante dei diritti delle persone private della libertà, dal titolo “I processi di emersione e identificazione delle vittime di tratta nelle procedure di rimpatrio forzato”. All’iniziativa hanno partecipato in qualità di relatori Maria Grazia Giammarinaro, Relatrice speciale dell’Onu sul traffico di esseri umani, nonché esponenti della magistratura, delle forze di Polizia, delle Associazioni di settore ed esperti di diritti umani. Il workshop, ospitato significativamente alla Casa internazionale delle donne, si è chiuso con un intervento del Garante nazionale, Mauro Palma, che ha dichiarato: “Come ci insegna Beccaria, quando una persona viene considerata da altre persone come mezzo per ottenere qualcos’altro, lì c’è l’elemento che rompe il sistema di diritto e di relazioni umane. La tortura e la tratta di esseri umani hanno questo in comune”. In occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il Garante nazionale renderà pubblica sul proprio sito web, a partire da oggi, la registrazione video dell’evento, svoltosi a porte chiuse il 13 novembre scorso. Fra i relatori del workshop anche David Mancini, magistrato della Direzione distrettuale antimafia dell’Aquila; Ilaria Boiano, dell’Associazione Differenza donna; Silvia Agostini, responsabile del Centro di permanenza per il rimpatrio di Ponte Galeria; Francesca De Masi, della Cooperativa Be Free; Gennaro Santoro, della Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili; Luciana Sangiovanni, Presidente di sezione del Tribunale civile di Roma; Héléna Behr, dell’Unhcr; Aldo Morrone, medico forense esperto del Garante nazionale e Salvatore Fachile, esperto legale del Garante nazionale. Ravenna: “Linea Rosa” incontra i detenuti per la Giornata contro la violenza sulle donne ravennatoday.it, 27 novembre 2018 Contestualmente alle performance di letture, è stata esposta una mostra di elaborati artistici realizzati da donne e bambini ospiti nelle case rifugio di Linea Rosa”. Domenica 25 novembre, in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, all’interno della casa circondariale di Ravenna Linea Rosa ha presentato “Inside out: il potere della condivisione”, letture a cura delle operatrici di Linea Rosa con accompagnamento musicale di Fulvia Di Pasquale, e a seguire: “Parole in transito” performance itinerante a cura di Associazione Asja Lacis - Lions Club Ravenna Dante Alighieri - Leo Club - 8 Marzo Donne di Porto Fuori. Al termine un coffee break, offerto dal carcere e interamente realizzato dai laboratori a tema seguiti dai detenuti. Il progetto è stato realizzato grazie alla collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Ravenna e con il patrocinio del Comune di Ravenna. Contestualmente alle performance di letture, è stata esposta una mostra di elaborati artistici realizzati da donne e bambini ospiti nelle case rifugio di Linea Rosa. L’idea di coinvolgere le donne e i bambini, che hanno intrapreso un percorso di uscita dal maltrattamento, ha avuto come principio ispiratore la riflessione sull’importanza dell’arte-terapia per l’elaborazione di un vissuto di violenza ma, soprattutto, l’esigenza di comunicare ai detenuti che è possibile e doveroso lavorare su sé stessi per costruire relazioni basate sul rispetto. In particolare le donne hanno realizzato una serie di scarpe di colori diversi e con diversi accessori, traendo spunto dalla scarpa rossa simbolo del femminicidio, mentre i bambini hanno eseguito disegni e dipinti. Il laboratorio è stato realizzato da una collaboratrice del centro antiviolenza esperta di arte terapia, ed i piccoli ospiti delle nostre strutture, hanno affrontato lo stesso percorso proposto in maniera adeguata alla loro età e strutturato appositamente per loro. Si è condiviso un momento di particolare commozione quando un ospite del carcere, in rappresentanza anche di altri detenuti, ha voluto omaggiare l’associazione di un bellissimo disegno raffigurante delle rose, accompagnato da una breve testimonianza scritta di ringraziamento per il lavoro di Linea Rosa, mentre un altro detenuto ha donato un manufatto rappresentante una scarpetta rossa, che ha realizzato egli stesso, per “contraccambiare” gli stessi oggetti realizzati dalle donne ospiti. Firenze: il Garante Franco Corleone racconta la Rems di Volterra quinewsvolterra.it, 27 novembre 2018 A Firenze la presentazione della ricerca “Mai più manicomi” a cura del Garante dei detenuti, mercoledì 28 nella sala delle Feste di palazzo Bastogi. Mercoledì prossimo 28 novembre sarà una giornata dedicata ad approfondire la questione delle carceri e delle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, cioè le strutture di accoglienza per i detenuti con problemi psichiatrici. Si inizia la mattina ore 10, nella sala delle Feste di palazzo Bastogi in via Cavour, 18, a Firenze, con la presentazione di Mai più manicomi, una ricerca sulla Rems di Volterra - La nuova vita dell’Ambrogiana, a cura di Franco Corleone. All’appuntamento, organizzato dal Consiglio regionale della Toscana, dal Garante dei diritti dei detenuti e dalla Fondazione Giovanni Michelucci, porteranno i saluti Eugenio Giani, presidente del Consiglio regionale, Sandro Vannini, difensore civico della Toscana, Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana, Stefania Saccardi, assessore regionale alla Sanità. La presentazione è affidata a Grazia Zuffa, presidente Società della Ragione Comitato nazionale bioetica, Michele Passione, avvocato, Carlo Piazza, psichiatra. Seguiranno gli interventi di Franco Corleone, garante dei detenuti della Toscana, e di numerosi esperti e addetti ai lavori. A partire dalle 14 si terrà un seminario per la preparazione del convegno nazionale “Carcere e giustizia, ripartire dalla Costituzione - Rileggendo Alessandro Margara”, che si terrà a Firenze i prossimi 8 e 9 febbraio. “Senza fine”. La paura della libertà dopo l’ergastolo interrotto di Gabriele Romagnoli La Stampa, 27 novembre 2018 C’è vita oltre la morte civile? Che cosa succede a un uomo e alla società intera quando sulla sua cartella giudiziaria alla scritta “fine pena mai” ne subentra un’altra che al posto di quel “mai” reca una data? Questa è la storia di Alfonso Figini, che “resusciterà” fra 85 giorni, il 18 febbraio 2019, all’età di 61 anni. La prima parte della sua vicenda mi è stata raccontata in Lussemburgo da uno sconosciuto, in una notte di pioggia, al bancone di un tristo bar accanto alla stazione. Nel granducato delle banche fu il primo uomo ad essere arrestato mentre entrava per fare un deposito, anziché mentre usciva con il bottino. Sarà anche il primo in Italia a laurearsi in ingegneria mentre sconta la pena all’ergastolo. Nel frattempo, insieme con il suo professore, ha scritto un libro autobiografico (Lupo Alpha), chiedendomi qualche riga per la terza di copertina: “La letteratura è anche una forma di redenzione: trasforma i crimini in avventure da leggere con il fiato sospeso. Se un uomo è stato pilota di moto in Italia, rapinatore in Lussemburgo, trafficante in Sudamerica, come puoi non farne un personaggio da romanzo?”. Alfonso Figini nasce in Francia da genitori emigrati dalla Lombardia. La famiglia si trasferisce in Lussemburgo, dove gestisce un negozio. Da ragazzo s’innamora delle moto, prima aggiustandole in officina, poi guidandole in pista. Corre nella categoria 250, gareggia a livello europeo. Durante l’inverno si prende lunghe vacanze, abbassa la serranda l’officina e se ne va a scorrazzare in Brasile. Accelera pigiando il pedale del rischio e sbanda finendo nell’illegalità. È il gusto dell’avventura, non il bisogno, a fargli commettere il primo reato: svuota un centro commerciale con la complicità di due amici. Si scopre guascone: insoddisfatto del risalto avuto nelle cronache, due mesi più tardi replica lo stesso colpo e il bis conquista le prime pagine. Si entusiasma e la volta successiva alza la posta, svaligiando i Monopoli di Stato. Troppo piccolo per lui, a questo punto, il Lussemburgo. Esporta la sua nuova attività in Perù. Frequenta coetanei ricchi e viziati. Con loro fa uso di cocaina e per loro la smercia. Di loro pensa più in grande. Mette insieme le tessere della sua esistenza e le cose che ha imparato: i motori gli hanno dato contatti in Asia, il Lussemburgo nella finanza. Incrocia i dati fa girare nel verso opportuno droga e soldi. Finché lo bloccano, nella porta girevole di un istituto di credito. La sliding door non gira più, diventa quella di una cella chiusa. Il suo caso viene assegnato alla giustizia italiana, che lo condanna a 16 anni per traffico di stupefacenti. Non fa una piega: si riconosce colpevole e ritiene giusta la sentenza. Poi sbuca un’altra accusa: duplice omicidio. Gli fanno vedere due fotografie: riconosce un solo uomo. È morto carbonizzato, legato nella sua auto data alle fiamme. L’altro, l’ignoto, ha ricevuto una fucilata in gola, così potente che il collo si è staccato per metà dal capo. Erano due corrieri dell’organizzazione per cui aveva lavorato. Dicono che il mandante del loro assassinio è lui. Nega con la stessa risolutezza con cui aveva ammesso tutto il resto. Anche il magistrato del Lussemburgo, dove i delitti sono accaduti, appare perplesso. Il tribunale italiano non ha dubbi: colpevole. Ergastolo. Primo grado, appello, cassazione, ricorso a Strasburgo: ergastolo. A ogni verdetto Figini scuote la testa. Non se la prende con i giudici ma con se stesso: è stato lui a finire in quel giro, ma l’ergastolo? Suo padre muore dopo la sentenza e non gli viene neppure concesso di partecipare al suo funerale. Sua madre morirà il primo giorno in cui lo faranno uscire in libertà vigilata. In Italia esistono oltre 1600 condannati all’ergastolo di cui più di 1100 di tipo “ostativo”, che esclude ogni beneficio. Viviamo in quella che il sociologo francese Didier Fassin definisce l’era del castigo: pene di reclusione sempre più frequenti e sempre più lunghe. In quarant’anni la popolazione carceraria è più che triplicata. Che esista una porta girevole e “dopo averli messi dentro li rimettono subito fuor” è un’impressione legata a casi eclatanti e amplificati, non una realtà fattuale. Secondo Fassin: “Le élite politiche rafforzano o addirittura anticipano le inquietudini securitarie dei cittadini. Ritengono di trarre benefici elettorali dalla drammatizzazione delle situazioni e dalla messinscena della loro autorità attraverso dimostrazioni di severità. Del resto il populismo penale è per queste élite molto più redditizio di quanto sarebbe per loro puntare sui propri risultati in altri campi, come quello della giustizia sociale”. Nel carcere di Prato Alfonso Figini ha dovuto scegliere tra impazzire e provare a fare qualcosa per evitarlo. Ha studiato ingegneria meccanica, si è laureato. Chi gli faceva lezione gli ha trovato un lavoro in un laboratorio di ricerca dell’università di Firenze. Per svolgerlo ha ottenuto la libertà condizionata. Buona condotta, 26 anni di buona condotta gli sono valsi, a settembre, la decisione più attesa: liberazione anticipata. Gli 85 giorni che deve ancora scontare sono il computo aggiuntivo per un’ammenda non pagata. Ogni sera mette una firma alla questura di Prato. Poi toglie un numero a quel conto alla rovescia che lo sta angosciando in modo inedito. Al “fine pena mai” si era abituato, a questo avvicinamento lento non era preparato. Si sente come un pilota che vede il traguardo, ma ha una ruota bucata. Il problema è diventato che cosa fare dopo, di tutta questa improvvisa libertà, a 61 anni. Per questo ha rinnovato il contratto con l’università per soli sei mesi. E dopo? Non lo sa. Non era pronto. Ora inserisce ogni possibilità in un foglio Excel e digita pro e contro. Non può più sbagliare. Il carcere è un sistema imperfetto, a cui da secoli non si trovano alternative. L’ergastolo è una forma di rinuncia sociale. Quando accade quel che è successo a Figini bisogna accendere la fiamma della riflessione: rieducarne uno per salvarne 1.600. Gabriele Romagnoli è nato a Bologna nel 1960. Ha poi vissuto in 4 continenti, 8 città, 28 case. Ha pubblicato il primo libro (“Navi in bottiglia”) nel 1993, mentre imparava il giornalismo alla Stampa. I più recenti sono “Solo bagaglio a mano” e “Coraggio!”. Il prossimo (in uscita a ottobre) “Senza fine”. Mafia, la storia delle origini recensione di Paolo Mieli Corriere della Sera, 27 novembre 2018 Salvatore Lupo (Donzelli) scrive sulle vicende di Cosa nostra dal XIX secolo e smentisce che le cosche siano state favorite dagli americani. Forti riserve sulle teorie complottiste. La mafia nacque a metà Ottocento da una costola in un certo senso della “rivoluzione” siciliana. Questa in sintesi la tesi del libro - La mafia. Centosessant’anni di storia tra Sicilia e America - di un grande studioso di questa materia, Salvatore Lupo. Il libro tira le somme di una serie di precedenti lavori e sta per essere pubblicato da Donzelli. Qualche lontana origine del fenomeno - sostiene Lupo - può essere rinvenuta nel partito democratico del proprietario terriero Francesco Bentivegna il quale nel 1848 a Palermo guidò un manipolo di uomini per sostenere l’insurrezione antiborbonica e successivamente si collegò con i circoli radicali che - dopo la sua morte - avrebbero ispirato la sfortunata impresa di Carlo Pisacane a Sapri; lui nel frattempo aveva mobilitato una “squadra popolare” per “sollevare” nuovamente Palermo, ma era stato catturato e fucilato dai soldati borbonici. I suoi seguaci nel 1860 si schierarono con la corrente radicale garibaldina. Suo fratello, Giuseppe Bentivegna, nel 1862 sarebbe stato a fianco di Garibaldi sull’Aspromonte. Identiche considerazioni valgono per Giovanni Corrao, anche lui rivoluzionario del 1848, finito poi in prigione e in esilio. Mazziniano “spinto”, Corrao fu con Garibaldi al tempo dei “Mille” e lo seguì fino alla battaglia finale sul fiume Volturno. Cospiratori antiborbonici erano stati anche due amici di Corrao, Giuseppe Badia e Francesco Bonafede. “È possibile che i Corrao e i Bentivegna”, scrive Lupo con le dovute cautele, “si siano rapportati, lungo il loro percorso, anche ad elementi definibili come proto-mafiosi”. Quanto a coloro, prosegue Lupo, che furono qualificati come capimafia in tempi successivi, vale a dire in età postunitaria, “troviamo nella loro biografia non pochi punti di contatto con l’esperienza rivoluzionaria”. In questo senso Lupo crede “si possa dire che la mafia rappresentò il frutto tossico di una stabilizzazione post-rivoluzionaria”. Come ciò avvenne lo si può capire da un opuscolo pubblicato nel 1864 dal senatore della sinistra “moderata” Nicolò Turrisi: Cenni sullo stato della sicurezza pubblica in Sicilia. Turrisi racconta come sia nel 1848, sia nel 1860 nell’isola “era in armi tutta la vecchia setta dei ladri, tutta la gioventù che viveva col mestiere di guardiani rurali, e la numerosa classe dei contrabbandieri dell’agro palermitano”. Poi, dopo l’impresa garibaldina, era mancato un governo in grado di restaurare l’ordine, sicché a quella setta di “tristi” si affiliarono altri personaggi della stessa risma. Turrisi, nota Lupo, non usa il termine “mafia”, ma ricorre ad altre parole chiave: “setta” appunto, e poi “camorra”, “infamia”, “umiltà”. In che senso “umiltà”? Spiega Turrisi: “umiltà comporta rispetto e devozione alla setta ed obbligo di guardarsi da qualunque atto che può nuocere direttamente o indirettamente agli affiliati”. Due anni dopo lo stesso Turrisi chiamerà la setta con il suo nuovo nome, mafia, testimoniando davanti alla Commissione parlamentare sulla rivolta del 1866. Dirà: questi uomini armati “si fanno o si impongono guardiani della proprietà; proteggono le proprietà e ne sono protetti; ma restano malandrini; la Mafia fu protetta da’ signori che se ne valsero nel ‘48”. E il cerchio si chiude. La prima volta che il termine “maffia” (con due effe) compare in un documento governativo è in una relazione del prefetto di Palermo Filippo Gualterio (nel 1865). Il funzionario spiegava che la mafia era una specie di “camorra”, un’”associazione malandrinesca” in rapporto con i “potenti”, a suo tempo guidata dal già citato Corrao e ora capeggiata dal suo sodale Badia. In altre parole “la faceva coincidere col partito repubblicano, col chiaro intento di delegittimarlo”, osserva Lupo. L’operazione politica di Gualterio consisteva nel “mettere insieme promiscuamente l’aspetto politico e quello criminale”. Il primo giuramento di mafia registrato in un rapporto di polizia è del 29 febbraio 1876. Il rito, scrive Lupo, ci rinvia non solo al futuro della mafia, ma anche al passato della rivoluzione, in particolare alle “vendite” carbonare e a quei patti “giurati” (di cui dicono le fonti sul 1848), in forza dei quali il popolo prometteva di seguire le classi superiori nella lotta contro il dispotismo borbonico, ma impegnandosi a non mettere in discussione l’ordine sociale”. Dopodiché la mafia non solo trasse originariamente suggestioni o modelli dalla massoneria, ma condivise con la stessa massoneria “alcuni caratteri di fondo”. Qui Lupo afferma - pur senza “voler criminalizzare la tradizione massonica”, mette in chiaro - che “le cosche mafiose e le logge massoniche sono società di confratelli che si basano sull’idea del mutuo sostegno, usano rituali barocchi per l’ammissione dei neofiti, puntano sul mantenimento del segreto”. E in questo sono assai simili tra loro. Nel 1874 l’ultimo governo della Destra storica, guidato da Marco Minghetti, propose una legge per l’ordine pubblico, una legge “straordinaria” e specifica per la Sicilia. Minghetti citò la statistica sugli omicidi del 1873 che vedeva l’isola in testa tra le regioni d’Italia, con un omicidio ogni 3.194 persone, laddove la Lombardia era in coda, con un ucciso ogni 44.674 abitanti. Il prefetto di Palermo, Giovacchino Rasponi, protestò per il varo della “legge straordinaria” e si dimise. Quello di Caltanissetta, Guido Fortuzzi, si disse, invece, entusiasta e volle specificare che l’idea di governare i siciliani “con leggi e ordinamenti all’inglese o alla belga, che suppongono un popolo colto e morale come colà o come almeno nella parte superiore della penisola”, implica “un azzardoso e terribile esperimento”. Destinato a fallire. Successivamente i sospetti di collusione si spostarono sulla destra per iniziativa del procuratore generale del re Diego Tajani, che ebbe uno scontro con il questore di Palermo Giuseppe Albanese, da lui accusato di essere il mandante di una catena di omicidi. Nel giugno del 1875 il caso arriva in Parlamento, dove il deputato della Sinistra Francesco Cordova puntò l’indice contro i banchi governativi: “Signori del governo”, urlò, “il centro della maffia è nelle fila della vostra forza pubblica, i manutengoli siete voi”. E quando Leopoldo Franchetti con Sidney Sonnino andò a trovare Tajani prima di “scendere” - tra il marzo e il maggio del 1876 - a studiare il “caso siciliano”, l’uomo del re rivelò loro che la degenerazione del governo della Destra in Sicilia era cominciata, a suo avviso, nel 1866-67 essendo prefetto Antonio Starabba, marcheseRudinì. Il quale Rudinì, disse Tajani, “principiò a impiegare assassini contro assassini, per modo che per un assassino che distruggeva ne creava quattro”. E l’uso della forza per combattere la mafia? Negli anni iniziali della storia d’Italia, quando il Paese fu governato dalla Destra storica (1861-76), “ancora non era ben consolidato il sistema delle garanzie liberali e si era appena avviato il tormentato percorso verso la democrazia politica”. La prima battaglia di quell’epoca contro la mafia fu combattuta sotto il segno di un sistema di governo centralistico, autoritario, che non disdegnava di far ricorso allo stato d’assedio e di affidarsi ai militari. Accadeva che “per difendere la propria rozza idea di legalità, indulgesse ad ogni genere di sostanziale illegalismo”. In alcuni periodi storici, almeno due, “la lotta alla mafia - sostiene Lupo - confinò con la negazione di valori, che per noi sono irrinunciabili, di rispetto dei diritti individuali e collettivi, insomma di libertà”. La mafia, è vero, rappresenta una patologia delle relazioni sociali e dei sistemi rappresentativi. Ma, afferma Lupo, alcune delle soluzioni che storicamente sono state proposte possono ai nostri occhi essere considerate peggiori del male.Dopodiché vanno annotate anche le due stagioni, quella tardo ottocentesca della Sinistra storica e quella della prima età repubblicana, che Lupo definisce del “lungo armistizio”. Ne parlò per primo, subito dopo la Grande guerra, il giurista Santi Romano, il quale notò come ai suoi tempi l’”ordinamento giuridico maggiore” (lo Stato) si mostrasse tollerante verso quelli “minori” (le associazioni) reagendo solo contro quelle che ne minacciavano il potere (le organizzazioni rivoluzionarie). La mafia poteva agevolmente essere collocata in questo schema. Sotto la minaccia delle leggi statuali, scriveva Santi Romano, “vivono spesso, nell’ombra, associazioni, la cui organizzazione si direbbe quasi analoga, in piccolo, a quella dello Stato: hanno autorità legislative ed esecutive, tribunali che dirimono controversie e puniscono, agenti che eseguono inesorabilmente le punizioni, statuti elaborati e precisi come le leggi statuali”. Esse dunque, proseguiva Santi Romano, “realizzano un proprio ordine, come lo Stato e le istituzioni statualmente lecite”. Lo Stato italiano (liberale-monarchico, fascista e repubblicano) ha oscillato tra fasi di tolleranza e fasi di repressione. Ma le prime sono state assai più lunghe delle seconde. Lo storico propone un paragone tra la lotta alla mafia di Cesare Mori (1926-1929) e quella degli anni Ottanta, rilevandone le differenze a partire da quelle concettuali. Il fascismo “aborriva l’idea di una spinta dal basso nonché di un’autonoma partecipazione della società civile” e “sosteneva l’incompatibilità tra logiche liberal-democratiche da un lato e legalità dall’altro”. Sul piano pratico la repressione fascista fu pesante, “spesso indiscriminata” e “si accompagnò ad ogni genere di abuso”. Però dai processi di quell’epoca la grande maggioranza degli imputati “uscì bene”: molte delle condanne furono di “modesta entità” e seguì un’amnistia. Niente a che vedere, sottolinea l’autore, con le pesantissime pene inflitte ai mafiosi dai tribunali della Repubblica a partire dal 1985-86. Lupo non crede alla “leggenda” (“priva di qualsiasi base documentaria”) stando alla quale lo sbarco in Sicilia del luglio 1943 sarebbe stato “il frutto di un complotto tra mafiosi e servizi segreti statunitensi”. E anche a proposito della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) non gli sembra “sia venuto qualcosa di serio dai vari tentativi di dimostrare che gli americani abbiano avuto in essa qualche responsabilità”, mentre “è vero”, concede, “che, in generale, intorno alla vicenda del bandito Salvatore Giuliano si intrecciarono complotti a ogni livello”. Molti sono stati quelli che (in Italia e altrove) hanno ricondotto i successi della mafia nel secondo Novecento alle “trame del governo statunitense o delle sue agenzie di sicurezza, nell’ambito di strategie della tensione destinate ad inquinare in permanenza la vita democratica della nostra Repubblica”. Si tratta, per Lupo, di una tesi “che ha avuto fortuna nella cultura di sinistra, sinistra che è stata a lungo antiamericana per definizione”. Ma questa tesi ha spopolato anche “su altri versanti che antiamericani non lo sono stati mai”. Ora, secondo l’autore, “può darsi che, nei giochi complicati dei servizi segreti, qualche spezzone di qualche agenzia statunitense abbia tramato con qualche banda mafiosa americana o siciliana”. Però in sostanza l’unica cosa “provata” è questa: “Più volte il governo statunitense intervenne, anche su sollecitazione dell’agenzia federale antidroga (il Narcotic Bureau) perché le autorità italiane facessero qualcosa contro la mafia, ottenendo scarso successo”. Nient’altro. Lupo si dice consapevole che solo parzialmente la ricerca può illuminare gli spazi torbidi oscuri in cui si sviluppa questo fenomeno, la rete di intrighi che “costituisce la storia della mafia”. Ritiene però che “la storiografia possa fare la sua parte, dal punto di vista conoscitivo e anche da quello civile, evitando di accreditare le mitologie del Super-complotto”. Sottraendosi cioè alla tentazione di “seguire la china della discussione pubblica, che troppo spesso si ubriaca dell’immagine della mafia come invincibile super-potere: finendo per risolversi, quali che siano le sue intenzioni, in una sottile apologia”. Un’apologia che rischia di provocare un danno non lieve, che va ad aggiungersi a quelli provocati dalla mafia in sé. Libertà di stampa. “Il potere non ama chi lo contesta” La Repubblica, 27 novembre 2018 L’iniziativa al teatro Brancaccio di Roma dal titolo “Liberateci dalla stampa: la tentazione del nuovo potere globale”. Una mattinata di incontri con Mario Calabresi, Ezio Mauro, Lucia Annunziata, Massimo Giannini, Roberto Saviano e Vittorio Zucconi. “Il potere non ha mai amato le intrusioni, ha sempre cercato di sfuggire, coprire, depistare, silenziare. Ma oggi ha in mano strumenti capaci di mettere fuori gioco le domande”. Il direttore di Repubblica Mario Calabresi apre con queste parole il convegno “Liberateci dalla stampa, la tentazione del nuovo potere globale” al Teatro Brancaccio di Roma. “L’idea - continua Calabresi, spiegando le tattiche dei nuovi potenti contro l’informazione allo scopo di indebolire la democrazia - è quella di saltare la mediazione, presentando questo come una meravigliosa novità. Ma in realtà questa è una truffa, perché si trasforma in propaganda senza filtro. Tutto questo non l’ha inventato Donald Trump. Penso a un presidente democratico come Barack Obama”. E racconta di quando Obama annunciò pubblicamente di voler chiudere il carcere di Guantánamo: i giornalisti gli chiesero come avrebbe fatto. Ma lui non rispose. In otto anni di presidenza non è riuscito a mantenere quella promessa, che si rivelò essere solo propaganda. Calabresi cita anche il caso molto recente del presidente del Brasile Jair Bolsonaro, che durante la sua campagna elettorale ha screditato i media come fonte di fake news. In Italia “Matteo Renzi ha portato un’innovazione - aggiunge il direttore di Repubblica Mario Calabresi - facendo i Facebook live, dialogando direttamente con i cittadini. Ma questo permette di scegliere le domande, mentre in una conferenza stampa non le puoi scegliere”. Sul blog di Grillo esiste un tariffario per le interviste: 1.000 euro a domanda o a minuto. Salvini occupa tutto lo spazio ogni giorno attraverso Twitter, Facebook, Instagram senza rispondere a domande. “Abbiamo fatto un passo in avanti ulteriore - conclude Calabresi - oggi il potere si rivolge al popolo per convincerlo che è la stampa a tradirlo, perché asservita ad altri interessi. Come dimostra il sondaggio di Ilvo Diamanti su Repubblica forse i giornali sono stati poco critici con l’esistente, come la sinistra, poco capaci di ascoltare. Ma questo non può giustificare la guerra lanciata dal potere che si chiama popolo contro i media”. E cita il presidente turco Erdogan: “Democrazia e media non possono coesistere, ha recentemente detto, i giornali disturbano e danno fastidio, quindi meglio che si tolgano di mezzo”. Zucconi: giornalisti nella trappola di Trump - “Dietro la guerra apparente e spietata che Donald Trump conduce alla libertà di critica e di stampa c’è il vero segreto della sua azione”. Nel suo videomessaggio per il convegno Vittorio Zucconi commenta gli insulti ai giornalisti, la misoginia del presidente degli Stati Uniti e la “trappola” nella quale i cronisti di tutto il mondo continuano a cadere. Lucia Annunziata rinnova il suo grazie a Di Battista - Nel suo intervento un’emozionata Lucia Annunziata rinnova il suo grazie ad Alessandro Di Battista “per avere sdoganato la parola puttana”. Il riferimento è al post di Facebook in cui il l’esponente di M5s ha attaccato i giornalisti nel giorno dell’assoluzione del sindaco di Roma Virginia Raggi (“le uniche puttane qui sono proprio loro - ha scritto - questi pennivendoli che non si prostituiscono neppure per necessità, ma solo per viltà”). “In questa situazione - ha affermato il direttore di Huffington post Italia - essere accusate da un uomo di essere una puttana non è male”. E ha osservato: “Una cosa del giornalismo Di Battista l’ha sicuramente imparata: come parlare male dei colleghi. Non vedo l’ora che torni in Italia e diventi il capo delle comunicazione dei 5 stelle”. Yavuz Baydar, stampa sotto assedio in Turchia - Il giornalista turco in esilio e attivista per la libertà di stampa, Yavuz Baydar, racconta alla platea del Brancaccio come nel suo Paese la stampa sia sotto assedio da parte del governo Erdogan, che ha svuoto progressivamente il sistema dell’informazione: “Con 176 giornalisti imprigionati la Turchia ha la media più alta al mondo. Quasi 6mila giornalisti sono stati licenziati o obbligati a lasciare il proprio lavoro a causa delle loro idee. Ben 191 media sono stati chiusi, gli archivi digitali oscurati”. E conclude: “Serve unità fra i giornalisti per fare fronte comune contro il potere. La nostra professione e il nostro ruolo sociale sono sotto minaccia. Bisogna lottare per la libertà dell’informazione”. Ezio Mauro e la tentazione del balcone - L’insopprimibile tentazione del balcone. Con una frase che riecheggia il capolavoro di Milan Kundera, Ezio Mauro dal palco del Brancaccio dipinge l’essenza di un nuovo potere, quello che si scaglia contro l’informazione. “Il potere ha una tentazione insopprimibile: è la tentazione del balcone - ragiona l’ex direttore di Repubblica - quella di trasformare il consenso conquistato da una parte politica, che è un consenso sempre temporaneo, in un’eternità e totalità trasformando il cittadino in popolo, il popolo in gente e la gente in folla plaudente. E infatti un balcone c’è stato nei primi mesi del governo Lega-M5s. Il balcone di palazzo Chigi, usato per festeggiare lo sfondamento del deficit dopo che incredibilmente era stata sconfitta la povertà”. Il razzismo ha i numeri contati (da un’associazione) di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 27 novembre 2018 Stiamo diventando un Paese razzista? I numeri sono un indicatore oggettivo. Aumentano i casi documentati da Lunaria. “La realtà è più brutta di quello che si vede dai numeri, perché c’è paura di denunciare”. Il 2 giugno a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia, il sindacalista maliano Soumayla Sacko viene ucciso a colpi di fucile. A Caserta, l’11 giugno, due ragazzi del Mali, ospiti di una struttura Sprar - il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati è il servizio del ministero dell’Interno - sono colpiti da una raffica di colpi di pistola ad aria compressa. A Napoli, il 20 giugno, lo chef 22enne maliano Konate Bouyagui riceve un piombino nella pancia mentre torna a casa. A Forlì, il 3 e il 7 luglio, altri due feriti: una giovane donna nigeriana e un ivoriano di 33 anni. A Latina, l’11 luglio, le vittime sono due richiedenti asilo nigeriani, di 26 e 19 anni, che aspettano l’autobus. Un’ondata di violenza contro lo straniero che era stata inaugurata dalla strage di Macerata il 3 febbraio. E un’associazione, Lunaria, si è messa a contare (ma anche ad analizzare) i casi, raccolti all’interno del sito Internet, www.cronachediordinariorazzismo.org, online dal 2011. L’ultimo rapporto riguarda i nove mesi da gennaio a settembre 2018. In questo periodo sono stati 488 i casi documentati, tra violenze razziste verbali e fisiche, danni contro la proprietà e le cose e discriminazioni: erano stati 423 i casi dello stesso periodo del 2017, quindi se ne contano 65 in più. In particolare, a crescere di più sono i caso di violenza fisica: da 30 salgono a 87. È corretto parlare di emergenza? “Se si paragona il nostro Paese ad altri in Europa no”, dice Grazia Naletto, coordinatrice dell’attività di lotta al razzismo di Lunaria. “E anche affermare che gli episodi sono in forte crescita, anche sulla base delle informazioni che noi raccogliamo, non è possibile. I dati ufficiali non consentono un’analisi accurata e disaggregata di ciò che succede e sono dati parziali. Molte violenze razziste restano ancora invisibili, perché non denunciate per vari motivi: paura delle autorità, paura di perdere il lavoro, paura di nuove violenze. Il nostro lavoro dimostra che ci sono molti esempi di razzismo e che non ci sono casi isolati. La realtà è più brutta di quello che si vede dai numeri”. Le fonti di Lunaria sono diverse: l’analisi quotidiana della stampa per i casi che hanno visibilità sui media, le segnalazioni dirette fatte all’associazione da chi ha assistito ad aggressioni o ha visto post sui social o da altre associazioni. Le statistiche ufficiali sono in capo alle autorità: in primis l’Unar, l’Ufficio nazionale contro le discriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio che monitora le discriminazioni anche istituzionali e mette in campo azioni di contrasto. Nel 2010 è stato creato l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), una struttura del ministero dell’Interno. Chiunque subisce un evento penalmente rilevante in relazione alla razza/etnia, credo religioso, orientamento sessuale/identità di genere e disabilità, può contattare l’Osservatorio all’indirizzo oscad@dcpc.interno.it. Ricevuta la segnalazione, l’Oscad sostiene le persone vittime di reati a sfondo discriminatorio crimini d’odio) agevolando la presentazione delle denunce. In base al rapporto dell’Osservatorio, dal 10 settembre 2010 al 31 dicembre 2017 l’Oscad ha ricevuto 2.030 segnalazioni, più del 60 per cento motivate da razzismo e xenofobia: circa la metà (1.036) costituiscono un reato. Di queste, 764 sono relative a reati di matrice discriminatoria generica e altre 272 a reati di discriminazione sul web. Il 51,5 per cento delle segnalazioni sono riferite all’ambito “razza/etnia”, mentre l’11,5 per cento al “credo religioso”. Inoltre, l’Oscad fornisce i dati all’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani (Odihr) dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. I dati elaborati dall’Odihr provengono dall’Oscad e dal ministero dell’Interno. Secondo l’Odihr, i reati motivati dall’odio sono passati da 71 nel 2012 a 803 nel 2016: più della metà sono indicati come crimini legati a razzismo o xenofobia. Non ci sono però solo i numeri da guardare. “Servirebbe piuttosto indagare meglio sul clima sociale, economico, politico e culturale - dice Naletto - che ha reso quello del razzismo e degli episodi di discriminazione e violenza un tema sensibile”. In estate sono state portate avanti molte iniziative di solidarietà. “Alle cose sbagliate - conclude - è possibile ribellarsi. Rassegnarsi non è inevitabile”. Le lezioni da imparare sull’emergenza migrazioni di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 27 novembre 2018 Nelle crisi globali, come quella in corso ai confini tra Stati Uniti e Messico, può accadere il peggio in assenza di visione e di gestione politica. I nodi cominciano a venire al pettine. E dunque va trasformandosi in lacerante emergenza umanitaria la crisi migratoria di Tijuana, esito finale della marcia verso il sogno a stelle e strisce di dieci o ventimila cittadini centroamericani: in buona parte “criminali” e forse “terroristi”, secondo Donald Trump; “donne e bambini per due terzi”, secondo i padri scalabriniani che gestiscono la casa d’accoglienza per profughi nella cittadina messicana al confine con gli Stati Uniti. Visioni inconciliabili in una questione che interpella anche noi. Perché questo esodo iniziato più d’un mese fa attraverso le pericolose strade di Honduras, El Salvador e Guatemala, cresciuto di peso numerico e simbolico al grido di “non si può vivere se si è poveri in America centrale”, è una storia lontana che parla però a noi tutti, chiamando in causa due parole assai abusate anche dalle nostre parti: razzismo e paura. E ci impartisce subito una lezione preliminare: negli insondati territori delle crisi globali, può accadere il peggio in assenza di visione e di gestione politica. Così, nella Tijuana che da giorni si è vista invadere da migliaia di disperati, per ora ammassati nel già saturo stadio Juarez, la tensione sale comprensibilmente, il sindaco ha chiesto aiuto all’Onu e, dopo i primi abbracci fraterni, i nuovi gruppi di profughi vengono accolti spesso a sassate e col canto (non ecumenico) dell’inno nazionale messicano. Ora: appare ragionevole escludere la molla del razzismo in tale reazione. Lo spiegava assai bene Luis Raul Gonzalez Perez, presidente della commissione nazionale per i diritti umani: “Dopo avere chiesto agli Usa di migliorare la loro condotta verso i nostri emigrati, non possiamo permetterci di trattare male queste persone”. Uniti da lingua, cultura e persino fisionomia, invasi e invasori non possono essere che fratelli. E tuttavia il problema sta proprio nella comunanza di destino e in un sogno dove tutti non riescono a entrare (è messicano il 52% dei migranti irregolari in Usa). Lo scorso 11 ottobre andrà ricordato: quel giorno il segretario di Stato americano Pompeo ha invitato a Washington i leader dei Paesi coinvolti in questa storia per rilanciare il piano di sviluppo centroamericano e forse anche per seminare la pianta germogliata in queste ore: l’accordo “Remain in Mexico”. Trump vuole che i richiedenti asilo aspettino dal lato messicano del confine la risposta dei giudici statunitensi. I profughi resteranno a Tijuana per mesi: vista da questa prospettiva, è più che comprensibile la paura che monta tra i residenti della cittadina. Ma l’11 ottobre è stata anche la prima giornata senza omicidi nel Salvador dopo 716 giorni (e in Honduras il tasso di omicidi è 63 volte più alto che da noi). I centroamericani non scappano solo dalla miseria, ma anche dai cartelli della droga, da regimi infami, da morte probabile: pure la loro paura è più che comprensibile. Senza una saggia mediazione politica, vedremo due gruppi di vittime che si scontrano nell’anticamera del benessere occidentale (e chissà se la scena fa suonare qualche campanello anche in noi...). Nei prossimi 40 anni è plausibile prevedere un miliardo di sfollati. Lo sostiene uno studioso di migrazioni come Michel Agier, secondo cui gli effetti della globalizzazione sono ora proprio nelle vie dove abitiamo e sempre più lo saranno (anche qui: nessun campanello?) a meno che non cerchiamo rimedi globali. Ci si può barricare dentro. Trump lo sta facendo. Ha mandato al confine 7 mila soldati e ne promette il doppio, quanti ne ha in Afghanistan: un monito, un tappo. Ma se davvero a Tijuana scoppiasse una guerriglia fratricida, per quanto gli Usa sarebbero protetti da quel tappo? Zygmunt Bauman scriveva che “tenere fuori le sciagure globali barricandosi in casa propria (...) non è meno improbabile che pensare di scampare alle conseguenze di una guerra nucleare accampandosi in un rifugio per senzatetto”. La cura definitiva, diceva, non è alla portata di un singolo Paese: è prendersi infine per mano quali esseri umani. Nell’attesa (con tempi lunghi) noi potremmo immaginare di ricorrere a palliativi: impicciarsi dell’altrui destino, coinvolgersi. Trump potrebbe fare molto per rendere il Centroamerica più vivibile. E i suoi soldati, anziché da tappo, potrebbero fare da cuscinetto, sostegno ai messicani, supporto anche sanitario ai profughi. Perciò pure noi europei, e italiani, dobbiamo guardare a Tijuana: per imparare. Perché tra i vari modi per sciogliere i nodi di una crisi globale, spezzare il pettine è, probabilmente, il peggiore. Cannabis. L’Asia verso la legalizzazione per scopi terapeutici di Alessandra Colarizi Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2018 Mentre Tailandia e Malaysia concorrono al titolo di primo paese asiatico a legalizzare la cannabis per scopi medici, altri paesi storicamente proibizionisti strizzano l’occhio a una progressiva apertura. Il motivo è semplice. Secondo Grandview Research, nel 2025 il mercato della marijuana per scopi medici è destinato a raggiungere i 55,8 miliardi di dollari, pari a un terzo di tutto il commercio legale. Prosegue a sobbalzi la lunga marcia dei paesi asiatici verso la legalizzazione delle droghe leggere. Combattuta tra la necessità di limitare il consumo tra i giovani e la volontà di sfruttare le potenzialità economiche del settore, l’Asia si accinge ad allentare le ferree restrizioni sul commercio di marijuana per scopi terapeutici. A guidare la regolamentazione dell’industria troviamo uno dei paesi in cui il narcotraffico è più diffuso e allo stesso tempo punito più severamente. In Tailandia il possesso, la coltivazione e il trasporto di cannabis fino a 10 kg può comportare una pena massima di 5 anni di carcere e / o una sanzione amministrativa. Nella prigione di massima sicurezza di Bangkok Klong Prem il 64% dei detenuti ha alle spalle arresti per droga e la prolungata durata delle sentenze è all’origine di una crescita esponenziale della popolazione carceraria nel paese, per un totale di 321.347 prigionieri nel 2016. Mentre la maggior parte dei casi riguarda il contrabbando di metanfetamine, da tempo il governo thailandese ha al vaglio un rilassamento delle misure, almeno per quanto riguarda le droghe leggere. Il 9 novembre, l’assemblea legislativa nazionale ha presentato una proposta per riclassificare la marijuana come farmaco legale, consentendone la vendita e il possesso regolamentati, tanto che, secondo il Washington Post, la cannabis potrebbe diventare disponibile previa licenza addirittura entro la fine dell’anno. Se così fosse, la Tailandia diventerebbe la prima nazione asiatica a legalizzare il consumo terapeutico, spianando la strada a un mercato interno che già nel 2024 potrebbe raggiungere i 5 miliardi di dollari. Un primato che Bangkok rischia di vedersi strappare dalla Malaysia, dove proprio lo scorso mese il governo di Mahathir Mohamad ha abolito la pena capitale per tutti i reati, compreso il narcotraffico. La possibilità di rimuovere le restrizioni sul commercio per fini medici è già stata introdotta informalmente nell’agenda di governo con il pieno appoggio del ministro delle Risorse naturali Xavier Jayakumar. Complice il caso di Muhammad Lukman, condannato a morte lo scorso agosto per aver venduto olio di cannabidiolo a pazienti affetti da malattie come il cancro e la leucemia. Sebbene con più cautela, anche altri paesi asiatici storicamente conservatori si avviano verso una progressiva apertura. Stando al South China Morning Post, se la Corea del Sud sta valutando la possibilità di modificare le leggi nazionali in modo da legalizzare le importazioni di medicine contenenti cannabinoidi, in Giappone, dove l’uso di cannabis è illegale, una quarantina di agricoltori ha già ottenuto le licenze necessarie alla coltivazione, mentre nello Sri Lanka lo scorso aprile il ministro della Salute ha annunciato che la produzione della cannabis terapeutica inizierà entro la fine dell’anno. Persino in Cina, dove la leadership di Xi Jinping è impegnata in una campagna moralizzatrice spiccatamente proibizionista, le province dello Heilongjiang e dello Yunnan - stando ai dati ufficiali dell’Ufficio nazionale di statistica - contano già per quasi la metà delle piantagioni di canapa destinate legalmente a uso commerciale a livello globale. Il motivo è semplice. Secondo Grandview Research, nel 2025 il mercato mondiale della marijuana per scopi terapeutici è destinato a raggiungere i 55,8 miliardi di dollari, pari a un terzo di tutte le transazioni legali. D’altronde, fino al divieto internazionale del 1961, nel continente asiatico il consumo della ganja (cannabis in sanscrito) era estremamente comune tanto nei rituali religiosi quanto nell’ambito delle usanze contadine. Nulla sembra, tuttavia, suggerire un ripensamento circa l’impiego della marijuana per fini ricreativi. Da quando il Canada è diventato il secondo paese a legalizzare la cannabis i governi di Seul, Pechino e Tokyo hanno diramato severi avvertimenti per i cittadini sudcoreani, cinesi e giapponesi, intenzionati a farne uso durante il loro soggiorno estero. Chi viene scoperto a fumare erba rischia fino a cinque anni di carcere una volta tornato in patria, hanno intimato giorni fa le autorità sudcoreane. Situazione dei carcerati nell’Unione europea: ci sono margini di miglioramento? di Daniele Vendemini eunews.it, 27 novembre 2018 Il testo approvato dal Parlamento Europeo il 5 ottobre 2087 relativo ai sistemi carcerari e le condizioni di detenzione restituisce un quadro della situazione carceraria europea, e delle azioni migliorative necessarie se non urgenti: deplora il sovraffollamento, assai diffuso nelle carceri europee; è allarmato per i nuovi livelli record di sovraffollamento in alcuni Stati membri. Inoltre sottolinea che, secondo l’edizione delle Statistiche Penali Annuali del Consiglio d’Europa del 14 marzo 2018, il numero di detenuti continua a superare il numero di posti disponibili, in un terzo degli istituti penitenziari europei; esorta, quindi, gli Stati membri ad attenersi alle raccomandazioni del Libro bianco del Consiglio d’Europa sul sovraffollamento delle carceri (28 settembre 2016) ed alla Raccomandazione R(99) del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (30 settembre 1999), riguardante il sovraffollamento delle carceri e la crescita della popolazione carceraria. Inoltre, invita gli Stati membri ad istituire sistemi e banche dati per il monitoraggio in tempo reale delle condizioni carcerarie dei detenuti ed a garantire una loro più efficace distribuzione. Infine, invita la Commissione a pubblicare relazioni dettagliate sulla situazione nelle carceri in Europa ogni cinque anni dall’approvazione della presente relazione di iniziativa, allegata ad un’analisi approfondita sul livello di istruzione e formazione fornite ai detenuti ed una valutazione dei risultati (compresi i tassi di recidiva) conseguiti applicando misure alternative alla detenzione. È urgente che gli Stati membri ratifichino il Protocollo opzionale, auspicando che i deputati nazionali abbiano la prerogativa di ispezionare i luoghi di detenzione e visitare i detenuti, così come già accade in Francia, Italia e Polonia. In particolare, si rende necessario effettuare i controlli nelle Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture sanitarie per l’accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi. Esse hanno funzioni terapeutico-riabilitative e socio-riabilitative, con permanenza transitoria ed eccezionale, destinate unicamente a persone internate in virtù di una misura di sicurezza psichiatrica (al momento, sia essa definitiva che provvisoria). Rispetto all’anno 2017 i pazienti con una misura di sicurezza provvisoria sono saliti a 274, aumentando del 22% e arrivando ad essere il 45,7 % del totale. Dal punto di vista della raccolta dati, il sistema Smop (Sistema Informativo per il Monitoraggio del Superamento degli Opg e dei Servizi di Sanità penitenziaria), permette di monitorare lo “stato di salute” delle Rems. Al 15 marzo 2018 i numeri restano perfettamente in linea con l’anno precedente. Nelle 30 Rems italiane sono ricoverate 599 persone, di cui 54 donne (il 9%, percentualmente quasi il doppio delle donne detenute in carcere). Il numero di presenze corrisponde ai posti disponibili e questo permette di sottolineare l’ammirevole “resistenza” da parte dei servizi sanitari nel non eccedere il numero massimo di posti previsto, evitando il sovraffollamento. Grecia. 10 anni di galera per aver falsificato il diploma elementare di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 27 novembre 2018 L’incubo giudiziario di una bidella. L’incredibile storia della 53enne Eleni (un nome di fantasia), impiegata come donna delle pulizie in una scuola materna della Tessaglia da oltre 20 anni e condannata a 10 anni di carcere per aver falsificato il suo diploma elementare sta scuotendo l’opinione pubblica greca e aprendo un dibattito sul un sistema giudiziario che lo stesso premier Tsipras definisce “lontano dai cittadini”. Eleni (il nome è di fantasia) lavorava da oltre 20 anni in una scuola materna di Volos nella Grecia orientale come donna delle pulizie. Mai una lamentela, mai un conflitto, mai un comportamento fuori luogo, il personale della scuola la ricorda al contrario come una persona cordiale e onesta, gran lavoratrice, insomma la classica “colonna” dell’istituto dove ha visto avvicendarsi nel corso degli anni generazioni di alunni e maestri. Da due anni Eleni ha però perso il lavoro e il tutto è accaduto nel modo più brutale: l’hanno arrestata, messa a marcire in una cella del carcere di Thiva. Uno si immagina chissà quali efferatezze di fronte a un provvedimento così drastico. Eccole: la donna ha falsificato il diploma di licenza elementare necessario per candidarsi a un posto di bidella nella scuola pubblica. Aveva frequentato solo cinque anni di lezioni, mentre il ciclo delle primarie in Grecia dura sei anni. Per l’autorità si tratta di falso in atto pubblico, un a frode che prevede pene severissime, così nel 2016 un tribunale la condanna alla pena fantascientifica di 15 anni di reclusione, poi ridotta a 10 il mese scorso. Domani il procuratore di Volos Xeni Dimitriou riesaminerà la domanda di scarcerazione presentata dagli avvocati. La vicenda della 53enne Eleni, crudele, paradossale, kafkiana o semplicemente “disumana” per dirla con la Lega greca per i diritti umani, sta creando una tempesta di polemiche, e proietta una luce sinistra sul sistema giudiziario ellenico. Durissima la presa di posizione del sindacato dei lavoratori delle pulizie della regione di Volos: “Non ha rubato nulla, non ha usato denaro pubblico per fini personali, ha soltanto lavorato duramente, quella sentenza è qualcosa di vergognoso!”. Tra gli aspetti più incredibili della condanna c’è il fatto che non le è stata riconosciuta nessuna attenuante, né specifica, né generica. La falsificazione del diploma è avvenuta circa 30 anni fa quando fu costretta a trovare un lavoro per pagare l’assistenza medica al marito diventato disabile; cresciuta in un orfanotrofio con i suoi 8 fratelli, Eleni non aveva nessuna risorsa, il suo era un chiaro stato di necessità. Sul caso, salito alla ribalta del dibattito pubblico grazie al tam-tam incessante dei social network e alle petizioni che circolano online, è intervenuto ieri lo stesso primo ministro Alexis Tsipras: “L’incarcerazione di questa donna è un duro colpo al senso comune della giustizia e distrugge la fiducia dei cittadini nei confronti della legge”. Secondo i principali giornali ellenici il polverone mediatico sta avendo i suoi effetti tanto che la Corte suprema sembra pronta pronta a esaminare (e a rivalutare) nelle prossime settimane decine di sentenze di condanna per falsificazione di certificato. Russia. Le bugie nucleari del segretario della Nato Jens Stoltenberg di Manlio Dinucci Il Manifesto, 27 novembre 2018 “Un pericolo i missili russi”: lancia l’allarme il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg in una intervista al Corriere della Sera, a cura di Maurizio Caprara, tre giorni prima dell’”incidente” del Mar d’Azov che getta benzina sulla già incandescente tensione con la Russia. “Non ci sono nuovi missili in Europa. Però missili russi sì”, premette Stoltenberg, tacendo due fatti. Primo: a partire dal marzo 2020 gli Stati uniti cominceranno a schierare in Italia, Germania, Belgio, Olanda (dove già sono schierate le bombe nucleari B-61), e probabilmente in altri paesi europei, la prima bomba nucleare a guida di precisione del loro arsenale, la B61-12, in funzione principalmente anti-Russia. La nuova bomba è dotata di capacità penetrante per esplodere sottoterra, così da distruggere i bunker dei centri di comando in un first strike. Come reagirebbero gli Stati uniti se la Russia schierasse bombe nucleari in Messico, a ridosso del loro territorio? Poiché l’Italia e gli altri paesi, violando il Trattato di non-proliferazione, mettono a disposizione degli Usa sia basi sia piloti e aerei per lo schieramento di armi nucleari, l’Europa sarà esposta a maggiore rischio quale prima linea del crescente confronto con la Russia. Secondo: un nuovo sistema missilistico Usa è stato installati nel 2016 in Romania, e uno analogo è in corso di realizzazione in Polonia. Lo stesso sistema missilistico è installato su quattro navi da guerra che, dislocate dalla U.S. Navy nella base spagnola di Rota, incrociano nel Mar Nero e Mar Baltico a ridosso del territorio russo. Sia le installazioni terrestri che le navi sono dotate di lanciatori verticali Mk 41 della Lockheed Martin, i quali - specifica la stessa società costruttrice - possono lanciare “missili per tutte le missioni: sia SM-3 per la difesa contro i missili balistici, sia Tomahawk a lungo raggio per l’attacco a obiettivi terrestri”, Questi ultimi possono essere armati anche di testata nucleare. Non potendo verificare quali missili vi siano realmente nei lanciatori avvicinati al territorio russo, Mosca dà per scontato che vi siano anche missili da attacco nucleare, in violazione del Trattato Inf che proibisce l’installazione di missili a gittata intermedia e corta con base a terra. Stoltenberg accusa invece la Russia di violare il Trattato Inf, lanciando l’avvertimento “non possiamo accettare che i trattati siano violati impunemente” Nel 2014, l’amministrazione Obama ha accusato la Russia, senza portare alcuna prova, di aver sperimentato un missile da crociera (SSC-8) della categoria proibita dal Trattato, annunciando che “gli Stati uniti stanno considerando lo spiegamento in Europa di missili con base a terra”, ossia l’abbandono del Trattato Inf. Il piano, sostenuto dagli alleati europei della Nato, è stato confermato dalla amministrazione Trump: nell’anno fiscale 2018 il Congresso ha autorizzato il finanziamento di un programma di ricerca e sviluppo di un missile da crociera lanciato da terra da piattaforma mobile su strada. Missili nucleari tipo gli euromissili, schierati dagli Usa in Europa negli anni Ottanta ed eliminati dal Trattato Inf, sono in grado di colpire la Russia, mentre analoghi missili nucleari schierati in Russia possono colpire l’Europa ma non gli Usa. Lo stesso Stoltenberg, riferendosi agli SSC-8 che la Russia avrebbe schierato sul proprio territorio, dichiara che sono “in grado di raggiungere gran parte dell’Europa, ma non gli Stati uniti”. Così gli Stati uniti “difendono” l’Europa. Grottesca infine l’affermazione di Stoltenberg che, attribuendo alla Russia “l’idea molto pericolosa di conflitti nucleari limitati”, avverte: “Tutte le armi atomiche sono rischiose, ma quelle che possono abbassare la soglia per il loro uso lo sono particolarmente”. È esattamente l’avvertimento lanciato da esperti militari e scienziati statunitensi a proposito delle B61-12 che stanno per essere schierate in Europa: “Armi nucleari di minore potenza e più precise aumentano la tentazione di usarle, perfino di usarle per primi invece che per rappresaglia”. Perché non li va a intervistare Maurizio Caprara? Stati Uniti. Caccia ai carovanisti, deportati dal Messico dopo le cariche Usa di Andrea Cegna Il Manifesto, 27 novembre 2018 Trump torna a minacciare la chiusura totale del confine con il Messico. La commissione diritti umani: serve un dialogo. Il sogno americano della carovana dei migranti per ora conta 42 persone arrestate dalla polizia di frontiera statunitense, e 98 deportazioni che la polizia migratoria messicana ha “messo in scena”. Il tutto dopo che domenica, attorno alle 11.00 del mattino, centinaia di centro-americani hanno provato a superare il doppio muro nei pressi di Tijuana. Alcuni migranti sono stati colpiti da proiettili di gomma, la polizia Usa ha sparato gas lacrimogeni anche in territorio messicano e elicotteri da guerra a stelle e strisce hanno sorvolato per ore i cieli fuori dalla loro competenza. Una vera aggressione extra territoriale che mette in pratica le minacce che il presidente Donald Trump ha più volte twittato. Diversi migranti sono stati arrestati e nella mattinata di lunedì espulsi: 36 dei deportati sono honduregni e sono stati arrestati dalla polizia municipale della città di confine. Gli altri 62 sono stati invece fermati dalla polizia federale. Tra loro, molte donne. Il giorno dopo le cariche e gli arresti il campo d’accoglienza “Benito Juarez” si è trovato circondato, già dall’alba, dalla polizia federale messicana in assetto antisommossa. Immediatamente è scattato l’allarme, poi rientrato, di una possibile retata di massa per perseguire chi aveva provato a scalvare il confine. Alfonso Navarrete Prida, segretario di Stato del governo uscente, Peña Nieto, ha dichiarato al termine delle tensioni domenicali che i 500 migranti che avevano provato a passare per materializzare il loro sogno americano sarebbero stati riportati d’origine a forza. Ha inoltre dichiarato in diretta tv che, oltre ai 100 già arrestati, sarebbero stati attivamente ricercati e catturati anche gli altri 400. La Commissione nazionale dei diritti umani (Cndh) - che ha già preventivamente chiesto un incontro con il nuovo presidente del Messico che si insedierà il 1 dicembre, Andres Manuel Lopez Obrador - ha duramente criticato la gestione della piazza a Tijuana e lungo il muro di confine. Denunciando sia la violenza della polizia locale sia l’uso di gas lacrimogeni e di proiettili di gomma da parte della polizia di frontiera statunitense. La Cndh, presieduta da Luis Raúl González Pérez, ha poi invitato il governo uscente a continuare il dialogo con Trump per evitare nuove tensioni al confine. Per Trump il dialogo è fatto di minacce e provocazioni “dovrebbero rimpatriare nei loro Paesi quei migranti come bandiere sventolanti - ha detto ancora utilizzando Twitter - molti sono spietati criminali. Lo facciano con gli aerei, con i bus o come vogliono, ma quelle persone non entreranno mai negli Stati Uniti”. Quindi ha nuovamente intimato la chiusura definitiva della frontiera, non solo per le persone ma anche per i mezzi. Tijuana è una polveriera: il centro d’accoglienza è troppo piccolo per ospitare i 5.000 della carovana. E altri “caravanisti” stanno per arrivare dalla vicini città di Mexicali. Per tutti ci sono solo sei docce a disposizione. Nonostante la repressione e le parole del presidente Usa l’assemblea generale della carovana ha rinnovato l’intenzione di resistere e di continuare a cercare un modo per attraversare il confine. Certamente resta impensabile accettare i tempi con cui la burocrazia nordamericana affronta le richieste d’asilo: a fronte degli oltre 2.000 messicani in lista d’attesa, a cui si aggiungono i partecipanti della carovana e le migliaia di haitiani bloccati al confine dopo il passaggio di governo da Obama a Trump, vengono esaminate non più di 100 domande al giorno. Significa aspettare mesi. Mesi insostenibili dopo oltre 4mila km e un mese di sofferenze e soprattutto senza che nessun governo - della città, dello Stato e della nazione (tanto meno quello Usa) - offra condizioni degne e umane di attesa. Domenica abbiamo comunque visto le potenzialità politiche e collettive che l’inedita forma di mobilitazione della carovana ha creato: una manifestazione con migliaia di persone che aveva l’obiettivo politico di far pressione sulle autorità Usa. E il superamento di quella barriera rappresenterebbe il fallimento del sogno primatista dei vari Trump. Nell’abisso della Palestina: viaggio di uno scrittore nel “buco nero del mondo” di Giuseppe Catozzella L’Espresso, 27 novembre 2018 Più di centomila morti in settant’anni. Nessuno vede, nessuno parla. All’aeroporto di Tel Aviv mi rinchiudono in una stanza per 4 ore. “Se vogliamo non esci più da qui”. All’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv vengo detenuto per quattro ore, scalzo, al freddo di una stanza spoglia con indosso soltanto una maglietta. Mi hanno sequestrato bagaglio, passaporto, cellulare e computer. Setacciano i file, la mia vita, mi lasciano al freddo ad aspettare. Nel borsone ho, ancora impacchettata, la kufia che Ehab Besseiso, il ministro della cultura palestinese, mi ha regalato, insieme a Handala, il bambino che si stringe le mani dietro la schiena, simbolo della resistenza della gente dei territori occupati, e a una grande chiave di latta, altro simbolo: ogni palestinese possiede ancora le chiavi della casa che è stato costretto a sgomberare in fretta e furia sotto l’occupazione, pensando che un giorno ci sarebbe tornato. E invece. “Se voglio ti tengo qui per sempre”, mi dice l’ufficiale di frontiera israeliano con in mano il mio iPhone, puntando il dito su una foto scattata da me a Hebron, coloni che per strada spintonano due ragazzini palestinesi, e su un’altra che mi ritrae con il ministro. Sono in Palestina per accompagnare l’uscita del mio ultimo romanzo, E tu splendi, in tutti i paesi del mondo arabo. Con Al-Mutawassit, il mio editore, decidiamo che debba essere il “luogo più silenzioso del pianeta” a ospitare il mio incontro con la stampa araba, il festival letterario di Ramallah. Io però nel paese ci sono entrato, al massimo adesso rischio di non uscirne. La scrittrice palestinese Susan Abulhawa, in Palestina invece non riesce a entrarci, come molti dei palestinesi costretti all’esilio. Il 1. di novembre 2018, al Ben Gurion la Abulhawa è incarcerata per due giorni, atterrata per partecipare a un festival letterario a Gerusalemme, prima di essere respinta negli Usa, dove vive. “Noi palestinesi siamo gli unici che non possono entrare in Palestina”, scrive poi su Facebook. “Sono gli israeliani che dovrebbero andarsene, non io. Io sono figlia di questa terra, qui c’è la casa della mia famiglia”. Naturalmente si riferisce alla Nakba del 1948. La “catastrofe”, la creazione dello Stato d’Israele e la conseguente occupazione militare della Palestina. Il conflitto più lungo dell’era contemporanea. La Palestina ti sfida a essere disposto a guardare l’ingiustizia della legge dell’uomo. L’esercizio più difficile. Un paese annientato tra le guerre tra i leader del mondo e le illusioni di pace. “Qui la situazione è tremendamente semplice. Non c’è niente di complesso. C’è un paese occupato e un popolo che occupa”, mi dice un ragazzo americano, volontario dell’International Solidarity Movement. La Palestina è un buco nero, è il buco nero del mondo. È lo scarto, ciò che resta dopo che i leader della terra hanno consumato le loro lotte di potere. La Palestina è l’osceno. Armi chimiche, fosforo bianco. Ogni arma proibita dagli accordi internazionali può essere utilizzata dagli israeliani contro i palestinesi. Più di centomila morti in settant’anni. Nessuno vede, nessuno parla. Se parli di ciò che accade in Palestina le parole vengono annerite. Scompaiono. Dai media, dal discorso pubblico. Conosce, l’uomo, ingiustizia più grande di questa: tutti sanno, e tutti fanno finta di non sapere? Mi trovo a Ramallah, e so che per capire davvero gli equilibri - e i continui sfondamenti - che reggono il Medio Oriente (e su più vasta scala la dialettica tra Usa e monarchie del Golfo da un lato, e Russia, Iran e la Siria di Assad dall’altro) l’unica cosa che si può fare è sprofondare dentro quel buco nero. Non c’è oggi luogo sulla terra in cui la separazione tra parole e fatti, tra dialettica pubblico-diplomatica e realtà, sia più grande. “Due Stati”, “soluzione diplomatica” sono formule a cui in Palestina nessuno crede più. Di sicuro dal 14 maggio, giorno di duri scontri a Gaza e di più di 60 vittime, il giorno in cui Trump ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, di fatto chiudendo per sempre anche solo l’idea di un dialogo, e serrando le fila, apertamente e attraverso il genero e braccio destro Kushner, all’asse anti-Iran composta da Usa-Israele e dalle monarchie del Golfo. Questo è la Palestina oggi: lo scarto di una strategia anti-Iran. “La verità è che ci hanno chiuso in prigione nella nostra terra”, mi dice Khalid Mansour, un funzionario del ministero della Cultura. Oltre al festival di Ramallah, per me sono previsti incontri nelle università di Nablus, Hebron e Betlemme, e ci spostiamo a bordo di un fuoristrada. “Hanno preso tutto. Per entrare in quello che ci resta del nostro paese dobbiamo chiedere loro il permesso. Sempre che quel giorno abbiano voglia di aprire i check-point”. Non è solo l’intifada dei coltelli mai cessata - l’ultima spiaggia della resistenza-, è il continuo stato di violenza a cui tutti sono ormai assuefatti. A un altro check-point, quello di Kalandra, fisso negli occhi un soldato-ragazzino che stringe un mitragliere più grande di lui, in piedi davanti a una grande stella di David. Dallo specchietto retrovisore, l’autista della nostra jeep se ne accorge, e sibila “no” tra i denti. Il soldato assesta due potenti pugni sul vetro posteriore della vettura, la macchina si ferma. Il finestrino del lato del passeggero si abbassa, il giovanissimo militare infila la canna del fucile fino a una spanna dal viso di chi guida. Io non respiro, l’autista arabo invece gli sbraita contro, nella lingua dell’occupazione, in ebraico. Urla che avrebbe potuto spaccare il vetro, picchiando così forte. Il ragazzino si sfila gli occhiali da sole. Poi infila dentro la testa e ci scruta, noi zitti. Fissa me. Tre, quattro secondi. Non riesco ad abbassare lo sguardo, non sono abituato a una violenza così esibita, mi viene da resisterle. Gli viene detto, in ebraico, che sono uno scrittore italiano. Lui scrolla la testa. Poi fa segno che possiamo andare, in fretta. Quando siamo lontani, parte un applauso spontaneo all’autista. “Non si fissano. Mai”, mi dicono. “I militari se vogliono sparano. Più sono giovani, più sparano. Ammazzano. Tengono coltelli pronti, in caso di uccisione. Estraggono il corpo dall’auto, gli affiancano un coltello e scattano due foto. Non gli accadrà mai niente”. Non è solo la violenza, è anche la continua vessazione. Sono gli ulivi millenari sradicati a ogni nuova confisca di terreno e insediamento di una nuova colonia, è l’acqua dei palestinesi razionata per colmare le piscine delle ville dei coloni. È una coppia di anziani malati ritratta in una foto diventata famosa tra i palestinesi, in carrozzina e bombole d’ossigeno davanti alle macerie della loro abitazione rasa al suolo dalle truppe d’invasione: smarriti, alla fine della loro vita non sanno dove andare. Sono gli arresti arbitrari (700 mila persone imprigionate negli ultimi trent’anni), senza capo d’imputazione né giudizio, rinnovabili ogni tre mesi, che possono estendersi anche per vent’anni. Il ministro della Cultura mi porta a vedere il film-documentario palestinese di Raed Andoni, Gost Hunting. Conosco uno degli attori principali, Mohammed Khattab, lui stesso, come il regista, recluso per 17 anni, senza un motivo, un’imputazione. “Lo fanno per disgregarci socialmente”, mi dice. “Se separi un padre dai suoi figli per diciassette anni stai rompendo una famiglia, e interrompendo la catena della memoria, cercando di portare quei ragazzi a scappare, a spopolare la Palestina”. E invece, come Handala, devono resistere, mani intrecciate dietro la schiena. Tanto più dopo il 6 novembre scorso, quando Netanyahu ha approvato un disegno di legge per cui i giudici delle corti militari potranno sancire la pena capitale ai detenuti palestinesi anche senza la maggioranza del consiglio, in maniera arbitraria. Si potrà ammazzare in prigione. Il giorno dopo dovremmo andare all’università di Betlemme, ma a Ramallah è tutto sospeso. Impossibile uscire dalla città. C’è una grande manifestazione contro un nuovo insediamento. Ci sono scontri. Forse c’è un morto, si dice. Forse c’è un ragazzo morto. La mattina seguente siamo a Hebron, dove c’è un insediamento di coloni nel centro della città. Faccio la mia conferenza all’università, i ragazzi sono interessati e curiosi, una decina di ragazze si presenta con copie pirata di Non dirmi che hai paura, che ha raggiunto un numero incredibile di lettori, soprattutto ragazzi, in tutti i paesi arabi. Nel centro della città di Hebron, una fitta rete metallica protegge i palestinesi dagli oggetti e dagli escrementi che i coloni lanciano loro addosso. Mentre camminiamo, alcuni coloni aggrediscono due ragazzini palestinesi che hanno l’unica colpa di passare di lì, sotto lo sguardo di militari israeliani di origine etiope (sono moltissimi gli etiopi che sentono la chiamata di Zion, in cambio di un posto sicuro e stipendiato dai coloni). Io scatto la foto che l’ufficiale all’aeroporto troverà, e che mi costerà il fermo. “Due giorni fa”, mi spiega Khalid Mansour, “un colono ha investito in auto un ragazzo di diciassette anni che andava a scuola. È da due giorni quindi che i palestinesi lanciano pietre ai militari israeliani. E questa è solo la solita rappresaglia dei coloni”. “Il mio paese non è una valigia”, dice un celebre verso del più famoso poeta palestinese, Mahmoud Darwish, nato prima della Nakba del 1948. “La mia casa invece è una valigia”, mi dice Ghayath Almadhoun, poeta palestinese quarantenne - amico, prima di parole, poi di persona. Nato in un campo profughi di Damasco, Ghayath è ora cittadino svedese, ma la sua famiglia è stata espulsa due volte. Ghayath mi guarda, e sorride. Mi legge una sua poesia, che si chiama “Israele”. “Senza Israele, mio padre non sarebbe stato espulso dalla Palestina / Non sarebbe scappato in Siria / Non avrebbe mai incontrato mia madre / E io non sarei qui, ora / E tu non saresti la mia amante”. Sull’aereo, una volta liberato dalla polizia di frontiera, ci penso. È vero, è tutto terribilmente semplice. “Noi palestinesi paghiamo le colpe dell’orrore europeo della Shoah”, mi ha detto Ghayath. “Toccherebbe all’Europa cercare di mediare, per aiutare la Palestina a ritrovare una dignità”. Già, l’Europa. Quale Europa?, penso. Egitto. Torture e sparizioni forzate ai danni di minorenni di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2018 Aser Mohamed è scomparso nel gennaio 2016 all’età di 14 anni. Per 34 giorni è rimasto in detenzione senza contatti con l’esterno ed è stato torturato per costringerlo a “confessare” di aver fatto parte di un gruppo terroristico e di aver compiuto un attentato contro un albergo, reati che sostiene di non aver commesso. Affronterà un processo insieme ad altri imputati adulti e rischia di essere condannato. Abdallah Boumidan è stato arrestato dalle forze armate egiziane nel dicembre 2017, all’età di 12 anni, nella città di Arish, nel Sinai settentrionale. Dopo sette mesi di sparizione durante i quali ha subito torture, è stato incriminato per “appartenenza a un gruppo terroristico” e posto in isolamento. Il suo stato di salute è fortemente compromesso. Quelli di Aser e Abdallah sono solo due dei casi di violazioni dei diritti umani ai danni di minorenni - almeno sei di tortura e 12 di sparizione forzata - che, secondo una denuncia di Amnesty International e del Fronte egiziano per i diritti umani, si sono verificati in Egitto dal 2015. Una prassi in realtà iniziata già dal colpo di stato del luglio 2013. I familiari dei sei minorenni sottoposti a tortura hanno riferito che durante la prigionia i ragazzi sono stati picchiati brutalmente, colpiti con la corrente elettrica sugli organi genitali e su altre parti del corpo e appesi per gli arti. Le autorità egiziane tengono i detenuti minorenni insieme agli adulti, in violazione del diritto internazionale dei diritti umani. In alcuni casi, sono imprigionati in celle sovraffollate e non ricevono cibo in quantità sufficiente. Almeno due minorenni sono stati sottoposti a lunghi periodi di isolamento. Minorenni sono stati inoltre processati in modo iniquo, talvolta in corte marziale, interrogati in assenza di avvocati e tutori legali e incriminati sulla base di “confessioni” estorte con la tortura dopo aver passato fino a quattro anni in detenzione preventiva. Almeno tre minorenni sono stati condannati a morte al termine di processi irregolari di massa: due condanne sono state poi commutate, la terza è sotto appello. Va sottolineato che l’Egitto è firmatario della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e che le sue leggi prevedono che i minorenni debbano essere processati dagli organi di giustizia minorile. Dunque, oltre al diritto internazionale, le autorità del Cairo violano le loro stesse norme interne.