Giornata contro la violenza sulle donne, 600 iniziative nelle città italiane Redattore Sociale, 25 novembre 2018 Dai dibattiti alle mostre, dal “posto vuoto” per le vittime all’illuminazione dei monumenti: così le amministrazioni comunali celebrano il 25 novembre. Decaro (Anci): “Un fenomeno tanto grave quanto complicato da contrastare”. Tra il 2000 e il 2018 le vittime di femminicidio sono state 3.100. Seicento iniziative di sensibilizzazione - dai dibattiti alle mostre, dal “posto vuoto” per le vittime all’illuminazione di monumenti - in altrettanti Comuni, e bandiera civica a mezz’asta sui municipi delle grandi città, a cominciare da Milano e Roma. Così le amministrazioni locali celebrano il 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, istituita dalle Nazioni unite nel 1999. “Con la consapevolezza - dice il presidente dell’Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro - che si tratta di un fenomeno tanto grave quando complicato da contrastare: non basta reprimere gli atti violenti, è necessario adoperarsi per sconfiggere una mentalità, quella che confonde l’amore con il possesso, di cui la violenza è la manifestazione più estrema. Noi sindaci avvertiamo la responsabilità di sensibilizzare e formare una nuova coscienza civile. I 285 centri antiviolenza, primo approdo delle vittime di violenza, collaborano con i Comuni, pur tra le molte difficoltà innescate da un finanziamento che è assegnato alle Regioni e viene erogato ai Comuni tramite bandi che non assicurano la necessaria stabilità alle attività”. “In Italia - prosegue la nota dell’Anci, tra il 2000 e il 2018 le vittime di femminicidio sono state 3.100, 106 solo nei primi dieci mesi di quest’anno; nel 72 per cento dei casi (2.156 in termini assoluti) l’assassino era un parente, nel 47,6 (1.426) il partner o l’ex partner; negli anni è aumentata l’età media che per le vittime del 2018 è pari a 52,6 anni, in generale, e a ben 54 anni per le vittime di femminicidio familiare; l’area geografica più a rischio del Paese è il Nord, e nel Nord la Lombardia, la Provincia con il maggior numero di casi è Roma. A rivelarlo sono i dati resi disponibili da Eures. Un’indagine Istat, realizzata in collaborazione con il dipartimento Pari opportunità, rivela che nel 2017 49.152 donne si sono rivolte ai centri antiviolenza e che 29.227 di loro hanno iniziato un percorso per uscire da una situazione di violenza: il 26,9 per cento di loro è composto da straniere, il 63,7 per cento da madri di figli in gran parte minorenni, vittime a loro volta della cosiddetta violenza assistita”. “La giornata del 25 novembre - osserva Simona Lembi, presidente della commissione Pari opportunità dell’Anci - è l’occasione per sollecitare a costruire azioni concrete, realizzare servizi pubblici efficaci per debellare questo fenomeno. Amministratori e amministratrici, quotidianamente, promuovendo attività nelle scuole, nelle biblioteche, nonché animando con tenacia il lavoro del tavolo nazionale di monitoraggio del piano di contrasto alla violenza, si adoperano perché le nostre comunità siano a ‘tolleranza zero’ nei confronti di chi è violento. Domani esponiamo le bandiere a mezz’asta in tanti Comuni, in segno di lutto, per esprimere solidarietà e vicinanza ai familiari delle vittime”. Tra le iniziative che si celebrano nei Comuni per il 25 novembre, “Posto occupato” a Milano: 15 teatri convenzionati con l’amministrazione comunale, lasceranno un posto vuoto per ricordare la donna che avrebbe potuto occuparlo prima di essere uccisa. A Latina l’orologio della Torre civica si colorerà di rosso in memoria di tutte le donne vittime di femminicidio e verrà presentato il progetto “Ilma - Io Lavoro per la Mia Autonomia”. Il Comune dell’Aquila ha lanciato il concorso di idee “Mai più silenzio” rivolto alle scuole per sensibilizzare sul fenomeno e prevenire ogni forma di discriminazione. A Trieste si svolge la terza edizione di “Mai! Nemmeno con un fiore”, occasione per un nuovo confronto al tavolo di coordinamento provinciale per gli interventi di contrasto alla violenza di genere. A Bologna, infine, fino al 4 dicembre proseguirà la XIII edizione del festival “La violenza illustrata”, curato dalla Casa delle donne di Bologna, con il supporto di Comune e Regione. Sono infine più di settanta i sindaci che hanno aderito al “Patto dei Comuni per la parità e contro la violenza di genere”, sottoscritto un anno fa a Milano: impegna gli amministratori a dar vita a iniziative per la parità e contro gli stereotipi. “Una battaglia - conclude Decaro - che deve coinvolgere gli uomini in un patto tra generi”. Giornata contro la violenza. Una rete per aiutare le donne ad avere coraggio di Romina Gobbo Avvenire, 25 novembre 2018 Iniziativa in Veneto per creare gli strumenti per superare la paura, denunciare ed uscire dal tunnel. “Sono sul divano a guardare la tv, sento la chiave che gira nella toppa, mi manca il respiro”. “Eccolo, sta arrivando. Il pranzo ancora non è pronto. Ho paura”. “La violenza ha mille risvolti, non è solo fisica. Ci sono donne che vivono in tensione continua, che non si sentono al sicuro fra le mura di casa - afferma Marianna Montanini, presidente di Biancarosa onlus, centro di sensibilizzazione contro la violenza domestica, sorto a Verona nel 2007. Raggiungerle non è semplice, perché il partner spesso le controlla”. Per questo la campagna “Prenditi cura di te”, realizzata in collaborazione con la Cna, la Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola media impresa di Vicenza, ha cercato spazi alternativi. Avviata in occasione dell’odierna Giornata contro la violenza sulle donne, l’iniziativa chiede a parrucchiere ed estetiste di farsi “ambasciatori” di un messaggio di aiuto. È innanzitutto a loro, al momento solo nella provincia vicentina ma con l’obiettivo di estendere il progetto a livello nazionale, che è stato destinato l’invito ad esporre nei locali dépliant e locandine. Il contenuto? Si invitano le donne ad avere il coraggio di chiedere aiuto nei casi di relazioni difficili e violente e si diffondono i recapiti dei centri antiviolenza del territorio, accreditati dalla Regione. “Se una donna si reca al pronto soccorso, il compagno le chiederà conto del perché; se va a farsi la piega, non desta sospetti - riprende Montanini -. La nostra iniziativa quindi mira a trasformare i luoghi dove le donne si recano normalmente, in “centri aiuto” di prossimità, in grado di intercettare l’eventuale disagio, grazie alla naturale complicità e confidenza che spesso si genera in questi ambienti. L’entusiasmo con cui ha risposto Cna ci spinge ad allargare il progetto a farmacie e a studi medici, andando oltre il 25 novembre, data nella quale tutti si sentono in dovere di fare qualcosa, magari convegni, che servono sì a sensibilizzare. Io credo però che siano altrettanto necessarie azioni concrete”. Secondo l’Istat, in Veneto una donna su tre ha subito una qualche forma di violenza - fisica o psicologica - almeno una volta nella vita. “Vogliamo consegnare materiale informativo ad almeno mille imprese nella nostra Regione - aggiunge Elisabeth Sarret, presidente Cna Impresa Donna Vicenza -, in modo da raggiungere un bacino potenziale di quasi 30mila donne. Non solo le vittime di violenza, anche amiche, sorelle, figlie, madri: un piccolo grande esercito pronto a diffondere una nuova consapevolezza”. Per fermare la strage aiutiamo chi aiuta di Emma Bonino La Sicilia, 25 novembre 2018 Alla vigilia della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, al Senato è stata presentata a prima firma di Loredana De Petris la mozione - che ho subito sottoscritto - che fa il punto della situazione su questo fenomeno e sulle possibili iniziative di contrasto, che - rimango convinta - non può prescindere da un ruolo attivo degli uomini in questa battaglia. L’elenco delle donne uccise tra il 2016 e il 2017 dal loro ex o attuale compagno ha raggiunto livelli drammatici: più di 116 donne, un numero spaventoso che richiede di attivare, senza più ritardi o giustificazioni, ogni intervento utile da parte delle istituzioni. Sono 7 milioni, secondo dati Istat, le donne vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita: un numero parziale, date le difficoltà oggettive delle donne che denunciano. La violenza sulle donne è una questione troppe volte manipolata e approcciata da parte delle istituzioni in modo approssimativo, contradditorio, miope, verso le reali dinamiche e sordo alle richieste provenienti da chi si occupa quotidianamente del problema. Ad oggi, non sono state prese iniziative significative in materia da parte del Governo, con la conseguente permanenza di un vuoto normativo su un tema di grande rilievo per la società, al centro di continui e tragici fatti di cronaca. Il rispetto della parità di genere e delle differenze è, in primo luogo, un tema culturale e come tale va affrontato in tutte le sedi adeguate. Già la legge sulla cosiddetta “Buona scuola”, stabiliva che i Piani triennali dell’offerta formativa (che ciascuna scuola deve approvare) prevedessero lo spazio per l’educazione civica, alla cittadinanza attiva, al rispetto dei diritti e alla lotta alle discriminazioni di genere o basate sull’orientamento sessuale. Ma uno dei punti cruciali, a mio giudizio, è quello del finanziamento dei centri antiviolenza e della loro gestione. Nel corso degli ultimi anni la scarsità dei finanziamenti diretti e i tagli subiti dagli enti locali hanno ridotto questi presidi territoriali all’incertezza più assoluta. Secondo il monitoraggio condotto da Action Aid sui fondi antiviolenza nazionali fra il 2015 e il 2017, nonostante le risorse complessive stanziate per il Piano dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio fossero pari a 85,3 milioni di euro, a cui vanno aggiunte le quote di cofinanziamento che alcuni enti ed istituzioni hanno messo a disposizione, risulta erogato solo il 35,9%, pari a circa 30,8 milioni di euro. I centri antiviolenza, che accolgono le donne in uno stato di debolezza e abbandono istituzionale, sono sopravvissuti e sopravvivono ancora oggi principalmente grazie alla dedizione, alla militanza e al lavoro volontario di altrettante donne. E la maggior parte di loro da più di 20 anni, svolge un ruolo centrale nella prevenzione del femminicidio, con attività di supporto legale e psicologico durante la denuncia, la disponibilità h 24 per i casi di emergenza, la collaborazione con le forze dell’ordine e i servizi sociali. Allo stesso modo, le case rifugio danno ospitalità alle donne in pericolo che non possono rientrare nella casa dei compagni violenti, e sono ben 14mila l’anno le donne che bussano alla porta di queste strutture. Tuttavia, questo servizio vive in condizioni di perenne precarietà, senza riconoscimento del valore che ha e le Istituzioni hanno nei suoi confronti un atteggiamento discontinuo che rende la presenza dei centri antiviolenza sul territorio mal distribuita. Spesso la loro esistenza dipende da bandi, progetti, finanziamenti di privati e aziende che rendono la loro posizione insostenibilmente precaria. Ci sono stati casi in cui nelle gare al ribasso i centri concorrono alla pari con soggetti che non offrono alcuna esperienza sul campo, con la conseguente riduzione della “qualità” del servizio reso alle donne in difficoltà. Altro punto fondamentale la formazione per coloro che si occupano del tema, dalla prevenzione all’accoglienza. Riguarda tutti, dalle forze dell’ordine, agli operatori sanitari e giuridici e, negli ultimi anni investe anche la “rete”, divenuta, attraverso i social, uno strumento per colpire, umiliare, insultare e manipolare le donne, attraverso violenze psicologiche che rischiano di metterne in pericolo la vita. Quali sono le strade da percorrere? Credo che sia di primaria importanza favorire la diffusione e il mantenimento dei centri antiviolenza e impegnarsi a promuovere una cultura dell’ascolto della vittima a partire dal riconoscimento che il femminicidio, lo stalking, i maltrattamenti, la violenza sessuale, sono forme di violenza di genere, rivolta contro le donne in quanto donne. Non è più pensabile che manchino i posti letto per accogliere le donne perché i fondi sono insufficienti e le case rifugio chiudono; oppure che non ricevano informazioni esatte convincendosi che - se denunciano - non possano avere protezione. Servono nuove leggi per garantire che tutta la rete dei centri antiviolenza e delle case rifugio presenti sul territorio nazionale sia finanziata in modo certo, stabile e costante nel tempo, prevedendo anche l’incremento delle risorse volte a finanziare la costruzione di strutture in grado di assicurare posti disponibili alle donne in pericolo. Bisogna interrompere la logica dell’emergenza, che molto spesso ha guidato l’approccio al tema, e stabilire una pluralità di interventi a partire dal sostegno al reddito verso le donne maltrattate, le lavoratrici precarie con reddito basso, le donne che si occupano di ruoli domestici, di cura e assistenza senza percepire reddito. Oltre a ciò e prima ancora di qualsiasi intervento normativo, occorre che siano gli uomini a prendere consapevolezza del ruolo paritario delle donne nella società. Bisogna analizzare meglio la discriminazione di genere e da questa partire per una reale promozione, controllo e sostegno della parità tra uomo e donna senza discriminazioni basate sul sesso, nel rispetto reciproco. Viceversa, nessun intervento normativo o sostegno ai centri antiviolenza potrà dirsi veramente efficace. Un piano per contrastare la violenza di genere di Marco Minniti Corriere della Sera, 25 novembre 2018 La violenza contro le donne è prima di tutto una violazione di diritti umani fondamentali che costituiscono la civiltà di un Paese. Una società che non si fonda sull’uguaglianza e non costruisce su questa ogni tipo di relazione tra le persone è una società perdente. La violenza maschile contro le donne ha radici profonde, culturali e sociali ed andare al fondo di quelle radici è la condizione necessaria per contrastarla e sradicarla. Il contrasto alle varie forme di violenza che spesso si genera nella sfera familiare e privata, deve essere una problematica di cui si devono far carico le istituzioni a tutti i livelli: della politica, delle forze dell’ordine, delle famiglie, della giustizia, delle scuole. Sconfiggere la violenza contro le donne richiede in primis un lavoro educativo, nelle scuole e nelle case, che promuova e riconosca il rispetto della dignità e della libertà delle donne. Perché colpisce la varietà di gesti e di parole con cui gli uomini violenti si rapportano alle donne nella convinzione che la prevaricazione sia il tratto distintivo ed un loro diritto. Esiste una relazione forte tra lotta contro la violenza sulle donne e il rafforzamento della loro autonomia economica e della libertà e, dunque, tra la lotta contro la violenza e il contrasto delle diseguaglianze nell’accesso al lavoro e nelle opportunità di carriera che creano disparità di genere. La modernità, l’innovazione, la comunicazione globale piuttosto che garantire una crescita ed una consapevolezza ci restituiscono spesso una visione subdolamente arretrata ed immiserita delle relazioni uomo donna. Ciò che serve è esattamente l’opposto di interventi spot, serve piuttosto un piano di contrasto alla violenza di genere di tipo interdisciplinare. Sono necessarie misure sistematiche, coordinate che disegnino un modello di società che accetti la pluralità delle varie forme di vita e di pensiero. Occorre dunque un piano antiviolenza e un sistema che dia subito risposte alle denunce delle vittime oltre a una tutela senza riserve della vittima. Il caso del minore bruciato in casa dal padre nonostante le continue denunce della madre non può e non deve più accadere. Nella precedente legislatura è stato portato avanti un lavoro intenso e sistematico in rapporto stretto con i centri anti-violenza, le associazioni, le organizzazioni sindacali, imprenditoriali e con le forze di polizia. Un lavoro che si è tradotto in nuovi strumenti di contrasto alla violenza, in nuove norme per la repressione e la sicurezza, in nuovi provvedimenti per l’accoglienza, nel sostegno alle donne nelle strutture ospedaliere e si sono stanziate importanti risorse che sono sparite dal documento economico dell’attuale governo. Serve riconoscere e introdurre la normativa internazionale come è successo nella scorsa legislatura con la ratifica della Convenzione d’Istanbul e che prosegua nell’introdurre norme evolute quali quelle della legge sugli orfani di femminicidio, della violenza domestica e del Percorso delle donne vittime di violenza. Un lavoro che va riconosciuto, non interrotto, consapevoli che c’è ancora tanto da fare. La realtà quotidiana ci consegna fatti di cronaca agghiaccianti e drammi quotidiani: il contrasto alla violenza non lascia tempo e richiede determinazione. Per questo e al di là della polemica politica, che a questo tema non può prestarsi a proclami di bandiera, sono insostenibili i tagli dell’attuale governo alla lotta anti-tratta, al fondo per le vittime di violenza e a quello sui minori vittime di femminicidi. Inaccettabile il disegno di legge Pillon e il suo messaggio medievale, non va bene l’assenza di politiche di condivisione e conciliazione delle responsabilità genitoriali, l’assenza di politiche per incrementare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Non va bene la riduzione dei finanziamenti ai centri antiviolenza. Così si va indietro mentre dovremmo fare dell’impegno alla lotta contro la violenza un tratto proprio dello Stato democratico e distintivo della sua politica. Tutta. Qual è la differenza tra omicidio e femminicidio? di Gianluca Mercuri Corriere della Sera, 25 novembre 2018 Domani, 25 novembre, è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Questa analisi di Daniela Piazzalunga su lavoce.info, basata sui dati Istat, mostra i passi avanti fatti e il tanto che resta da fare. Nel 2017 ci sono stati in Italia 357 omicidi volontari, 0,59 casi per ogni 100 mila abitanti, a conferma della costante diminuzione dai primi anni 90. Il calo ha però riguardato solo gli uomini, mentre il tasso di femminicidi è costante: “Se negli anni ‘90 si contavano cinque vittime uomini per ogni donna uccisa, il rapporto è oggi di due a uno”. Perché? L’Istat parla di “fenomeni strutturalmente diversi”: gli uomini vengono uccisi soprattutto “da sconosciuti, in spazi pubblici”. Le donne, invece, “nella stragrande maggioranza dei casi sono uccise da una persona conosciuta, quasi sempre partner o familiari”. In particolare, “tra le 123 donne uccise nel 2017, otto su dieci conoscevano il proprio assassino e in oltre sette casi su dieci si trattava di un familiare (partner o ex partner nel 44 per cento dei casi; altro familiare nel 29 per cento)”. Poi ci sono tutte le altre forme di violenza, fisica, sessuale, psicologica ed economica, secondo la classificazione della Convenzione di Istanbul: parlare di “violenze di genere” non è una fisima femminista ma un modo per sottolineare che il fenomeno è “profondamente radicato nelle diseguaglianze di potere tra uomini e donne”. In base ai dati Istat riferiti al 2012, in Italia quasi una donna su tre (27 per cento) ha subito violenza fisica o sessuale, circa il 5 per cento ha subito uno stupro o un tentato stupro, il 18 stalking, il 38 violenze psicologiche da un partner o un ex. È interessante notare che “le donne straniere sono vittime di violenza fisica e sessuale al di fuori della coppia da parte di italiani molto più spesso di quanto le donne italiane siano vittime di stranieri”. Quanto alle molestie, le hanno subite quasi 9 milioni di donne tra i 14 e i 65 anni, mentre un milione e 173 mila donne sono state vittime di ricatti sessuali sul posto di lavoro. Se rispetto a dieci anni fa le molestie sono in calo, non lo sono i ricatti sul lavoro, gli stupri e i femminicidi. Mafie, la sfida trascurata dal governo di Giuliano Foschini La Repubblica, 25 novembre 2018 C’è una parte d’Italia, da Foggia a Vieste e al tavoliere del Gargano, dove una mafia, sanguinosa e moderna, continua a sfidare ogni giorno lo Stato. Uccide, sparando anche tra la folla; è diventata uno dei principali snodi europei del traffico di droga, smercia in mezzo mondo cocaina, hashish e armi da guerra. E nessuno, nonostante l’impegno di magistratura e forze di polizia, riesce a sconfiggerla. L’ultimo affronto, ieri pomeriggio, a San Severo. Un pregiudicato è stato inseguito nel pieno centro della città e ammazzato a colpi di kalashnikov mentre cercava riparo in un negozio da barbiere. Sono stati feriti due innocenti. Le strade erano piene ma nessuno ha visto. Perché nessuno vede da queste parti: dodici omicidi dall’inizio del 2018, trecento negli ultimi 30 anni, l’80 per cento dei quali irrisolti, ha denunciato il procuratore distrettuale antimafia di Bari, Giuseppe Volpe, che da qualche anno, accanto a un gruppo di colleghi appassionati e per niente spaventati (pur rischiando ogni giorno la vita: la mafia foggiana aveva progettato l’assassinio di un giovane pm), chiede che le luci dello Stato siano accese su questo territorio. Perché se c’è una maniera per vincere, quella è illuminare, raccontare, investire. Combattere. Lo avevano promesso sia l’attuale sia il precedente governo: ogni anno, dopo ogni strage arriva in Puglia un ministro dell’Interno, o magari un premier. E promettono. Era arrivato Marco Minniti, che effettivamente ha fatto nascere nuove unità investigative di carabinieri e polizia. Sono venuti Luigi Di Maio e il premier Giuseppe Conte, poi il ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Ma non c’è mai una svolta, non c’è mai un’azione incisiva per riconquistare il territorio. È come se in questa parte d’Italia venisse accettata una sorta di sospensione del diritto. Mentre si continua a descrivere i mafiosi foggiani come clan arcaici, simili a pastori, questa organizzazione è diventata potente: sono gli unici referenti delle cosche albanesi e sono attivi in tutta Europa. Assaltano i portavalori con i bazooka per finanziarsi, poi investono i proventi dei loro traffici in locali e supermercati. Foggia è l’ultimo sintomo di un grande male italiano. Perché dimostra come la minaccia delle mafie condizioni ancora il futuro del Paese. E come, però, continui ad essere fortemente sottovalutata. La sparatoria di San Severo avviene all’indomani delle parole incaute e pericolose pronunciate dal candidato dei 5 Stelle a Corleone. E avviene nella stessa giornata del sequestro dei beni per un miliardo e mezzo a imprenditori vicini’ al latitante Matteo Messina Denaro: tra loro, anche i vecchi proprietari della Valtur. I padrini avevano comprato anche le nostre vacanze, a conferma che la mafia qui, accanto a noi. Eppure questi campanelli d’allarme - sentiti nelle raffiche di Foggia, negli ammiccamenti di Corleone e nei patrimoni di Trapani - non suonano per tutto il Paese. A livello nazionale, la lotta alle mafie non sembra più essere una priorità: i disegni di legge del ministro Salvini sono concentrati contro i migranti. E sul territorio si assiste all’incredibile situazione del palazzo di giustizia di Bari, senza veri uffici da mesi, senza possibilità di garantire udienze, arresti e sentenze in condizioni civili. La risposta dei 5Stelle pare preferire il campanilismo all’efficienza, con la proposta di aprire una sede della procura distrettuale antimafia pure a Foggia: una misura che richiederebbe anni prima di entrare in azione. Stiamo dimenticando la lezione di Giovanni Falcone. La lotta alla criminalità organizzata è una cosa seria: non si fa con gli slogan, ma con provvedimenti concreti. Sicurezza e giustizia efficiente, l’altra faccia dello sviluppo di Franco Roberti Il Mattino, 25 novembre 2018 Nello Stato di diritto, sicurezza e legalità sono un binomio inscindibile. Potremmo dire che sicurezza è legalità, nel senso che la prima non può prescindere dalla seconda. Così come la sicurezza non può prescindere da una giustizia efficiente ed efficace, non può esserci l’una senza l’altra. Una giustizia senza sicurezza sarebbe un vuoto esercizio retorico, ma una politica securitaria non associata a una giustizia uguale per tutti sarebbe soltanto sopraffazione di uomini su altri uomini, una suprema ingiustizia che rafforzerebbe i poteri criminali i quali sfruttano le disuguaglianze economiche e sociali, come le asimmetrie regolatine tra i vari Paesi. Così come sono inscindibili legalità, sicurezza e sviluppo economico. Non illudiamoci e, soprattutto, non illudiamo i cittadini: non ci sarà mai vero sviluppo fino a quando non saremo in grado di assicurare agli investitori condizioni di sicurezza e giustizia efficienti. Fermarsi a riflettere e approfondire questa tematica in modo globale, e non settoriale, permette di cogliere la complessità dei problemi e di evitare deficit di conoscenza e ritardi nella organizzazione delle contromisure, che in passato si sono tradotti in altrettanti regali alle mafie. Come, per fare un solo esempio, nel settore del traffico illecito organizzato di rifiuti. È stato questo il nucleo portante della Conferenza nazionale svoltasi dal 16 al 18 novembre a Napoli. L’iniziativa è stata promossa da Regione Campania, Procura nazionale antimafia e Antiterrorismo ed Eurispes e ha visto la partecipazione di rappresentanti delle Istituzioni, accademici, manager, giornalisti, intellettuali, ricercatori. Sicurezza e legalità sono state esaminate attraverso otto tavoli tematici: beni confiscati, ambiente e territorio, sicurezza urbana e tutela penale, infiltrazione della criminalità organizzata nell’economia legale, terrorismo, immigrazione e tratta degli esseri umani, cyber - security, dipendenze, sicurezza e società. Dai tavoli sono emerse idee e proposte nuove perché abbiamo affrontato i problemi attraverso punti di vista diversi ma convergenti sullo stesso obiettivo di trovare soluzioni concrete e praticabili. Ma il risultato, a mio parere, più interessante è dato dal fatto che esperti e studiosi anche di diversa matrice culturale e politica si sono trovati in sintonia sia nell’analisi sia nelle possibili risposte da dare al problema della sicurezza, diventato centrale nella vita dei cittadini. Numerosi sono stati gli spunti di riflessione emersi dal confronto, con proposte chiare, finalizzate a dare nuovo impulso ai temi in questione. Per fare solo qualche esempio, si è affermata l’esigenza di una maggiore sinergia, sul versante della sicurezza urbana, tra tutte le istituzioni chiamate a tutelare i cittadini sia in fase di prevenzione che di contrasto dei fenomeni delinquenziali, fino all’istituzione di una “Centrale Unica per la Sicurezza” che veda, al fianco delle Forze dell’Ordine, da una parte il supporto degli operatori dei principali istituti di vigilanza, dall’altra la partecipazione di Protezione civile, vigili del fuoco e operatori sanitari. Per quanto attiene al delicato ambito della criminalità organizzata, mafiosa e comune (sistema “gelatinoso, cricca degli appalti, ecc.), i tavoli tematici hanno evidenziato la necessità di potenziare l’attacco ai patrimoni e la necessità di istituire una banca dati in cui raccogliere le informazioni non solo sui vincitori delle gare di appalto, ma anche dei partecipanti, con uno sguardo a tutti gli operatori che di volta in volta compongono i cartelli. Sul tema di grande attualità della vendita ai privati dei beni confiscati, è emersa l’esigenza di procedere alla vendita come ipotesi residuale e con esclusione dei beni di grande rilievo simbolico, che vanno valorizzati e destinati al riuso pubblico, come già previsto anche da una recente legge della Regione Campania. La criminalità organizzata transnazionale ha un ruolo decisivo anche sul versante dell’immigrazione, in quanto controlla quasi il 90% dei flussi migratori, che andrebbero affrontati e gestiti con una regolazione e una governance adeguate alla loro complessità. Da segnalare, inoltre, la necessità di una maggiore cooperazione internazionale nel contrasto al narcotraffico, anche con attività di indagine sotto copertura per colpire i santuari finanziari, e di una più intensa collaborazione multidisciplinare nella lotta alle dipendenze da sostanze illegali. Al di là delle singole specificità e competenze su cui si sono espressi i tavoli di lavoro, l’iniziativa ha posto un assioma di assoluta rilevanza: sulla sicurezza e la legalità occorre porre in essere una costante e continuativa riflessione scientifica, qualitativamente alta, sulla base della quale calibrare una programmazione e una progettazione, nonché un monitoraggio d’impatto delle politiche dedicate. Gli atti della Conferenza sono pubblicati e accessibili a tutti i cittadini sul sito web della Regione Campania. *Assessore alle Politiche Integrate di Sicurezza e Legalità della Regione Campania Roma: muore suicida detenuto psichiatrico in cura alla Rems di Palombara Sabina di Mauro Cifelli romatoday.it, 25 novembre 2018 Un volo di circa trenta metri nel vuoto. Così ha trovato la morte nel pomeriggio di venerdì 23 novembre un 66enne. La tragedia all’ospedale di Palombara Sabina. A perdere la vita un uomo di Tivoli, un detenuto psichiatrico in cura al Rems. Un suicidio, secondo i primi accertamenti dei carabinieri, con la salma comunque messa a disposizione dell’Autorità Giudiziaria per l’autopsia. I fatti si sono verificati intorno alle 14:00 di ieri. Secondo quanto ricostruito l’uomo è arrivato sino al sesto piano dell’ospedale. Qui ha trovato una porta finestra aperta in un laboratorio di cucina dalla quale si sarebbe poi gettato nel vuoto. Caduto in largo Salvo D’Acquisto è morto poco dopo. Allertati i carabinieri della Stazione di Palombara Sabina dal personale di vigilanza del nosocomio del Comune della provincia a nord di Roma, i militari hanno ascoltato i testimoni. Accertamenti in corso da parte dei militari della Compagnia di Monterotondo, che per il momento procedono sull’ipotesi del gesto volontario. Il magistrato del Tribunale di Tivoli ha comunque disposto l’esame autoptico sulla salma del 66enne. Aversa (Ce): ucciso di botte all’Opg perché accusato di pedofilia, indagini in corso casertanews.it, 25 novembre 2018 Il pubblico ministero della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere vuole portare in aula l’unico testimone oculare dell’omicidio di Cibati Seiano, ammazzato di botte all’interno dell’Opg di Aversa nel 2011. Dopo che il consulente ha confermato la capacità di stare in giudizio degli imputati, dichiarati parzialmente capaci di intendere e volere al momento del fatto, tutto ruota attorno alla testimonianza del testimone rumeno che è stato rintracciato in Francia e che ora la Procura vuole sentire in aula. La Corte si è riservata ed ha rinviato l’udienza a gennaio. Alla sbarra ci sono Attilio Ravizzola, Cosimo Damiano Stella, Alessandro Basile, Fabrizio Aureli e Massimo Maiorano tutti accusati di aver picchiato, causandone la morte, il detenuto. L’aggressione scattò perché, secondo la ricostruzione, nell’Opg si era sparsa la voce che la vittima era un pedofilo. Nel collegio difensivo ci sono gli avvocati Pica e Maiorano, mentre per le parti civili Gennaro Iannotti, Dario Pepe, Gabriella Cusano e Rispoli”. Milano: apre lo Sportello del Garante per i 1000 detenuti di San Vittore di Giuseppe Aresu agi.it, 25 novembre 2018 Nella Casa circondariale è stato inaugurato un ufficio, gestito dal Difensore regionale Carlo Lio, per la difesa civica e l’accesso ai servizi (sanità, istruzione e lavoro) a disposizione di tutti i carcerati. Sovraffollamento e reinserimento nella società. Ma anche incontri con le famiglie e attività lavorative e ricreative. Sono queste alcune tra le principali criticità a cui lo Sportello del Garante dei detenuti, nel carcere di San Vittore a Milano, deve far fronte. San Vittore è un carcere storicamente complesso, con alti tassi di sovraffollamento e problematiche relative al continuo ricambio di detenuti, visto che per l’istituto penitenziario passano persone in attesa di giudizio. A San Vittore, secondo quanto riferito all’AGI dal direttore del carcere Giacinto Siciliano, sono detenuti “952 uomini e 90 donne, su una capienza di circa 700 posti”. È “una situazione complessa, con un grande sovraffollamento e con detenuti in attesa di giudizio che stanno pochissimo e dunque con i quali è difficile lavorare perché c’è poco tempo”. Poi, aggiunge Siciliano, “c’è una forte presenza di stranieri con i problemi di lingua che ne conseguono”. A breve, almeno in parte, il sovraffollamento dovrebbe essere ridotto: “Entro fine anno apriremo altri due padiglioni e ci saranno altri 100 posti. Ristrutturiamo due piani chiusi da due anni”. Il direttore parla anche delle attività svolte dai detenuti: “San Vittore ha tantissimi progetti, il problema semmai è far partecipare i detenuti. Ad esempio abbiamo una sartoria collaudata da anni, che produce toghe per magistrati, e una libera scuola di cucina che gestisce degli eventi”. Tutti i detenuti dell’istituto di pena potranno rivolgersi allo sportello, collocato in una stanza al pianterreno, e fare presente quali sono i loro problemi, le necessità, e avanzare delle richieste. Ad esercitare la funzione di garante sarà Carlo Lio, difensore civico della Regione Lombardia. “Obiettivo di questo progetto è avvicinare i detenuti all’istituzione che li tutela - ha spiegato Lio - aprendo sportelli direttamente accessibili all’interno del carcere”. Il problema più visibile delle carceri lombarde è quello del sovraffollamento. I dati di ottobre, messi a disposizione dal ministero della Giustizia, dicono che nei 18 istituti di pena della Lombardia i detenuti sono in totale 8.439, di cui 462 donne e 3.648 gli stranieri. In un anno i detenuti in Lombardia sono aumentati dell’1,5% e del 6,5% rispetto al 2016. Rispetto alla capienza dei penitenziari lombardi (6.226 posti) c’è un 35% di presenze in più. In pratica dove dovrebbero stare due detenuti, stanno in tre. Il “peggiore” in questa classifica è il carcere di Como, che ospitava 454 detenuti su 231 posti: il 96% in più. A Lodi 86 detenuti per 45 posti; a Canton Mombello (Brescia) 345 detenuti per 189 posti; a Verziano (Brescia) 131 su 72 posti; a Busto Arsizio 423 ospiti in 240 posti. Il nuovo sportello è stato presentato all’interno del carcere. Il garante Lio ha parlato di una “grande responsabilità”. Oggi, ha detto, “apro il mio ufficio, una volta al mese sarò qui a sentire necessità e denunce”. Finora, ha spiegato Lio, “abbiamo constatato che c’è bisogno e attenzione su alcuni temi come i diritti di cura, di assistenza, di pensione o di disoccupazione”. Dopo aver portato i saluti del presidente della Regione, Attilio Fontana, l’assessore regionale alla Famiglia, Silvia Piani, ha spiegato: “All’interno delle carceri ci sono delle persone. Dietro questi detenuti ci sono le famiglie e stiamo cercando di creare spazi per gli incontri, per me è un tema sentito”. E “lo sportello segno non solo di vicinanza ma anche di ascolto attivo di esigenze e necessità”. Nel suo intervento invece, il provveditore per l’Amministrazione penitenziaria Luigi Pagano, ha ricordato che “su 5 mila detenuti con condanne definitive, mille sono al di sotto di un anno. Creano sovraffollamento e il rapporto stretto con la società esterna potrebbe darci una grande mano per costruire un’ipotesi di reinserimento sociale”. Ha concluso il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, con una domanda: “Negli ultimi 15 anni, 16 mila persone sono uscite dal carcere perché innocenti e hanno chiesto e ottenuto un risarcimento complessivo dallo Stato per oltre 400 milioni. E chi ha pagato, oltre a loro che hanno subito una detenzione ingiusta?”. Napoli: “Anema e core”, progetto dell’associazione La Mansarda per i detenuti psichiatrici di Ferdinando Nardone linkabile.it, 25 novembre 2018 L’associazione di volontariato “La Mansarda”, ha proposto un progetto rivolto ai detenuti appartenenti al Reparto di Articolazione Psichiatrica del Centro Penitenziario di Secondigliano “P. Mandato”. Il progetto “Anema e core” nasce per poter creare uno spazio dove i detenuti possano sperimentare la conoscenza di sé, il riconoscimento delle proprie emozioni, attitudini e risorse, mediante un “fare” creativo e costruttivo. Verrà impiegata una metodologia ludico-interattiva che faciliti l’ascolto attivo, la comunicazione, la partecipazione attiva, l’empatia e il rispetto reciproco agevolando la possibilità di espressione, di ascolto e di apprendimento per ciascun partecipante. Il progetto avrà una durata complessiva di 3 mesi (ottobre - dicembre), e prevede un incontro a cadenza settimanale di circa 2 ore. Saranno impegnate sei volontarie dell’associazione. Con questi utenti l’associazione La Mansarda già da tre anni porta avanti iniziative sia all’interno del carcere che per le uscite dei diversamente liberi che possono usufruire di permessi. Le finalità saranno quelle di stimolare la dimensione emotivo-affettiva e teorico-pratica nei confronti dei partecipanti, attraverso la realizzazione di un laboratorio di riciclo creativo musicale, che coinvolgerà i detenuti in tutto il percorso di costruzione di strumenti musicali, inoltre ci sarà la messa in scena di uno spettacolo nel quale verranno suonati dai carcerati gli stessi strumenti realizzati. Maria Meola referente del progetto ha dichiarato: “l’anima e il cuore sono due prerogative per poter promuovere un benessere psicofisico del detenuto e anche per fargli riscoprire nonostante gli errori della vita, che la bellezza esiste sempre e quello che si fa con il cuore e con l’anima può avere un grande valore. Il detenuto spesso è escluso ed emarginato dalla società, ma in questo caso è emarginato dalle stesse famiglie, le quali tendono ad allontanarsi da loro. Il detenuto psichiatrico diventa l’escluso dell’escluso”. Un’iniziativa che punta a dare sollievo agli ultimi degli ultimi, tramite attività inclusive capaci di permettere al detenuto di avere momenti di positività e che rispecchia l’atteggiamento del Presidente dell’ Associazione “La Mansarda” Samuele Ciambriello, sempre impegnato a dare sollievo a chi soffre. Ascoli: in carcere un orto sociale e un’area verde per i colloqui con le famiglie di Teresa Valiani Redattore Sociale, 25 novembre 2018 Inaugurato nella Casa circondariale di Ascoli Piceno il progetto finanziato dalla Regione Marche nell’ambito delle attività legate all’agricoltura sociale. Il campo abbandonato è tornato a nuova vita con piante da frutto e ornamentali. Un innovativo sistema di irrigazione consentirà il riciclo delle acque. In origine, negli anni 80, era un bel campo di calcio in erba in cui i detenuti sfidavano compagni di cella o agenti in servizio nell’istituto di pena. Nei periodi migliori il piccolo stadio del Marino ha ospitato anche l’Ascoli della serie A, quello di Walter Casagrande che in più occasioni aveva giocato dentro le mura. Poi l’usura, i mancati interventi e il tempo portarono al degrado della struttura che ad un certo punto fu smantellata. Per molti anni la distesa d’erba oltre i cancelli del supercarcere ascolano è stata solo un grande e silenzioso spazio abbandonato. Oggi quel campo è tornato a nuova vita, in parte destinato di nuovo a piccolo perimetro di gioco, in parte ad area verde per i colloqui con le famiglie e per il resto come orto sociale. Il progetto “Orto” è stato l’ultimo a partire in ordine di tempo ed ha visto la luce proprio in questi giorni grazie al piano finanziato dalla Regione Marche e promosso con Assam (Agenzia per i servizi agricoli) e Prap (Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria) Marche-Emilia Romagna. Diversi, negli anni, sono stati i tentativi di sfruttare tutto quel prato coltivando la terra, ma il problema insormontabile era sempre arrivato dalla mancanza di acqua. Ora quell’ostacolo è stato rimosso, grazie a un innovativo sistema di riutilizzo delle acque che escono dall’impianto di depurazione. Il nuovo orto sociale è stato inaugurato nel corso di una cerimonia a cui ha partecipato Anna Casini, vicepresidente della Regione e assessore all’Agricoltura, Lucia Di Feliciantonio, direttore dell’istituto di pena, Cesare Orsini, coordinatore amministrativo del Consorzio Ciip, e Uriano Meconi, dirigente Assam. “Il progetto appena avviato nella Casa circondariale di Ascoli Piceno - spiega una nota della Regione - rappresenta una innovativa esperienza nella quale il valore ricreativo ed educativo dell’orto, viene affiancato da una esperienza teorico-pratica nella gestione del verde e giardinaggio, per creare specifiche professionalità di settore”. La struttura si sviluppa su una superficie di circa 100 metri quadrati destinata a orto e di diversi altri appezzamenti dove si stanno mettendo a dimora piante da frutto, ornamentali e aromatiche. Il problema delle riserve d’acqua è stato risolto grazie alla realizzazione di una linea idrica approntata dal CiiP Spa - Servizio Idrico Integrato e che valorizza le acque in uscita dall’impianto di depurazione della struttura penitenziaria. L’Amministrazione del carcere ha installato due cisterne di stoccaggio, una da 2.000 litri presso l’impianto di depurazione e una da 10 mila nei pressi dell’orto mentre l’acqua utilizzata per l’orto verrà sanificata attraverso un sistema a ultravioletti per eliminare eventuali contaminanti. Un progetto di riutilizzo delle acque che “va nella direzione di una maggiore attenzione alla gestione delle risorse ambientali - prosegue la nota -, anche attraverso processi virtuosi di riciclo. Il servizio Politiche Agroalimentari della Regione Marche ha fornito le risorse finanziarie all’Assam per dotare il progetto di piccoli macchinari, attrezzature, piantine invernali da orto, varietà autoctone di olivo del Piceno (come Ascolana Tenera, Lea, Carboncella, Sargano di Fermo), piante di mela rosa (Gentile e Pietra) e alcune piante aromatiche provenienti dal proprio vivaio di Pollenza, oltre a concimi organici per favorire la messa a dimora. Le piante di olivo e mela rosa fanno parte del repertorio regionale della biodiversità agraria delle Marche che tutela le varietà a rischio di erosione genetica. “Ortoincontro” è un progetto promosso dalla Regione nell’ambito delle attività di agricoltura sociale sperimentate da diversi anni. Dopo Agrinido di qualità (asilo nido all’interno di un’azienda agricola per far crescere i bambini a contatto con la natura) e Longevità attiva (esperienze rurali per migliorare la qualità di vita degli anziani), sono state sperimentate attività educative e ricreative per i detenuti legate al mondo agricolo. Dal 2008 è iniziata una collaborazione tra la Regione Marche, l’Assam e il Prap Marche - Emilia Romagna per una formazione teorico pratica dei reclusi. Dopo la positiva esperienza svolta nel carcere di Barcaglione (Ancona), il relativo protocollo del 2011 è stato rinnovato nel 2013, coinvolgendo anche gli istituti di Monte Acuto (Ancona) e Ascoli Piceno. Le attività di agricoltura sociale vengono finanziate anche dal Piano di sviluppo rurale della Regione Marche, con la misura 6.4 (il cui bando è attualmente aperto) destinata alle imprese agricole e con la misura 16.1 che sostiene, per la prima volta in Italia, l’introduzione dell’innovazione nelle imprese agricole attraverso un progetto di agricoltura sociale. La leadership delle Marche sul tema della ruralità sociale è riconosciuta anche dalla rete europea Eriaff - The European Region for Innovation in Agriculture, Food and Forestry, network che raccoglie 43 Regioni di 13 diversi Stati membri della UE. Lo scorso giugno, nel corso del meeting tenuto presso la città finlandese di Seinajoky, alla Regione Marche è stato affidato il ruolo di capofila nel nascente partenariato interregionale sull’agricoltura sociale”. Brindisi: mancano i braccialetti elettronici per i domiciliari, indagati restano in carcere di Stefania De Cristofaro brindisireport.it, 25 novembre 2018 A Brindisi e provincia non ci sono braccialetti elettronici a disposizione delle forze dell’ordine, di conseguenza gli indagati per i quali è stata disposta la sostituzione della misura cautelare in carcere con quella ai domiciliari unitamente a dispositivi di controllo, restano “dentro”. A sollevare il caso è stato l’avvocato Mario Guagliani del foro di Brindisi (nella foto accanto), dopo che lo scorso 25 ottobre il Tribunale del Riesame di Trieste, ha concesso i domiciliari con braccialetto elettronico a Lorenzo Mastrovito, 47 anni, di Ostuni, arrestato dai carabinieri il 4 ottobre scorso con l’accusa di aver fatto parte di un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una serie di furti negli uffici postali e nelle filiali di banche in Veneto. Il collegio ha riconosciuto i domiciliari con braccialetto elettronico anche a Lorenzo Battisti e a Orlando Morleo, entrambi di Brindisi, arrestati nella stessa inchiesta con identica accusa. Per tutti e tre gli indagati, il Riesame ha ritenuto insussistenti i presupposti per contestare l’esistenza del sodalizio e per questo ha concesso l’attenuazione della misura chiesta oltre che dall’avvocato Guagliani, dai penalisti Giuseppe Guastella e Daniela d’Amuri, difensori - rispettivamente - di Battisti e Morleo. I tre indagati però sono rimasti in carcere non essendoci la disponibilità di strumenti elettronici per il controllo, da applicare prima del trasferimento nelle rispettive abitazioni. Di fronte al persistere della custodia inframuraria, nonostante la pronuncia del Riesame, Guagliani ha esposto la situazione al gip del Tribunale di Trieste che firmò il provvedimento di custodia, chiedendo la sostituzione della misura in corso di esecuzione, con quella degli arresti domiciliari per Mastrovito (suo assistito, nella foto accanto) anche senza il braccialetto elettronico. Il giudice per le indagini preliminari ha accolto la richiesta, rinviando ai divieti di comunicazione imposti già dal Riesame con ordinanza. Mastrovito, quindi, ha ottenuto il trasferimento nella sua abitazione, a Ostuni, dove resterà ristretto in attesa della chiusura dell’inchiesta e non potrà “allontanarsi dal luogo dei domiciliari, senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria, nonché di incontrarsi e comunicare con persone diverse dai familiari conviventi e da coloro che le assistono”. In caso contrario “verrà ripristinata la custodia cautelare in carcere”. Stessa istanza al gip sarà presentata dai difensori di Battisti (foto accanto) e Morleo (nella foto in basso), ancora ristretti in carcere. È l’unica strada possibile, visto che ad oggi nel Brindisino non c’è la disponibilità di braccialetti elettronici. Battisti e Morleo restano indagati con l’accusa di tentata rapina pluriaggravata in concorso nella Banca nazionale del lavoro a Trieste, in via Morpurgo, il 3 luglio dello scorso anno. Secondo la ricostruzione dei carabinieri, avrebbero avuto accesso al cortile posteriore della banca dopo aver tagliato la rete di recinzione. Sarebbero riusciti ad “aprire un varco a una porta esterna al servizio della centrale termica che si rilevava, tuttavia, priva di accesso agli uffici”. A quel punto avrebbero cercato di “rimuovere la grata a protezione di una finestra di un bagno comunicante con gli uffici”. Ma senza risultato.I due brindisini avrebbero rubato due targhe, quelle di una Fiat Punto e quelle di una Fiat 500, entrambe rubate il 30 settembre 2017 a Fossalta di Piave. Mastrovito è accusato anche di aver preso parte alla rapina, non andata a segno, nell’ufficio postale di Sistiana il primo novembre dello scorso anno. Identica accusa è contestata in relazione al colpo fallito nell’ufficio postale di Ceggia, il giorno successivo. Piacenza: “Mi hanno picchiato in questura”, 22enne denuncia poliziotti di Luca De Vito La Repubblica, 25 novembre 2018 Il ragazzo, fermato per possesso di droga, racconta di un pestaggio dopo un diverbio con un agente. I poliziotti sostengono di aver cercato di arginare “la sua furia violenta”. Il giudice delle direttissime di Piacenza ha creduto alla versione delle forze dell’ordine. “Picchiato in questura”, ma anche “arrestato e denunciato per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale”. È una storia dai contorni ancora da definire quella che lunedì 19 novembre ha visto due giovani, fermati a Piacenza dalla polizia per possesso di stupefacenti (3,2 grammi di marijuana in tutto) e portati in questura. Da qui uno dei due è uscito con lesioni perché “vittima di una brutale aggressione da parte degli agenti di polizia” come ha raccontato il protagonista di questa storia. Durante una conferenza stampa a Palazzo di Giustizia a Milano, i due ragazzi, assistiti dagli avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini, hanno ricostruito i fatti secondo la loro versione, molto diversa da quella riportata nel verbale di arresto redatto dalla Questura di Piacenza. Tutto inizia il mattino alle 11.10 in viale Patrioti, dopo un controllo degli agenti che trovano due spinelli all’interno della macchina dei due ragazzi (un italiano di 26 anni e un 22enne egiziano). I due giovani vengono portati in questura e lì cominciano i problemi. Durante il foto-segnalamento il più giovane ha un diverbio con un agente. Secondo quanto raccontato dal ragazzo insieme ai suoi avvocati, rivolgendosi a uno dei poliziotti avrebbe esclamato “Perché non vai ad arrestare tua cognata, anche lei fuma gli spinelli”. Se sulla frase le due versioni sono (più o meno) concordi è su quanto accaduto dopo che divergono completamente: quello che raccontano i giovani è che il poliziotto a cui era rivolta la frase sarebbe scattato sulla sedia e avrebbe preso per il collo il ragazzo, scaraventandolo al muro e facendogli sbattere la testa. Da lì sarebbe partito un vero e proprio pestaggio, con calci e pugni a opera di sei persone, tutti contro l’egiziano. L’altro fermato sarebbe stato allontanato in un’altra stanza, “mentre sentivo le urla del mio amico e i calci e i pugni che gli sferravano”, ha raccontato davanti ai giornalisti. Dalla sua il giovane ha un referto medico - rilasciato dall’ospedale di Piacenza soltanto il giorno dopo i fatti - che riporta come diagnosi uno pneumotorace (ferita al petto) e una lesione all’occhio destro con prognosi di 15 giorni, entrambe lesioni compatibili con calci e pugni. Non solo. Dopo il pestaggio il ragazzo sostiene di essere stato mandato in camera di sicurezza, dove avrebbe trascorso tutta la notte nonostante i dolori al petto e le richieste di poter essere visitato da un medico. La versione inserita nel verbale è invece molto diversa. Secondo gli agenti infatti l’arrestato avrebbe avuto da subito un comportamento aggressivo, trasformandosi in una furia e colpendo al volto con un pugno lo stesso poliziotto a cui era rivolta la frase sulla cognata e poi con un calcio al petto. Il ragazzo avrebbe addirittura lanciato una sedia contro i poliziotti. Sempre nel verbale si fa riferimento all’appartenenza del ragazzo - che è incensurato ed è assunto con un contratto a tempo indeterminato in un magazzino del settore logistica - al sindacato dei SiCobas e alla sua partecipazione alla manifestazione del 10 febbraio di quest’anno conclusasi con il ferimento di un carabiniere: fatti da cui però risulta estraneo. Martedì il giovane e l’agente sono stati ascoltati dal giudice per le direttissime al tribunale di Piacenza. Il quale nell’ordinanza di convalida dell’arresto ha scritto che “non ci sono elementi che confutino quanto riferito” dagli agenti e “appare del tutto inverosimile che un pestaggio sia stato consumato alla presenza di un testimone oculare”. I giovani, una volta usciti dal tribunale hanno sporto denuncia ai Carabinieri di Piacenza. Nel frattempo il 22enne è stato raggiunto anche da un avviso orale del Questore di Piacenza. Mentre si attendono gli sviluppi della denuncia sporta ai Carabinieri, i due saranno di nuovo davanti al giudice il prossimo 25 gennaio. Ancona: essere genitore dal carcere “la prova più difficile che io abbia mai affrontato” di Marco Catalani anconatoday.it, 25 novembre 2018 Le testimonianze dei detenuti di Barcaglione. I minori e l’essere donna e madre dietro le sbarre. Tanti temi trattati nel convegno che si è tenuto ad Ancona. Nelle Marche si contano 792 minori presi in carico dall’area penale dell’Ufficio di servizio sociale di Ancona. Di questi, 331 sono stati presi in carico dall’inizio dell’anno. In totale sono appena 12 quelli che presenti nelle carceri minorili di tutta Italia, 138 sono in messa alla prova, 11 hanno misure alternative alla detenzione mentre altri 11 hanno misure cautelare delle prescrizioni e permanenza in casa. I dati di flusso dicono che le Marche rappresentano quasi il 4% della situazione nazionale. Di minori, carcere, situazione carceraria e genitorialità per i detenuti si è parlato oggi ad Ancona nel corso di un convegno dal tema “Diritti dietro le sbarre” che si è tenuto oggi al Ridotto delle Muse. Organizzato dal Garante dei diritti delle Marche, Regione, Ordine degli Avvocati, Camera Penale, Ordine degli Assistenti sociali e Ministero della Giustizia, il convegno ha ospitato anche le testimonianze di due detenuti del carcere di Barcaglione che hanno raccontato al pubblico le difficoltà di essere padri dietro le sbarre. “Sono in carcere da circa 3 anni - ha raccontato il primo - e vivo la condizione di genitore con un figlio di 7 anni: è la cosa più difficile che mi sia mai capitata. Non è che uno non lo vuole fare il padre ma è quasi impossibile, con 8 ore al mese a disposizione, riuscirci, dare l’educazione che vorresti. A Barcaglione abbiamo anche una ludoteca ma il tempo è poco. Il Natale, ci siamo quasi, è il momento peggiore. Quando il bambino ti chiede se tornerai a casa e tu rispondi l’anno dopo e poi l’anno dopo ancora. Mi sono sentito dare del bugiardo. Ci sono momenti in cui il bambino non vuole venirti a trovare e questo ti fa passare le notti sveglio sulla branda. Il male lo abbiamo fatto e paghiamo ma per questi bambini non sappiamo davvero cosa fare”. Detenuto da 5 anni, l’altro chiede un supporto perché “la vera difficoltà è fuori: abbiamo bisogno di più sostegno psicologico per dimostrare ai nostri figli il cambiamento fatto in questo percorso di vita e per imparare a rapportarci con i figli”. Al convegno hanno preso parte varie personalità. Il Procuratore generale della Corte di Appello di Ancona, Sergio Sottani, Riccardo Polidoro (responsabile carcere dell’Unione camere penali), Enrico Boaro (responsabile sanità penitenziaria delle Marche), la presidente del Tribunale di Sorveglianza, Anna Bello, il presidente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini. Nel pomeriggio hanno preso parola il direttore generale del Dipartimento Giustizia minorile, Vincenzo Starita, Antonio Crispino, giornalista del Corriere della Sera, oltre a Lia Sacerdote (associazioni Bambini senza sbarre) e Daniela Pajardi, docente di psicologia giuridica all’Università di Urbino. Tra i temi trattati anche la condizione delle donne in carcere: in Italia rappresentano il 4,5% della popolazione carceraria ma la loro vita è ben diversa da quella degli uomini e sono nel 2010 si è iniziato a ragionare su questo dato di fatto. “L’80% delle donne detenute - ha spiegato la Pajardi - ha un disturbo psichico ed è a maggior rischi di atti autolesionistici: serve una formazione della polizia penitenziaria anche riguardo a questi aspetti”. In generale nelle carceri marchigiane ci sono 930 detenuti con indici di sovraffollamento preoccupanti. “Le riforme del sistema penitenziario sono importanti - ha detto in conclusione Andrea Nobili, Garante dei diritti delle Marche e moderatore del pomeriggio al Ridotto - ma se non si portano dietro una serie di servizi rischiano di diventare la bandierina del governo di turno”. Ferrara: una panchina rossa davanti al carcere. “Enzima per speranza e riflessione” di Cecilia Gallotta estense.com, 25 novembre 2018 Inaugurato il simbolo contro la violenza sulle donne. Il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone: “Corsie di priorità per le vittime”. Una panchina rosso vivo all’ingresso del grigiore delle carceri. È un “simbolo forte ma anche concreto” quello che sabato mattina è stato svelato davanti alle autorità militari e civili in via Arginone in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, che ha accolto con un istituzionale picchetto anche il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone. Un segnale “che indica comunque una situazione di pericolo”, come afferma il sindaco Tiziano Tagliani, su un fenomeno che non accenna a diminuire, se si pensa che sono 8414 le denunce di maltrattamenti solo nei primi mesi del 2018 e 97 i femminicidi nel nostro Paese. Ma “è la prima volta che la panchina rossa (dipinta dai detenuti della casa circondariale, ndr) viene posta alle porte di un luogo di pena, di dolore e di fatica umana, che ospita fra gli altri anche uxoricidi e stalker: emblema netto e forte di come questo luogo non avrebbe significato senza una connotazione di rieducazione, rinascita e rinnovamento. Un enzima per la riflessione e per la speranza, come la Costituzione declina”. Le parole della comandante Annalisa Gadaleta arrivano dopo i ringraziamenti dell’assessore alle Pari Opportunità e alla Toponomastica Massimo Maisto, secondo cui “anche i segnali forti servono a lavorare per ridurre i dati in aumento”. Presenti alla cerimonia anche gli esponenti rispettivamente di Forza Italia e Lega Nord Paola Peruffo, Alan Fabbri e Nicola Lodi, che hanno applaudito Morrone alla citazione del disegno di legge ‘Codice Rosso’, fortemente voluto dai ministri Salvini, Giulia Bongiorno e Alfonso Bonafede, “con cui si intende assegnare alle vittime corsie di priorità assoluta perché non rimangano bloccate dai tempi della giustizia in caso di seri pericoli per la loro incolumità. Una dimostrazione - conclude Morrone - dell’impegno che il Governo si assume a tutto campo e che si sta traducendo in atti concreti”. Milano: la “Nave” approda in Darsena, mercatino solidale per i detenuti di San Vittore Corriere della Sera, 25 novembre 2018 L’iniziativa per sostenere l’associazione, impegnata nel recupero e nel sostegno dei detenuti del carcere milanese. Il mercatino allestito el Casello ex Dazio di piazza 24 Maggio, primo cliente il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Un mercatino solidale per sostenere le attività della Nave di San Vittore, reparto di trattamento avanzato per la cura e il recupero dei detenuti con problemi di dipendenza: sabato 24 e domenica 25 novembre al primo piano del Casello ex Dazio in piazza 24 maggio sulla Darsena, dalle 10 alle 19, e il primo “cliente” della mattina è stato il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Luigi Pagano. Il reparto La Nave è nato sedici anni fa. Gestito da una équipe della Asst santi Paolo e Carlo con il contributo di numerosi volontari. Oggi un gruppo di persone impegnate da allora nelle attività del reparto ha fondato l’associazione “amici della Nave”, con due obiettivi principali. Il primo è “continuare a sostenere fuori il percorso che i detenuti-pazienti della Nave intraprendono dentro, soprattutto da un punto di vista della cultura e della bellezza”. Il secondo è “promuovere una sensibilità sempre più diffusa verso questo tipo di approccio proponendolo come opportunità per tutti, nella convinzione che l’integrazione e la partecipazione, il confronto, lo scambio, soprattutto ove orientati all’arte, alla cultura, alla bellezza, rappresentino sempre un arricchimento reciproco”. Per info sulla associazione info.amicidellanave@gmail.com. “L’estate di Gino”, don Rigoldi e i suoi ragazzi di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 25 novembre 2018 Riprese le vacanze del prete di strada più amato e noto di Milano, 79 anni, con i suoi “figli”, i ragazzi di comunità e del carcere. Lui scherza: “In mutande siamo tutti uguali”. Un omaggio a don Gino Rigoldi nelle vesti di “padre”. È questo, in fondo, il senso del film girato dal regista Fabio Martina sul prete di strada più amato e noto di Milano. “Uno splendido ottantenne”, direbbe Nanni Moretti (“ho solo 79 anni e non intendo andare in pensione”, mette le mani avanti lui). Per la prima volta lo storico cappellano del Beccaria si mostra lontano dagli usuali ambienti e si lascia riprendere durante una vacanza a Sant’Antioco, in Sardegna, con i suoi “figli”, i ragazzi di comunità e del carcere. “L’estate di Gino”, che verrà presentato il 6 dicembre allo Spazio Oberdan, è un alternarsi di scene commoventi, profonde e silenziose, e scene buffe, nella quotidianità che la macchina da presa insegue. “I ragazzi, fuori dal contesto grigio del carcere, con le cicale di sottofondo e la bellezza del mare davanti, imparano la vita, si aprono a riflessioni sul loro futuro - anticipa il regista, che aveva reclutato don Gino come “attore” in un cammeo del suo ultimo film, L’assoluto presente. Non c’è colpa e non c’è giudizio, nella visione del cappellano, ma una fede terrena che porta dritta al sogno di una umanità più giusta, un reciproco dare che non è mai a somma zero”. La personalità di don Gino, combattiva e autoironica, emerge al di là dell’immagine istituzionale: “Appaio senza veli - scherza lui -. In mutande siamo tutti uguali”. È la leggerezza, la sua forza, la chiave con cui riesce ad entrare in sintonia con ragazzi che faticano ad accettare l’autorità. Scena dopo scena fa in modo che guadagnino tasselli di fiducia per il loro futuro. “Faccio come farebbe un padre”, ammette semplicemente. C’è la scena in cui borbotta perché un ragazzo gli chiede consiglio sulla maglietta da indossare e poi tanto sceglie “la nera diabolica”, quella dove ne rimprovera un altro tornato troppo tardi di notte. E ancora quella dove si tuffa convinto nel mare - pinne e boccaglio - atteggiandosi a sub, peccato che resti (“per sicurezza”) dove l’acqua è alta appena 50 centimetri. Un’immagine di don Gino che sorprende e fa affezionare ancora più di prima, soprattutto se vista di fianco a don Claudio, alter ego come cappellano al Beccaria, anche lui in vacanza e nel film. “Una strana coppia”, si descrivono, perfettamente complementari, anche con i ragazzi. “Ci presentò il vescovo nel 2006, abbiamo trent’anni di differenza d’età. Lui mi strinse la mano alzando gli occhi al cielo e disse ad alta voce: “Speriamo non sia un altro pacco”, ricorda don Claudio, che arrivava dalla parrocchia di Vimodrone ma aveva già aperto le sue comunità Kayròs per adolescenti. Adesso che al Beccaria è stata nominata, dopo un’attesa di anni, la nuova direttrice (Domenica Buccoliero, ndr), sono pronti a rilanciarlo. “Vogliamo aumentare gli scambi con i ragazzi delle scuole e i possibili datori di lavoro. La permanenza in carcere, per gli adolescenti, deve essere il più breve possibile”, dice don Gino. E don Claudio, guardandolo fisso: “Mi dice sempre che devo avere coraggio, meno timore delle autorità. Lui prende a va a Roma a protestare, se c’è bisogno. Don Gino non finirà mai di insegnare, senza dare l’impressione di farlo”. Siria. “Abbiamo bisogno di ponti, ma si vedono solo armi e milizie” di Riccardo Cristiano La Stampa, 25 novembre 2018 A colloquio con Hind Aboud Kabawat, vice-direttrice della commissione negoziale dell’opposizione ai colloqui di pace di Ginevra, a Roma per gli incontri Mediterranei dell’Ispi. Scorgere segnali positivi nel disastro mediorientale è difficile. Guerre, confessionalismo politico, terrorismo, profughi. In Siria poi i dati sono ancor più allarmanti: riguardano un’infanzia abbandonata, senza diritti, la distruzione quasi completa del sistema sanitario e di quello scolastico, la presenza pervasiva di milizie, di gruppi paramilitari, della corruzione e delle migliaia di inghiottiti nel buio, arbitrariamente detenuti o sequestrati, molto spesso da anni. Ma un segnale di novità c’è, ed è il crescente ruolo delle donne: nelle società e nelle strutture associative sono sempre di più le donne che riescono ad emergere dall’ombra imposta su di loro dal sistema patriarcale, che a lungo le ha ridotte a manichini da mettere in vetrina in determinate occasioni per poi tornare nel retrobottega. Hind Aboud Kabawat, cristiana di rito ortodosso, è vice-direttore della commissione negoziale costruita dalle opposizioni siriane che partecipano ai negoziati di Ginevra e in questi giorni rappresenta il suo organismo qui a Roma alla quarta edizione dei colloqui mediterranei promossi da Ispi e Farnesina. “È sempre difficile parlare di sé, ma se posso dire quel che ritengo positivo del nostro lavoro è questo: essere riusciti a creare un gruppo che partecipa ai negoziati di pace con un lavoro fatto da espressioni di tutte le realtà etniche e confessionali presenti in Siria. Quando diciamo che l’unica soluzione per il conflitto siriano è quella politica diciamo che solo ricostruendo il tessuto lacerato del popolo siriano riusciremo a trovare una soluzione davvero politica, non militare. Dobbiamo ricostruire i siriani come comunità e per riuscirci occorrono ponti, ponti tra di noi, tra persone che per otto anni hanno conosciuto solo la guerra”. “Soluzione politica del conflitto in Siria vuol dire riannodare, coinvolgere, includere: abbiamo bisogno di inclusione per uscire dalla spirale della divisione, del conflitto e dell’odio, l’inclusività riconnette e non può escludere le donne, i giovani, le realtà non solo etniche o confessionale ma anche dell’interno o della costa. Maggiore inclusività vuol dire ridare la parola a chi per otto anni l’ha persa, e ricostruire i legami su una base nuova. Oggi invece vedo in molte aree siriane delinearsi un rischio: pensare di uscirne mettendo di qua i curdi, di là gli arabi, di qua i sunniti, di là gli sciiti. Così non va, non può andare. I ponti di cui parlo sono evidentemente gli unici che possono curare i danni spirituali causati da questo conflitto. E questi sono addirittura più gravi di quelli materiali, enormi. Non abbiamo altra via”. La visita romana di Hind Aboud Kabawat coincide con ore delicatissime, all’Onu a Ginevra si cerca di incardinare il meccanismo per avviare l’elaborazione della nuova Carta costituzionale siriana, dalla quale dipende il futuro del Paese. “Purtroppo non ho molte speranze, perché è difficile pensare che in queste condizioni chi prevale militarmente possa essere interessato a negoziare davvero una nuova costituzione che ne dovrebbe ridurre il potere e quindi il futuro politico”, dice. “Proviamo a pensarci in termini razionali: se i sostegni militari non vengono messi in discussione e le operazioni militari non si arrestano, perché chi prevale dovrebbe negoziare? La soluzione politica è l’unica soluzione possibile, ma in queste condizioni credo che non possa esserci per mancanza di interesse: anche le intenzioni di favorire il varo di una nuova costituzione saranno frenate dalla determinazione militarista di altri e così i russi resteranno in Siria, gli iraniani, che non vogliono altro, resteranno in Siria, gli americani resteranno in Siria, Hezbollah resterà in Siria e così via: tutti resteranno in Siria, tranne milioni di siriani, che non potranno tornarvi”. “Tutto questo è doloroso e allarmante, ma non solo per noi, non solo per la Siria. Guardiamo i fatti con sincerità, proviamo a guardare alla realtà con onestà intellettuale; stanno vincendo i tiranni, prevalgono idee in cui lo Stato ha il monopolio di una violenza senza limiti. In Siria ci sono intere città distrutte, almeno 500mila morti. Eppure”. Impossibile non chiedere ad una cristiana cosa possano fare le religioni, se ci sia la possibilità di una risposta dai campi religiosi dopo che quei popoli per primi hanno patito estremismi, terrorismi e disumanizzazioni dell’uomo. “Voglio essere molto schietta al riguardo, vista la serietà e rilevanza del problema. Perché questo accada occorre una scossa interiore, occorre che i credenti credano. Un recente viaggio mi ha portato con il mio vescovo, ovviamente cristiano ortodosso come me, in un Paese arabo limitrofo alla Siria. Non conta dire quale, conta dire che abbiamo avuto molti colloqui, anche con le autorità musulmane. La grande questione umana di Idlib era ancora all’ordine del giorno, non si sapeva cosa sarebbe accaduto nelle ore seguenti”. “Lì, nella provincia siriana di Idlib, ci sono tre milioni di profughi, e il rischio di un intervento militare dell’esercito siriano era concreto, tutti sanno che sarebbe stata un’immane catastrofe umanitaria”, spiega Hind Aboud Kabawat. “Durante i nostri incontri notai che la questione di Idlib non veniva sollevata. Così non ho potuto trattenermi dal chiedere, ma il silenzio è rimasto tale. A quel punto ho detto: lo sapete che c’è una dichiarazione ufficiale di un’autorità religiosa al riguardo, Papa Francesco? Lui ha parlato così dei diritti umani di tre milioni di profughi che hanno trovato rifugio a Idlib. E ho letto quel testo per poi sottolineare che si tratta di tre milioni di musulmani e per quanto io ne sappia ne ha parlato solo lui, Papa Francesco”. Mentre aggiungeva che questo però i siriani lo sanno era impossibile non considerare che in quell’occasione il silenzio è stato rotto, da una donna. Siria. Ucciso Raed Fares, con la sua radio libera era la voce degli oppositori Corriere della Sera, 25 novembre 2018 L’attivista aveva sostenuto la rivoluzione Odiato da Assad e dall’Isis. Sospetti sui gruppi radicali. Alla morte di Robin Williams, Raed aveva scelto di ricordarlo con una frase pronunciata dall’attore in Aladdin: “Oh essere liberi. Una cosa del genere sarebbe più grande di tutta la magia”. Scritta in stampatello su uno dei cartelli che preparava ogni venerdì: dissenso su sfondo di cartone per denunciare al mondo le atrocità del regime siriano, per criticare la decisione di non decidere da parte di americani ed europei, per accusare i gruppi legati ad Al Qaeda di aver sequestrato la rivoluzione. Nessun Genio della lampada è apparso a realizzare le speranze di Raed Fares e degli altri come lui scesi in strada quasi otto anni fa per chiedere riforme, la fine degli abusi, per provare che cosa significhi smettere di aver paura. Raed è un altro dei morti che le Nazioni Unite hanno smesso di contare (ormai sarebbero oltre mezzo milione). È stato ammazzato mentre tornava a casa dalla moschea, l’ennesimo venerdì di protesta: i killer hanno trivellato l’auto, anche l’amico Hammoud al Juneid è morto. Di certo non poteva bastare la pistola che Raed si portava dietro. A spegnere la sua voce, a impedirgli di amplificarla attraverso il microfono della radio locale che aveva fondato, ci avevano già provato nel 2014, una sventagliata di 46 colpi, solo due l’avevano raggiunto al petto. La sua musica non piaceva ai fondamentalisti, le sue opinioni non piacevano al clan degli Assad. Dava fastidio a tutti. Quando gli americani avevano smesso di finanziare le trasmissioni, Raed si era messo a cercare fondi per nuovi progetti in favore degli studenti e delle donne, iniziative sacrileghe per gli estremisti. Che sembrano essere i responsabili più probabili dell’agguato. A Kafranbel, dov’era nato nel 1972 e dove ha lottato fino alla fine per quella libertà magica, da bambino aveva visto arrivare i profughi di altri massacri, in una tradizione del terrore passata di padre in figlio. Nelle campagne verso la Turchia erano scappati da Hama i sopravvissuti alla strage ordinata dal capostipite Hafez. Dalle prime manifestazioni pacifiche nel marzo del 2011, il villaggio e il resto della provincia di Idlib hanno accolto i rifugiati interni - così la burocrazia umanitaria chiama chi perde la casa a casa sua - in cerca di riparo dai raid del regime e dalla ferocia dei fondamentalisti. Adesso che Bashar Assad, sostenuto dai russi e dagli iraniani, ha ripreso il dominio in gran parte del Paese, questa zona resta una delle poche ancora controllate dagli insorti. Eppure - racconta un amico al New York Times - il funerale di Raed è stato solo mesto e malinconico, niente a che vedere con i cortei chiassosi e beffardi che organizzava lui: “Se n’è andato lo spirito della rivolta”. In “Rivoluzione siriana in 3 minuti”, uno dei suoi video più famosi, aveva chiesto agli abitanti di Kafranbel di vestirsi da cavernicoli: un gruppo usciva dalla grotta per protestare e ogni volta veniva trucidato dai soldati del regime. L’ultima didascalia era un appello al mondo: “Assad ha ucciso 150 mila persone, fermatelo”. Il filmato è del 2013. Assad è ancora al potere, Raed è morto. India. Chiuse 539 strutture di accoglienza per presunti abusi sui bambini La Stampa, 25 novembre 2018 Ben 539 strutture di accoglienza per bambini in difficoltà sono state chiuse in India su indicazione del dicastero per lo sviluppo della condizione delle donne e dell’infanzia, guidato dalla signora Maneka Gandhi. La maggior parte della case sigillate, 377, si trovavano in Maharastra, 78 in Andra Pradesh e 32 nel nuovo stato di Telangana. Tutti i bambini ospiti delle case dove si sospettava i piccoli fossero abusati, sono stati affidati alle cure di altre strutture. Le chiusure sono avvenute nelle scorse settimane e hanno fatto seguito a delle ispezioni condotte, a livello nazionale, dalla commissione per la protezione dei diritti dell’infanzia. I controlli erano partiti all’inizio del mese di agosto, dopo la scoperta di ripetuti abusi sessuali ai danni di bambine e bambine, in una casa di accoglienza a Muzaffarpur, in Bihar, e a Deoria, in Uttar Pradesh. Il ministro ha spiegato che la gran parte delle strutture che sono state chiuse non offrivano gli standard di vita richiesti, molte non rispondevano alle norme e altre non erano neppure registrate. Sempre su richiesta del ministero, tutti gli istituti esistenti dovranno ora registrarsi entro due mesi in una anagrafe nazionale per essere sottoposti a controlli. Già nel luglio scorso il governo indiano aveva ordinato l’ispezione di tutti gli orfanotrofi e le case di un istituto religioso a seguito di sospetti abusi su minori. In quell’occasione il ministro Maneka Gandhi aveva dato mandato ai governi di tutti gli stati di “ispezionare subito in tutto il paese ogni casa per la cura dei bambini”. Bahrain. Farsa elettorale all’ombra della repressione di Michele Giorgio Il Manifesto, 25 novembre 2018 “L’atteggiamento della comunità internazionale, Usa ed Europa in testa, offre alla monarchia bahranita l’impunità di cui ha bisogno per negare diritti umani e politici”, denuncia la nota attivista dei diritti umani Maryam al Khawaja. Si sono chiuse ieri alle 20 le urne in Bahrain. I media governativi e quelli delle altre monarchie del Golfo per tutto il giorno hanno raccontato il presunto “successo” della votazione per l’assegnazione dei 40 seggi della Camera bassa e per il rinnovo dei consigli municipali: alta affluenza ai seggi, il maggior numero di candidati (293) dal 2002, 50mila nuovi elettori e via dicendo. Hanno sorvolato sui dati fondamentali, ossia che le elezioni sono una farsa, il parlamento non ha alcun potere, i partiti di opposizione, lo sciita Wefaq e il socialista Waad, sono stati messi fuorilegge, nelle carceri languono circa 4000 detenuti politici, la libertà di stampa è inesistente e che un semplice tweet critico della politica di re Hamad bin Isa al Khalifa può costare cinque anni di carcere, come sta sperimentando sulla sua pelle il noto difensore dei diritti umani Nabeel Rajab. La monarchia del Bahrain, forte del silenzio-assenso di Stati uniti ed Ue, e del sostegno, militare ed economico, che riceve da Arabia saudita ed Emirati, fa ciò che crede ed è sempre più brutale, hanno denunciato venerdì tre centri per i diritti umani bahraniti e del Golfo, costretti a riunirsi a Beirut per sottrarsi a pesanti rappresaglie. Sulle elezioni e la repressione in Bahrain abbiamo intervistato Maryam al Khawaja, attivista di primo piano costretta all’esilio. Il voto, denuncia l’opposizione, è artificiale, privo di qualsiasi significato e rappresenta solo una copertura per un regime brutale... È così. La lotta del popolo del Bahrain parte da lontano. Anche prima del movimento popolare per le riforme del 2011 (represso nel sangue da re Hamad, ndr) i bahraniti si battevano per avere delle vere istituzioni democratiche e un parlamento vero. Ma non è cambiato nulla. La Camera bassa che uscirà da queste elezioni sarà priva di poteri. Manca inoltre un organo indipendente di controllo che vigili sul potere esecutivo. E se prima all’opposizione era garantita una rappresentanza simbolica, ora neanche quello, siamo in un clima politico persino più pericoloso e grave. I partiti dell’opposizione sono stati dichiarati illegali e i loro leader incarcerati, come Ali Salman (al Wefaq) condannato all’ergastolo. La libertà politica e quella di stampa sono inesistenti. Il mondo lascia piena libertà di azione alla monarchia al Khalifa, complice anche la presenza in questo piccolo arcipelago di basi militari americane e britanniche... Voglio essere esplicita. Gli Stati uniti, il Regno unito e l’Ue non solo non criticano l’assenza dell’opposizione dalle elezioni e si astengono dal condannare repressione e abusi. Offrono consapevolmente pieno appoggio alle politiche della monarchia che già gode dell’alleanza con l’Arabia saudita. Lei cita spesso il caso di suo padre per denunciare l’ipocrisia dell’Europa... Perché è emblematico. Mio padre, Abdulhadi al Khawaja (attivista dei diritti umani, arrestato nel 2011 e condannato all’ergastolo, ndr) oltre ad essere un bahranita è anche cittadino danese, quindi un europeo. Cosa ha fatto sino ad oggi l’Unione europea per proteggere questo suo cittadino imprigionato per aver denunciato crimini e per aver espresso il suo pensiero? Nulla. Eppure l’Europa afferma la volontà di proteggere i diritti umani. L’atteggiamento della comunità internazionale, Stati uniti ed Europa in testa, offre alla monarchia bahranita l’impunità di cui ha bisogno per proseguire la repressione. Fino a quando tutto questo potrà andare avanti... Fare previsioni non è facile ma posso dire che la situazione in Bahrain è molto instabile. La nostra economia sta crollando. La monarchia anni fa descriveva il Bahrain come un hub finanziario mentre ora è costretta a chiedere ingenti fondi ai sauditi per sopravvivere e la popolazione, soprattutto la nuova generazione, affronta crescenti difficoltà. Quando la negazione dei diritti fondamentali si accompagna alla crisi economica nessun regime può sopravvivere.