Perché i magistrati non si esprimono sulla vergogna delle carceri affollate? di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 24 novembre 2018 Alcuni (pochi) pensano che sarebbe salutare se i magistrati non si esprimessero pubblicamente in nessun modo su nessuna vicenda politica del Paese. Altri (tanti) ritengono al contrario che i magistrati ne abbiano invece tutto il diritto. E i tanti (tra i quali molti magistrati) che pensano in questo modo spiegano che prima di tutto i magistrati stessi sono cittadini, e i cittadini hanno il diritto di esprimere la propria opinione appunto sulle vicende politiche del Paese. Non considerano tuttavia, quei tanti, che i magistrati non sono affatto cittadini come tutti gli altri. I magistrati sono infatti uomini “armati”. Sono armati del potere di giudicare. Del potere di arrestare Paltrui libertà. Di determinare, interrompendolo o ostacolandolo, il corso della carriera umana e professionale delle persone. Sono armi in linea di principio necessarie, com’è necessario il fucile in dotazione al militare: ma sono armi. Che pongono il magistrato in una posizione molto diversa rispetto a quella in cui sta il cittadino per così dire comune. Si pensi a che cosa succederebbe se un manipolo di carabinieri occupasse un qualsiasi luogo dell’amministrazione pubblica per dichiarare davanti auna foresta di microfoni e operatori televisivi che un certo decreto non gli sta bene, istigando i cittadini a rivoltarsi contro una riforma sgradita. Succederebbe che tutti qualificherebbero quell’iniziativa come un tentativo di golpe. Pure, noi italiani una cosa in tutto simile l’abbiamo vista accadere, con un gruppo di giudici adunati a manifestare la loro ribellione davanti a ipotesi di riforma magari criticabili ma promananti dai legittimi poteri dello Stato. E che cos’è successo, invece? Non è successo niente. E a distanza di decenni le unità più attive di quel diverso manipolo (non militari, ma magistrati), rivendicano ancora quello scempio incontrando applausi incondizionati quando gridano di aver così rinfacciato all’ignobile legislatore la loro coscienza indignata. Ma mettiamoci pure dalla parte dei tanti i quali ritengono che questo diritto di intervento pubblico i magistrati ce l’abbiano, e dimentichiamoci dunque del fatto che in realtà questo diritto non potrebbe trovare ragione nell’appartenenza dei magistrati al rango dei comuni cittadini, proprio perché un uomo armato, per quanto necessariamente armato, non è uguale all’uomo inerme. Va bene. Mettiamoci da quella parte e dimentichiamoci di tutto questo. Ma allora perché è così raro che nell’esercizio di quel preteso diritto il magistrato militante nel dibattito pubblico si lasci andare a considerazioni sulle cose indecenti della giustizia italiana? Perché, nell’esercizio di quel presunto diritto, è così frequente che il magistrato in favore di telecamera si abbandoni alla denuncia del malcostume, della corruzione, dell’attentato alla sicurezza pubblica ed è invece tanto raro, anzi inedito, che egli quel diritto impugni per dire al pubblico che fatti incivili come le carceri sovraffollate, i suicidi in prigione, i bambini dietro le sbarre ripugnano alla sua coscienza non di magistrato, ma appunto di cittadino? Quel magistrato risponderebbe probabilmente che la colpa non è sua se le carceri sono sovrappiene (ma che siano piene anche di innocenti sarà pur colpa di qualcuno), e che non può rispondere lui di un sistema mal governato, dove si entra in galera per ammalarsi, per morirvi: tutte “pene” supplementari rispetto a quella già molto grave costituita dalla privazione della libertà. E d’accordo. Non è responsabilità sua. Ma visto che senza risparmio di tempo e con ottimo riscontro di pubblico parli, scrivi, rilasci interviste: ce lo fai capire una buona volta che cosa pensi, da cittadino, di questo sistema penale-carcerario indiscutibilmente vergognoso? Se dichiari su tutto e taci su questo, noi, tuoi colleghi cittadini, due conti ce li facciamo. E cioè che due volte sei diverso da noi: quando, togato, ci giudichi, e quando fai le mostre di metterti nei nostri panni. Sicurezza dei cittadini e pena carceraria camerepenali.it, 24 novembre 2018 L’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale esprime preoccupazione per alcune opzioni di politica sanzionatoria penale profilate nel “Contratto del Governo del cambiamento” e ora in corso di progressiva attuazione, rilevando l’opportunità che le legittime scelte politiche della maggioranza parlamentare tengano conto del quadro costituzionale e delle indicazioni provenienti dalle consolidate acquisizioni delle scienze penalistiche. In particolare, si auspica che il tema della sicurezza dei cittadini non sia affrontato esclusivamente, né prevalentemente, sul terreno della pena carceraria: le rilevazioni criminologiche mostrano infatti che il carcere, più di ogni altra tipologia sanzionatoria, genera recidiva, e mette quindi a repentaglio la sicurezza dei cittadini. Di qui l’esigenza di fare ricorso alla pena carceraria solo in quanto appaia assolutamente necessaria, per mancanza di altri strumenti sanzionatori in grado di rispondere altrettanto efficacemente a un determinato fenomeno criminale. Inoltre, nei limiti in cui il carcere appaia strumento indispensabile di tutela della collettività, si richiama l’attenzione sull’opportunità che in carcere siano previsti alcuni spazi per scelte responsabili del detenuto, così da creare condizioni di vita reclusa progressivamente sempre più prossime, nei limite del possibile, a quelle alle quali il condannato farà ritorno, una volta espiata la pena: di questa esigenza si dovrebbe tener conto, allorché si procedesse, come prospettato nel Contratto di Governo, a rivedere e modificare il protocollo della sorveglianza dinamica e del regime penitenziario aperto. Un fondamentale apporto alla reintegrazione sociale del condannato a pena carceraria, secondo quanto previsto dall’art. 27 co. 3 Cost., può venire inoltre da un equilibrato dosaggio tra flessibilità della pena in fase esecutiva e certezza dei criteri di adeguamento ai progressi compiuti dal condannato in un percorso di graduale ritorno alla società libera. Va sottolineato che i tassi di recidiva di chi ha scontato la pena, in tutto o in parte, nella forma di una misura alternativa al carcere sono di gran lunga inferiori a quelli che si registrano tra coloro che hanno scontato la pena per intero tra le mura carcerarie. Chi abbia a cuore la sicurezza dei cittadini e una vita sociale ordinata dovrebbe dunque guardarsi, a nostro avviso, dalla tentazione di demonizzare le misure alternative e in genere le pene non carcerarie: a dispetto di pregiudizi diffusi nell’opinione pubblica, meno carcere può significare più sicurezza per i cittadini. L’esigenza di fare ricorso a pene non carcerarie appare inoltre avvalorata dal fenomeno del sovraffollamento nelle carceri, che - messo temporaneamente sotto controllo, per effetto di una serie di interventi di riforma, tra il 2013 e il 2015 - torna ora a profilarsi a ritmi incalzanti: né una definitiva soluzione del problema potrà venire soltanto dalla costruzione di nuovi istituti penitenziari, secondo una strada già intrapresa senza successo nel recente passato. Quanto infine al regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis ord. penit., si segnala che i problemi prospettati da tale disciplina non possono esaurirsi in una ricerca di “effettivo rigore”, come si afferma nel Contratto di Governo, ma riguardano piuttosto la ridefinizione dei contenuti della misura alla luce di effettive esigenze di ordine e di sicurezza: le uniche, secondo quanto sottolineato di recente dalla Corte costituzionale, in grado di legittimare particolari restrizioni di libertà, oltre quanto previsto per la normale condizione del detenuto. Il Direttivo dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale “Le mancate cure anche al 41 bis sono inumane e degradanti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 novembre 2018 La mancata cura della salute di una persona reclusa al 41 bis è inumana e degradante. Ancora una volta la Cassazione si pronuncia sugli effetti del carcere duro accogliendo il ricorso di Pasquale Zagaria, esponente di rilevo del clan dei casalesi, che si era visto respingere dal magistrato di sorveglianza la richiesta di indennizzo per la detenzione inumana a causa della mancata fisioterapia. La sentenza è del 21 novembre numero 52526, dove la Cassazione ha ritenuto non inammissibile per genericità del motivo la riproposizione nell’atto di reclamo della domanda di ristoro del pregiudizio da detenzione inumana e degradante - causato dalla prolungata in attuazione di un presidio terapeutico necessario per la cura di una particolare patologia di cui è portatore il reclamante, respinta dal Magistrato di Sorveglianza. Cosa è accaduto? Con una ordinanza emessa in data 25 gennaio 2018, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha dichiarato inammissibile il reclamo del detenuto al regime del 41 bis. Il suo difensore ha quindi proposto ricorso per Cassazione evidenziando che nell’atto di reclamo non erano state articolate doglianze generiche, specie in riferimento alla mancata esecuzione dei cicli di fisioterapia ritenuti indispensabili per la patologia da cui il detenuto è affetto. La Cassazione, accettando il ricorso e rinviando il reclamo al tribunale di sorveglianza per un nuovo esame, ha sottolineato che il ricorso è ammissibile e va valutato nel merito “posto che il richiamo - evidenzia la Corte suprema, contenuto nella disposizione regolatrice, all’articolo 3 della Convenzione Europea, come interpretato dalla Cedu, implica la rilevanza del tema dell’offerta di prestazioni sanitarie adeguate”. La Cassazione ribadisce che “la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, può determinarsi in virtù di condotte di inosservanza - da parte dell’amministrazione penitenziaria - dei diritti fondamentali della persona umana, sottoposta al trattamento rieducativo, la cui individuazione ed il cui livello di gravità va apprezzato in concreto, come la stessa Cedu ha avuto modo, in più occasioni, di affermare”. La Cassazione fa riferimento ai contenuti della decisione della Grande Camera nel caso Labita contro Italia del 6 Aprile 2000, dove si è affermato questo: “La Corte ricorda che per rientrare nell’ambito dell’articolo 3, un maltrattamento deve raggiungere un minimo di gravità. La valutazione di questo minimo è relativa per definizione ; la stessa dipende dall’insieme dei dati relativi al caso, e in particolare la durata del trattamento, dai suoi aspetti fisici e mentali nonché, tavola, dal sesso, dall’età e dallo stato di salute della vittima”. Cosa significa? Il trattamento inumano e degradante non vale solo per il sovraffollamento, ma anche per questioni di mancate cure, compreso al 41 bis. Quindi la Cassazione richiama il tribunale di sorveglianza per formulare un nuovo giudizio, non solo da punto di vista procedurale, ma anche di “merito”. A proposito di salute al 41 bis, il 21 novembre è morto al carcere duro Calogerino Giambrone, 56 anni, presunto boss di Cammarata arrestato nella maxi operazione “Montagna” lo scorso 22 gennaio. Giambrone era detenuto al carcere di Rebibbia in regime di 41 bis e avrebbe avuto un malore, forse un aneurisma, che lo ha stroncato improvvisamente. Il personale della polizia penitenziaria in servizio alla casa circondariale capitolina ha tentato di soccorrerlo e trasportarlo in ospedale ma le sue condizioni erano troppo gravi e Giambrone è morto durante il tragitto. “Ministro giustizialista”. La battaglia degli avvocati e una riforma già in salita di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 novembre 2018 Duello con i magistrati in vista delle proposte di Bonafede. Incassato il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio (che da lunedì sarà all’esame del Senato insieme al resto del disegno di legge anticorruzione), il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si appresta a mettere mano alla riforma del processo penale. L’obiettivo è accelerarne i tempi, perché con questa promessa ha ottenuto il sì della Lega al famoso emendamento infilato di soppiatto ma a forza tra le norme “spazza corrotti” a Montecitorio. Una bandiera grillina da piantare vicino a quella del Decreto sicurezza sventolata dal Carroccio. Adesso però comincia un’altra partita, dal risultato tutt’altro che scontato. Perché ai conflitti interni alla maggioranza tra Lega e Cinque stelle, che in materia di giustizia sono sempre in agguato e probabilmente emergeranno anche di fronte a questa nuova prova, si aggiungono quelli tra magistrati e avvocati già esplicitati nei primi incontri che il Guardasigilli ha avuto separatamente con le due categorie. Il tempo a disposizione non è molto: in teoria entro un anno il Parlamento dovrebbe approvare una legge-delega e il governo metterla in atto, con modifiche al codice di procedura penale volte a garantire una più rapida celebrazione dei processi, per i quali dal 2020 la prescrizione non ci sarà più dopo la prima sentenza. L’intenzione del ministro è di convocare un tavolo congiunto da cui scaturiscano proposte comuni, magari attraverso una commissione ministeriale, da tradurre in un disegno di legge. Ma le prime avvisaglie sono di netto contrasto tra le proposte della magistratura e quelle dei penalisti. Se n’è avuta una riprova ieri, durante l’affollata e battagliera assemblea dell’Unione camere penali che ha concluso i quattro giorni di sciopero proclamati contro la riforma della prescrizione. Bersaglio principale: il ministro Bonafede, accusato di pressapochismo e inadeguatezza, in nome di un “populismo giustizialista” del tutto indifferente alle conseguenze provocate. “Quando gli abbiamo chiesto se potesse almeno prendere in considerazione le riserve avanzate unanimemente in Parlamento dal mondo accademico sulla nuova prescrizione, ci ha risposto che doveva adempiere a un mandato politico; questo è il livello dell’interlocuzione”, denuncia il neo-presidente dell’Unione, Gian Domenico Caiazza. Ma gli avvocati sono pronti a fare muro anche contro le proposte dell’Associazione nazionale magistrati. Nel timore che, nonostante le rassicurazioni del Guardasigilli, almeno alcune proposte trovino accoglimento. A quel punto - preso atto dell’irrilevanza parlamentare dell’opposizione di Pd e Forza Italia, che paradossalmente si ritrovano ora dallo stesso lato della barricata dopo un ventennio di accuse reciproche in materia di giustizia - ai difensori non resterebbe che confidare nelle resistenze della Lega. Da cui però si sono sentiti traditi dopo che il ministro-avvocato Giulia Bongiorno ha prima denunciato la “bomba atomica” lanciata sui processi attraverso il blocco della prescrizione, ma poi è rimasta silente di fronte all’innesco rimasto attivo. L’entrata in vigore è infatti fissata fra tredici mesi, senza alcuna “clausola di salvaguardia”. Per i penalisti è uno scandalo, secondo l’Anm va bene (sebbene loro lo proponessero solo a seguito delle prime condanne, mentre la modifica grillina include anche le assoluzioni), ma insieme ad altri interventi. Sui quali le divisioni si moltiplicano. I magistrati sono per l’abolizione del divieto di aggravare le pene in secondo grado se un imputato fa appello, in modo da evitare strategie dilatorie, novità che per gli avvocati sarebbe una minaccia ai diritti costituzionali. I magistrati vorrebbero poter salvare, dandoli per acquisiti, gli atti già svolti quando durante il processo cambia un giudice, senza dover ricominciare tutto daccapo, come accade ora; i difensori si oppongono perché questo significherebbe abolire il principio di formazione della prova davanti a chi deve emettere la sentenza, e ribattono: quando un giudice viene trasferito, prima di passare ad altro incarico dovrebbe avere l’obbligo di concludere i dibattimenti in corso. L’Anm suggerisce di estendere gli interrogatori a distanza, in videoconferenza, ma per gli avvocati si tratterebbe di una limitazione alla valutazione dell’attendibilità dei testimoni. E così via. Il confronto non è ancora cominciato, la contrapposizione sì. La giusta rivolta dei penalisti di Claudio Cerasa Il Foglio, 24 novembre 2018 La giustizia dei demagoghi è un’aggressione contro lo stato di diritto. Non sono solo gli avvocati penalisti (e molti magistrati) a bocciare la riforma della prescrizione proposta dal governo. Scende in campo anche l’Associazione italiana dei professori di Diritto penale (Aipdp), che in una nota di ieri ha espresso “forte preoccupazione per la gestione della “questione penale” nel suo complesso, nell’attuale situazione politica”. Già dieci giorni fa, durante le audizioni convocate in fretta e furia dalla commissione Giustizia della Camera, tutti i rappresentanti dell’accademia italiana avevano sottolineato gli effetti nefasti che l’abolizione-di fatto - della prescrizione dopo il primo grado di giudizio avrebbe sul sistema giudiziario. Una proposta che dall’Aipdp viene definita “pura propaganda”, perché priva di “qualsiasi rapporto con i problemi di oggi” e perché rischia “di avere un impatto distorsivo, se non devastante sul sistema”. Ma a finire nel mirino dei professori è l’intero insieme di politiche del governo in materia di giustizia, segnato dal trionfo del “populismo penale”, fatto di “messaggi volti a coagulare consensi, a soddisfare un “sentimento di giustizia” repressiva e vendicativa, e paure non sempre fondate su dati di realtà, spesso alimentate anche da una propaganda mirata”. Siamo, dunque, al “governo della paura”, basato su “un uso propagandistico (supportato dai mass media) del diritto punitivo, che minaccia di punire o di punire sempre di più, come se la minaccia di maggior pena di per sé significasse un rafforzamento della tutela”. Ne risultano riforme che aprono le porte a una “giustizia infinita, e ad impatto carcerario massimo”. “In questo avvio di legislatura - scrivono i professori di diritto penale - il segno dominante, tipico del populismo penale, sono leggi usate come messaggi volti a coagulare consensi, a soddisfare un sentimento di giustizia repressiva e vendicativa, e paure non sempre fondate su dati di realtà. È dunque con profondo senso di preoccupazione che esprimiamo il disagio per la riduzione dei problemi del penale a temi di propaganda, e per prospettate torsioni tanto punitive sulla carta, quanto controproducenti per una ragionevole costruzione e difesa di una legalità rispettosa dei diritti di tutti”. Ben detto. Processo senza fine, una barbarie di Federico Punzi Italia Oggi, 24 novembre 2018 Entrando in vigore nel 2020 si spera che venga ridiscusso. È stata approvata alla Camera la norma del disegno di legge cosiddetto anticorruzione che sospende il decorso della prescrizione dopo le sentenze di primo grado, sia di condanna che di assoluzione. Vero, a valere dal 2020. Quindi, se l’Ircocervo gialloverde esploderà per le sue contraddizioni interne ci sarà tutto il tempo per disinnescare questa vera e propria bomba posta alle fondamenta del nostro stato di diritto. Ma ciò non toglie che siamo seduti, appunto, su una bomba ad orologeria. Si tratta di una norma aberrante, una linea rossa da non oltrepassare. E il provvedimento in esame è purtroppo pieno di dispositivi diabolici, che, nell’intento di combattere la corruzione, rischiano, in realtà, di incoraggiare condotte volte a colpire amministratori e imprenditori onesti. Intervenendo in aula per rispondere alle critiche delle opposizioni, il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha in pratica teorizzato un diritto soggettivo dello Stato a esercitare sine die la sua azione punitiva: una risposta dal “sistema-giustizia”, quale che sia, deve arrivare, a prescindere da quanto tempo ci voglia e, quindi, costi quel che costi. Un teorema che però cozza palesemente con i principi del giusto processo, e in particolare con quello della sua ragionevole durata, con il diritto dell’imputato (e delle vittime) ad avere sì una “risposta”, ma in tempi certi, tali da non trascorrere alla sbarra, da innocente fi no a sentenza definitiva, gran parte della sua vita da adulto. Ammesso che dieci, quindici o vent’anni siano tempi accettabili per lo Stato, di certo non lo sono per un comune mortale… Un limite temporale all’esercizio dell’azione penale fa indissolubilmente parte delle garanzie a tutela dei cittadini dallo strapotere e dall’arbitrio del potere pubblico che distinguono un sistema di rule of law da un sistema autoritario. La sospensione della prescrizione lede i diritti del cittadino imputato anche facendo salire enormemente, e indefinitamente, i costi della difesa, ma rischia di compromettere anche l’efficacia della stessa azione penale, dal momento che nemmeno lo Stato può, in realtà, permettersi di comportarsi come se le risorse a sua disposizione fossero infinite, di inseguire “la verità” come se non ci fosse un domani che lo chiama a un’analisi costi-benefici. Solo chi ingenuamente crede in una sorta di trascendenza dello Stato può illudersi che possa ingannare il trascorrere del tempo. Anche la settimana scorsa non si è conclusa nel migliore dei modi per la nostra giustizia. Abbiamo ascoltato un consigliere togato del Csm, l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, rivendicare tranquillamente in tv di aver usato il carcere, o meglio come dice lui la scarcerazione, per far parlare la gente… e dichiarare che quello di primo grado è “il vero e unico giudizio che conta”, mentre l’appello è spesso un modo per perdere tempo. Insomma, ancora una volta i fondamenti dello stato di diritto calpestati da chi dovrebbe rappresentarli e difenderli. Eppure, a giudicare dal silenzio del presidente Mattarella (sempre puntuale nei suoi richiami a difesa dei principi costituzionali) non dev’esserci nulla di inquietante nelle apparizioni televisive di Davigo - prima da presidente della seconda sezione della Corte di cassazione e oggi da consigliere togato del Csm (organo che il presidente della Repubblica peraltro presiede…). E no, stavolta non si può dare la colpa agli elettori rozzi e ignoranti che hanno mandato in Parlamento e al governo un manipolo di incapaci e/o fascisti… Davigo al Csm lo hanno eletto i suoi colleghi magistrati, in teoria i “competenti” e gli “esperti” del settore della giustizia. Poi arriva il vicepresidente del Csm, appena eletto, David Ermini (avvocato, deputato e responsabile giustizia del Pd, renziano doc, quello che dovrebbe in qualche modo fare da argine ai Bonafede e ai Davigo) e ci dice che il ruolo politico della magistratura è “inevitabile”, non dovrebbe “né stupirci né scandalizzarci”, insomma nulla che possa “generare allarme democratico”. “Si parla spesso, a proposito di questa spinta propulsiva della magistratura verso i diritti, di “supplenza giudiziaria”, e vi si ravvisano rischi e criticità”, prosegue nel suo ragionamento. “L’eccessiva politicizzazione della giustizia sfilaccerebbe in qualche modo la trama del tessuto democratico. Forse mai come in questi tempi, l’ordine giudiziario è investito di grande responsabilità sociale, proprio per il crescente rilievo della giustizia nella vita collettiva, in buona parte specchio della crisi di legittimazione della politica, che ha chiamato i magistrati a far fronte a inedite aspettative ampliando gli spazi di discrezionalità”. Ma com’è possibile che in Italia, culla del diritto, dove l’istituto della prescrizione risale addirittura al diritto romano, tali concezioni giustizialiste e illiberali trovino posto ai vertici di Via Arenula e di Palazzo dei Marescialli? Il populismo del Movimento 5 Stelle viene da molto lontano. Viene dagli istinti peggiori degli italiani solleticati dalla sinistra per opporsi ai governi Berlusconi. Viene da Mani Pulite e dai suoi metodi discutibili, ma all’epoca indiscussi, su cui in troppi hanno preferito chiudere entrambi gli occhi. E da ancora più lontano, dalla “superiorità morale” berlingueriana, che ancora oggi è la rovina del Pd, e dai miti della sinistra post-sessantottina. Una cosa giusta, infatti, l’altro giorno alla Camera, il ministro Bonafede l’ha detta, e cioè che le posizioni del Pd sulla prescrizione, solo pochi anni fa, non erano così distanti da quelle messe nero su bianco nel ddl anticorruzione. Il populismo grillino è uscito dal vaso di Pandora scoperchiato dalla sinistra per combattere i suoi avversari. Il giustizialismo; la demonizzazione dell’avversario politico, corrotto e disonesto a prescindere, quasi “antropologicamente”; la delegittimazione dell’autorità a tutti i livelli, dalle istituzioni (quando a rappresentarla ci sono gli altri, naturalmente) alle cattedre, degenerata in una generalizzata perdita di credibilità e autorevolezza di qualsiasi cosa o chiunque venga percepito come “il sistema”; la retorica pauperista, l’invidia sociale e l’atteggiamento anti-impresa; l’ambientalismo che sconfina nel “no” a tutto, che si tratti di infrastrutture o fonti energetiche. Sono tutti ingredienti oggi più o meno presenti nel minestrone post-ideologico del Movimento 5 Stelle. Le stesse mistificazioni con le quali la sinistra nei decenni scorsi ha avvelenato il clima politico e il dibattito pubblico pur di abbattere il nemico di turno. Il piccolo problema è che al contrario dei loro “cattivi maestri”, questi qui ci credono per davvero. Colpevoli fino a prova contraria di Daniele Meloni Italia Oggi, 24 novembre 2018 Per Davigo tutti i pubblici dipendenti “sono soltanto dei colpevoli non ancora scoperti”. In molti non lo ricorderanno, d’altronde sono passati oltre vent’anni, ma c’è stato un periodo nella nostra storia in cui i magistrati erano acclamati per le strade quasi quanto Roberto Baggio a Usa 1994, e parlavano alla nazione interrompendo le trasmissioni televisive per leggere i loro comunicati stampa. Se Di Pietro era indubbiamente la vedette di quello che è passato alla storia come il “Pool di Mani Pulite”, Piercamillo Davigo rimane il magistrato più legato a quei tempi. Tempi che, alas, non ci hanno mai lasciato. È bastata la proposta di abolizione della prescrizione da parte del Movimento 5 Stelle per rivederlo in tv, a spiegare con passione e tenacia perché la prescrizione va riformata (giusto), e come va riformata (non come vuole lui). La sua tesi, non più comunicata in diretta unificata come quando era tra gli oppositori al Decreto Biondi, è che la prescrizione dovrebbe essere abolita perché è uno strumento nelle mani della difesa per allungare i processi e non arrivare alle condanne dei colpevoli. Il processo d’appello (secondo l’homo davigus) sarebbe un di più che il nostro sistema accusatorio regala agli imputati condannati in primo grado di giudizio, che, parole sue, “è il vero e unico giudizio che conta”. Detto che perfino Milena Gabanelli (non certo l’avvocato Ghedini) sul Corriere ha dimostrato che oltre il 60% dei processi finisce in prescrizione per le lungaggini nella fase di indagini preliminari, stupisce come un uomo di legge possa non solo dire, ma anche pensare una cosa simile. La nostra Costituzione prevede tre gradi di giudizio, e nel 50% dei casi le sentenze di primo grado vengono ribaltate in appello, a testimonianza di quanto serve il secondo grado di giudizio. Ma non è finita qui. In passato Davigo (che qualcuno avrebbe voluto ministro della giustizia) ha dichiarato che “nella pubblica amministrazione non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti”. Innocente fi no a prova contraria? Macché, colpevole fino a che uno non dimostra la propria innocenza. Un’idea molto lontana dal costituzionalismo e dall’effettiva somministrazione della giustizia nelle democrazie liberali. In tutte le sue esibizioni televisive Davigo (uno dei magistrati italiani più apprezzati, ascoltati e conosciuti anche in seno all’Anm) dà l’idea di considerare la difesa degli imputati un inutile orpello sulla via della Dea giustizia, un ostacolo insormontabile nel dovere del pm di fare emergere il vero. Fa niente se questo vero non coincida con la verità processuale: il pm ha sempre ragione. L’altra sera in televisione Bruno Vespa lo ha canzonato sostenendo che lui sul comodino tiene sempre pronte le manette per andare a caccia di nuovi colpevoli. Davvero un peccato essere trattati così, ma frasi come “il borseggio è meno grave di una corruzione perché quanti soldi potrebbe avere una vecchietta nel portafogli” non sono del livello che ci si aspetta da un ex presidente dell’Anm. La legge già punisce i reati in modo diverso. Non serve fare la conta di quanti soldi ci sono nei portafogli degli scippati. Il suo ultimo libro, scritto a quattro mani con Gherardo Colombo (altro alfiere del pool) si intitola “La tua giustizia non è uguale alla mia”. La tesi è che il giustizialismo davighiano sia lontano da quello radical sinistrorso di Colombo. Ma nella scontro tra gli opposti emerge in realtà una grande convergenza verso il giustizialismo, una magistratura che non deve solo applicare la legge ma fare opere di “igiene morale”, un’esaltazione delle pur sacrosante inchieste di Tangentopoli, in cui sono stati fatti tanti errori. Eccome se sono stati fatti. Venticinque anni dopo la Grande Terreur e dopo il giacobinismo delle monetine e degli schiavettoni ai polsi, è tornato di moda il giustizialismo. L’homo davigus vive e lotta in mezzo a noi. Si salvi chi può. Dl sicurezza blindata, i ribelli M5S ritirano gli emendamenti di Giuliano Santoro Il Manifesto, 24 novembre 2018 Lunedì il voto di fiducia, resta qualche malumore grillino. Fuori dal palazzo militanti bloccati e denunciati. Sequestrato lo striscione con la scritta “Cambiate il decreto”. Mentre la maggioranza chiude i giochi, fuori dal palazzo centinaia di persone protestano contro il decreto Salvini su sicurezza e migranti. La manifestazione si svolge a Roma in piazza San Silvestro. Ci sono i migranti e l’Arci, Link e i movimenti per la casa, la comunità curda e i volontari di Baobab. Scendono in piazza insieme: “Non siamo invisibili ma indivisibili”, dicono riecheggiando lo slogan della manifestazione antirazzista di appena due settimane fa. Alcuni tentano di arrivare a Montecitorio ma vengono bloccati e denunciati per manifestazione non autorizzata. Viene sequestrato lo striscione con la scritta “Cambiate il decreto”. Ma di cambiare il decreto non c’è speranza: ancora una volta la maggioranza si trincera e il M5S gira la testa di fronte a proteste e pressioni dalla base. Lo stesso Luigi Di Maio l’aveva detto, in mezzo alle crepe che si aprivano in maggioranza doveva trionfare la realpolitik: “Il testo non può tornare in seconda lettura al senato, non possiamo proprio permettercelo”. Così, in mattinata in commissione affari costituzionali si apprende che i grillini hanno deciso di ritirare i loro emendamenti. “È l’esito degli accordi presi dai vertici”, gongola soddisfatto il leghista Gianluca Vinci nel mezzo dei lavori. Il Pd abbandona la discussione per protestare contro i tempi ristretti. “Eravamo disposti a lavorare anche sabato e domenica ma non c’è nulla da fare, paghiamo le divisioni interne alla maggioranza”, spiega Stefano Ceccanti. Il presidente della commissione è il grillino Giuseppe Brescia, che pure si era detto poco convinto delle misure previste dal decreto. Circola qualche voce dissonante. “Sono delusa - si rammarica la deputata Doriana Sarli, che figura tra quelli che avevano richiesto delle modifiche. Questo decreto resta indigeribile. Non è questo che auspicavo entrando alla camera”. Il testo arriverà in aula lunedì, il governo porrà la questione di fiducia. Sarli insiste: “Devo riflettere non sulla fiducia all’esecutivo ma sul decreto. Votare e sostenere qualcosa che non condividi e sulla quale nessuno ha potuto neanche fare dei ragionevoli emendamenti non è facile”. “Adesso faremo di tutto perché sia legge entro il 3 dicembre”, annuncia Salvini. Dopo le, relative, tribolazioni al senato, dove il dissenso tra i 5 Stelle si era concretizzato nella presa di parola di appena cinque eletti (su un gruppo di 109), quando il testo era arrivato alla camera si era appreso dell’esistenza di una lettera di protesta con la firma di 19 deputati grillini, presto divenuti 18. Dalla questione specifica (pochi dissensi su sicurezza e giro di vite repressivo, qualche dubbio sui migranti) si ponevano problemi generali sulla mancanza di democrazia dentro il gruppo parlamentare. Chiedevano maggiore condivisione delle scelte ma non hanno voluto essere bollati come “dissidenti”, tanto che appena dai vertici li si era messi di fronte all’esigenza di rispettare gli accordi di governo avevano ritirato tutto. Di Maio aveva incassato il dietrofront e li aveva liquidati, un po’ sprezzante: “Si tratta solo di un atto di testimonianza, non c’è nessuna modifica in vista”. Qualcuno dei 5 Stelle in commissione però aveva deciso ugualmente di dar seguito alle richieste dei colleghi: di emendamenti ne erano spuntati quattro. Proponevano che si ampliasse la protezione speciale per alcune fattispecie di migranti e che si rivedesse la parte sugli Sprar. Modifiche scomparse assieme al quinto emendamento, anch’esso ritirato, che si occupava di beni confiscati e che era stato firmato da una decine di deputati del M5S, tra di essi la presidente della commissione giustizia Giulia Sarti. Mentre la camera chiude i battenti per il fine settimana qualcuno dà alle fiamme una piccola ruspa di plastica. Il piccolo moto interno alla maggioranza si è fermato presto. Resta, inascoltata, la protesta della piazza. Così il Consiglio di Stato ha “commissariato” il Csm di Antonella Mascali e Antonio Massari Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2018 I giudici amministrativi ordinano al vicepresidente Ermini di dare attuazione alle decisioni che “correggono “ le investiture dei magistrati. E lui obbedisce. Il 18 ottobre era giunta l’accusa di “slealtà”, vergata dal Consiglio di Stato, per la nomina del presidente del Tribunale di Verona. Il 7 settembre 2016 il Csm, all’unanimità, nomina Antonella Magaraggia e il suo concorrente Salvatore Laganà ricorre al Tar, che annulla la nomina per difetto di motivazione. Csm e ministero della Giustizia prima ricorrono al Consiglio di Stato, quindi rinunciano, annunciando che rispetteranno la sentenza del Tar. Salvo poi riproporre Magaraggia. “Il comportamento processuale del Csm e del ministero - scriverà il Consiglio di Stato - è risultato improntato a slealtà”. Questo accade con la vecchia consiliatura. Al nuovo Csm, pochi giorni dopo, una botta ancora più pesante. Il Consiglio di Stato, per far applicare la sua sentenza che accoglie il ricorso del magistrato Sergio Del Core e annulla le delibere del Csm sulla nomina di quattro magistrati (Marcello Iacobellis, Stefano Palla, Piero Savani e Aldo Cavallo) a presidente di Sezione della Cassazione, nei fatti esautora l’intero Csm. Dispone che il vicepresidente David Ermini, nominato Commissario ad acta, faccia rispettare la sentenza “indipendentemente dal Csm”. In altre parole: gli ordina di ottemperare. È il 24 ottobre scorso quando la Quinta sezione del Consiglio di Stato, presieduta da Giuseppe Severini, sottolinea la “insistita illegittimità ed elusività” dell’operato del Csm. E incarica Ermini di procedere, entro 15 giorni, alle nomine dei presidenti di Sezione della Cassazione, in sostituzione del Csm. Viene “designato, e in via diretta, quale Commissario ad acta l’attuale vicepresidente del Csm, senza facoltà di sub-delega”. Il motivo: “Va escluso che questa nuova attività possa essere attribuita all’organo di autogoverno nel suo complesso, cui si imputa l’atto di cui al presente giudizio”. Parole durissime. “In uno Stato di diritto - prosegue la sentenza - il primato del diritto accertato mediante sentenze passate in giudicato, vincola ogni amministrazione pubblica, quali che ne siano le caratteristiche o le prerogative”. Il Csm non può e non deve fare eccezione: vincola “anche l’attività di un organo di governo autonomo della magistratura. Diversamente, le posizioni dei singoli magistrati nei suoi confronti si convertirebbero in una pratica soggezione senza effettive tutele di giustizia rispetto alla sua ribadita volontà, in negazione reale del principio di legalità e del diritto al giudice: che per Costituzione spetta al magistrato non meno che al cittadino comune”. Nessuno, quindi, neanche il Csm, può sentirsi al di sopra di una sentenza. E quindi impone a Ermini di farla rispettare evitando qualsiasi altro passaggio in seno all’organo di autogoverno dei magistrati. Ed Ermini obbedisce. Il Csm questa volta ha dovuto capitolare. L’esautorazione da qualsiasi ulteriore ruolo nella vicenda, l’impossibilità di intervenire ulteriormente, sancisce la gravità della situazione. Il Csm non ha volontariamente cambiato rotta, in questo caso, ma è stato letteralmente costretto a eseguire, tanto più dopo l’accusa di “slealtà” incassata pochi giorni prima. Appena ha letto d’essere stato nominato Commissario ad acta, Ermini ha cercato di comprendere la storia di questo caso, terminato con l’ordine “tassativo” di ottemperare. S’è consultato con l’ufficio studi, s’è fatto spiegare l’intera vicenda, a cominciare dalla prima puntata, lontana nel tempo. Ermini ascolta, chiede lumi su questioni di diritto amministrativo perché non è uno specialista in materia (è un avvocato penalista) e poi si decide a fare quel che gli viene ordinato dalla sentenza. Si chiude da solo nel suo ufficio - in qualità di Commissario ad acta, si badi, e non di vicepresidente del Csm - ed esegue: compara Del Core con gli altri quattro candidati e gli dà ragione. Così come stabilito dai giudici amministrativi. Aveva 15 giorni di tempo. Se ne prende tre. Del Core - su ordine del Consiglio di Stato che nei fatti ha commissariato il Csm - può finalmente andare a fare il presidente di sezione. Magra consolazione. Andrà in pensione nel febbraio del 2019. Ma il suo caso diventa un precedente importantissimo. Un’altra intimazione, risulta al Fatto, era partita dal Consiglio di Stato con vicepresidente Giovanni Legnini. Sempre per lo stesso caso l’aveva nominato Commissario ad acta, ma Legnini non diede seguito a quella pronuncia perché, nel frattempo, Quinta commissione e plenum avevano riconfermato la loro decisione con una nuova delibera. Si spiegano così gli ultimi paletti del Consiglio di Stato fissati in maniera invalicabile. Così a Ermini non resta che eseguire. E anche in fretta. Per il giudice italiano a Strasburgo i diritti umani restano un optional di Lorenzo Vendemiale Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2018 L’Italia avrà presto un giudice alla Corte europea dei diritti umani (Cedu), anche se magari non così esperto di diritti umani. La scelta ricadrà tra Ida Caracciolo (Università della Campania, favorita), Antonio Balsamo (ex sostituto procuratore in Cassazione) e Raffaele Sabato (giudice di Cassazione). È la stessa, identica terna che la Presidenza del Consiglio aveva bocciato a inizio settembre, chiedendo spiegazioni alla commissione. Un mese dopo sono cadute le riserve, non i dubbi sulla procedura di scelta. Eppure per la prima volta il governo aveva deciso di bandire una selezione pubblica in nome della trasparenza. L’iter prevede che il Consiglio europeo scelga il giudice all’interno di una short list presentata dall’Italia: l’elezione finale, tra gennaio e febbraio, sembra però viziata a monte. La commissione si è riunita solo due volte in estate per esaminare oltre 60 candidature: senza colloqui e senza motivazioni, ha fornito i suoi nomi a Palazzo Chigi. Un po’ pochino. Infatti è arrivato lo stop dell’esecutivo, che ha chiesto “approfondimenti”. Altre due sedute a settembre sono state sufficienti a sbloccare lo stallo, ma i verbali svelano come è avvenuta davvero la selezione. Il grosso dei partecipanti (52 su 63) è stato scartato subito perché senza requisiti. Il problema è sorto quando si è passati all’esame dei migliori: Vladimiro Zagrebelsky - fratello del costituzionalista Gustavo, il membro più autorevole della commissione in quanto ex membro Cedu - riteneva che la richiesta di Palazzo Chigi costituisse “un fatto nuovo e importante”, e che fossero necessari colloqui almeno con i candidati più forti. Ma è passata la linea per cui la commissione deve solo spiegare le scelte già fatte. Anche sulle motivazioni c’è stato da ridire: i requisiti essenziali erano le lingue, la conoscenza del diritto internazionale e nazionale e ovviamente dei diritti umani. Alla fine, però, è stato decisiva l’esperienza giudiziale di tipo pratico, nemmeno prevista. Qui la commissione si è spaccata: Zagrebelsky ha sottolineato che così si sottovalutava il “cruciale criterio” dei diritti umani su cui almeno due esclusi avevano “maggiore e autorevole specifica competenza, che invece è scarsamente documentata dai candidati proposti”. Insomma, a quanto pare, non hanno vinto i migliori. Almeno non nella materia su cui saranno chiamati a giudicare. E forse c’è già una favorita: se l’attività giudiziale è determinante, Ida Caracciolo della Cedu ha già fatto parte come membro (suppletivo) sul caso Berlusconi (per il ricorso in Europa contro la legge Severino). Il ministero degli Affari esteri, che della commissione ha indicato due membri su cinque, con lei ha diverse collaborazioni e sarebbe di sicuro felice della sua nomina. Sempre che il Consiglio europeo sia d’accordo: Strasburgo deve scegliere fra i tre nomi, ma può anche rispedirli al mittente se dovesse ritenere irregolare la selezione. Per l’Italia sarebbe una figuraccia internazionale. Veneto: Progetto Esodo, report su inclusione socio-lavorativa di detenuti ed ex-detenuti caritasitaliana.it, 24 novembre 2018 Esodo è un progetto che promuove e sostiene percorsi lavorativi e di reinclusione sociale dedicato a detenuti, ex detenuti, e persone con esecuzione penale esterna. È nato nel 2011 dall’incontro e volontà dalle Caritas di Verona, Vicenza e Belluno con il sostegno dalla Fondazione Cariverona, e in collaborazione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto. Dopo 7 anni di attività, la Fondazione, per valutarne l’incidenza d’impatto sociale ed economico, ha commissionato una ricerca avvalendosi di ImpACT, il metodo promosso da Euricse. Questi i numeri raccolti: 25 enti coinvolti, 41 strutture in cui sono erogati servizi, 1.176 azioni mirate per detenuti, soggetti in esecuzione penale esterna ed ex detenuti, 174 utenti inseriti al lavoro, 18.213 ore di lavoro retribuito e 15.931 ore di volontariato censite in un solo anno - il 2016 - da tutte le organizzazioni partner per accompagnare i singoli progetti. Poi una ricaduta non solo economica e occupazionale (per i beneficiari così come per chi ci lavora) ma anche emotiva: autostima e fiducia verso il futuro sono i sentimenti maggiormente diffusi tra gli utenti intervistati. I risultati sono stati presentati a tutti gli stakeholder giovedì 22 novembre presso il seminario vescovile di Verona. Sardegna: cavillo burocratico limita accesso a misure alternative in comunità terapeutiche di Alessandro Congia sardegnalive.net, 24 novembre 2018 Molti detenuti non possono accedere a misure alternative non essendo “inseriti nelle anagrafi comunali”. “Le amministrazioni comunali devono farsi carico dei cittadini privati della libertà che lasciano il carcere per accedere a una misura alternativa, come nel caso di una Comunità terapeutica. Senza l’iscrizione anagrafica persone che vivono una condizione di disagio e fragilità dentro un Penitenziario non possono usufruire del sostegno finanziario previsto per le strutture sociosanitarie convenzionate che le accolgono. Insomma un cavillo burocratico sta limitando l’accesso alle misure alternative e sta mettendo diverse strutture riabilitative e terapeutiche in gravi difficoltà”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso che molti detenuti non possono accedere a misure alternative non essendo “inseriti nelle anagrafi comunali”. “La normativa vigente - ricorda Caligaris - prevede che i cittadini privati della libertà, eccezion fatta per coloro che sono in attesa di giudizio, ottengano la residenza anagrafica nel Comune dove è ubicato il Penitenziario. In questo modo possono fruire in modo diretto dei servizi e delle prestazioni sanitarie. Quando però lasciano la struttura penitenziaria, in assenza dell’iscrizione d’ufficio nel Comune di residenza da cui provenivano prima della perdita della libertà diventano “soggetti senza fissa dimora” privi quindi di quegli accrediti di carattere amministrativo-territoriale indispensabili per l’erogazione delle rette di mantenimento da parte dell’ATS. Nonostante l’Azienda unica infatti sono in pratica le Aziende Sanitarie Locali ad accreditare la spesa sulla base di quanto disposto dai singoli servizi territoriali”. “La problematica costituisce un grave limite alla possibilità dei detenuti sardi di accedere alle strutture sociosanitarie nonostante la Magistratura di Sorveglianza autorizzi la fruizione della misura alternativa. È quindi necessario che il Ministero degli Interni o quello degli Enti Locali emani una circolare esplicativa sul ripristino della residenza anagrafica originaria dei detenuti in misura alternativa per evitare che ricada sulle singole amministrazioni locali l’onere di farsi carico di atti che, in assenza di chiare indicazioni, possano avere risvolti negativi per i titolari dei servizi. Del resto appare paradossale che un cittadino a cui è riconosciuto un diritto non possa usufruirne - conclude la presidente di SDR - per un cavillo burocratico”. Sulla problematica Giovanna Grillo, direttrice dell’associazione “Casa Emmaus” in località San Lorenzo di Iglesias, ha chiesto chiarimenti alla responsabile dell’Ufficio Anagrafe del Ministero dell’Interno. Roma: detenuto nella Rems di Palombara Sabina si butta dal 6° piano, è gravissimo Corriere della Sera, 24 novembre 2018 I carabinieri indagano a Palombara Sabina sul caso di un detenuto psichiatrico di 52 anni che ieri mattina si è lanciato dal 6° piano dell’ospedale cittadino in piazzale Salvo D’Acquisto dopo aver aperto una porta-finestra nella REMS “Reparto Minerva”. Il detenuto è stato trasferito al Policlinico Gemelli dove si trova in condizioni disperate. Catanzaro: protocollo d’intesa con la Casa circondariale per la cura degli spazi verdi provincia.catanzaro.it, 24 novembre 2018 Recuperare il decoro degli spazi pubblici e delle aree verdi del Parco della Biodiversità Mediterranea anche grazie al lavoro dei detenuti della casa circondariale di Catanzaro. È stato questo l’oggetto dell’incontro tra il vicepresidente della Provincia Antonio Montuoro e la direttrice del carcere Angela Paravati, che hanno tracciato le linee di massima di un protocollo d’intesa che disciplinerà l’attività lavorativa dei detenuti all’interno del parco. Di concerto con il presidente Abramo e con il presidente onorario Michele Traversa, Montuoro ha parlato di “progetto socialmente utile, che testimonia la massima attenzione che si ha nei riguardi del grande polmone verde della città”. “Lo svolgimento di attività che mirano alla protezione dell’ambiente e vengono svolte in favore della collettività - ha proseguito Montuoro, è sicuramente un segnale positivo da cui questi giovani possono ripartire e rappresenta un impegno sano e costante che potrà colorare le loro giornate”. “Questo protocollo servirà anche a rinsaldare l’intesa con l’Amministrazione penitenziaria - ha spiegato ancora il vicepresidente, convinto che il principio della leale collaborazione inter-istituzionale sia alla base di tutti i risultati positivi conquistati nei diversi campi. Nello specifico, l’idea condivisa oggi con la dottoressa Paravati offre ai detenuti la possibilità di imparare un mestiere, di contribuire alla cura del bene pubblico e di riabilitarsi socialmente”. La convenzione con l’Amministrazione penitenziaria si andrà ad aggiungere a quella già siglata tra la Provincia di Catanzaro e il Consorzio di bonifica guidato da Grazioso Manno, che mira a garantire un presidio fisso all’interno del parco volto ad assicurare la salvaguardia dell’area che si estende per una superficie di circa 50 ettari. Nel corso dell’incontro, al quale hanno anche partecipato il presidente della prima commissione Fernando Sinopoli e il dirigente del settore Politiche ambientali Rosetta Alberto, si è inoltre discusso della volontà di dare risonanza alle opere create dai detenuti durante le loro attività di recupero. Nel periodo natalizio, infatti, sarà allestita, nei locali adiacenti al Musmi, una mostra di presepi artistici interamente curata dagli ospiti della casa circondariale catanzarese. “Ci tengo a ringraziare - ha concluso Montuoro - il neoprovveditore regionale della Calabria dell’Amministrazione penitenziaria, Massimo Parisi, con il quale ho avuto modo, nei giorni scorsi, di condividere idee e progetti interessanti che non mancheremo di realizzare. Voglio, inoltre, ringraziare la direttrice Paravati che, sostenuta da una straordinaria competenza, riesce a far vivere il carcere certamente come il luogo dov’è giusto che sia scontata la pena, ma, allo stesso tempo, come un’occasione di recupero e di reinserimento nella società”. Firenze: scrittori in carcere, così i detenuti evadono con le parole Redattore Sociale, 24 novembre 2018 Al via il prossimo 15 gennaio il corso di scrittura creativa nel carcere fiorentino di Sollicciano. Nel penitenziario scrittori e artisti come Simona Baldanzi, Giulia Caminito, Paolo Hendel. Al via, il prossimo 15 gennaio, “Scrittura d’evasione”, il corso di scrittura creativa promosso e organizzato da Arci Firenze, ideato e condotto dalla scrittrice Monica Sarsini. Un progetto di animazione sociale e culturale che, negli anni, ha portato scrittori, giornalisti, documentaristi, nelle aule della scuola carceraria di Sollicciano, offrendo alle persone detenute e a tutti i partecipanti, un’occasione unica per aprirsi all’ascolto e al racconto di sé e del mondo. Ventuno incontri che alterneranno lezioni frontali e laboratori in cui si lavorerà sui testi elaborati dai partecipanti, incontri con scrittori, attori e docenti universitari, per offrire ai partecipanti una grande opportunità di conoscenza, formazione e crescita: uno strumento prezioso per imparare ad ascoltare se stessi e gli altri, per poi raccontare e raccontarsi. Tra i nomi degli ospiti di questa edizione, oltre ai ritorni dell’editrice Roberta Mazzanti e della linguista Augusta Brettoni che, nel corso delle tre edizioni, hanno affiancato Sarsini, anche quello dell’attore e comico fiorentino Paolo Hendel, delle scrittrici Simona Baldanzi e Giulia Caminito e dell’antropologa Maria Gloria Roselli. Un corso, quello di “scrittura d’evasione”, su cui il Comitato fiorentino di Arci punta ormai da anni, proprio per la sua capacità di coniugare inclusione, umanità, solidarietà, cultura e partecipazione su cui l’Associazione si fonda. Un’opportunità straordinaria per imparare a comprendere se stessi e gli altri, ponendosi domande e cercando nella creatività e nella cultura gli strumenti per rispondere. Il progetto vede il sostegno di alcuni docenti del Cpia (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti) e dell’Istituto di Istruzione Superiore Sassetti Peruzzi, che fanno parte della Scuola Carceraria. Come nelle passate edizioni, l’emittente fiorentina Novaradio di cui Arci Firenze è editore, trasmetterà estratti dai racconti. L’Aquila: assegnato Premio letterario “Laudomia Bonanni”, sezione riservata ai detenuti di Loredana Lombardo abruzzoweb.it, 24 novembre 2018 “Non sento di stare in un carcere, ma in una scuola di poesia. Questa è per me un’esperienza molto forte, queste persone sono qui private della propria libertà, ma il mondo globalizzato in cui viviamo alla fine non è sempre una grande prigione?”. Queste le parole del poeta cinese Yang Lian, ospite d’onore oggi all’Aquila per la diciassettesima edizione del Premio intitolato a Laudomia Bonanni, la celebre scrittrice aquilana scomparsa nel 2002, per la sezione dedicata ai componimenti dei detenuti degli Istituti di pena di tutta Italia, che si è tenuto presso la Casa circondariale di Preturo. Nel carcere attualmente ci sono 20 detenuti per reati definiti “comuni” e 160 persone in regime di massima sicurezza. Il primo premio della sezione è andato a un detenuto del carcere Opera di Milano, con la poesia “Da dove nasce l’amicizia”. Secondo classificato, con una poesia sulla speranza, Giovanbattista Della Chiave, originario di Marsala (Trapani) e detenuto anch’egli nel carcere Opera di Milano, dove c’è un laboratorio di scrittura molto seguito; terza classificata, una detenuta nel carcere di Genova, Monica Risli, che non ha partecipato alla premiazione ma che ha mandato i suoi saluti, con la poesia “Amen”. Presenti all’evento anche gli studenti del quinto anno del Liceo scientifico delle Scienze applicate “Andrea Bafile” e del liceo Classico “Cotugno” dell’Aquila. In giuria, la docente dell’Università degli Studi dell’Aquila Liliana Biondi, l’onorevole del Partito democratico Stefania Pezzopane e la poetessa aquilana Anna Maria Giancarli; quest’ultima, insieme alla Pezzopane e al notaio Antonio Battaglia, fondò il premio nel 2002, voluto dall’allora Carispaq, di cui Battaglia fu direttore, e oggi sotto l’egida della Bper. “Mi hanno commosso i testi che hanno vinto, ho capito questo discorso di quando si chiude questa porta e si viene tagliati fuori dal mondo esterno”, le parole di Lian, considerato nel suo Paese “il più grande poeta del mondo vivente”, che ha parlato della poesia come “forma di esilio” citando alcuni tra i grandi della nostra cultura come Ovidio e Dante. Un esilio che il poeta ha realmente vissuto sulla propria pelle, dopo aver viaggiato a lungo in Asia e in Europa, perché critico testimone dei tragici fatti di Piazza Tienanmen. Le denunce di quei sanguinosi avvenimenti gli valsero la “scomunica” del regime Comunista, fu dichiarato persona non gradita e per questo decise di abbandonare la Cina per sempre. Da allora Lian vive in esilio a Londra ed è stato vincitore, tra le altre cose, del Premio Flaiano nel 1999. “Spero per i detenuti scrivere, mettere i versi le proprie emozioni possa essere da supporto importante - ha aggiunto - la prigione un posto estremo dove comprendere la libertà e la poesia è qualcosa di estremo per comprendere un posto come la prigione. Scrivere in versi cerca sempre di spiegare qual è il sogno della libertà”. “Abbiamo un sacco di porte dentro di noi, nella nostra mente e nel nostro corpo. La poesia apre tutte le serrature e ci consente di essere davvero noi stessi, è incontro tra diverse culture, un momento di aggregazione importante che rappresenta lo strato profondo di ogni lingua, di ogni storia delle popolazione”, ha concluso il poeta. “Mi emoziona leggere questi scritti in cui queste persone, private della libertà tirano fuori emozioni, nostalgia, voglia di sognare. Di anno in anno gli elaborati sono sempre più ricchi, segno che nelle carceri sono seguiti e stimolati. Vengono fuori tutte le sensazioni come genitori, come uomini”, il commento di Liliana Biondi. “Oggi vogliamo far incontrare cuori, testi e parole e dobbiamo cercare di vivere un momento speciale all’insegna della che Incontra studenti e gli ospiti della casa circondariale. Questi uomini vivono una privazione della libertà, conseguenza di errori ma comunque una limitazione. Voglio ringraziare tutti i presenti, gli operatori della struttura, che svolgono un impegno gravoso e faticoso”, ha detto la Pezzopane. “Negli anni abbiamo creato questa possibilità anche a chi privato della libertà di partecipare al premio. Un momento di bellissime emozioni, attimi di poesia sentiti e di espressione forte dei sentimenti che ogni ci colpiscono”, il pensiero di Raffaele Marola. “Ho sempre cercato di inondare la mia città con la poesia che reputo essere una delle forme d’arte più nobile e pura. Nella condizione di detenuto la poesia svolge un ruolo sociale importante, dona a questi uomini in qualche modo da le ali e si vede dal contenuto di questi scritti bellissimi. Nelle loro parole leggiamo la volontà di riscatto, il pentimento sentito per quello che li ha portati alla reclusione”, ha dichiarato Anna Maria Giancarli. Era presente anche il nuovo direttore del penitenziario, Barbara Lentini che ha definito la premiazione, “un momento emozionante in cui si sono incontrate poesia e detenuti. Queste persone hanno tanto da dire e per noi è importante ascoltare e riflettere”. A conclusione della proclamazione dei vincitori è stata letta anche una poesia di Lian dedicata all’Aquila e “Speranza di vita” dal giovane detenuto James, che ha parlato di pensieri positivi nella sua lingua del suo Paese, la Nigeria. Anche il giovane Yocu, di origini africane come James, ha voluto declamare i versi della sua poesia dal titolo “W la pace abbasso la guerra”. Nuoro: detenuti, vittime e famiglie a confronto in parrocchia di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 24 novembre 2018 Tre giorni di laboratori nella Settimana internazionale della giustizia riparativa Don Borrotzu, coop Ut unum sint: “Un’esperienza da costruire insieme”. “Partiremo come sempre dalla vittima, dalle vittime, alle quali non può bastare la condanna e le pene inflitte a chi ha procurato il loro dolore”. Don Pietro Borrotzu ha aperto così, ieri pomeriggio, il programma di incontri “Giustizia riparativa: riannodare i fili tra vittima, reo, comunità”. Tre giorni di eventi organizzati in occasione della Settimana internazionale della giustizia riparativa dalla Cooperativa sociale Ut unum sint, di cui don Borrotzu è presidente. “È necessario curare uno spazio in cui il dolore abbia cittadinanza, esca dall’intimo segreto dell’individuo, per diventare domanda, grido, confronto ed essere così energia positiva per il colpevole e per la società” va avanti il sacerdote a capo della popolosa parrocchia Beata Maria Gabriella. “Anche l’autore del reato - sottolinea - è atteso da un impegno di protagonismo positivo. Il rimorso può segnare definitivamente l’esistenza, ma non serve a nessuno”. Da qui l’incontro e il confronto, nella struttura di via Biasi, tra detenuti (di Badu e Carros) e vittime, familiari, studenti delle scuole superiori, volontari e vari rappresentanti della comunità nuorese. Diretto dallo stesso don Borrotzu, il programma vede impegnati anche suor Annalisa Garofalo, assistente sociale; Marina Fancello, volontaria dell’associazione Ut Unum Sint; e Sandra Cincotti, educatrice della Casa circondariale di Badu e Carros. Ieri l’accoglienza dei protagonisti; oggi l’avvio dei laboratori e gruppi di lavoro. Attesa per domani mattina la relazione di Ernesto Lodi, psicologo e psicoterapeuta, professore dell’università degli studi di Sassari. “Il reo può anche trascorrere tutta la vita in carcere come punizione per l’atto criminoso e per la tranquillità e la sicurezza della società - spiega ancora don Borrotzu -, ma questo non risolve il danno provocato dal reato. Piuttosto è necessario riconoscere la propria responsabilità a intraprendere un percorso di riparazione. In questo quadro di riferimento la stessa società può essere destinataria delle concrete azioni riparative. La sfida vera per la comunità consisterà nel convincersi che la riabilitazione del reo contribuisce a rendere la società più sicura. Questo nuovo appuntamento, che realizziamo proprio nella Settimana internazionale della giustizia riparativa, più che un pacchetto già confezionato, vuole essere un’esperienza da costruire insieme, mettendoci in gioco tutti, in questo percorso: le vittime, i detenuti, i loro familiari, la società civile, con un gruppo di studenti delle scuole superiori e altri cittadini. Lo abbiamo pensato - chiude - come un laboratorio, in cui sarà possibile soprattutto vedere, con molto realismo, le difficoltà del reinserimento del detenuto nella sua famiglia e nella società, sfidata nella sua capacità di includere anche i suoi figli perduti”. Avezzano (Aq): Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne Ristretti Orizzonti, 24 novembre 2018 La Direzione della C.C. a Custodia Attenuata di Avezzano ha programmato, come per gli anni precedenti, un evento nella giornata del 26 novembre prossimo volto alla sensibilizzazione contro la violenza sulle donne. L’iniziativa - rivolta alla popolazione detenuta e al personale dipendente nonché alle scolaresche appositamente invitate - prevede una breve rappresentazione teatrale tematica svolta dagli studenti del Liceo Scientifico 1/Vitruvio Pollione” di Avezzano ed interventi di sensibilizzazione condotti da professori di scuola secondaria superiore locale. L’iniziativa sarà coadiuvata da figure del volontariato specializzato in psicologia, che orienteranno il dibattito finale assieme ai Funzionari della Professionalità Pedagogico Giuridica di questa Casa Circondariale a Custodia Attenuata. Tutto lo staff della C.C. a Custodia Attenuata di Avezzano Palermo, Orlando: “I detenuti dell’Ucciardone realizzino il carro di S. Rosalia” Dire, 24 novembre 2018 L’idea è stata lanciata dal sindaco, Leoluca Orlando, nel corso della conferenza stampa convocata per tracciare un bilancio del festival “Le Vie dei Tesori”. Il carro di Santa Rosalia, patrona della città di Palermo, protagonista del Festino di luglio, realizzato dai detenuti del carcere Ucciardone. L’idea è stata lanciata dal sindaco, Leoluca Orlando, nel corso della conferenza stampa convocata per tracciare un bilancio del festival Le Vie dei Tesori, che ha portato 265mila visitatori nei 130 siti del capoluogo siciliano. Tra i siti inediti di quest’anno proprio l’antico carcere palermitano. “Saranno i detenuti dell’Ucciardone a realizzare il prossimo carro del Festino - ha affermato -. Ucciardone è Palermo e Palermo è l’Ucciardone - ancora Orlando -. Qui dentro c’è tutto il bene e tutto il male di questa città. Ma accanto alla severità della pena, è giusta l’umanizzazione: questa scelta di apertura dello spazio e di coinvolgimento dei detenuti, va in questo senso. Palermo - ha aggiunto - può essere guardata solo con gli occhi di un insetto, attraverso un caleidoscopio: la città ha talmente tanti aspetti diversi, che una sola visita non basta, bisogna tornare. Per questo, chiusa Palermo capitale della cultura, partirà Palermo Culture”. In conferenza stampa anche l’assessore alla Cultura, Andrea Cusumano: “Le Vie dei Tesori sono una delle punte di diamante della crescita di Palermo - ha spiegato -. I numeri raccontano un’impennata straordinaria. Sei milioni di passeggeri transitati dall’aeroporto nel 2018 quantificati in 80 milioni di indotto, soprattutto in mesi destagionalizzati. Le Vie dei Tesori è stato il pioniere perché ha messo insieme ciò che abbiamo con ciò che progettiamo”. “Le Vie dei Tesori è un’industria culturale a tutti gli effetti, che cammina sulle gambe di 500 volontari e di 900 ragazzi dell’Alternanza Scuola Lavoro - spiega Laura Anello, presidente de Le Vie dei Tesori Onlus . Dotata di un portale cui attingere per scoprire e approfondire la storia delle città, i racconti inediti, i luoghi, i segreti. Un format che ci richiedono, già 22 comuni vorrebbero aderire il prossimo anno e dovremo scegliere”. Foggia: grandi applausi in carcere per il comico Mino Abbacuccio statoquotidiano.it, 24 novembre 2018 Titì conquista i detenuti del carcere di Foggia. Buona la prima per la rassegna di Cabaret organizzata nell’Istituto Penitenziario dall’Agenzia “ADManagement One” di Antonio Detoma. “Sono felice che questo pomeriggio abbiate sorriso. Il sorriso ci fa andare avanti nei momenti difficili, transitori. Dobbiamo essere forti. Facciamo un applauso a chi ci ha permesso di trascorrere questo tempo insieme, dalla Direzione della Casa Circondariale di Foggia alla Polizia Penitenziaria, all’Area Educativa. Un ringraziamento speciale va ad Antonio Detoma, che ha voluto fortemente che venissi qui”. È stato un pomeriggio diverso quello trascorso ieri dai detenuti del carcere di Foggia, all’insegna della spensieratezza e delle risate. l merito è stato di Mino Abbacuccio, in arte Titì, comico napoletano tra i più apprezzati del palco di “Made in Sud”. Sornione, scanzonato, con un debole per il passaggio dalla risata piena a quella riflessiva e un po’ amara, ha subito conquistato tutti i detenuti. “Non avevo dubbi - sottolinea Antonio Detoma dell’Agenzia ADManagement One - organizziamo spettacoli nell’Istituto Penitenziario di Foggia da circa 10 anni e il riscontro è sempre positivo. Quando si avvicinano le festività natalizie non perdiamo l’occasione di organizzare iniziative gratuite, con l’obiettivo di portare un sorriso nei contesti più dolorosi. Una volta, qualche anno fa, un detenuto mi venne a stringere la mano e mi disse che la cosa più importate - al di là dello spettacolo - era stato scoprire che qualcuno si fosse ricordato di loro anche nei giorni di Natale. E ciò ripaga di tutti gli sforzi”. Lo spettacolo con Mino Abbacuccio, cui ha assistito anche il CSV Foggia, è soltanto il primo di una lunga serie: agli inizi di dicembre calcherà il palco di Via Le Casermette Ciro Giustiniani, celebre per l’interpretazione de Il Boss delle cerimonie in “Made in Sud”. Poi arriveranno i personaggi della sitcom “Mudù”. “Vorrei anche organizzare qualcosa di diverso - rivela Detoma - che possa creare un momento di gioia familiare per i detenuti, da condividere con i loro bambini”. “Accolgo sempre con piacere queste iniziative di volontariato - evidenzia il direttore della Casa Circondariale di Foggia, Mariella Affatato - anche perché riescono a portare un po’ di tranquillità in un momento di sovraffollamento, difficile per tutti. Questo spettacolo rientra negli appuntamenti organizzati in vista delle festività natalizie, periodo in cui le condizioni psicologiche della popolazione detenuta peggiorano, a causa dell’accentuato senso di solitudine. Ce ne saranno altre, anche grazie alla collaborazione delle realtà del territorio. È bello poter registrare questo tipo di partecipazione, dopo anni in cui gli Istituti Penitenziari sono stati poco visibili”. Il prossimo appuntamento è in programma il 3 dicembre con Ciro Giustiniani: le risate sono assicurate. Violenza sulle donne, i dati Istat: “In 49mila si sono rivolte a Centri” La Repubblica, 24 novembre 2018 Accuse dall’Europa: l’Italia fa troppo poco per evitare i femminicidi: scarsa preparazione, interventi a macchia di leopardo. Domani a Roma manifestazione nazionale Non una di meno “contro la violenza di genere, il decreto Pillon e chi vuol cambiare la legge sull’aborto”. L’Italia fa troppo poco per combattere i femminicidi e la violenza sulle donne. Lo hanno detto gli esperti di Grovio (Group of Experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence) ad EstremeConseguenze.it. Grovio, l’ Organismo del Consiglio d’Europa che monitora in ogni paese l’applicazione della Convenzione di Istanbul, sta preparando un rapporto sul nostro paese su questi temi. Mancano più di 5mila posti letto per chi fugge dalle mura domestiche, teatro dell’80% dei maltrattamenti; i fondi pubblici sono scarsi e utilizzati male. Di quelli disponibili ne sono stati spesi solo lo 0.02%. Scarsa preparazione e formazione sul fenomeno della violenza di forze dell’ordine e personale socio-sanitario, interventi di prevenzione e protezione sui territori a macchia di leopardo, così solo il 7% degli stupri viene denunciato. Una situazione impietosa - spiega Marcella Pirrone, avvocato della rete dei centri antiviolenza Dire che ha contribuito alla stesura delle 60 pagine del report ombra - c’è un vuoto che riguarda azioni concrete su tutto il territorio italiano. Entro marzo prepareremo un resoconto finale da trasmettere in Consiglio d’Europa. Queste sono morti annunciate. Ci sono situazioni drammatiche in regioni come le Marche dove non ci sono case rifugio. Molte vittime hanno ancora paura di denunciare, non sanno se saranno protette e se troveranno protezione per sé ed eventualmente per i propri figli in caso di violenza domestica”. I minori che assistono alle violenze sono presenti secondo l’Istat in 4 casi su 100. Come i nipotini di Renato, il nonno che,l’altro giorno è andato alla Camera a parlare durante il convegno organizzato dalla vice presidente Carfagna in vista della giornata mondiale contro i femminicidi. giorno in cui è stata lanciata la campagna: “non è normale che sia normale”. La figlia di Renato è stata uccisa, sgozzata dal marito sotto gli occhi dei bambini che ora hanno bisogno di continuo supporto psicologico, aspettano il buio con timore, perche al tramonto è stata uccisa la loro mamma, temono che il padre esca dal carcere e gli uccida anche se i nonni che se ne occupano hanno cambiato città in attesa ancora dell’aiuto previsto dallo stato per aiutare le vittime del femminicidio e gli orfani di padri violenti. Le donne che si sono rivolte ai Centri antiviolenza nel 2017 sono 49.152, di queste 29.227 hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza. Il 26,9% delle donne che si rivolgono ai centri sono straniere e il 63,7% ha figli, minorenni in più del 70% dei casi. Sono i dati raccolti dall’Istat che per la prima volta ha svolto l’indagine sui servizi offerti dai Centri antiviolenza, in collaborazione con il Dipartimento per le Pari opportunità le regioni e il Consiglio nazionale della ricerca. L’Osservatorio Pari Opportunità e Politiche di Genere dell’Auser aderisce alla manifestazione di domani indetta dal movimento Non Una Di Meno. “È molto difficile misurare la violenza, perché quella contro le donne (e contro le donne anziane, sottostimata e sottovalutata) è ancora una violenza sommersa e taciuta”. Da gennaio a ottobre sono state oltre 70 le donne uccise per mano di chi diceva di “amarle”. Da gennaio a fine luglio sono state 1.646 le italiane e 595 le straniere che hanno presentato denuncia per stupro. L’Istat stima che siano 1 milione 404mila le donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro da parte di un collega o del datore di lavoro. Incalcolabili gli episodi di sessismo, che permeano la vita delle donne: obbligare una donna a cambiare strada perché davanti a quel bar le dicono battute oscene, subire apprezzamenti non graditi sul proprio corpo o su come è vestita, la scelta delle aziende di assumere più uomini che donne, il divario salariale tra uomo e donna, l’incessante prova delle donne per dimostrare la propria competenza e professionalità, il carico del lavoro di cura che pesa quasi totalmente sulle donne, le immagini pubblicitarie che schiacciano le donne in ruoli stereotipati, spesso umilianti”. Migranti. La piega autoritaria dei paesi che mettono sotto accusa le Ong Il Manifesto, 24 novembre 2018 La procura di Catania - una città martoriata dai rifiuti e dall’illegalità - si scaglia contro le Ong e attacca pesantemente, con accuse gravissime, Medici Senza Frontiere che ha salvato 2.100 persone dall’inizio dell’anno in corso. Una Ong insignita del Nansen Refugee Award dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unire, stimata in tutto il mondo, con progetti umanitari in 70 paesi, con medici volontari nelle aree di guerra dove scappano tutte le agenzie internazionali blasonate. Una iniziativa grave, giocata sempre con il pretesto-strumento della legalità. Ogni attacco giudiziario si traduce in attacco mediatico, instilla dubbi nella nell’opinione pubblica e tra gli stessi sostenitori delle Ong: ogni attacco della magistratura si traduce in una netta riduzione delle donazioni. E siccome, a partire da MSF, la stragrande maggioranza delle Ong che operano per salvare vite umane, nel mare o nelle zone di guerra, vive di contributi essenzialmente privati, questi attacchi producono una drastica riduzione delle loro risorse finanziarie e, quindi, della possibilità di operare, di salvare vite umane. Purtroppo, non si tratta di un caso isolato. In tutto il mondo da molti anni è iniziato un attacco sistematico alle Organizzazioni non governative che si occupano di diritti umani, che producono informazione indipendente, che non sono controllabili dal potere politico. Nei regimi dittatoriali è la norma. Se ne possono citare una infinità di casi. Ma ciò che preoccupa è che anche nelle cosiddette democrazie liberali si sta andando verso questa direzione. Anzi, la repressione delle Ong è il primo segnale dell’involuzione di un sistema politico. L’abbiamo visto in Eritrea, quando il leader marxista-maoista Afeworky andando al potere nel 1992, dopo i primi anni di apertura alle organizzazioni umanitarie, cominciò verso la fine degli anni ‘90 ad espellere progressivamente tutte le Ong mentre faceva spazio alle imprese multinazionali. Non diversamente accade in Turchia, dove si sta verificando un processo simile, già consolidato e sperimentato con successo nella Russia di Putin. Rispettiamo l’autonomia della magistratura, ma non possiamo tacere di fronte ai risvolti politici gravi e disumani che assumono certe iniziative, prese, peraltro, in aree del Paese dove una criminalità pervasiva ed endemica dovrebbe rendere prezioso il tempo di lavoro dei magistrati. Non possiamo tacere di fronte al fatto, inaccettabile, secondo cui, in nome di una presunta legalità, i migranti dovrebbero affogare nel Mediterraneo o morire nei lager libici. Ci permettiamo di segnalare a tutte le istituzioni democratiche, alle associazioni private come l’Anpi, a tutte le organizzazioni che difendono la Costituzione, ma anche alle forze politiche, gli effetti devastanti che la criminalizzazione delle Ong ha sulla possibilità di salvare vite umane. Non possiamo restare in silenzio. Chi soccorrerà i disperati mentre il governo della Repubblica chiude i porti? Sottoscrivono: Tonino Perna, Piero Bevilacqua, Salvatore Settis, Tomaso Montanari, Battista Sangineto, Enzo Scandurra, Enzo Paolini, Laura Marchetti, Giancarlo Consonni, Ignazio Masulli, Giorgio Nebbia, Vittorio Boarini, Roberto Budini Gattai, Francesco Santopolo, Franco Blandi, Piero Di Siena, Cristina Lavinio, Simonetta del Bianco, Massimo Baldacci, Alessando Bianchi, Franco Trane, Piero Caprari, Luisa Marchini, Graziella Tonon,Franco Novelli, Armando Vitale, Alfonso Gambardella, Virginia Ginevra Rossano Pazzagli, Mario Fiorentini, Franco Toscani, Maria Pia Guermandi, Anna Angelucci, Giuseppe Aragno, Lucinia Speciale, Francesco Pardi, Rossella Latempa, Giuseppe Saponaro. Dall’inchiesta sulle Ong emergono invece i crimini e le torture ai migranti in Libia di Francesco Floris Redattore Sociale, 24 novembre 2018 Nell’ambito dell’inchiesta che accusa le ong Medici senza frontiere e Sos Mediterranée di aver messo in pericolo la salute pubblica la polizia di Catania mette insieme decine di casi di torture. La prova che i migranti soccorsi nel Mediterraneo sono vittime di trattamenti inumani in Libia si trova dentro le carte dell’inchiesta giudiziaria di Catania sulle ong Medici senza frontiere e Sos Mediterranée. Perché a Tajoura, “è in atto una campagna contro scabbia e pidocchi” dopo l’importante afflusso di 400 detenuti. Dentro al centro per migranti di Tarek al Matar “due latrine traboccanti per 900 uomini” e “gravi preoccupazioni per le condizioni di vita dei detenuti”. A Qasir Bin Ghasir “le persone vengono prese per il lavoro forzato e non ritornano. Un gruppo di 100 sudanesi (Darfur) è lì da mesi senza alcuna registrazione”. Ancora: “Nel salvataggio del 17 gennaio, durante la notte la clinica è stata riempita con pazienti disidratati a causa del vomito continuo”. È proprio nei meandri dell’inchiesta “Borderless”, con cui la Procura di Catania ha chiesto e ottenuto il sequestro preventivo della nave Aquarius e di 460 mila euro complessivi che, secondo l’accusa, sono stati “risparmiati” dalle ong Medici senza frontiere e Sos Mediterranée smaltendo illecitamente i rifiuti prodotti durante i salvataggi in mare, che emergono elementi dei trattamenti degradati subiti dai migranti in Libia. La polizia giudiziaria di Catania mette insieme decine di casi di torture, malattie, infezioni, punture, fratture riportate dai migranti, basandosi su report, documenti e testimonianze della stessa Medici senza frontiere. Lo fa per dare forza a una delle tesi che emerge dal quadro accusatorio: che le ong avrebbero messo in pericolo la salute pubblica in Italia, durante gli sbarchi nei porti italiani, smaltendo e conferendo vestiti e rifiuti alimentari potenzialmente infetti. A proposito di quattro diversi centri di detenzione per migranti in Libia si legge: “Gli standard minimi generali per le latrine, la doccia, l’accesso all’acqua e lo spazio sono accettabili per Anjila e Qasir Bin Ghasir ma sicuramente non per Tajoura e Tarek al Matar”. E poi le storie personali di malati e torturati, raccolte da pagina 30 a 39 della Cnr (Comunicazione Notizia di Reato) con cui lo Sco di Polizia di Stato, la Squadra Mobile di Catania e i due nuclei Scico e Npef di Guardia di Finanza comunicano ai sostituti procuratori Andrea Bonomo e Alfio Gabriele Fragalà gli elementi d’indagine raccolti a partire da luglio 2017. “Incremento dei casi di tubercolosi diagnosticati a dicembre (7 nuovi casi) la maggior parte provenienti dalla stessa cella” recita un altro passaggio. “Delle cose hanno iniziato a crescere sui nostri corpi, scoppiando, non abbiamo riconosciuto o compreso cosa fossero. C’erano insetti e ragni su tutti i nostri vestiti che continuavamo a toglierci di dosso” racconta Falasteen, migrante palestinese di 27 anni proveniente da Gaza e salvato il 18 ottobre 2017 dalla nave Aquarius. “Arrivammo in un magazzino-deposito vicino a Zerbo. In questo luogo c’erano già presenti 2000 persone. Immagina 2000 persone in 500 metri di spazio chiuso e bagni in cui nessuno poteva entrare. Gaza è mille, anzi un milione di volte meglio”. Una galleria di immagini crude che ben rappresentano cosa vuol dire essere detenuti oggi in Libia: “28 anni, maschio, proveniente dalla Nigeria. Tosse da molti anni - prosegue la disamina di polizia che per sostenere una tesi utilizza documenti e testimonianze degli stessi ‘umanitarì indagati -: perdita di peso ed emottisi”. “Consegna di un bambino su una barca di legno, madre e figlio (ancora attaccati) trasferiti all’Aquarius e consegna della placenta a bordo”. “Maschio, 21 anni, proveniente dal Mali con 5 giorni di diarrea acquosa e febbre non cruenta”. “18 anni, maschio, con dolori bilaterali alle gambe, mani e braccia da un mese. Sospetto portatore sano di malattia Chikungunya”. “Maschio 18 anni, proveniente dal Mali con ascesso nell’inguine sinistro che causa sepsi”. “Maschio 26 anni dalla Somalia con pus drenante di massa del collo destro - ha bisogno di esplorazione chirurgica, antibiotici e considerazione della tubercolosi nodale”. C’è chi soffre di “malattia psicotica acuta”, chi presenta “molteplici vesciche orali e riduzione dell’assunzione orale che porta alla disidratazione e debolezza”. Qualcun altro ha fratture, altri sospetta tubercolosi e vengono messi in isolamento anche sulle navi di salvataggio. Vengono da mezza Africa: Mali, Sudan, Nigeria, Eritrea, Etiopia, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Somalia. In pochissimi hanno più di 40 anni e ciò di cui soffrono non se lo sono portati dalla nazione di origine ma se lo sono procurati nei centri di detenzione in Libia. Quelli dove vengono riportati quando a salvarli in mezzo al Mediterraneo non sono le ong, la Guardia costiera italiana, la Marina militare o i dispositivi europei (operazioni “Sophia” e missioni di Frontex) ma la Guardia costiera libica. Addestrata e equipaggiata dall’Italia e dall’Europa. Yemen. “Non arriviamo sui barconi, perciò siamo invisibili” di Marinella Correggia Il Manifesto, 24 novembre 2018 Mentre ad Hodeidah gli Houthi accoglievano l’Onu e davano il loro via libera al dialogo, a Roma Med 2018 si è parlato del paese dimenticato e degli interessi globali intorno alla guerra. “Dal mio paese non arrivano in Europa barconi di fuggitivi. Ecco forse perché è a lungo mancata la volontà di risolvere questa guerra che, secondo me, è stata il prezzo pagato per l’accordo con l’Iran. In cambio del quale l’allora presidente statunitense Barack Obama ha dato il via libera in Yemen ai sauditi, storici alleati”. È molto polemico l’analista yemenita Farea al Muslimi, relatore ieri a uno degli eventi di Rome Med 2018 - Dialoghi mediterranei, organizzato dalla Farnesina e dall’Ispi. Tra poche settimane si aprirà in Svezia un nuovo negoziato sulla peggiore catastrofe umanitaria di questi anni: ieri l’inviato Onu Griffiths era nella città di Hodeidah dove ha ottenuto dai ribelli Houthi il sì al piano delle Nazioni Unite. Da fine marzo 2015 una coalizione a guida saudita ed emiratina bombarda indiscriminatamente il paese, in appoggio al governo del presidente yemenita Abd Rabbo Mansour Hadi, considerato legittimo dalla “comunità internazionale” (ma alle elezioni era stato candidato unico e le sue funzioni dovevano essere a interim), contro gli Houthi che Riyadh considera longa manus di Tehran. Hodeidah continua a essere bombardata dalla coalizione e se il suo porto smettesse di funzionare, avvertono le agenzie dell’Onu, lo Yemen non riceverebbe più né gli aiuti sanitari e medici né il combustibile necessario a estrarre acqua vitale da pozzi profondissimi. Comunque, l’omicidio del giornalista saudita Jamal Kashoggi (a suo tempo sostenitore delle bombe sullo Yemen) sembra aver attirato l’interesse anche sulla povera repubblica yemenita. Antonia Calvo-Puerta, capo delegazione della Ue per lo Yemen, ha spiegato nel corso dell’incontro romano la complessità della frammentazione interna al paese precisando però che “se finissero le interferenze esterne, il conflitto interno sarebbe risolto in pochi mesi”. Nei negoziati, “la strategia europea prevede di parlare con tutti. È stato un grande errore non parlare con gli Houthi, sono in una fase di disponibilità a compromessi ma chiedono garanzie e osservatori per essere certi di non subire un genocidio”. Mentre l’Italia continua a fare il pesce in barile, la Danimarca ha appena sospeso future approvazioni di esportazioni militari a Riyadh; forse un indizio, tra gli altri, della “consapevolezza da parte di certi paesi europei che fra qualche tempo potrebbero incorrere in seri problemi. Sono in ballo crimini di guerra”, ha fatto osservare Calvo-Puerta. Sottolineando che “questa guerra è un colpo terribile all’immagine” per quelli che chiama comunque “i nostri alleati nella regione”: sauditi e soci. Il caso Pakistan, le radici antiche di una malattia oscura di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 24 novembre 2018 Una malattia strutturale, organica al Paese, che lo rende potenzialmente più pericoloso dello stesso Afghanistan. La malattia del Pakistan ha radici antiche. Sono composte da traumi che risalgono alla sua nascita drammatica con la decolonizzazione britannica e la guerra civile tra musulmani e indù, causa della sanguinosa scissione dall’India nel 1947. Un Paese che aveva una classe dirigente formata dal meglio delle università inglesi, ma una popolazione povera, con un tasso di scolarizzazione infimo, plasmata dagli imam nelle mosche e madrasse, cresciuta col mito della perdita del Kashmir, tenuta insieme dal fervore religioso misto al patriottismo revanscista. Di questa malattia dobbiamo tenere conto se vogliamo comprendere la persecuzione dei cristiani locali, assieme a quella degli sciiti e di tutte le minoranze che non si adeguano alla maggioranza musulmana sunnita. La via crucis di Asia Bibi ne è soltanto una delle tante manifestazioni: non sarà l’ultima. Se ne rese conto George Bush quando chiese a Pervez Musharraf di cooperare nella guerra contro Al Qaeda. Era vero che Osama Bin Laden si nascondeva nella roccaforte trincerata di Tora Bora, ma i mentori spirituali e le basi logistiche dei suoi mujaheddin stavano nelle scuole religiose di Peshawar, tra i paesini irraggiungibili nelle “zone tribali” pakistane, nella vallata di Swat. Soprattutto, i potenti e intoccabili servizi segreti militari di Islamabad restavano alleati fedeli della jihad nella guerra contro l’India. E Daniel Pearl, il primo giornalista occidentale decapitato in diretta di fronte ad una telecamera, era stato rapito nel 2002 tra i meandri poverissimi del disastro urbano di Karachi, non a Kabul. Poi il blitz Usa per assassinare Osama Ben Laden fu ad Abbottabad, quartier generale dell’esercito pakistano. Dunque una malattia strutturale, organica al Paese, che lo rende potenzialmente più pericoloso dello stesso Afghanistan.