Ergastolo ostativo. “Sai che uscirai dalla cella solo quando sarai morto” di Maria Teresa Improta quicosenza.it, 23 novembre 2018 Finiranno di scontare la propria pena l’anno 9.999. Mai. Carmelo Musumeci a Cosenza si racconta definendo le carceri italiane una fabbrica di criminalità. “Ho fatto delle scelte devianti e criminali, mi piacevano i soldi facili. Non ho mai collaborato con la giustizia, mi sono sempre avvalso della facoltà di non rispondere. Per 25 anni ho vissuto in carcere sapendo che ne sarei uscito solo da morto”. Sono oltre 1.600 gli “uomini ombra” in Italia. Un esercito di invisibili. Condannati a morte da vivi. A dar loro voce è l’ex boss della Versilia Carmelo Musumeci oggi in libertà condizionale dopo aver scontato 25 anni di carcere. Il clan che portava il suo nome era un’organizzazione criminale dedita al narcotraffico, rapine, estorsioni e bische clandestine. In visita a Cosenza, invitato dall’associazione Yairaiha presieduta da Sandra Berardi, ha presentato il suo ultimo libro Nato Colpevole nel corso di due partecipati incontri tenutisi la scorsa settimana all’Unical e al Teatro dell’Acquario, raccontando il dramma del fine pena mai. “Con la famiglia - ha spiegato ipnotizzando il pubblico - non ci si confida per non farla soffrire. È inutile dire a moglie e figli che si è stati pestati o che si stanno subendo vessazioni. Non possono farci nulla se non stare ancora peggio”. “In carcere con una condanna all’ergastolo, più che vivere, si tenta di sopravvivere. Sai che uscirai dalla cella solo quando sarai morto. Il tuo corpo - ribadisce Musumeci - lascerà il penitenziario da cadavere, si vive quindi di passato e di presente. Con l’incessante desiderio di suicidarsi. Di fatto viene impedito al detenuto di sognare, si sperare, di fare progetti, pensare al futuro perché la pena finirà nell’anno 9.999. Una volta nel certificato di detenzione scrivevano in rosso “fine pena mai”. Probabilmente si vergognavano di questa frase e hanno cambiato definizione, ma non la sostanza. Io sono l’eccezione che conferma la regola. Il mio ergastolo ostativo è stato trasformato in ergastolo “normale” in cui si può usufruire di permessi premio, semilibertà o libertà condizionale a cui oggi sono sottoposto ristretto in una comunità per disabili. Per la famiglia l’ergastolo è una tragedia. I figli diventano orfani di genitori vivi e le compagne vedove di mariti in vita. Non hanno alcuna speranza. Neanche io, che ho studiato con passione il diritto laureandomi in Giurisprudenza durante la detenzione, ho mai creduto fosse possibile tornare a vivere fuori da una cella. Per 25 anni non ho potuto dare un bacio a mia moglie, essere presente nei giorni più importanti della vita dei miei figli, vederli crescere. I colloqui sono qualcosa di terribile: alla gioia di incontrarli segue l’enorme amarezza di vederli andare via. Se il carcere ti fa venir fuori il senso di colpa determinati reati non finirai mai di scontarli. Nel mio ultimo libro “Nato Colpevole” descrivo la mia vita. Racconto dell’ambiente sociale in cui sono cresciuto. Una famiglia siciliana molto povera in cui l’illegalità era “legale”. Ciò mi ha condizionato perché quando cresci nel male e conosci solo quello è difficile non cadere nei tentacoli del crimine. Sono entrato la prima volta nel carcere minorile all’età di 15 anni. Un’esperienza terribile dove ho conosciuto il letto di contenzione a cui sono stato legato per una settimana. Una tortura assecondata dalle Istituzioni. Una scuola di crimine. Il carcere purtroppo è uno Stato a sé che danneggia i giovani che vi sono ristretti condannandoli a farvi ritorno una volta usciti. Ovviamente se esiste un pericolo la persona va fermata, ma per i ragazzi sarebbe meglio usare altri strumenti, come l’affidamento a comunità, non la detenzione che li costringe a seguire il crimine. Per sconfiggere mafia, camorra e ‘ndrangheta - afferma l’ex boss - basterebbe salvare i giovani con l’istruzione, levando così l’acqua ai pescecani”. Una teoria che l’avvocato penalista di Cosenza Giuseppe Lanzino presentando Musumeci sintetizza citando Victor Hugo: “Nel momento in cui si apre la porta di una scuola, in quel preciso istante stiamo chiudendo la porta di un carcere. Dobbiamo fare in modo che tra i nostri quartieri non vi siano altri nati colpevoli altrimenti tra mezzo secolo saremo sempre allo stesso punto”. Lo studio e la rinascita - Carmelo si racconta con una violenza commuovente. Descrive il prete in collegio che picchiava i bambini, il parroco pedofilo punito con una madonna frantumatagli sulla fronte nella notte, la ‘spaccata’ che non deve durare più di 30 secondi, ma anche la solitudine, la necessità di diventare cattivo per non essere schiacciato. “Per non impazzire e non essere risucchiato dalla depressione - ricorda Carmelo Musumeci - mi sono buttato sui libri e dalla licenza elementare sono arrivato ad avere due lauree. Studiavo anche 13/14 ore al giorno, poi crollavo dal sonno. Un giorno ho letto un libro di un detenuto nei lager nazisti che scriveva ‘io sono qui e nessuno lo saprà mai’. Ho quindi deciso di raccontare l’inferno delle patrie galere e dell’ergastolo. Avevo solo la quinta elementare dovevo quindi imparare a scrivere e avere una cultura. La povera gente rimane nei gradini più bassi della società solo perché non ha istruzione. Ero al 41bis all’Asinara e non entrava nulla, non potevo confrontarmi con un insegnante o con dei volontari, ma una docente in pensione che mi scriveva ha iniziato a strappare dei foglie di libri e mandarmeli dentro delle lettere. Alcuni venivano bloccati dalla censura, altri arrivavano. Non è stato facile studiare da autodidatta, in ergastolo sottoposto alla pena accessoria dell’isolamento. È stata però la mia salvezza insieme all’amore della mia compagna e dei miei figli che non mi hanno mai abbandonato. Attraverso le relazioni che ho costruito con le persone che ho conosciuto in questi anni di carcere, come gli attivisti della associazione Yairaiha gli unici che insieme ai detenuti credo siano deputati a parlare delle condizioni carcerarie, ho scoperto che la società non è tutta cattiva. È un percorso difficilissimo a cui si arriva solo se si incontrano le persone giuste. Tutti vogliono cambiare, ma in carcere significa perdere quella corazza, quell’aggressività necessaria a sopravvivere in un penitenziario. Bisogna avere la forza di mettersi in discussione e chi non ce l’ha non può essere colpevolizzato. È come Don Abbondio che dice “io non ho coraggio, non è colpa mia. Sono nato così”. L’atteggiamento dei detenuti meridionali - “L’approccio dei detenuti del Sud - chiarisce Musumeci - è diverso. Sono di origini siciliane, ma sin da bambino sono emigrato al Nord quindi anche se ho fatto delle scelte devianti e criminali l’ho fatte senza avere vincoli culturali. Al Sud invece chi fa queste scelte, spesso, diventa carne da cannone di organizzazioni criminali di grosso spessore. Si inizia quindi ad obbedire a certi schemi. I detenuti del Sud entrano in carcere già istituzionalizzati con un senso di adattamento, evitando di scontrarsi con gli organi carcerari che in quel momento sono più forti di loro. Io pur essendo stato condannato per associazione di stampo mafioso, nasco come ribelle sociale: ho conosciuto il collegio, il carcere minorile e poi i penitenziari in regime di ergastolo. Mi sono sempre opposto a qualsiasi potere sia legale che illegale. La mafia fa comodo a tutti, soprattutto a chi la legge la fa infrangere agli altri e va tranquillamente a messa alla domenica. È un sistema che porta voti ai politici, con i quali vincendo le elezioni si ha la possibilità di controllare ulteriormente l’economia del territorio”. Carcere fabbrica di criminalità - “In carcere - sottolinea l’ex boss Musumeci - non ci sono colletti bianchi. Trovi solo persone con un basso livello di cultura. È più facile incontrare nelle celle un ladro di biciclette che uno che ha truffato un milione di euro di fondi pubblici. Quest’ultimi possono infatti permettersi i migliori avvocati sul mercato, ottenere in poche settimane gli arresti domiciliari e non sono mai considerati dei delinquenti. Per carità il carcere non lo auguro a nessuno, neanche a loro. In questi anni è ormai diventato una discarica sociale ci trovi tossicodipendenti, barboni, migranti. I penitenziari italiani sono una fabbrica di criminalità. Lo dicono le statistiche che riportano l’alto tasso di recidiva: il 70% ci ritorna. Il carcere vuol dire che non è la medicina, ma piuttosto la malattia. Un carcere cattivo però peggiora sia chi lo sconta che la società perché chi ne esce è più aggressivo e indotto a delinquere rispetto a quando è entrato. Eppure costa molto ai cittadini che pagano le tasse, di fatto, per produrre criminalità a partire dai carceri minorili o quelli per adulti. Chi esce dopo 10/20/30 anni ritorna a delinquere perché non ha alcuna possibilità lavorativa, chi non è riuscito a farsi una famiglia prima di essere arrestato si ritrova vecchio, solo e vittima di pregiudizi senza ormai nulla da perdere. Nel Nord Europa dove la recidiva è del 15% quando si “esce” danno un prestito che poi andrà ad essere restituito. Denaro con il quale iniziare una nuova vita fittando casa e cercando un’occupazione. Un’idea banale, ma che è alla base dell’illegalità per chi si trova senza soldi a dover ricostruire la propria esistenza. Ciò che viene negato in galera è l’affettività, l’amore, mentre si alimenta odio e rabbia. La galera che fa male, fa male a tutti”. L’uscita dal carcere dopo 25 anni - “Sono uscito dal carcere di Padova e ho trovato una società più arrabbiata e povera di ideali. Ho trovato un mondo diverso, - osserva Carmelo Musumeci - differente sia a livello tecnologico sia a livello morale rispetto a quello che avevo lasciato 25 anni prima. Gli operai non scioperano più, gli studenti non protestano più occupando le piazze per dissentire sulla guerra in Siria come succedeva ai tempi della guerra in Vietnam. Ho notato che certi valori come la solidarietà stanno scomparendo. Questa è stata una delusione. Che l’Italia si fosse incattivita me ne ero accorto un po’ anche da dentro il carcere che poi in fondo rappresenta lo specchio della società. Alcuni principi di solidarietà però resistono dietro le sbarre. Se qualcuno ha bisogno di zucchero o altro può chiedere a chi è nella cella a fianco e si trova il modo per farlo avere al detenuto che ne ha bisogno. Fuori vedo cinismo, gente che va di fretta, indaffarata, non si guarda intorno sono tutti attaccati al telefonino. Le persone però non sono cattive, è che non sanno, non vengono sensibilizzate abbastanza. A tutti va data una speranza. Molti giovani ergastolani, entrati in carcere a 18/19 anni e che dovranno restarvi fino alla loro morte, potrebbero essere salvati. Bisognerebbe dar loro una possibilità di riscatto per uscire dalle dinamiche criminali. Se sanno che moriranno in carcere non potranno mai cambiare mentalità. Finché avrò voce continuerò ad urlare che ognuno deve avere un inizio e un fine pena”. Non è la prescrizione il buco nero della giustizia di Mariarosaria Guglielmi* e Riccardo De Vito** Il Dubbio, 23 novembre 2018 Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione degli autori, un estratto dall’articolo di Mariarosaria Guglielmi e Riccardo De Vito apparso sull’ultimo numero di Questione giustizia con il titolo “Quale futuro per il garantismo? Riflessioni su processo penale e prescrizione”. Questione giustizia è la rivista on line di Magistratura democratica, di cui Guglielmi e De Vito sono, rispettivamente, segretaria generale e presidente. “Ad oggi il dibattito politico ha lasciato sul campo la prospettiva di una riforma certa della prescrizione in cambio di una riforma incerta che dovrebbe garantire il processo “breve”. Se non incanalata in un contesto normativo unico, dove agli interventi sulla causa di estinzione del reato si possano contemporaneamente saldare quelli sulla prescrizione delle singole fasi processuali, l’intervento appare lesivo dei diritti dell’imputato ad un equo processo e dei principi costituzionali in materia di presunzione di non colpevolezza e finalismo rieducativo della pena. Magistratura, avvocatura ed accademia dovrebbero aprire un confronto su un nuovo processo penale, che permetta di dibattere anche sulle soluzioni proposte di recente dalla magistratura associata (estensione dell’articolo 190- bis del codice di procedura penale e abolizione del divieto di reformatio in peius). Il contesto politico induce a scelte di diritto penale espressivo-simbolico e a torsioni regressive. Non è il momento di compromessi. La punta dell’iceberg Tiene banco in questi giorni la questione della prescrizione (...). Questo dibattito appare come la classica punta dell’iceberg di un discorso più ampio che riguarda il modo di intendere il diritto e il processo penale e, più a fondo, il volto costituzionale della pena e che richiede oggi una riflessione attenta sulle implicazioni che le diverse visioni del diritto e del processo penale hanno sul diritto di difesa, sui principi del giusto processo delineato dall’art. 111 della Costituzione e sulla stessa fisionomia del sistema accusatorio. Riteniamo evidente il rischio che, in nome di una “giustizia a portata di mano”, si arrivi a sacrificare una cultura giurisdizionale che ha sempre intravisto nel paradigma accusatorio e nei suoi corollari, a partire dal principio di oralità, non solo una garanzia dell’imputato contro i possibili abusi dell’autorità, ma i canoni epistemologici fondanti l’attendibilità del risultato processuale.(...) Metodo e merito Partiamo da un problema di metodo, che mai come in questo caso è anche questione di merito. Non è approccio da sottovalutare, perché è evidente, in una materia così delicata, che “l’etica dei principi” - come ha ben scritto Gaetano Insolera - non può trascurare “le conseguenze dei mezzi adottati”. In primo luogo ci pare che non sia possibile levare lo sguardo dal fatto che l’emendamento in materia di prescrizione sia stato inserito, senza preventiva discussione con magistratura e avvocatura, in un disegno di legge che interviene a regolare altra materia - quella dei reati contro la Pubblica amministrazione - con scelte che privilegiano la funzione simbolico-espressiva dell’intervento penale. È sufficiente allineare gli interventi proposti per riconoscere nella riforma i caratteri propri della torsione regressiva che il diritto penale subisce sotto la spinta del rigorismo repressivo: inasprimenti sanzionatori; traghettamento dei reati contro la Pubblica Amministrazione nel catalogo delle fattispecie ostative (art. 4- bis dell’ordinamento penitenziario) alla concessione delle misure alternative; previsione di pene accessorie perpetue anche nell’ipotesi in cui la pena principale non superi gli anni due di reclusione; sopravvivenza degli effetti penali alla riabilitazione; agente sotto copertura dalle incerte attribuzioni. Si tratta, ci sembra, di un lessico inconfondibile, ben reso dalle parole di Vittorio Manes in sede di audizione dinanzi alla Commissione giustizia della Camera dei deputati il 12 novembre scorso: “Un utilizzo del diritto penale improprio e pericoloso, non più come strumento di accertamento di fatti secondo quell’iter di razionalità che è il processo penale, ma come strumento di lotta a fenomeni sociali che si assumono sistemici, se non persino come strumento di vendetta sociale”. È il quadro, peraltro, che emerge anche dai recenti approdi in materia di riforma dell’ordinamento penitenziario (decreti legislativi 123 e 124 del 2 ottobre 2018), che hanno stravolto la fisionomia dell’originaria legge delega e dei lavori della Commissione Giostra in nome di una certezza della pena declinata solo come certezza del carcere, con contestuale indebolimento della discrezionalità della autorità giudiziaria. Del resto, il rifiuto della discrezionalità - dunque anche contro il valore epistemologico del processo, della sua matrice accusatoria e degli apporti di sapere delle parti - è un fil rouge che lega tutta l’attuale grammatica politico- criminale, come dimostra anche la novella in materia di legittima difesa. È di questo quadro complessivo che bisogna tener conto, a nostro avviso, per avere la corretta misura dell’emendamento in punto di prescrizione, trattandosi di una proposta sorretta dalla medesima impostazione volta al mutamento della fisionomia costituzionale del diritto e del processo penale e da una logica non accettabile di scambio tra mera efficienza del processo e garanzie. Dati di fatto - C’è da auspicare, al contrario, che un confronto con magistratura, avvocatura e accademia - non pregiudicato da soluzioni preconfezionate - riesca a immaginare risposte che assicurino funzionalità al processo e, al contempo, la piena salvaguardia delle garanzie costituzionali, a partire dai principi di non colpevolezza e di finalismo rieducativo della pena inscritti nell’art. 27 della Carta. Se non incanalato su questo binario, un intervento sulla prescrizione rischia soltanto di aggravare la posizione dell’imputato senza aggiungere nulla alla tutela delle persone offese. Ci rendiamo conto che questa posizione non è da tutti condivisa, ma sentiamo il bisogno di riaffermarla alla luce di una seria analisi dei dati a disposizione. Valutazioni e proposte, infatti, non possono che partire da elementi di fatto certi, che constatiamo però essere i grandi assenti in questo dibattito pubblico. Il primo fatto riguarda il numero delle prescrizioni. Dalle ultime statistiche del Ministero della giustizia emerge che, nel corso di dieci anni, le prescrizioni si sono ridotte di circa il 40%, passando dagli oltre 213mila procedimenti estinti nel 2004 ai circa 132mila del 2014. I processi che si concludono con la prescrizione del reato, dunque, rappresentano il 9,48% di quelli definiti. Numero che sembra essersi ulteriormente abbassato nel 2017 posto che, in base agli ultimi rilevamenti, i processi colpiti dal decorso del tempo sarebbero 125mila. Lo stesso annuario statistico 2017 della Cassazione penale conferma questa tendenza e dà atto che nel 2017 i procedimenti definiti con prescrizione del reato, nel giudizio di legittimità, sono stati 670, pari all’ 1,2% del totale, con valori in calo rispetto al 2016. Questi dati sembrano, prima di tutto, sconfessare la vulgata che vede nella prescrizione il buco nero nel quale è destinata a precipitare tutta la giustizia penale (tesi, questa, diffusa anche tra i magistrati), dipinge i giudici come corporazione lassista di fronte ai carichi di lavoro e l’avvocatura come raggruppamento di chicaneur che subordinano qualsiasi scelta processuale alla strategia dilatoria. La lotteria della prescrizione colpisce troppo, ma colpisce meno che in passato. Fatta tale premessa, non è ininfluente rilevare - sempre ai fini del giudizio complessivo sulla riforma - che, benché nel 2017 siano aumentate quelle pronunciate in appello, il 62% delle prescrizioni matura ancora prima dell’approdo al dibattimento, durante la fase delle indagini preliminari e, comunque, prima della sentenza di primo grado. Esemplare, in questo senso, è l’epilogo della vicenda Eternit, spesso utilizzata per rappresentare l’effetto sfigurante dalla prescrizione. È sufficiente leggere con attenzione il dispositivo della celebre sentenza della Corte di cassazione (Sez. I, 19 novembre 2012, n. 7941): “Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti dell’imputato relativamente al reato di cui all’art. 434 cod. pen. di cui al capo B) della rubrica e alle conseguenti statuizioni di condanna nei confronti del predetto imputato e dei responsabili civili, perché il reato è estinto per prescrizione maturata anteriormente alla sentenza di primo grado”. Il caso Eternit, dunque, non sembra calzante per giustificare e avallare l’intervento normativo proposto. Al contrario, appare evidente che l’invocato blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado non sarebbe in grado di proteggere le vittime da questi esiti processuali, lasciandola esposta a una doppia ingiustizia: nessuna tutela morale correlata alla condanna penale dell’autore e nessuna tutela civilistica, dal momento che l’estinzione del reato prima della sentenza di primo grado travolge anche le statuizioni risarcitorie. Altro esempio - in tutt’altra direzione - è quello attinente alla tragedia accaduta a Viareggio il 29 giugno 2009, quando, in occasione di un sinistro ferroviario, persero la vita 32 persone. Il Tribunale di Lucca, con sentenza del 31 gennaio 2017, ha riconosciuto la responsabilità di ventitré imputati per i delitti di disastro ferroviario, incendio colposo, omicidio colposo plurimo, lesioni personali colpose gravi. Come noto, è iniziato da poco il processo di appello e la stampa pone correttamente l’attenzione sul pericolo di prescrizione, che in questo caso travolgerebbe alcuni reati (verosimilmente l’incendio colposo e le lesioni) nel corso delle fasi successive al deposito della sentenza di primo grado. Se in questo caso la prescrizione rischia effettivamente di azzerare l’aspetto legato al ristoro morale che la condanna penale produce nelle persone offese (in questa prospettiva vittimologica degli effetti della condanna penale si pone la Corte Edu, a partire dalla sentenza 1° luglio 2003 Finucane c. Regno Unito), non occorre sottovalutare che l’approvazione di un emendamento come quello proposto dal governo produrrebbe un vulnus di non poco momento. È fin troppo noto, infatti, che ai sensi dell’art. 75, comma 3, cpp, l’azione proposta in sede civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado determina la sospensione del processo civile fino al momento in cui la pronuncia non è più soggetta a impugnazione. In sostanza, sino alla irrevocabilità della sentenza penale - che, in ragione della endemica lentezza del processo penale, può giungere a molti anni di distanza dalla sentenza di primo grado - la persona offesa, costituita parte civile, finirebbe in uno stato di paralisi, con il processo civile sospeso e con esposizione alla possibilità di un esito assolutorio che potrebbe produrre persino effetti di giudicato nel giudizio civile. Statistiche e casistica giudiziaria inducono a una riflessione che sembra importante. L’interruzione definitiva della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, intesa come misura monadica e irrelata da un serio intervento sui tempi del processo penale, oltre a ledere gravemente l’imputato sotto il profilo del diritto a un equo processo, lascia irrisolto il problema della prescrizione intervenuta nel corso delle indagini e non appare in grado di tutelare appieno la persona offesa. Abolizione della prescrizione e processo più veloce? - Secondo un’opinione diffusa anche nella magistratura, l’intervento abolitivo della prescrizione dopo il primo grado determinerebbe una sorta di effetto trickle-down, per il quale diminuirebbero le impugnazioni, verrebbe incrementato l’accesso ai riti alternativi e si ridurrebbe il numero dei dibattimenti celebrati. Bisogna dire, rimanendo sul terreno della prescrizione, che l’impostazione che abbiamo definito (mutuando il gergo economico) trickle-down - vale a dire quella che mira a conseguire gli effetti di riduzione dei tempi del processo attraverso l’effetto “sgocciolamento” dell’abolizione della prescrizione - sembra muovere dal presupposto che la prescrizione rappresenti la prima ed a volte l’unica opzione difensiva delle difese. È un presupposto, a nostro avviso, non veritiero e culturalmente non accettabile. Non vi è dubbio che la prescrizione, in questo sistema di processo penale lento e ingigantito dalla spinta alla criminalizzazione di ogni fenomeno di disvalore sociale, costituisca un’alternativa percorribile per le difese. Si tratta però, oltre che di un’alternativa legittima, di un’opzione che non caratterizza le scelte difensive in merito alle scelte di rito, di impugnazione, di strategia processuale. Scelte che, viceversa, sono caratterizzate dai fattori più diversi: ricerca dell’assoluzione, incremento o limitazione del materiale probatorio, riduzioni di pena, riconoscimento di circostanze, allontanamento o avvicinamento del giudicato e del momento dell’esecuzione. Non è realistico far assurgere la possibilità prescrizione - resa comunque legittima dal sistema - a regola di esperienza delle condotte difensive. Proprio per questo riteniamo che l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado, non accompagnata da interventi in grado di incidere sulla ragionevole durata del processo, non produrrà accelerazioni della dinamica del processo, che è influenzata da altri elementi sui quali davvero avvocatura e magistratura dovrebbero ragionare insieme. I tempi reali della prescrizione - Se quello che abbiamo detto è vero, deve osservarsi che è ancora più evidente dopo l’entrata in vigore della legge 103/ 2017. Non si può dimenticare - anche questo dato è scomparso dal dibattito politico interessato all’approvazione della modifica normativa - che la prescrizione ha subito un’incisiva rimodulazione con la legge Orlando. In particolare, la modifica dell’art. 159, comma 2, n. 1) e 2) prescrive che la prescrizione rimane sospesa per complessivi tre anni dopo la sentenza di primo grado. Va inoltre precisato che, tra il 2008 e il 2016, i termini di prescrizione sono stati raddoppiati per tutta una serie di reati che vale la pena elencare: frode in processo penale e depistaggio aggravati; delitti colposi di danno; omicidio colposo in violazione di norme sulla sicurezza sul lavoro o nell’esercizio abusivo di una professione; omicidio stradale; delitti contro l’ambiente; maltrattamenti contro familiari e conviventi; delitti di tratta di persone, di sfruttamento sessuale dei minori e di caporalato; delitti di violenza sessuale; delitti di cui all’art. 51 commi 3- bis e 3- quater del codice di rito. Ancora, in base alla formulazione dell’art. 161 cp, modificato sul punto dalla legge n. 103/ 2017, l’interruzione della prescrizione comporta un aumento del tempo necessario a prescrivere pari alla metà per alcuni dei più gravi reati commessi da pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione. Qualche esempio può rendere la dimensione del decorso tempo necessario a far maturare l’esito prescrittivo all’esito delle complessive riforme. Una rapina aggravata si prescriverà nel termine massimo (sempre che l’imputato non sia recidivo reiterato o delinquente abituale) di ventotto anni, una resistenza a pubblico ufficiale nel termine di dieci anni e sei mesi; una corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio si prescriverà in diciotto anni. (...) E i reali terreni di confronto - Siamo perfettamente consapevoli che alla prescrizione non possa essere affidato il compito di presidiare la ragionevole durata del processo. Non è in questa sede che va trovata la garanzia contro un processo di durata irragionevole. Lo ha ribadito con parole limpide uno studioso del calibro di Domenico Pulitanò. È una lezione che conosciamo bene e che ci convince. Non possiamo trascurare, tuttavia, che una delle ragioni sottese alla prescrizione è correlata al diritto a non essere giudicati a distanza di molti anni dal fatto. Prendiamo in prestito le parole di Francesco Viganò, che, in un intervento nell’ambito di un convegno promosso nel 2012 anche da Magistratura democratica, ha rilevato che “il principale interesse sostanziale tutelato dalla vigente disciplina della prescrizione deve essere ravvisato, nell’attuale contesto ordinamentale, in quello - dell’indagato e poi dell’imputato - a non vedersi esposti indefinitamente, in uno scenario di kafkiana memoria, alla spada di Damocle delle indagini, del processo e della sanzione penale”. Ad oggi l’estinzione del processo per decorso del tempo agisce come “agente terapeutico e patogeno al tempo stesso”. Eliminare il farmaco senza cura della malattia, per rimanere nella metafora, rischia però di aggravare le condizioni del malato. E siamo certi che questo aggravamento si verificherà se andranno in porto riforme gravi e in controtendenza rispetto a quello che si vorrebbe garantire con l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado. Prima tra tutte, quella volta a inserire il divieto di accedere al rito abbreviato in ordine ai reati puniti con la pena dell’ergastolo. Cosa fare per curare realmente la giustizia penale? Riteniamo che, di pari passo a un intervento sulla prescrizione sostanziale del reato, debba affiancarsi un intervento sulla prescrizione processuale dell’azione penale. È qui, su questo terreno, che si può e si deve trovare un punto di equilibrio tra efficienza del processo e diritto dell’imputato (ma anche della vittima) a tempi ragionevoli. In questa prospettiva la prescrizione del reato dovrebbe interrompersi definitivamente una volta che lo Stato ha dimostrato di voler perseguire l’autore di un fatto - le varianti su come possa essere individuato questo momento sono molteplici - per poi lasciare il passo a una prescrizione processuale che scandisca i termini di durata ragionevole di ogni fase di giudizio, analogamente a quanto avviene in altri ordinamenti. Questo ci sembra l’unico modo - con i dovuti contemperamenti in caso di mancato rispetto dei termini - per consentire di tenere assieme efficienza del processo e diritti dell’imputato. Un compromesso non accettabile - Accettare lo scambio tra abolizione della prescrizione e una incerta riforma del processo, oltre a far correre il serio pericolo di veder tramontare la possibilità di un confronto ampio su un nuovo processo penale, potrebbe determinare la chiusura di un’altra partita fondamentale, mai seriamente aperta: quella della depenalizzazione. Una seria prospettiva di depenalizzazione dovrebbe affrontare una volta per tutte la materia degli stupefacenti, sulla quale anche negli Stati Uniti - Paese esportatore della strategia di criminalizzazione nella war on drugs - ci si sta interrogando con riferimento ai reati di droga non violenti. Non sarà in questo contesto, troppo condizionato dalla scelta di criminalizzazione in chiave di consenso elettorale, che potranno realizzarsi le condizioni per trasformare in legge le scelte di fuoriuscita dal penale. È però indispensabile creare le condizioni di una alleanza culturale in grado di riportare il confronto sul terreno dell’impegno per il diritto penale minimo e per pene in grado di assolvere agli obiettivi costituzionali. (...) Per questo crediamo anche noi che al momento la questione fondamentale sia quella di fare luce tra le “pesanti nubi che si addensano attorno al sistema penale del nostro Paese”. *Segretaria Generale di Magistratura Democratica **Presidente di Magistratura Democratica Decreto sicurezza, la Commissione ha fretta: tempi tagliati di Giansandro Merli Il Manifesto, 23 novembre 2018 La denuncia di Legambiente: “Più insicurezza in arrivo per tutti, italiani e migranti”. La maggioranza giallo verde ha fretta di approvare il decreto sicurezza. Una volta ottenuto il via libera al ddl anticorruzione caro al M5S, la commissione Affari costituzionali della Camera, dove il provvedimento voluto dal ministro Salvini è all’esame, ha deciso ieri di stringere i tempi della discussione sui circa 600 emendamenti al testo e di chiudere i lavori entro stasera, in modo da far arrivare in aula il decreto lunedì. Dove, ad attenderlo, ci sarà probabilmente una richiesta di voto di fiducia da parte del governo. “È un atto gravissimo - commenta Riccardo Magi, deputato di +Europa - Di fatto impedisce alla Commissione di discutere un testo legislativo che secondo tutti gli esperti ascoltati non va bene”. Sempre ieri il decreto è stato oggetto di nuove, durissime critiche. Durante la presentazione del dossier di Legambiente “L’accoglienza che fa bene all’Italia” sindaci, parlamentari ed esponenti della società civile hanno fatto circolare stime drammatiche sugli effetti che produrrà nel paese. “120mila nuovi irregolari, il 20% in più di quelli attuali - spiega Vittorio Cogliati Dezza, responsabile nazionale migrazioni Legambiente. Si rischia che in futuro troverà posto nello Sprar, fiore all’occhiello del sistema di accoglienza italiano, solo il 27,9% dei rifugiati rispetto ai beneficiari attuali e la concentrazione delle persone nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria, ndr), con la contemporanea cancellazione delle risorse per corsi di italiano, assistenza psicologica e progetti di inserimento socio-lavorativo”. Lo studio di Legambiente raccoglie oltre 30 casi di progetti Sprar e piccoli Cas che, in controtendenza rispetto al modello generale, hanno scommesso sull’accoglienza diffusa. Esperienze di buona amministrazione capaci di creare sviluppo economico e posti di lavoro, migliorare la qualità della vita delle comunità locali e aumentare la sicurezza di migranti e residenti. Soprattutto nei piccoli centri. “Un terzo dei paesi con meno di 5mila abitanti rischia di scomparire - afferma Angelo Moretti, della Rete piccoli comuni del welcome - In questi luoghi l’emergenza non è l’arrivo dei migranti, ma lo spopolamento, il dissesto idrogeologico, le case abbandonate. Quando l’immigrazione è inserita in un’idea di futuro può aiutare a risolvere questi problemi. Oggi bisogna dire da che parte stiamo, non rispetto ai partiti politici ma a una visione del mondo”. “Chi attacca l’accoglienza diffusa - afferma l’europarlamentare Elly Schlein - vuole fare dell’accoglienza un business”. Le nuove regole, infatti, permetteranno l’accesso ai bandi soltanto ai grandi imprenditori che concorrono su più regioni e, attraverso l’economia di scala dei mega-centri, sono in grado di reggere i tagli delle risorse. Compensandoli con la riduzione dei servizi, ovviamente. Durante il dibattito interviene la senatrice 5 Stelle Paola Nugnes, tra le “dissidenti” grilline: “Voglio dire che questo provvedimento è sbagliato tecnicamente e politicamente. Lo faccio dopo un lungo percorso di auto-censura”. Il voto al Senato, però, è ormai superato e il testo è alle porte della Camera. “Lega e 5 Stelle hanno scambiato il disegno di legge sull’anticorruzione con il decreto sicurezza - dice Rossella Muroni, deputata di Liberi e Uguali - Martedì Salvini è venuto in aula per controllare personalmente le preferenze dei suoi ed evitare sorprese”. Intanto, a poche centinaia di metri, anche Italia in Comune, la rete di oltre 400 amministratori locali capitanata dal sindaco di Parma Federico Pizzarotti, ha criticato aspramente il provvedimento. “Il decreto Salvini - è stato spiegato - rischia di essere un boomerang per i comuni italiani che saranno costretti a sobbarcarsi 280 milioni di euro di costi sociali in più. Soldi che oggi sono a carico del sistema sanitario nazionale”. “Il taglio dei 35 euro promesso dal ministro dell’Interno - sottolinea Alessio Pascucci, sindaco di Cerveteri e coordinatore nazionale di Iic - penalizzerà soprattutto le amministrazioni locali”. Decreto sicurezza verso l’approvazione, tra dubbi politici e associazioni critiche di Eleonora Camilli Redattore Sociale, 23 novembre 2018 Arriva domani alla Camera, dopo il voto ottenuto al Senato, il decreto Salvini. Il ministro dell’Interno annuncia che non ci sarà nessun passo indietro. Ma nel Movimento 5 stelle ci sono diverse posizioni critiche. Possibile nuova fiducia. Intanto anche il Csm approva un documento in cui rileva profili di incostituzionalità. Arriva domani alla Camera il dl 113, del 4 ottobre 2018, il contestato “decreto sicurezza”. Il provvedimento è già passato al Senato con il voto di fiducia. E non si è esclude che la questione di fiducia venga posta nuovamente alla Camera, per blindare il testo, sul quale anche all’interno delle forze di maggioranza sono state chieste modifiche. In particolare, 18 esponenti del Movimento 5 stelle hanno scritto una lettera al capogruppo Francesco Uva per esprimere criticità rispetto al testo del decreto e chiedere di cambiare le parti ritenute inammissibili. Secondo alcune testate, due dissidenti grilline sarebbero state sostituite in Commissione proprio per evitare scontri. Il leader della Lega, Matteo Salvini continua a dirsi però fiducioso. E in un’intervista a Rai 1, questa mattina, ha detto di fidarsi di Luigi Di Maio, “persona coerente, rispettosa”. “Se prende un impegno lo porta avanti, come me. Gli emendamenti al decreto Sicurezza sono già stati ritirati e va approvato entro il 3 dicembre perché è troppo importante - afferma. Passi indietro non ne facciamo”. Cosa prevede il decreto sicurezza. Il testo del decreto è stato sostituito alla Camera con maxiemendamento in cui sono state inserite alcune novità, che riguardano, in particolare, la videosorveglianza, gli sgomberi degli immobili occupati (prima di procedere se il prefetto ravvede la presenza di soggetti in situazioni di fragilità, istituisce una cabina di regia per reperire entro 90 giorni una soluzione alternativa), il Fondo per la sicurezza urbana e l’utilizzo dei droni. Per quanto riguarda il sistema di asilo si conferma il provvedimento di sospensione dell’esame della domanda di protezione nel caso il richiedente abbia commesso alcuni reati considerati gravi. In caso di condanna in primo grado, il Questore deve darne tempestiva comunicazione alla Commissione territoriale competente, che è quindi tenuta a provvedere immediatamente all’audizione dell’interessato e adottare contestuale decisione. A quel punto lo straniero può essere obbligato a lasciare il territorio nazionale. Resta la decisione di prolungare da 3 a 6 mesi il trattenimento nei Cpr e il ridimensionamento del Sistema di accoglienza Sprar a cui potranno avere accesso solo coloro che sono già titolari di protezione internazionale e i minori non accompagnati. I richiedenti asilo saranno invece ospitati nei Cara. Viene abolita la protezione umanitaria, sostituita o da una protezione speciale o da un permesso temporaneo che può essere rilasciato in 6 casi speciali (vittime di grave sfruttamento, motivi di salute, violenza domestica, calamità nel paese d’origine, cure mediche, atti di particolare valore civile). Tra le novità introdotte c’è anche la lista dei paesi di origine sicuri e delle aree interne sicure, che verranno identificati sulla base di informazioni rilasciate dalla Commissione nazionale o da fonti internazionali come Unhcr, Consiglio d’Europa ed Easo. Tra gli elementi per identificare la sicurezza di un paese ci sono l’ordinamento giuridico, l’applicazione delle norme, la non sussistenza di atti persecutori, tortura, trattamenti inumani e degradanti. Viene introdotta anche la procedura per la domanda manifestatamente infondata. Inoltre nel maxiemendamento vengono estesi i “luoghi idonei” per il trattenimento dei migranti irregolari in attesa di rimpatrio nell’ indisponibilità di posti all’interno dei luoghi preposti, cioè i Cpr. Il tribunale potrà dunque disporre la temporanea permanenza dello straniero in strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità giudiziaria. Tra questi ci sono anche i locali degli uffici di frontiera. Le critiche. In questi mesi diverse organizzazioni umanitarie hanno espresso dure critiche sul provvedimento. Secondo gli esperti l’abolizione del permesso per motivi umanitari farà crescere esponenzialmente il numero di coloro che si ritroveranno in una situazione di irregolarità sul territorio. Secondo il ricercatore Matteo Villa, di Ispi, entro il 2020 in Italia avremo 60.000 nuovi irregolari, che andranno ad aggiungersi agli oltre 70.000 nuovi irregolari nello scenario di status quo. La stima è di almeno 130/140mila migranti che perderanno il titolo di soggiorno. La preoccupazione è contenuta in un appello che il Tavolo asilo ha lanciato ai parlamentari: “decine di migliaia di persone che versano in condizioni di seria vulnerabilità non avranno più diritto a un titolo di soggiorno regolare”. A preoccupare sono anche “i rischi di smantellamento del sistema pubblico d’accoglienza (Sprar) a favore di una gestione privata e poco qualificata con grandi centri collettivi che alimentano il clima d’intolleranza, purtroppo già largamente diffuso” aggiungono. Anche alcuni sindaci e amministratori locali hanno espresso preoccupazione sulla situazione che si verrebbe a creare nei territori. “Chiediamo al Parlamento un passo indietro sul decreto sicurezza. Il rischio concreto è quello di avere più persone in strada, a rischio criminalità, e meno persone integrate. Il decreto dà risposte opposte a quelle che servono nelle comunità. Consiglio al Governo di ascoltare i sindaci, di qualsiasi appartenenza politica, per capire perché siamo tutti così preoccupati”. ha detto Matteo Biffoni, sindaco di Prato e responsabile immigrazione di Anci. Anche il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) ha espresso diverse critiche rispetto alle modifiche apportate dal maxiemendamento. In particolare, sull’introduzione dell’elenco dei paesi sicuri: “si tratta di previsioni limitano fortemente le possibilità di protezione per i richiedenti asilo e non sembrano compatibili, con i diritti garantiti dalla nostra Costituzione”. Se il richiedente proviene da uno dei paesi in elenco, infatti, la domanda viene trattata in via prioritaria, ed i termini sono raddoppiati rispetto a quelli previsti per la procedura accelerata. Questo, secondo il Cir, “comprime le garanzie procedurali”. “Si introducono nuove ipotesi per la qualificazione della domanda d’asilo come domanda manifestatamente infondata che viene rigettatala dando diritto ad alcuna forma di protezione. Salvo che ricorrano le scarse ipotesi di rilascio di protezione speciale”. Inoltre sarà il richiedente a dover dimostrare l’esistenza di gravi motivi per ritenere non sicura la sua nazione: “con un’inversione dell’onere della prova - conclude il Cir. In contrasto con il principio generale che prevede un onere ripartito tra Stato ed il richiedente”. Da ultimo anche il Consiglio superiore della magistratura ha approvato a larga maggioranza un documento in cui esprime parere critico, rilevando nel decreto “criticità” e garanzie costituzionali a rischio su trattenimenti e asilo di migranti. Intanto secondo diversi esperti tra i primi effetti del decreto, oltre all’aumento delle persone in strada ci sarà una corsa al rinnovo dei permessi per lavoro, anche con contratti “dubbi” pur di rimanere nella regolarità”. Ddl anticorruzione, via libera dalla Camera: la Lega non applaude di Dino Martirano Corriere della Sera, 23 novembre 2018 Il provvedimento con le misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e per la trasparenza dei partiti e movimenti politici è stato integrato con la riforma dei tempi della sospensione della prescrizione. Al primo sì della Camera sul disegno di legge anticorruzione (288 favorevoli, 143 contrari, 12 astenuti), dietro il banco del governo scattano gli abbracci tra il vicepremier Luigi Di Maio, il Guardasigilli Alfonso Bonafede e il ministro Riccardo Fraccaro. Invece Matteo Salvini non è in Aula al momento dell’ovazione grillina per il primo giro di boa della legge blocca prescrizione e “spazza corrotti”. Mentre il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti non muove neanche un sopracciglio. Tutti gli altri leghisti, che pure hanno votato sì, fanno mostra in privato di non digerire il giustizialismo spinto del M5S per i reati contro la Pubblica amministrazione. La legge ora passa al Senato dove il M5S vuole “estirpare” la norma passata con il voto segreto che derubrica da peculato ad abuso d’ufficio le distrazioni di fondi pubblici operate dai consiglieri regionali. E non è un mistero che, non solo su questo punto, non c’è sintonia tra i partner di governo. Per capirlo bastava seguire i movimenti in Aula di Giancarlo Giorgetti che ieri, di buon mattino, restava da solo sui banchi del governo e poi si spostava tra i deputati della Lega. Per dichiarare, tra il serio e il divertito, dopo aver letto sui giornali che la manina animatrice del voto segreto sarebbe stata la sua: “Siccome non mi lamento mai, mi mettono sempre in mezzo. Questa volta mi dite che sono stati i Cinque stelle. Ma con tutte le cose che ho da fare io vi pare che mi metto qui a organizzare la crisi di governo. Ormai sono una vittima sacrificale”. Di Maio, che pure con Giorgetti aveva parlato in Aula, si è precipitato in sala stampa: “Smentisco le accuse del Movimento verso il sottosegretario Giorgetti. Il voto segreto è stato un incidente...”. E di rapporti buoni tra Lega e M5S ha parlato anche il premier Giuseppe Conte come per cancellare la storia della “manina” di Giorgetti veicolata da alcuni settori del M5S. Il ministro Bonafede è raggiante e ora prevede l’approvazione del ddl anticorruzione riveduto e corretto entro l’anno. Ma se i grillini intendono azzerare il “Salva Lega” firmato da Catello Vitiello (Misto), e quindi imporre una terza lettura alla Camera, la Lega non ha digerito ancora la prescrizione congelata sine die dopo il primo grado anche con l’assoluzione: “Io avevo presentato un emendamento per far ripartire la prescrizione al momento della fissazione dell’udienza dopo il primo grado. Non è passato. Ma non è detto che al Senato non si possa riaprire al partita”, confida Luca Paolini dell Lega. Al Senato, l’anticorruzione verrà incardinata già oggi (il Pd protesta perché ieri sera il testo non era ancora stato trasmesso) ma i nodi tra Lega e M5S restano: oltre alla prescrizione, ci sono l’agente sotto copertura, il giro di vite per i reati contro la Pubblica amministrazione e la burocratizzazione della contabilità dei partiti che crea problemi alla Lega. Che la navigazione sarà complessa lo dimostra la previsione di mettere la fiducia sul ddl anticorruzione al Senato. Mentre alla Camera la fiducia è cosa certa per il decreto sicurezza. In Aula da lunedì. Daspo, arresto in flagranza: due anni in più alle indagini di Claudia Morelli Italia Oggi, 23 novembre 2018 Il disegno di legge “spazza corrotti” del governo Lega-M5s ottiene il primo sì dalla camera, con 288 voti a favore,143 contrari e 12 gli astenuti. Il testo passa all’esame del Senato. Stretta sui reati corruttivi nella pubblica amministrazione con il Daspo, aumento dell’entità delle pene accessorie, arresto in flagranza di reato, aumento a due anni dei termini delle indagini preliminari e preclusioni ad accedere ai benefici penitenziari e misure alternative. Introduzione del “pentito” e delle operazioni sotto copertura (ma non agente provocatore) e della possibilità di utilizzare le intercettazioni con trojan (finora limitate alle ipotesi di criminalità organizzata e terrorismo) anche per i reati contro la p.a. Congelamento della prescrizione dopo le sentenze di primo grado e nuove regole per la trasparenza del finanziamento dei partiti, pur se ma con una eccezione “di rilievo”. Al contrario di quello che il ddl richiede a partiti, fondazioni, comitati e persone fisiche, le persone giuridiche (per esempio Rousseau) non avranno alcun obbligo di rendicontazione. Il disegno di legge “spazza corrotti” del governo Lega-M5s ottiene il primo sì dalla camera, con 288 voti a favore,143 contrari e 12 gli astenuti. Per l’opposizione, che si è compattata nel voto contrario, si tratta di un provvedimento “spazza democrazia”. Il testo passa all’esame del senato. Per grandi linee, il provvedimento interviene su due questioni: i reati contro la pubblica amministrazione e la trasparenza nel finanziamento ai partiti. Il primo fronte è stato quello dei “colpi di scena” interni alla maggioranza di governo (si veda ItaliaOggi di ieri): in commissione referente con l’approvazione della norma sulla prescrizione lunga (viene sospesa dopo la sentenza di primo grado e fino alla sentenza esecutiva che definisce il giudizio), voluta dal M5s e digerita dalla Lega solo con lo slittamento dell’entrata in vigore il 1° gennaio 2020; in aula con l’approvazione dell’emendamento Vitiello che cancella il reato di peculato per gli amministratori, trasformandolo in abuso d’ufficio. Tante le novità, tra cui l’inasprimento delle pene accessorie. Il provvedimento introduce l’incapacità di contrarre con la p.a. (cosiddetto Daspo) nell’ipotesi di un ventaglio molto ampio di reati, così come l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. La riabilitazione sarà possibile, sulla carta, non prima di sette anni e con la prova di buona condotta. Aumentano i termini della interdizione temporanea e sono inasprite le sanzioni a carico delle imprese a titolo di responsabilità amministrativa (legge 231). “Una condanna a morte del sistema produttivo”, ha evidenziato Fi in aula, pur riuscendo nell’intento di “ammorbidire” alcune norme, in particolare quelle sul pentitismo e sull’accesso alle misure alternative. L’accesso alla sospensione condizionale della pena sarà più oneroso: non solo riguarderà anche il corruttore “privato” e sarà condizionato al pagamento, all’amministrazione lesa, della somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria; ma il giudice potrà decidere di non estenderne gli effetti alla interdizione dai pubblici uffici o al cosiddetto Daspo. Viene introdotta la figura del “pentito”. Il ddl introduce infatti una causa di non punibilità (nuovo articolo 323-ter), in presenza di autodenuncia (prima di essere iscritto nel registro degli indagati e in ogni caso entro sei mesi dal fatto, mettendo a disposizione l’utilità ricevuta) e di collaborazione con l’autorità giudiziaria. Il millantato credito viene abrogato come fattispecie a sé e ricompreso nella nuova formulazione del traffico di influenze illecite. Sono consentite sempre le intercettazioni mediante l’uso dei captatori informatici (cosiddetto trojan) su dispositivi elettronici portatili nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Viene introdotto la procedibilità d’ufficio per i delitti di corruzione tra privati (art. 2635 c.c.) e di istigazione alla corruzione tra privati (art. 2635-bis c.c.). Nuove norme in materia di trasparenza, tracciabilità e controllo dei partiti e movimenti politici. Il tema è stato oggetto di grande discussione in aula. Per l’opposizione il quadro generale che emerge dal provvedimento sarebbe da “spazza democrazia”, per la sottesa delegittimazione dei partiti. In linea generale è introdotto l’obbligo di rendicontazione dei contributi ricevuti dai partiti superiori a 500 euro. È stato approvato un emendamento delle commissioni che estende tale obbligo a ogni prestazione di valore equivalente, dunque anche l’attività di volontariato, e a enti quali fondazioni, comitati e associazioni. È prevista la pubblicazione dei curriculum vitae e del certificato penale dei candidati alle elezioni. Sono esclusi finanziamenti da parte di stati ed enti esteri e da soggetti non cittadini italiani e comunque non iscritti nelle liste elettorali. È stato approvato un emendamento Fd’I che esclude il finanziamento da parte di cooperative. Vale segnalare anche quello che non è entrato nel ddl, ossia alcuni emendamenti che sono stati bocciati dalla maggioranza ieri di aula. Per esempio quello che estende alle persone giuridiche (leggi Rousseau) gli obblighi di trasparenza nei finanziamenti dei partiti previsti per fondazioni, comitati; e l’emendamento che chiedeva a chi ricopre incarichi pubblici il dovere di trasparenza sulle partecipazioni obbligazionarie o azionarie. “Violenza sulle donne, governo assente: pochi e fermi i fondi anti-violenza” di Adolfo Pappalardo Il Mattino, 23 novembre 2018 “È un grave errore della burocrazia fermare o rallentare i fondi antiviolenza per le donne: così si vanificano tutti gli sforzi fatti con molta fatica in questi anni”, dice Mara Carfagna, parlamentare Fi e vice presidente della Camera nel giorno in cui presenta a Montecitorio “Non è normale che sia normale”, la campagna sui media, con testimonial d’eccezione, contro la violenza sulle donne. Azione assolutamente bipartisan che vede la Carfagna tra colleghe di tutti gli schieramenti politici: da Maria Elena Boschi a Giulia Bongiorno, da Isabella Rauti a Maria Edera Spadoni. E sui social, sul web, sui giornali e in tv verrà trasmesso il video in cui personaggi noti si fanno un segno rosso contro la violenza sotto l’occhio. Tra loro, Fiorello, Barbara D’Urso, Maria Grazia Cucinotta, Vincenzo Salemme, Paola Turci, Claudia Gerini, Alessandro Borghi e Alessandro Roia. “Serve - attacca l’ex ministro delle Pari opportunità - che l’esecutivo operi un cambio di direzione: ho letto il contratto di governo e non c’è traccia di politiche antiviolenza in favore delle donne”. Non solo perché la Carfagna invita tutti a postare sui social l’hashtag “non è normale che sia normale” e una foto con il segno del rossetto sotto l’occhio. Il monitoraggio di ActionAid Italia sui fondi antiviolenza nazionali ripartiti tra le Regioni per il 2015-2016 e per il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere 2015-2017 certifica come i fondi arrivano tardi e anche le Regioni, a loro volta, liquidano le risorse con il contagocce. Anche la Campania è ancora in attesa della risorse 2017 e ad agosto ha dovuto anticipare una parte delle somme... “Occorre che le istituzioni operino il massimo impegno per le politiche antiviolenza di genere. Non è pensabile che a causa della burocrazia i fondi vengano erogati con ritardi enormi sul territorio. Proprio ai centri che lavorano e sono presidi importanti per dare una mano a chi è vittima. Stanziarne pochi e bloccarne una parte, è un errore clamoroso. Bisogna aumentarli invece: è il primo punto del piano nazionale antiviolenza che concordai poco prima che il mio governo cadesse nel 2011”. La violenza di genere è un’emergenza? “Abbiamo presentato questa campagna, con l’aiuto di testimonial famosi, per far capire come non è normale, appunto, che una donna su tre è vittima di violenza e una ogni tre giorni viene uccisa. Come non è possibile che in casi di stupro ci sia qualcuno che commenti con frasi giustificative sul tipo di abbigliamento della vittima. Lo trovo orribile. Da qui la campagna di comunicazione per raggiungere una platea più vasta e sensibilizzarla su questi temi”. Non viene fatto abbastanza? “Noi dobbiamo garantire, come istituzioni, il massimo dell’impegno. Negli ultimi anni fatti passi in avanti su leggi importanti. Penso a quella sullo stalking e alla proposta che ho appena depositato in Manovra per garantire più fondi alle famiglie affidatarie di figli di femminicidio. Perché spesso molti di loro sono affidati a parenti che hanno bisogno di un aiuto economico”. Crede che il governo giallo-verde non faccia molto su questo versante? “Deve fare di più. Loro si muovono solo con il contratto di governo ma su questo punto ho letto poco o nulla nonostante sia un impegno prioritario”. Cosa servirebbe? “Campagne di comunicazione, come abbiamo fatto noi, potenziare i centri antiviolenza e leggi più severe contro questi crimini: su questi fronti occorre fare di più”. Come? “Noi donne siamo state capaci di superare gli steccati politici, è una battaglia lunga, bisogna cambiare la testa delle persone, serve una rivoluzione culturale: chiediamo a tutti di unirsi all’onda e di diffondere il messaggio. Chiunque può contribuire coinvolgendo amici e conoscenti sulle piattaforme Social e sul web. Non basta più discutere tra addetti ai lavori, oggi bisogna aprirsi, sviluppare in maniera positiva le potenzialità della rete perché se ne parli in famiglia e nei luoghi di lavoro. Si tratta di un tema drammaticamente diffuso e vicino a tutti noi”. “XLaw”: un algoritmo può davvero prevedere (e impedire) un reato? di Virginia Della Sala Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2018 Mestre, piena notte, la sequenza è rapida: un ladro cerca di rubare l’incasso di un hotel, un portiere avvisa la polizia, il ladro scappa ma c’è già una volante pronta ad arrestarlo. Una fuga sfortunata? Non proprio. Il fatto è stato comunicato nei giorni scorsi come il primo reato sventato perché predetto da una macchina. La polizia era già lì perché sapeva ci sarebbe stato. Una sorta di Minority Report. Ma è davvero così? In parte. Dietro il successo dell’operazione c’è un sistema chiamato XLaw, un software basato su un algoritmo che è in grado di identificare luoghi, orari e condizioni che rendono più probabile che avvenga un reato. Sulla base di questi scenari probabilistici, vengono poi inviate le volanti della polizia. Se dovesse davvero esserci un crimine, sarebbero già nei paraggi (ottimizzando l’uso delle risorse). Elia Lombardo è ispettore superiore di Polizia a Napoli e la mente che, da sola, ha creato l’algoritmo e sviluppato il programma. “L’idea - spiega al Fatto - è nata dopo vent’anni a rincorrere il crimine, letteralmente. Arrivavamo sempre dopo, dovevamo correre dietro ai malviventi”. Così inizia a immaginare un modo per automatizzare e amplificare un lavoro che la mente umana poteva fare in modo limitato. “Ho studiato informatica e ho ideato e sviluppato XLaw”. Il sistema identifica quelle che Lombardo definisce delle vere e proprie “riserve di caccia”. Non si limita però a far dialogare tra loro i dati geografici. Il software sovrappone due livelli: il primo che ha informazioni statiche, come il numero di abitanti, il numero di negozi, di istituti di credito, di scuole, di abitazioni, di parchi pubblici, di vie di fuga, di nascondigli e di copertura criminale; il secondo che contiene invece informazioni variabili come orari di apertura e chiusura, le condizioni meteorologiche, l’orario dei traghetti, quello dei treni e degli autobus, se sia in arrivo una nave da crociera o se siano in corso manifestazioni o iniziative. Tutti questi dati si incrociano poi con più informazioni possibili sui reati che avvengono sul territorio, reperite dai database della polizia, dai media, dai social network, dalle denunce dei cittadini. Si costruiscono così dei modelli basati su concomitanze di condizioni che - rileva la macchina -statistica - mente producono un reato. Esempio semplice: ci si accorge che la probabilità di un furto aumenta alla chiusura dei negozi, in quartieri periferici con alta densità di anziani e facili vie di fuga. XLaw segnalerà la necessità di una volante nel luogo in cui dovessero manifestarsi insieme tutte queste condizioni. Il metodo non ha però la stessa efficacia se applicato a tutti i reati. Riguarda soprattutto quelli predatori: rapine, scippi, borseggi, truffe agli anziani. “Sono reati ciclici e stanziali - spiega Lombardo - perché chi li compie di solito vive di questo e ha bisogno di reiterarli. Ha quindi una strategia basata su principi oggettivi che è possibile rintracciare e probabilisticamente prevedere: il territorio, le prede, le vie di fuga, il rifugio, la copertura criminale”. Non è una completa novità: algoritmi simili sono già stati realizzati e utilizzati, basati sulla geolocalizzazione oppure sulla sola statistica. A fare la differenza, l’introduzione del cosiddetto “modello euristico”: l’algoritmo stesso è in grado di rintracciare nuovi modelli e nuove corrispondenze sulla base dei dati introdotti che magari l’uomo, con post-it, carte geografiche e bandierine non avrebbe individuato. “La macchina impara da se stessa - spiega Lombardo - e si evolve. Molti dei modelli criminali li ho inseriti io ma altri, come le baby gang, l i ha isolati XLaw”. Oggi XLaw è operativa a Napoli (dal 2011), a Prato (da fine 2017) e infine a Venezia (da qualche mese). L’idea è riuscire a renderla disponibile su tutto il territorio. Anche perché maggiore è la mole di dati che si raccolgono, maggiore è la precisione e la sua capacità di identificare modelli criminali e presupposti per i reati. Inoltre, l’uso è molto semplice: nelle sale operative un computer indica aree e orari in cui inviare i poliziotti, gli agenti possono consultarle con una app sullo smartphone. E aumenta l’efficienza. “Si è passati da oltre 120 km in auto al giorno a circa 20”. Attacco hacker alle Pec di 9mila magistrati. Gli atti non partono, aperta un’indagine di Raffaele Angius La Stampa, 23 novembre 2018 Scoperta il 12 novembre, l’intrusione avrebbe esposto le credenziali di accesso alla posta elettronica certificata di 9 mila magistrati. Rallentamenti, disservizi e bandi in pausa: sono state queste le prime immediate conseguenza del blackout della rete telematica giudiziaria, causato da un’intrusione informatica nel data center Telecom di Pomezia il 10 novembre. Diverse fonti negli uffici tecnici di alcuni Comuni italiani, così come il personale dei casellari giudiziali, hanno confermato la circostanza, che risulta essere in risoluzione in questi giorni. Nel frattempo la Procura di Roma ha aperto un fascicolo sull’episodio, ipotizzando il reato di accesso abusivo ad archivio informatico e incaricando il procuratore aggiunto Antonello Racanelli e il Pm Albamonte del coordinamento delle indagini. I servizi sospesi in via cautelativa alle ore 00,08 del 14 novembre sono il Portale dei servizi telematici, il Registro nazionale degli indirizzi telematici (Reginde), le notifiche penali telematiche, i sistemi di protocollo e gli applicativi del Processo civile telematico (Pct). Prima ancora, il 12 novembre, veniva deciso lo spegnimento dei server coinvolti nell’attacco, dai quali sono stati sottratti i dati di 500 mila Pec. Tra queste, 98 mila sono collegate al Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica - interessando dunque anche account di ministeri e servizi segreti - e 9 mila appartengono alle magistrature italiane, prime a ricevere una notifica di allarme. Sono proprio queste ultime a sollevare maggiore preoccupazione, dal momento che potrebbero contenere informazioni giudiziarie relative a indagini e processi in corso, tra cui anche quelli legati alla criminalità organizzata. Intanto il ministero della Giustizia rassicura: “Non vi sono evidenze di conseguenze negative: in particolare non risultano perdite di dati ed i depositi telematici da parte di avvocati e ausiliari del giudice nella casella postale certificata dedicata al Pct di ogni singolo ufficio abilitato sono comunque avvenuti”. Dal punto di vista tecnologico infatti, qualsiasi comunicazione in sede civile che dagli avvocati viene inviata alle cancellerie è criptata, quindi non leggibile a chi, pur impossessandosene, non conosca anche la chiave segreta d’accesso. Tuttavia risultano più sensibili le comunicazioni che, all’inverso, vengono spedite dalle cancellerie agli avvocati: nonostante si tratti sempre di Pec, queste non vengono criptate e dunque chiunque acceda all’account del mittente o del destinatario è in grado di leggerle. Tra queste potrebbero far parte anche le comunicazioni relative a processi penali. Coincidenze sospette - Il 14 novembre un malware non ancora identificato ha iniziato a diffondersi utilizzando il canale Pec come vettore, come segnalato dall’Autorità nazionale per le emergenze informatiche, Cert-Pa. I tecnici sono ancora al lavoro per scoprire se ci sia una correlazione tra i due eventi o se si tratti di una coincidenza. Tuttavia lo stesso Cert-Pa chiarisce che “gli invii sono massivi, nel senso che tendono ad includere una moltitudine di caselle” e che i destinatari “sono caselle di servizi comunali quali protocollo, polizia municipale, protezione civile, affari generali, info oltre a quelle dei principali organi comunali tra cui tra cui il sindaco”. Fine vita, la Consulta mette al centro la scelta consapevole della terapia di Angelo Di Sapio e Daniele Muritano Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2018 Corte costituzionale - Ordinanza 24 ottobre 2018 n. 207. Un’iniezione di diritti: questo l’invito dell’ordinanza 207/2018 della Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio depositata il 16 novembre. La storia è nota: nel 2014 Fabio Antoniani era diventato tetraplegico, non più autonomo nella respirazione e nell’alimentazione. Le sue condizioni erano irreversibili. Conservava, però, intatte le facoltà intellettive. Voleva porre fine alla sua vita con il suicidio assistito. A febbraio 2017 fu accompagnato in Svizzera, dove morì. Il suo accompagnatore è imputato per il reato di aiuto al suicidio: ha rafforzato il proposito di suicidio e ne ha agevolato l’esecuzione. La Corte d’assise di Milano solleva questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, tra l’altro nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli articoli 2, 13 e 117 della Costituzione e in relazione agli articoli 2 e 8 Cedu. I giudici delle leggi decidono a metà e aprono un dialogo su due fronti. Inquadrano, con coerenza, il telaio costituzionale del fine-vita, che è relazionale, un prisma di ascolto e di dialogo. La Corte dialoga con la difesa dell’imputato. Scartata l’assolutezza delle tesi proposte, riconosce la centralità del rispetto della dignità della persona che, in una condizione fonte di sofferenze intollerabili, ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli, non vuole un mantenimento in vita artificiale. In simili casi, e qui la Corte dialoga col Parlamento, la decisione di lasciarsi morire potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legge 219/2017, con richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto, compresi idratazione e nutrizione artificiale, ed eventuale sottoposizione a sedazione profonda continua. Il medico deve rispettare la scelta del paziente ed è esente da responsabilità civile o penale. La legge 219 non consente, però, al medico che sia richiesto di determinare la morte del paziente, il quale deve così subire - e patire - un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per i suoi cari. Qui sta il nodo gordiano del diritto di decidere “quando” e “come” morire. La Corte non lo scioglie, ma, con parole oculate ed eloquenti, mette in chiaro che, “se [...] il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari”, non c’è ragione per cui “il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento”. La Consulta era davanti a una scelta. Consapevole degli interessi coinvolti e dei dogmatismi in azione, assume una posizione un po’ scettica. Rinvia il giudizio al 24 settembre 2019, in attesa della (eventuale) sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela. Negli altri giudizi, spetterà ai giudici valutare se sollevare analoghe questioni di legittimità costituzionale. Questa è la strategia decisionale: evitare che, fino alla data di rinvio, l’articolo 580 del Codice penale continui a produrre effetti costituzionalmente non compatibili; scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale. La questione sta tutta qui: chi sceglie? La Corte ritaglia una sfera di autonomia nelle decisioni terapeutiche. Sembra anche avvicinarsi a quel principio personalistico che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale (articolo 2 della Costituzione). Il paziente non può essere ostaggio di una lettura omogeneizzante della sua dignità, e prima ancora della sua identità. In situazioni come quella di Fabio Antoniani, prosegue la Corte, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze. I giudici hanno coscienza che una dichiarazione di incostituzionalità potrebbe aprire le porte al suicidio assistito “fai da te”, senza controllo sull’effettiva sussistenza della capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta espressa e dell’irreversibilità della patologia. Ecco l’invito al Parlamento a modificare la legge 219, suggerendo di prevedere anche opportune cautele affinché l’opzione del suicidio assistito non determini alcuna rinuncia delle strutture sanitarie a offrire al paziente concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua. Si è detto che la Corte è stata pilatesca. Ma, in un panorama di continui bracci di ferro, sorprende, positivamente, che la Corte marchi il perimetro del suo ruolo. L’auto-responsabilità è anche questa. Tali delicati bilanciamenti restano affidati, in linea di principio, al Parlamento. Compito naturale della Corte è verificare la compatibilità delle scelte compiute dal legislatore con i diritti fondamentali delle persone coinvolte. Detenuti ai domiciliari con prole, evasione solo per allontanamenti oltre le 12 ore di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2018 Corte costituzionale - Sentenza 22 novembre 2018 n. 211. Per i padri in regime di detenzione domiciliare per assistere i figli minori di anni 10 (quando la madre sia impossibilitata), il reato di evasione non scatta per allontanamenti inferiori alle 12 ore. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, sentenza n. 211del 22 novembre 2018, così riallineando per i papà una disciplina già censurata nel caso delle detenute madri. Per la Consulta è corretto il rilievo della Corte di Appello di Firenze che in qualità di giudice rimettente ha affermato il contrasto con l’articolo 3 della Costituzione della previsione secondo cui l’allontanamento del padre ammesso alla “detenzione domiciliare ordinaria” (pene fino a quattro anni) per prendersi cura dei figli (articolo 47-ter, comma1, lettera b), dell’ordinamento penitenziario) è regolato in modo deteriore rispetto a quello del padre ammesso alla diversa misura della detenzione “domiciliare speciale” (prevista per pene maggiori). In questo secondo caso (possibile quando la madre sia deceduta o impossibilitata, articolo 47-quinquies, comma 7, Op.), infatti, l’allontanamento è punito solo se si protrae per più di dodici ore e non anche “per un breve ritardo” rispetto alle prescrizioni del giudice. La Consulta, con la sentenza n. 177 del 2009, aveva già riparato al vulnus per le madri in detenzione domiciliare “ordinaria”, dichiarando costituzionalmente illegittime le disposizioni nella parte in cui punivano più severamente il loro allontanamento rispetto a quello delle madri in detenzione domiciliare speciale. Il giudice delle leggi, evidenziata l’identica finalità perseguita dal legislatore, ha oggi affermato che “il medesimo ragionamento non può che essere esteso al raffronto del trattamento penale degli allontanamenti dal domicilio dei detenuti padri”. “Non può che sottolinearsi il paradosso - prosegue la Corte - che il trattamento più severo dell’allontanamento dal domicilio si applichi al genitore in detenzione domiciliare “ordinaria”, che ha da scontare una pena inferiore rispetto a quella inflitta a un padre ammesso alla detenzione domiciliare speciale”. In definitiva, per il padre ammesso alla detenzione domiciliare “ordinaria”, al fine di prendersi cura della prole in tenera età, valgono le stesse esigenze naturalmente connesse alle attività rese indispensabili dalla cura dei bambini, come per il padre in detenzione domiciliare speciale. Tali esigenze possono, allo stesso modo, imporre l’allontanamento dal domicilio e risentono anch’esse, inevitabilmente, delle contingenze e degli imprevisti derivanti dal soddisfacimento dei bisogni dei minori (come per esempio la frequenza scolastica, le cure mediche, le attività ludiche e socializzanti, sentenza n. 177 del 2009). La Corte ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 47-ter, comma 1, lettera b), e 8, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), “nella parte in cui non limita la punibilità ai sensi dell’art. 385 del codice penale al solo allontanamento che si protragga per più di dodici ore, come stabilito dall’art. 47-sexies, commi 2 e 4, della suddetta legge n. 354 del 1975, sul presupposto, di cui all’art. 47-quinquies, comma 1, della medesima legge, che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti”. Permesso premio al detenuto modello, anche per visitare un monumento quotidianogiuridico.it, 23 novembre 2018 Cassazione penale, sezione I, sentenza 26 ottobre 2018, n. 49146. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il tribunale di Sorveglianza aveva confermato il provvedimento con cui il magistrato di sorveglianza aveva negato ad un detenuto il rilascio di un permesso premio per andare a visitare con il proprio professore universitario un monumento cittadino, la Corte di Cassazione (sentenza 26 ottobre 2018, n. 49146) - nell’accogliere la tesi difensiva secondo cui se è ben vero che il beneficio in questione è finalizzato ad agevolare la progressione rieducativa, non deriva da ciò l’impossibilità di usufruirne per contingenti esigenze connesse ad interessi culturali - ha infatti affermato che è illegittimo negare il rilascio di un permesso premio per svolgere un’attività finalizzata a coltivare interessi culturali, atteso che la pretesa di inserire le attività in relazione alle quali il permesso è concedibile in schemi rigidamente previsti e predeterminati nel programma di trattamento snatura l’istituto. No alla tenuità del fatto per l’esercizio abusivo della professione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2018 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 22 novembre 2018 n. 52619. Esclusa la particolare tenuità del fatto in caso di abusivo esercizio della professione di avvocato. La Corte di cassazione, con la sentenza 52619, respinge il ricorso teso a contestare la condanna sia per il reato di esercizio abusivo sia per quello di appropriazione indebita, in merito alla documentazione che il cliente aveva consegnato all’imputato, credendolo un legale. Il ricorrente, infatti, aveva tutta l’aria di essere un avvocato: studio con targa, biglietti da visita, scrivania, computer, stampante e timbri. Fidandosi delle “apparenze” il cliente aveva incaricato il “finto” legale di recuperargli dei crediti, dei quali gli aveva fornito la documentazione. Per i giudici non passa la tesi della difesa, secondo la quale il mandato non prevedeva lo svolgimento dell’attività tipica della professione forense. L’imputato si era limitato a predisporre e “forse” inviare una comunicazione ai debitori. Un unico episodio che non bastava far scattare l’esercizio continuativo sistematico e organizzato dell’attività, necessario per il reato contestato. Di parere diverso la Suprema corte. I giudici ricordano che il reato scatta anche se la condotta è occasionale e la prestazione gratuita, quando l’atto compiuto rientra in via esclusiva in una determinata professione, e viene realizzato con modalità tali, per continuità, onerosità e organizzazione, anche se minimale, da creare, in assenza di chiare diverse indicazioni, l’apparenza di un’attività professionale svolta da un soggetto regolarmente abilitato. Elementi che, nello specifico, c’erano tutti. In più l’imputato aveva concordato anche un compenso pari al 20 % su ogni pratica andata a buon fine. I giudici escludono l’applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale sulla particolare tenuità del fatto, chiesta dalla difesa. La norma non può, infatti, essere applicata in caso di esercizio abusivo di una professione, che, per sua natura presuppone una condotta, ripetitiva, continuativa o comunque connotata da una pluralità di atti tipici. E dunque tale da escludere il riconoscimento della causa di non punibilità. Condanna anche per appropriazione indebita per la mancata restituzione della documentazione. È appropriazione indebita non restituire beni al coniuge separato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2018 Corte di Cassazione - Sezione II - Sentenza 22 novembre 2018 n. 52598. In caso sia stata già pronunciata la separazione scatta il reato di appropriazione indebita per il coniuge che si rifiuta di restituire i beni di proprietà dell’altro coniuge. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 52598 depositata ieri ha respinto il ricorso della moglie separata che, essendo in possesso dei beni del marito, si era rifiutata di restituirglieli. Contro la condanna, confermata in appello, per il reato previsto dall’articolo 646 del Codice penale, la ricorrente, oltre a richiedere un’inammissibile rivalutazione dei fatti di causa da parte della Cassazione, sosteneva che la querela del marito - a 2 anni dalla separazione - fosse tardiva. Rendendo - secondo la ricorrente - la propria condotta ormai non più rilevante ai fini penali. Ma i giudici di legittimità respingono l’argomento difensivo spiegando che il giorno dell’ “interversione del possesso” da cui decorre il termine della querela non è quello della dichiarazione di separazione che autorizza a riappropriarsi dei propri beni, ma quello in cui viene negato il diritto al legittimo proprietario. Cioè, nel caso concreto, rilevava il momento in cui il marito comunicando alla moglie di volersi recare a ritirare i propri beni nel locale che era nella disponibilità di lei si è visto rispondere che nulla vi avrebbe trovato in quanto - proprio al fine di impedirgli l’esercizio del diritto di proprietà - aveva provveduto a svuotare il luogo dove erano stati posti. Circostanza confermata dai giudici nella fase di merito. San Gimignano (Si): pestato detenuto con problemi psichici? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 novembre 2018 Presunti pestaggi al carcere toscano di San Gimignano nei confronti di un detenuto extracomunitario con problemi psichici? Tutto è scaturito da una denuncia shock di un detenuto italiano - in seguito trasferito al carcere di Asti - che ha fatto trapelare l’accaduto con una lettera recapitata a Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha Onlus. La segnalazione è stata fatta prontamente al ministero della Giustizia, ai Garanti dei detenuti di competenza, alla parlamentare europea Eleonora Fiorenza e al Presidente della Camera Roberto Fico. I fatti narrati sono di estrema gravità. “Il problema è nato l’11 ottobre del 2018 quando, verso le 15,20 è arrivata nella sezione dell’istituto una vera e propria squadriglia - denuncia il detenuto nella lettera, non trovo altre parole per descriverla. Un vero e proprio raid, oltre 20 agenti, compresi due ispettori, e a me e ad altri detenuti, qui all’isolamento, ci hanno fatto assistere a un vero e proprio pestaggio nei confronti di un extra- comunitario. Nel frattempo che il detenuto veniva spostato da un’estremità dalla sezione all’altra a calci e pugni, cioè intendo che non è che hanno provato magari con un piccolo atto di forza magari con qualche spintone visto che il detenuto psicologicamente e fisicamente non stava affatto bene, peserà intorno ai 45 kg e lo dovevano spostare in un’altra cella, perché aveva rotto quella in cui era ubicato. C’è da dire che questo detenuto non è violento con altri, non lo è mai stato, forse con lui stesso lo è stato”. La lettera prosegue spiegando che alcuni di loro avrebbero denunciato tutto e da lì sarebbe iniziato il loro calvario. “Soprattutto il mio - racconta il detenuto perché dopo sei giorni, cioè il 17 ottobre, mi sono state contestati due fatti, una che risaliva all’ 8 e l’altro all’ 11. Nella prima io avrei detto “bastardo” a un ispettore e l’altra, cioè durante il pestaggio all’extra-comunitario, non solo ho ricevuto un pugno in testa come da referto mostrato, ma chiuso in cella, avrei ripetutamente sputato contro agenti dicendogli “siete tutti bastardi”. Il detenuto spiega che però fortunatamente ci sarebbero le telecamere a testimoniare i fatti, “ben due di sorveglianza - scrive - che sono state acquisite dal Giudice di competenza, come da noi richieste dalla denuncia”. Il Garante locale del carcere di San Gimignano è l’associazione L’Altro Diritto che, una volta avuta la segnalazione, si è prontamente mossa per riscontrare la veridicità dei fatti, contattando gli organi competenti, compresa la direzione del penitenziario. “Abbiamo appreso la notizia dal garante regionale dei diritti dei detenuti che ci ha inoltrato la lettera dell’associazione Yairaiha Onlus - spiega L’Altro Diritto. Non appena ricevuta la notizia ci siamo attivati per le opportune verifiche ed abbiamo ricevuto informalmente conferma da parte della Asl del fatto che il personale medico di turno ha refertato alcuni detenuti che hanno dichiarato di essere state vittime di violenze da parte di alcuni agenti di polizia penitenziaria. Referto che pare sia già stato trasmesso alla procura competente, mentre i detenuti pare siano stati trasferiti in altri istituti. Siamo ancora in attesa di ricevere conferme ufficiali dalle amministrazioni coinvolte. Ma ci auguriamo - sottolinea - che l’autorità giudiziaria effettui una pronta ed efficace attività di investigazione su una vicenda che appare, se confermata, di una gravità inaudita. Anche perché si è verificata all’interno di un istituto penitenziario già afflitto da gravi problemi strutturali e gestionali. Ci teniamo a sottolineare - conclude il garante locale - la grande trasparenza e correttezza dell’operato del personale medico coinvolto e della Asl che ha, senza esitazione, segnalato il caso alle autorità competenti per le opportune verifiche. Come Associazione incaricata del ruolo di Garante dei diritti dei detenuti del carcere di San Gimignano pretenderemo che si faccia piena luce sulla vicenda ed offriremo tutto il nostro supporto alle presunte vittime”. Ora l’associazione L’Altro Diritto è in attesa di riscontri. Intanto però spuntano fuori i referti medici, che la dottoressa di reparto aveva redatto e trasmesso alla Asl Toscana Sud Est di competenza. Contattata da Il Dubbio, la Asl di Arezzo conferma non solo l’esistenza dei referti riguardanti i detenuti coinvolti nei presunti pestaggi, ma anche che, ai sensi dell’art 331 cpp, è stata trasmessa la notizia di reato alla competente Procura. “Avendo ricevuto - spiegano alla Asl - i referti del medico che gestisce il presidio sanitario interno al carcere, - oltre che le dichiarazioni dei detenuti circa alcuni atteggiamenti a loro dire “pesanti”, che sarebbero stati realizzati dagli operatori penitenziari, noi siamo tenuti ad attivare l’indagine della Procura”. Cosa è davvero accaduto all’interno del carcere di San Gimignano? Sarà la Procura, visto che ha ricevuto la denuncia, ad attivarsi ed eventualmente ad indagare per l’accertamento dei fatti. Ivrea (To): rischio archiviazione per le violenze in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 novembre 2018 Il 6 e l’11 febbraio prossimi sono fissate le udienze davanti al gip. Rischio archiviazione per i presunti pestaggi avvenuti tra il 2015 e 2017 nel carcere di Ivrea. Per la Procura non ci sono elementi sufficienti per un rinvio a giudizio e sarà il giudice per le indagini preliminari di Ivrea a decidere se archiviare o meno nelle udienze del 6 e 11 febbraio prossimi. Sono due, infatti, le date perché sono due i procedimenti aperti, nonostante riguardano le stesse presunte violenze, dove erano finiti sotto inchiesta alcuni agenti penitenziari e detenuti coinvolti. I legali di Antigone (Simona Filippi per il primo e Luisa Rossetti per il secondo) hanno fatto opposizione, smontando pezzo per pezzo l’intero impianto delle richieste di archiviazione. Ricordiamo che l ‘ evento più clamoroso si sarebbe verificato nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016: infatti, almeno un paio di detenuti avrebbero subito delle violenze, denunciate da un altro compagno di cella con una lettera indirizzata a Infoaut, a seguito delle quali aveva indagato la procura di Ivrea. Questi episodi furono riscontrati dalla delegazione del Garante nazionale delle persone private della libertà, dove venne confermata l’esistenza della cella liscia chiamata “L’Aquario”, poi chiusa - grazie alla segnalazione del Garante dall’allora Santi Consolo, direttore del Dap. La visita, effettuata da Emilia Rossi, componente del collegio del Garante, insieme a Bruno Mellano, Garante regionale del Piemonte, era stata effettuata per verificare l’attendibilità della denuncia. “Senza entrare nel merito degli accertamenti della Procura - spiegò Emilia Rossi riassumendo il rapporto - i due aspetti più inquietanti sono: la presenza di due celle di contenimento - una denominata “cella liscia” dallo stesso personale dell’Istituto, l’altra chiamata “acquario” dai detenuti - che oltre ad essere in condizioni strutturali e igieniche molto al disotto dei limiti di accettabilità nel rispetto della dignità dell’essere umano e di integrare una violazione dei più elementari diritti delle persone detenute, costituiscono un elemento che accresce la tensione presente nell’Istituto. Il secondo aspetto segnalato riguarda l’assenza da oltre quattro anni di un comandante della Polizia penitenziaria stabilmente assegnato alla Casa circondariale. Nel rapporto si apprese che la delegazione, nel corso della visita, ha potuto effettuare i controlli nei reparti interessati dalla denuncia: dalla cella di isolamento alla sala d’attesa dell’infermeria, collocata al piano terra lungo lo stesso corridoio al fondo del quale è posta la sezione isolamento, dove secondo la denuncia dei detenuti si rinchiudevano e si punivano le persone irrequiete da contenere. Nel rapporto il Garante aveva annotato che quanto verificato nel corso della visita “ha reso oggettivo riscontro alle denunce e alle segnalazioni, quantomeno in ordine agli elementi di natura materiale e strutturale”. Interessante è il riscontro non solo della cella liscia denominata “L’acquario”, ma anche di una seconda cella di isolamento che era situata nel reparto infermeria fornita soltanto di un letto collocato al centro della stanza, ancorato al pavimento, dotato del solo materasso, peraltro strappato e fuori temine di scadenza. Gli assistenti di polizia penitenziaria avevano affermato alla delegazione del Garante che quella cella non veniva utilizzata da qualche anno. In realtà subito sono erano stati smentiti dagli atti delle annotazioni degli eventi critici esaminati dalla delegazione. Nella relazione del vicecomandante Commissario Paolo Capra, in ordine ai fatti accaduti nella notte tra il 25 e il 26 ottobre, veniva riportato testualmente, infatti, che il detenuto A.N.P.A., prelevato dalla stanza numero 8 del quarto piano, “veniva condotto in infermeria e successivamente allocato in una cella priva di arredi al reparto piano terra”. Ora però si va verso l’archiviazione per mancanza di elementi utili a provare tutto ciò. Campobasso: la Polizia visita il carcere per formare i futuri vice ispettori quotidianomolise.com, 23 novembre 2018 Stage in sei tappe per gli allievi della Scuola “Giulio Rivera”. Nasce e cresce nel segno della massima collaborazione lo stage formativo rivolto agli Allievi vice Ispettori della Scuola di Polizia “Giulio Rivera” di Campobasso che hanno iniziato oggi, giovedì 22 novembre, ad intraprendere un percorso presso la Casa Circondariale del capoluogo al fine di migliorare e potenziare le proprie conoscenze quali operatori della Pubblica Sicurezza. Si tratta di un progetto che si articola in sei tappe (quella di stamane è stata la prima) ed è basato sull’approfondimento della conoscenza del cammino che i detenuti intraprendono dal momento in cui entrano in carcere per iniziare il periodo di riabilitazione previsto dalla misura inflitta dalla magistratura inquirente o da quella giudicante. Un percorso che merita la massima attenzione in quanto il sistema penitenziario italiano prevede che oltre a scontare la pena, il detenuto vada in carcere anche per intraprendere una fase di rieducazione e di preparazione al ritorno in società. Motivo d’orgoglio è che questo progetto rappresenta un “unicum” a livello nazionale e non è escluso che faccia da apripista ad altre iniziative del genere. Al primo step, la prima sezione degli allievi vice Ispettori della Polizia di Stato hanno avuto modo di interfacciarsi con il dottor Mario Giuseppe Silla, Direttore della Casa Circondariale; il Commissario Capo della Polizia Penitenziaria, Ettore Tomassi; la dottoressa Giovanna Testa e il dottor Giuseppe Petrella in qualità di funzionari dell’Area Educativa. Ad accompagnare gli allievi non potevano mancare il direttore della Scuola di Polizia, il Primo Dirigente dottoressa Valeria Moffa e il vice Questore Giuliana di Laura Frattura. Oltre a capire le varie fasi in ingresso al carcere, gli allievi hanno avuto modo di comprendere come funziona e si articola l’intera struttura carceraria approfondendo la conoscenza delle competenze dei colleghi della Polizia Penitenziaria e anche del personale amministrativo. Reggio Calabria: incontro sul tema “Bambini che crescono in famiglie violente” strill.it, 23 novembre 2018 Che cosa accade ai bambini e alle bambine che vivono e crescono in contesti familiari violenti? Se ne parlerà venerdì 23 novembre con inizio alle ore 15 alla sala Calipari del Consiglio Regionale della Calabria. Assieme alle testimonianze di esperti e di dirigenti scolastici uno spazio sarà riservato alle vittime, gli orfani di femminicidio e i minori colpiti da fenomeni di violenza domestica ed ai loro coetanei che a scuola hanno riflettuto sulla problematica. Una testimonianza inviata agli organizzatori offre un primo spaccato di questo dramma sociale sempre più in crescita. “Mi scuso per non aver partecipato personalmente all’evento, che, certamente è di particolare importanza. Ritengo però giusto rappresentare le problematiche e le difficoltà nelle quali mi sono ritrovata, insieme ai miei cari, nel periodo immediatamente successivo all’uccisione di mia figlia. Inutile dire che il grave reato ha sconvolto le nostre vite, sia per la perdita incolmabile ma, anche sotto un profilo cd organizzativo e gestionale delle esigenze personali dei miei quattro nipoti, i quali, in un attimo, hanno dovuto patire la perdita della madre ed il distacco anche dalla figura paterna. I miei nipoti, sono stati da subito affidati alla mia persona e le istituzioni si sono tempestivamente attivate per avviare quei meccanismi di sostegno e aiuto psicologico ed economico. Assistenti sociali e psicologici da subito hanno iniziato la loro attività anche nell’aiutare i quattro bambini dal distacco dalla madre. Sebbene esistono forme anche di sostegno economico, queste però non sono celeri. Chi come me, da donna lavoratrice, non benestante, coniugata con un marito pensionato, si dovesse ritrovare ad affrontare la tragedia che ho vissuto io, certamente rischia di incorrere in molteplici problemi anche di natura economica. Oggi, meditando e riflettendo sul periodo immediatamente successivo al delitto, devo riconoscere che il primo aiuto concreto, l’ho rinvenuto in parenti, amici e, dalla parrocchia del mio paese. I miei quattro nipoti, erano rimasti privi della cosa più importante, i loro genitori ma, anche di tutti quei beni personali compresi i vestiti giochi e tutto quanto gli apparteneva, poiché la casa nella quale vivevano è stata immediatamente posta sotto sequestro. Non voglio essere materialista ma, se lo scopo del convegno è quello di raccogliere la testimonianza delle vittime per conoscere, quelle che possono essere le problematiche, con il fine di aiutare chi come me potrebbe ritrovarsi a vivere una tragedia come la mia, ritengo che evidentemente sarebbe necessario snellire e velocizzare anche le forme di aiuto economico. Dico ciò, in quanto da subito le figure istituzionali si sono attivate per richiedere quell’aiuto economico previsto dalle leggi in materia, per i miei nipoti, ma il contributo è stato erogato, cioè è stato disponibile, solo dopo due anni. Cioè, nell’immediatezza dei fatti, chi si dovesse trovare a vivere un dramma come il mio, se non ha la fortuna di incontrare o di avere vicino persone care, rischia di trovarsi sola nel fronteggiare con le proprie capacità, ogni esigenza. Io ho dovuto prendere una aspettativa dal lavoro, soffocare e mettere da parte il dolore e la sofferenza, perché la priorità era ed è diventa l’assistenza ai miei quattro bambini, il fare il possibile per colmare ogni loro esigenza. Nell’auspico che questa mia testimonianza possa essere utile, ringrazio Dott. Mario Nasone per l’invito e l’opportunità che mi ha dato di far sentire la mia voce. Torino: i detenuti illuminano la città con l’iniziativa “Scambi in Luce” voltolive.it, 23 novembre 2018 Torna, per il sesto anno, “Scambi in Luce”, un progetto che si sviluppa intorno alle lampade realizzate, con materiale povero, in diversi istituti penitenziari piemontesi grazie alla collaborazione tra le persone detenute e i Volontari dell’Associazione La Brezza. La presentazione dell’iniziativa è stata martedì 20 novembre 2018 presso il Centro Servizi per il Volontariato Vol.To., nelle cui sale è stato predisposto un percorso di sette punti espositivi - ognuno rappresenta un padiglione o sezione di un carcere - allestiti con lampade e fotografie e animati da performance e letture sui progetti realizzati all’interno degli istituti di Torino (C.C. Lorusso e Cotugno e IPM Ferrante Aporti) e Alessandria (C.C. Cantiello e Gaeta) dove i volontari dell’associazione La Brezza operano quotidianamente. “Scambi in Luce”, progetto nato nel 2013, ha lo scopo di mettere in contatto il dentro, il carcere, e il fuori, la società. L’iniziativa prevede la creazione di lampade realizzate nei laboratori di “Arte Espressione del Sé” dei padiglioni di diversi istituti penitenziari. Il lavoro creativo è frutto della collaborazione tra le persone detenute e i volontari dell’Associazione La Brezza che operano all’interno della C.C. Lorusso e Cutugno di Torino e altri istituti di pena piemontesi. Nei mesi di novembre e dicembre vengono le lampade illumineranno diversi punti della città: il Centro Servizi per il Volontariato Volto, la biblioteca civica di Torino, l’IIS Bodoni Paravia di Torino, le Case del Quartiere di Torino, il comune di Collegno e le case di riposo, la C.C. “Cantiello e Gaeta” di Alessandria. Roma: a Villa Sarsina la città di Anzio incontra il carcere di Velletri di Elvira Proia ilgranchio.it, 23 novembre 2018 Conoscere il carcere di Velletri attraverso chi lo vive realizzando una serie di incontri ed eventi a partire da martedì 27 e fino a venerdì 30 novembre a Villa Sarsina ad Anzio. L’idea è arrivata dai volontari della Onlus: “Un giorno nuovo” che hanno organizzato la manifestazione in collaborazione con la direzione della Casa Circondariale di Velletri. L’apertura dei lavori ci sarà, appunto, il 27 alle ore 17 con una proiezione di un filmato che porterà i presenti all’interno del luogo di detenzione. Al termine una serie di testimonianze di chi, ogni giorno si trova a contatto con i detenuti: Donata Iannantuono, (direttore dell’Istituto), Virgilio Intini, (Comandante del carcere), Sabrina Falcone (Funzionario Giuridico Pedagogico), Emanuela Falconi (Direttore Uosd Sanità Penitenziaria Asl Rm6) per citarne solo alcuni. “Dentrofuori, il carcere: un nodo della rete”, questo il tema principe dell’evento, continuerà il 28 novembre, sempre alle ore 17 per entrare negli aspetti religiosi, psicologici, affettivi e sessuali di chi è in carcere mentre il giorno dopo, sempre alle 17 ad essere coinvolti saranno gli studenti attraverso “Scuola e teatro in carcere: una reale opportunità”. Giovedì 29 sarà proiettato uno spettacolo teatrale realizzato in carcere. Venerdì si parlerà, invece, di condanna e inclusione sociale. Napoli: il maestro Muti dai detenuti del penitenziario di Nisida Il Mattino, 23 novembre 2018 Il Maestro Riccardo Muti, che a Napoli aprirà la stagione del San Carlo con ‘Così fan tuttè di Mozart il 25 novembre, ha incontrato i ragazzi dell’Istituto Penitenziario Minorile di Nisida, trascorrendo con loro alcune ore. “Oggi per la prima volta ho visitato l’Istituto Penitenziario di Nisida. Sono rimasto estremamente colpito - afferma il Maestro - dall’organizzazione straordinaria, dalle ragazze e dai ragazzi ospitati nel centro che hanno ascoltato con particolare interesse un’esibizione canora di Rosa Feola, Domenico Colaianni e Francesca Russo Ermolli, esprimendo anche la loro positiva impressione. Questi ragazzi sono dotati di una creatività eccezionale e hanno mostrato nel campo artistico, in quello artigianale e di raffinata cucina un talento notevolissimo. Grazie al lavoro del loro direttore Gianluca Guida e dei suoi collaboratori, ci auguriamo che questi giovani riescano a integrarsi e a dare un contributo positivo alla società”. Domani alcuni ragazzi dell’Istituto assisteranno alla prova generale di “Così Fan Tutte” al Teatro San Carlo, direttore dal Riccardo Muti, regia di Chiara Muti. “Basta dolore e odio. No prison”, di Livio Ferrari e Massimo Pavarini Ristretti Orizzonti, 23 novembre 2018 Questo volume argomenta, a più voci, un secco no al carcere, quella gabbia per esseri umani istituzionalizzata in risposta a reali o supposte violazioni del contratto sociale. Il dire no al sistema carcerario deve essere compreso nel senso che la prigione non è ciò che si crede sia, infatti non è parte della soluzione al problema del crimine ma è parte del crimine stesso. La Canadian Society of Friends (Società Canadese degli Amici), più spesso nota come i Quaccheri, è giunta a queste conclusioni già nel 1981 quando è stata votata una mozione per l’abolizione della prigione che conteneva, tra le altre intuizioni degne di nota, anche questa: “Il sistema carcerario è sia una causa che un risultato della violenza e della ingiustizia sociale. La storia conferma che la maggioranza dei carcerati sono stati emarginati ed oppressi. È sempre più chiaro che l’imprigionamento di esseri umani, così come la loro schiavizzazione è intrinsecamente immorale e distruttiva sia per chi imprigiona che per gli imprigionati”. Non ci sono alternative morali all’abolizione del carcere perché la crudeltà della condanna al carcere è un fatto innegabile. Un altro fatto innegabile è che non si può trovare la verità sulla prigione nelle relazioni governative e nelle promesse elettorali. La verità sulle prigioni sta nella conoscenza della carcerazione vissuta in tutto il mondo, dall’esperienza della stragrande maggioranza dei più di dieci milioni di carcerati del pianeta, costretti in spazi angusti, con gabinetti sporchi e pasti scadenti, in condizioni che alimentano la cattiveria, le malattie e la paura costante. Di fronte a questa situazione di esperienze di vita vissuta il no verso questo luogo di vendetta e odio è totale, tutto il resto sono solo pubbliche relazioni per un business a danno dei poveri, propaganda, negazione, ingenuità o soltanto finzione. Nel volume, oltre al manifesto “No Prison” scritto da Livio Ferrari e Massimo Pavarini, si trovano una serie di capitoli scritti da: Stefano Anastasia, Deborah H. Drake, Johannes Feest, Livio Ferrari, Ricardo Genelhu, Hedda Giertsen, Thomas Mathiesen, Giuseppe Mosconi, Massimo Pavarini, Gwenola Ricordeau, Vincenzo Ruggiero, Simone Santorso, Sebastian Scheerer, David Scott. Apogeo Editore, 2018, pagg. 354, € 15,00. “Cani d’estate”, di Sandro Veronesi. In gioco c’è la vita, nuda recensione di Luigi Manconi Corriere della Sera, 23 novembre 2018 Esce il 29 novembre “Cani d’estate” (La nave di Teseo), in cui lo scrittore denuncia indifferenza e razzismo. “Salvare i migranti in mare è un dovere basilare”. “Ciò di cui stiamo parlando è la differenza tra la vita e la morte”, scrive Sandro Veronesi in Cani d’estate (La nave di Teseo). Ed è proprio questo il punto fondamentale del libro e della riflessione che propone. Un richiamo che ricorda quello di Albert Camus il quale, all’indomani della Seconda guerra mondiale, sosteneva la necessità di una nuova utopia, più modesta: un’utopia capace di fare i conti col fatto che “non tutto si può salvare”, e che dunque bisognasse scegliere di salvare “almeno i corpi” (in Mi rivolto dunque siamo, a cura di Vittorio Giacopini, Elèuthera, 2008). Lo scrittore franco-algerino indicava in questa scelta la pietra fondativa non di una nuova ideologia (nella crisi incipiente delle grandi narrazioni storiche), ma una sorta di nuovo stile di vita basato sul principio, appunto, del salvare i corpi. Un accordo provvisorio, diciamo così, tra gli uomini che non vogliono essere né vittime né carnefici. Per tali ragioni, nel testo di Veronesi, a ben vedere, non c’è proprio nulla di intellettualistico ed è uno dei suoi maggiori pregi. Non è un paradosso: Veronesi è un intellettuale di professione, per ragioni di mestiere, di collocazione sociale e funzione culturale. Eppure, in questo testo emerge la sua primaria condizione di cittadino. Non c’è Veronesi narratore (poi si vedrà che in qualche modo tuttavia c’è), ma il Veronesi che vive conficcato - viene da dire - nella realtà sociale e nella tragedia del mondo. E che esprime una posizione di favore verso l’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo e si batte, appunto, per “salvare i corpi” dei naufraghi dalle acque del Mediterraneo. Che è il vero tema del libro. Cani d’estate nasce durante la scorsa estate. Il “caso Diciotti” e l’eco che produce nell’opinione pubblica determinano lo sconcerto desolato di tanti e, tra questi, di Veronesi che con la lettera che indirizza a Roberto Saviano sul “Corriere” inizia ad “abbaiare”. Ne segue una riflessione di natura prevalentemente morale che coinvolge numerose personalità della cultura, intorno al tema della differenza tra la vita e la morte. Allo stesso tempo, Veronesi si impegna per potersi imbarcare su una nave della Ong Proactiva Open Arms e vivere l’esperienza del soccorso in mare, si documenta sulla reale situazione nel Mediterraneo, sotto il profilo geopolitico, ma anche climatico e nautico, resta in attesa della possibilità di salire a bordo per settimane. Finché, con il blocco delle imbarcazioni delle Ong, non è costretto a rinunciare al suo progetto. Così nasce Cani d’estate: come atto di una resistenza “modesta” - avrebbe detto Camus - ma non certo superflua. Un libro che descrive l’atmosfera visiva e sensoriale di una caligine estiva (sullo sfondo, immancabili, i latrati dei cani), che altera la percezione e deforma la realtà. Fino a rendere ordinarie le parole (quali quelle di un ministro) che fino a ieri sembravano indicibili e a considerare possibili quelle azioni (come la chiusura dei porti) che non pensavamo ci fosse dato di vedere. È qui, nel racconto di questa iper-realtà deforme, ma anche stralunata, che emerge il Veronesi narratore, delle ambiguità e dei dilemmi irrisolti, che tuttavia - in questa precisa circostanza - ha un punto di riferimento solido. Ovvero sceglie di stare incondizionatamente dalla parte di coloro che tentano la traversata del Mediterraneo perché, appunto, qui si misura la differenza tra la vita e la morte. Perché il naufragio ha questo primo effetto: denuda i corpi e ci restituisce, dunque, l’essenza della condizione umana. La “nuda vita”, cioè. La domanda che immediatamente viene da porsi è la seguente: ma la scelta di Veronesi non ha, forse, un residuo connotato disperatamente intellettualistico? E non contiene, dunque, il rischio del pensiero e della parola rivolti a pochi già persuasi uditori? Non è detto. L’opzione di Veronesi è probabilmente impopolare, ma tutt’altro che isolata. E un dato ci viene in aiuto. Un dato demografico inoppugnabile. In Italia, tutte le manifestazioni di allarme sociale, variamente collegate all’immigrazione, derivano dalla presenza (stimata in 500-600 mila unità) di una popolazione di irregolari. Ma, a fronte di questi, nel nostro Paese vivono, e da decenni, alcuni milioni di stranieri regolari. Il senso comune della società sul tema dell’immigrazione si fonda, in buona parte, sulle ansie collettive e gli stati di insicurezza determinati dalle figure di quanti sbarcano sulle nostre coste, di coloro che vivono nella marginalità, di chi delinque e sta in carcere o è destinato a entrarvi (e si ritrovano tutti in quel gruppo di 500-600mila irregolari). Ma, poi, ci sono oltre 5 milioni e 200 mila regolari e, tra essi, gli 826 mila minori che frequentano la scuola pubblica, e anche di questi gli italiani fanno esperienza e conoscenza e opinione comune. Veronesi è padre di cinque figli, e mi sembra un dato rilevante della sua biografia personale e culturale. Il suo senso di umanità, se vogliamo chiamarlo così (e la definizione mi lascia davvero insoddisfatto), ha a che vedere più con questa esperienza vitale e affettiva che con una costruzione mentale e letteraria e, tanto meno, politica. Qui interviene un’altra considerazione: il rapporto con la politica, da parte di Veronesi e di altri come lui (ritenuti grossolanamente “militanti” e “di sinistra”), è davvero anomalo. Chi pensa alla relazione tra il Partito comunista e gli intellettuali degli anni 50-60, o anche di 40 anni fa, è completamente fuori strada. Innanzitutto perché il Pci semplicemente non c’è più, e da tempo, e poi perché gli intellettuali di cui parliamo (esemplifico: Albinati, Stancanelli, Bergonzoni, Genna, Murgia, Virzì, Pennacchi, ma anche chi, come Doninelli, viene da un altro percorso culturale) non sembrano aver nostalgia o bisogno di un Pci, o di un suo succedaneo o epigono. Per la verità, non sembrano proprio cercare alcunché di complessivo e generale. È vero che, nelle ultime settimane, una serie di iniziative hanno indotto molti a parlare di movimento civico e addirittura di “nuova politica”. Se mi è consentito, inviterei tutti alla calma. Ed a considerare come il sentimento di Veronesi - ridotto all’osso, insomma alla sua natura primaria - assomigli piuttosto a quello di chi sulla Circumvesuviana di Napoli non ce la fa proprio più a voltare la testa dall’altra parte e inveisce contro il disgraziato che si esibisce in un esercizio di bullismo etnico. È come se queste e altre azioni (anche nella forma più semplice e occasionale) si rivolgessero, magari in modo sprovveduto, alla fonte stessa della politica, laddove essa si manifesta nella sua dimensione originaria: come relazione tra individui intorno al bene essenziale dell’incolumità della vita. Ne consegue che il primo atto politico è il “mutuo soccorso”, la tutela di chi si trovi in stato di pericolo, fidando di essere tutelato qualora ci si trovasse, a propria volta, in quello stesso stato di pericolo. È qui, in prima istanza, che si trova il fondamento dell’organizzazione sociale (la vita di comunità) ed è ancora qui il fondamento dell’organizzazione politica (l’amministrazione dei poteri di una società). Insomma, di questo parliamo quando parliamo del mare. Dunque, ci dice Veronesi, non si deve “pensare che abbaiare non abbia valore”, perché invece ne ha, visto che è quello che fanno i cani quando sentono il pericolo. La lettera aperta - “Caro, Roberto, dobbiamo mettere i nostri corpi su quelle navi”, laggiù, “dove lo scempio ha luogo”: così, il 9 luglio scorso, Sandro Veronesi scriveva nella lettera aperta a Roberto Saviano pubblicata sul “Corriere della Sera”. Un appello rivolto a Saviano proprio perché - scriveva Veronesi - il suo di corpo “è già in ballo, da anni, è già sul campo”. Il giorno dopo, sulle pagine di “Repubblica”, Saviano ha risposto a Veronesi, condividendo il suo appello. L’incontro a Prato - Il 23 novembre alle 21 Sandro Veronesi sarà a Prato nella parrocchia di San Paolo a Stagnana (via Carissimi, 7) per presentare il libro in anteprima. Dialogheranno con lui lo scrittore Mario Desiati e Jean-Jacques Ilunga, parroco di San Paolo Legambiente: l’emergenza di Catania non sono le Ong di Edoardo Zanchini* Il Manifesto, 23 novembre 2018 Sarebbe bastato confrontare i protocolli adottati nel mondo da Msf per smaltire rifiuti medici e vestiti per capire i reali rischi per lo “smaltimento illegale di rifiuti pericolosi”, secondo la procura, e che tale non è. Ma d’altronde qui ci troviamo di fronte a una vera e propria ossessione contro le Ong che si occupano di salvare chi scappa da guerre e miseria. Se non fosse andata in porto l’accusa per i vestiti dei migranti si sarebbe di sicuro trovato qualcos’altro. Eppure non è banale che proprio su gestione e traffico illecito di rifiuti si sia concentrata la procura di Catania. Perché quella città è da anni in una situazione di emergenza, con dati di raccolta differenziata penosi, fermi all’8% quando perfino la disastrata Roma arriva a tre volte tanto. Ed è proprio intorno all’intreccio di interessi, negligenze e violazioni di leggi nazionali e direttive europee che bisognerebbe indagare. Una situazione che condanna i cittadini a convivere con i rifiuti per strada e impedisce di trarre i vantaggi da quel ciclo di raccolta differenziata, recupero e riciclo che permette di creare lavoro oltre a vantaggi ambientali per le comunità. Non solo, se la questione è davvero lo smaltimento illegale di rifiuti occorre ricordare a Zuccaro che Catania è una delle città con il più alto numero di reati in Italia. Siamo sicuri che Medici senza Frontiere sarà capace di dimostrare la follia di questo provvedimento, ma è un ennesimo segnale inquietante di una campagna in atto contro ogni forma di solidarietà e di integrazione. E non dobbiamo accettare questa prospettiva perché si porta dietro una serie di errori a catena, voluti dalla Lega proprio perché aiutano a allargare il numero dei clandestini con l’obiettivo di trarre vantaggio dagli allarmi lanciati da questa situazione. Tra le conseguenze più assurde del Decreto Sicurezza c’è la cancellazione di quel modello di accoglienza diffusa che si è andato costruendo intorno agli Sprar. Con centri diffusi in tutta Italia che hanno permesso di risolvere un’emergenza favorendo al contempo lo sviluppo locale e portando benefici ai territori. I risultati costruiti in questi anni sono stati raccolti e raccontati da Legambiente in un dossier presentato ieri a Roma con le storie di 100 comuni. Dai piccolissimi consorziati nel progetto Agape in provincia di Asti, a quelli del Canavese in provincia di Ivrea o della rete Welcome in provincia di Benevento, da Comerio e Latina a Roccella Jonica e Uggiano. Un’accoglienza che favorisce lo sviluppo attraverso concreti percorsi di integrazione, di rilancio delle aree interne, borghi abbandonati e di creare lavoro in quelle comunità. Ora però il Decreto Legge 113 mette in crisi questo modello, limitando la possibilità di accesso e riducendole risorse, con la conseguenza di creare centri sempre più grandi, cancellando ogni speranza di creare un percorso di vita e di integrazione per le persone. Così si impedisce ogni tentativo di avere nei migranti un alleato in più per affrontare alcune delle principali emergenze nazionali: la crisi demografica, il bilancio dei conti dell’Inps, la crisi delle aree interne, la messa in sicurezza del territorio, il recupero di superfici agricole abbandonate, il decoro urbano. E cancella dall’orizzonte del paese la possibilità di arricchire le comunità locali di nuove culture, le scuole di nuovi italiani, i territori di nuove attività e opportunità. Il paradosso è che i sindaci si ritroveranno soli di fronte alla presenza di grandi concentrazioni di stranieri regolari e irregolari senza speranza. Proprio quello che vuole Salvini. *Vicepresidente di Legambiente Gli italiani rapiti all’estero e il virus dell’indifferenza di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 23 novembre 2018 Gli insulti a Silvia Romano sui social sono la faccia orribile e deforme di un sentimento di crescente insofferenza di fronte a ciò che turba la nostra tranquillità. Gli energumeni che sui social vomitano insulti su Silvia Romano, la giovane cooperatrice rapita in Kenya, non sono dei mostri, o dei marziani: magari fossero solo questo. Sono la faccia orribile e deforme di un sentimento che, nella sfera nascosta e inconfessabile di molti di noi, alberga in modo inespresso: il fastidio, forse anche l’irritazione, per i problemi che può provocare il rapimento di una nostra giovane connazionale. Gli energumeni dei social odiano e spargono veleni: è il loro mestiere. Danno addosso a una ragazza che sta rischiando la vita: non sanno fare altro e forse articoli come questo, alimentando interesse attorno alle loro gesta parecchio infami, può avere addirittura un effetto controproducente. L’insulto, il berciare torvo è il loro linguaggio. Ma stavolta non possiamo rifugiarci in un idillio di purezza separata e dire che mai scriveremmo simili orrori. Stavolta dobbiamo dire che il nostro interesse per un’italiana rapita è di molto scemato, e che ci siamo rinchiusi nella nostra nicchia nazionale perché tutto ciò che accade al di fuori dei nostri confini va tenuto lontano. Ora è così, ma fino a pochi anni fa non era affatto così. Quando un nostro connazionale cadeva nelle mani dei rapitori terroristi, dei fondamentalisti islamici, delle bande di tagliagole, l’opinione pubblica sembrava scossa. Sempre. O quasi sempre, perché del destino del prete Paolo Dall’Oglio rapito in Siria a nessuno è interessato più di tanto, senza vergogna. Si seguivano con apprensione le dirette televisive e l’arrivo in aereo in Italia degli ostaggi liberati veniva celebrato con apposite cerimonie mediatiche: la discesa dalla scaletta, il saluto delle autorità, l’abbraccio con le famiglie felici, ma divorate dalla tensione dei giorni precedenti, i fiumi di interviste. Si tenevano sedute no stop nelle stanze del governo, a cominciare da Palazzo Chigi dove operava un’unità di crisi per gestire la situazione, valutare le richieste di riscatto, attivare contatti limpidi e sotterranei per riavere indietro chi era nelle mani della banda dei rapitori. Per la liberazione della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, per fortuna tornata viva in Italia, perse la vita nel 2005 un coraggioso servitore dello Stato italiano come Nicola Calipari. Per liberare il giornalista della Stampa Domenico Quirico, sulla cui sorte circolava molto pessimismo fortunatamente smentito, si mosse in prima persona l’allora ministro degli Esteri Emma Bonino. E si seguivano quelle vicende, come quella degli operatori in Iraq, con trepidazione, interesse, come se in gioco ci fosse non solo qualche vita umana, ma la nostra stessa comunità nazionale. Poi ci si divideva, si polemizzava, si aprivano fronti di contrasto politico, ma quelle vicende ci appassionavano. Ci appassionavamo perché ci riguardavano, ci appartenevano. Esisteva una dimensione, quella che superficialmente chiamiamo politica estera, ruolo internazionale dell’Italia, che si rifletteva sull’interesse che l’opinione pubblica italiana nutriva per qualcosa che trascendeva i nostri confini. Oggi, non più. Il fastidio, l’irritazione per la sorte di Silvia Romano, è il fastidio che l’”estero” riporta sull’Italia. Vogliamo stare tranquilli, ridurre al minimo le preoccupazioni. Del conflitto in Siria ci interessa solo la ricaduta che su di noi può avere la tragedia dei profughi. Dei problemi che squassano la Libia sentiamo di essere toccati solo sull’aspetto migranti: una Libia stabilizzata ci salva, una Libia preda dell’anarchia e delle faide tra bande armate rivali ci minaccia. Stiamo in Afghanistan con i nostri soldati, ma con disappunto, malanimo, rancore: perché occuparci di vicende così lontane, che poi richiamo di essere addirittura il bersaglio dell’ira dei terroristi? I social offrono il versante agghiacciante e mostruoso di questo atteggiamento, il loro accanirsi sulla sorte di Silvia Romano provoca raccapriccio. Ma il fastidio e l’irritazione restano, anzi aumentano. Semplicemente vorremmo che non accadesse nulla che possa turbare la nostra protetta tranquillità: questo è il cambio di paradigma nella mentalità collettiva. Un rinchiudersi impaurito, e insieme, sullo sfondo, la crescente certezza che l’Italia non possa più giocare alcun ruolo nel mondo, dove persino la vicenda di una ragazza in Kenya, vicino ai posti dorati del turismo esotico, può creare tensioni e problemi. Medio Oriente. Migliaia di rifugiati siriani in Libano tornano a casa. Con la forza di Roberto Prinzi Il Manifesto, 23 novembre 2018 Tra i 55mila e i 90mila profughi hanno lasciato il paese, spesso costretti dalle politiche del governo o l’ostilità della società. E peggiorano le condizioni di vita nei campi: 20 aborti ad Arsal per acqua inquinata. Qualche giorno fa venti rifugiate siriane nella città libanese di Arsal (a confine con la Siria) hanno abortito inaspettatamente. I sospetti sono subito caduti sull’acqua inquinata: l’infrastruttura nell’area è stata danneggiata lo scorso mese a causa delle pesanti piogge che hanno colpito il Paese dei Cedri e che hanno distrutto le tende in cui vivono i rifugiati (circa 100mila nella zona). Le condizioni umanitarie dei siriani in Libano - un milione ufficialmente, oltre 1,5 milioni nella realtà, più di uno per ogni 4 libanesi - destano da anni le preoccupazioni delle organizzazioni umanitarie e dell’Unhcr. Guardati con sospetto, quando non con astio, da molti libanesi perché ritenuti fardelli sociali che gravano su un Paese che già annaspa (non ha ancora un governo e ha un debito pubblico pari a più del 150% del Pil) ed emarginati dalle autorità locali che sui loro corpi costruiscono consenso politico, gran parte dei rifugiati siriani sono considerati in Libano “non-persone”. Possono lavorare in certi settori (edilizia e agricoltura), ma devono ottenere dei permessi se vogliono essere impiegati in altri settori. Facile a dirsi, quasi impossibile averli: il 73% di loro non ha i permessi di residenza necessari a ottenere quelli di lavoro. Per anni il problema è stato bypassato lavorando illegalmente. Ovviamente a un prezzo elevato: nessuna sicurezza e tutela da parte dei datori di lavoro e, soprattutto, salari bassi che hanno scatenato la rabbia di molti lavoratori libanesi che si sentono scavalcati dalla manodopera a basso costo siriana. E se per anni sono stati mal digeriti dal mondo politico locale, ora che la guerra siriana sembra delineare un quadro più chiaro con il governo siriano vittorioso, l’atteggiamento di Beirut si è fatto molto più intransigente. L’obiettivo - più volte ripetuto dal ministro degli esteri a interim Bassil - è “riportarli a casa”. E nei fatti diverse migliaia di loro (si stima tra le 55mila e le 90mila) sono già tornati in Siria. Se una parte lo ha fatto volontariamente, molti altri sono stati di fatto costretti a ritornare a causa delle politiche delle autorità libanesi. Beirut usa il pugno di ferro sapendo bene i rischi dell’operazione: a inizio mese Moin Merehbi, il ministro ad interim libanese per gli affari dei rifugiati, ha detto che almeno venti rifugiati sono stati uccisi da Damasco una volta tornati a casa. Ma il timore dei siriani è anche rappresentato dai gruppi jihadisti e salafiti attivi nelle aree in cui un tempo vivevano. Unhcr e governi occidentali hanno più volte ribadito che è troppo presto per discutere un loro ritorno su larga scala dato che non ci sono ancora le condizioni di sicurezza per poterlo effettuare. Appelli che però cadono nel vuoto all’interno del cinico mondo politico libanese. E se il Paese dei Cedri vive da sei mesi una impasse politica a causa dei suoi settarismi, la mano della repressione prosegue a pieno regime. Poco importa: dopo tutto qui si tratta di “non-persone”. Medio Oriente. Washington e alleati paralizzano la ricostruzione in Siria di Michele Giorgio Il Manifesto, 23 novembre 2018 L’Amministrazione Trump e alcuni paesi europei e arabi condizionano lo sblocco di fondi e progetti all’avvio di una “transizione” politica, ossia alla fine del potere di Assad e all’uscita dalla Siria delle forze iraniane. L’Onu si adegua. La partita siriana non è ancora finita. Se nel primo tempo il presidente siriano Bashar Assad e i suoi alleati - Russia, Iran e Hezbollah - sono riusciti a riprendere gran parte del paese grazie alla battaglia decisiva vinta due anni fa ad Aleppo, nel secondo tempo gli avversari occidentali e arabi faranno di tutto per ribaltare il risultato. L’obiettivo è, come nei passati sette anni, la rimozione dal potere di Assad e la fine dell’alleanza tra Siria e Iran e dell’allineamento di Damasco alla cosiddetta “Mezzaluna sciita”. Un risultato che non sono riusciti ad ottenere con le armi e l’impiego di migliaia di jihadisti e islamisti “ribelli” e che adesso ritengono raggiungibile imponendo il blocco più o meno totale della ricostruzione del Paese devastato dalla guerra. Di ricostruzione in Siria si parla già da un paio d’anni e di tanto in tanto si legge di progetti che imprese russe, iraniane e di altri paesi fuori dal “fronte anti-Assad” sarebbero pronte ad avviare per rimettere in piedi il Paese. Le Nazioni unite calcolano in 400 miliardi il costo della ricostruzione. Una cifra immensa che possono permettersi di sborsare solo gli Usa, l’Europa e le ricche petro-monarchie del Golfo e pertanto destinata a rimanere solo inchiostro su carta sino a quando Assad, o meglio l’intero establishment politico e militare siriano, non si farà da parte. La linea è stata dettata al Palazzo di vetro, su pressione di Washington e dei suoi alleati. Un documento dell’ottobre 2017, disponibile sul sito dell’Onu, definisce criteri e principi dell’aiuto umanitario alla Siria. Un punto evidenziato in grassetto sancisce che “Soltanto quando ci sarà una transizione politica genuina e inclusiva negoziata dalle parti, le Nazioni Unite saranno pronte a facilitare la ricostruzione”. Il mese scorso Washington ha annunciato che rifiuterà qualsiasi assistenza alla ricostruzione post-bellica se forze iraniane saranno presenti in Siria. Il Segretario di Stato Mike Pompeo, parlando a un gruppo pro-Israele, ha descritto la Siria come un “campo di battaglia decisivo” e negato la volontà degli Usa di disimpegnarsi dal Paese arabo. “L’onere di espellere l’Iran dal paese ricade sul governo siriano - ha affermato Pompeo - se la Siria non garantisce il ritiro totale delle truppe sostenute dall’Iran, non riceverà un dollaro dagli Stati Uniti per la ricostruzione”. La sconfitta dell’Isis in Siria, ha aggiunto il responsabile della politica estera statunitense, “era il nostro obiettivo principale e continua ad essere una priorità ma ad esso si sono aggiunti altri due obiettivi: la risoluzione politica del conflitto e la rimozione di tutte le forze iraniane”. Secondo la Nbc gli Stati Uniti impediranno in ogni modo possibile agli aiuti alla ricostruzione di entrare in Siria. Questa strategia non prevede che Assad sia rovesciato con la forza bensì con la pressione economica e sanzioni dure. Il governo siriano se vorrà ottenere i finanziamenti internazionali per la ricostruzione dovrà tagliare i legami che ha con l’Iran mentre Assad dovrà accettare di uscire di scena, annunciando come prima cosa che non si candiderà per un nuovo mandato presidenziale. Le agenzie dell’Onu si sono adeguate al diktat di Usa e alleati occidentali e arabi. “Ad Aleppo, ad esempio, le Nazioni unite hanno una politica ben precisa” ci spiega una fonte siriana che collabora con una importante organizzazione umanitaria e che ha chiesto l’anonimato “se un edificio è stato danneggiato dalla guerra le agenzie dell’Onu potrebbero intervenire per ripararlo. Invece si astengono categoricamente da qualsiasi lavoro di costruzione ex novo perché la linea è che in Siria la guerra va avanti e Assad non ha vinto”. Non pochi dirigenti delle Nazioni unite contestano questa linea che penalizza milioni di civili siriani, aggiunge la fonte, “ma non possono muovere un passo senza il via libera dall’alto quando si tratta di lavori di ricostruzione, anche di piccola entità, di infrastrutture civili, anche quando potrebbero migliorare la vita di comunità prive di servizi essenziali, come l’elettricità e la rete idrica”. Il no alla ricostruzione non è seguito solo dall’Onu. Per la Banca Mondiale la situazione nel paese sarebbe ancora incerta. A inizio novembre il vice presidente per il Medio oriente e il Nord Africa della Banca Mondiale, Ferid Belhaj, ha detto al giornale online Sputnik che “Per ora l’ambiente (in Siria) non è favorevole” e ha aggiunto che un cambiamento di linea sarebbe comunque legato al consenso della comunità internazionale. La partita si gioca persino sulla pelle dei profughi. Se è giusto che coloro che sono scappati dalla guerra (verso Libano, Turchia, Giordania e altri paesi) tornino in patria in condizioni di sicurezza e che alcuni di loro non siano costretti a subire eventuali punizioni da parte delle autorità, allo stesso tempo il rientro dei profughi viene comunque permesso con il contagocce perché non si vuole riconoscere la fine del conflitto e la stabilità della presidenza Assad. Intanto le petromonarchie sunnite che tanto hanno fatto per abbattere Assad, armando e finanziando jihadisti e qaedisti in Siria, ora mandano segnali concilianti e fanno capire di essere pronte a riallacciare i rapporti con Damasco. Già qualche mese fa Anwar Gargash, l’influente ministro degli esteri degli Emirati, aveva parlato di “grave errore” in riferimento all’espulsione della Siria dalla Lega Araba (voluta dall’alleata Riyadh). L’obiettivo di questa svolta è combattere l’Iran e spezzare, forse promettendo generosi aiuti economici, l’alleanza tra Tehran e Damasco. E anche limitare l’influenza della Turchia. “La situazione - scrive Kamal Alam sul portale Middle East Eye - non è diversa dal precedente riavvicinamento tra il defunto re Abdullah dell’Arabia Saudita e Assad dopo l’assassinio di Rafiq Hariri in Libano nel 2005. In precedenza, come ora, i sauditi misero fine alla loro ostilità nei confronti di Damasco per combattere l’influenza iraniana e turca nel Levante”. Stati Uniti. 13enne colpita da proiettile vagante mentre guarda la tv di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 23 novembre 2018 Aveva vinto un premio per un tema contro la violenza delle armi. Nel 2018 negli Stati Uniti sono oltre 13 mila le persone morte a causa delle armi da fuoco, e oltre 25 mila quelle rimaste ferite. L’America commossa per la sua morte. Era stata premiata per un tema sul pericolo delle armi nella sua città, Milwaukee, in Wisconsin, e due anni dopo è morta per un proiettile vagante che l’ha centrata mentre era in casa: è il triste destino della 13enne Sandra Parks, una ragazzina afroamericana uccisa mentre guardava un film in tv nella sua cameretta. “Mamma, mi hanno sparato...”, sono state le ultime parole di Sara che ha avuto la forza di arrivare nel soggiorno di casa prima di accasciarsi a terra. “L’ha presa come se fosse un piccolo soldato”, ha raccontato la sorella della bambina, Tatiana Ingram, a un’emittente affiliata con la Cnn. Due balordi con precedenti penali per furto di armi sono stati arrestati: entrambe sono stati trovato in possesso di almeno tre fucili semiautomatici AK-47. “I bambini sono vittime dell’assurda violenza delle pistole”, aveva scritto la bambina nel suo tema che era arrivato terzo a un concorso scolastico, “io mi siedo e devo sfuggire a ciò che vedo e sento ogni giorno. Quando lo faccio, arrivo sempre alla stessa conclusione.. siamo nel caos”. Non è chiaro se lo sparo avesse per obiettivo proprio la casa della bambina. Ma le sue parole d’amore, lette a distanza di due anni e alla luce della sua morte, suonano come un monito: “La verità è che dovremmo avere cura gli uni degli altri, dovremmo imparare a camminare ciascuno nelle scarpe altrui, superare i dissapori, amarci e amare le persone intorno a noi”. Parole scritte proprio perché, come ha raccontato la madre - Bernice Parks - Sandra non amava la violenza e non sopportava le notizie continue di sparatorie. La follia delle armi - Il sindaco di Milwaukee, Tom Barrett, ha denunciato “la follia” dell’uso delle armi nella città del Wisconsin e in tutti gli Stati Uniti. E migliaia di americani si sono commossi nel leggere la storia di Sandra. Nel 2018 negli Stati Uniti sono oltre 13 mila le persone morte a causa delle armi da fuoco, e oltre 25 mila quelle rimaste ferite. Di queste vittime 595 sono bambini fino ad 11 anni e 2.526 teenager dai 12 ai 17 anni. Sono gli ultimi dati del Gun Violence Archive. In totale, in base ai numeri aggiornati al 22 novembre, il numero degli incidenti nel 2018 è stato di 50.822, e 317 le sparatorie di massa. Ancora, sono 261 i poliziotti feriti o uccisi, mentre sono 1.904 i sospetti ferito o uccisi dagli agenti. Gli incidenti involontari, quelli che spesso riguardano i bambini in casa, sono 1.417. Stati Uniti. Carovana migranti: Trump autorizza l’uso della “forza letale” Corriere della Sera, 23 novembre 2018 “Non ho scelta”, ha detto Trump, che poi ha aggiunto che nella carovana di migranti ci sono moltissimi criminali pericolosi. Ma il segretario alla Difesa sembra più cauto: i 6mila soldati schierati al confine rimarranno per lo più disarmati. Il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha autorizzato le truppe al confine Usa-Messico a “usare la forza letale”, se necessario, contro la carovana di migranti in avvicinamento. Trump, conversando con i giornalisti a Mar-a-Lago, ha anche minacciato di chiudere “l’intero confine”. La notizia è riportata dalla Cnn. “Se devono, useranno la forza letale, ho dato l’ok - ha detto Trump - se devono e spero che non debbano farlo. Non ho scelta”. Trump ha parlato di circa 500 criminali all’interno della carovana. “Li fermeremo, li cattureremo e li metteremo in prigione”, ha scritto su Twitter. I soldati al confine tra Usa e Messico sono circa 6mila. Il nuovo ordine - Le parole di Trump però non trovano riscontro in quelle del segretario della Difesa, Jim Mattis, che ieri ha sottolineato che i circa 6 mila soldati schierati al confine tra Stati Uniti e Messico rimarranno per lo più disarmate e che non vi sarà un potenziamento delle loro funzioni per arrestare i migranti. E ciò nonostante una nuova direttiva della Casa Bianca gli abbia dato la discrezionalità di fornire nuovi tipi di protezione agli agenti della pattuglia di frontiera. L’ordine, firmato martedì sera dal capo dello staff della Casa Bianca John Kelly, non conferisce nuovi compiti ai militari, ma consente a Mattis di espandere le sue funzioni se il segretario alla sicurezza nazionale Kirstjen Nielsen lo richiede. “Non stiamo facendo (il lavoro) delle forze dell’ordine. Non abbiamo l’autorità di arresto”, ha detto Mattis. Arabia Saudita. Caso Khashoggi, un’intercettazione della Cia inguaia Bin Salman di giordano stabile La Stampa, 23 novembre 2018 Telefonò al fratello negli Usa: “Dovete metterlo a tacere”. Una nuova rivelazione dei media turchi aggrava la posizione del principe ereditario Mohammed bin Salman sul caso Jamal Khashoggi. La Cia avrebbe un’intercettazione telefonica, ha scritto il quotidiano turco Hurriyet, in cui Bin Salman chiede al fratello Khaled, ambasciatore saudita a Washington, di “mettere a tacere Jamal Khashoggi il più presto possibile”. L’esistenza dell’audio sarebbe stata segnalata alle autorità turche dal direttore della Cia Gina Haspel durante la sua visita in Turchia, il mese scorso. Secondo Hurriyet, gli 007 Usa avrebbero anche altre intercettazioni. Il dossier della Cia è stato sottoposto al presidente Donald Trump martedì. Trump ha ammesso che il principe “potrebbe essere” il mandante dell’omicidio ma ha ribadito che l’alleanza con l’Arabia Saudita non deve essere messa in discussione. Riad: il principe è la nostra linea rossa - Alle rivelazioni turche ha reagito il governo saudita, che ha replicato che Bin Salman è “la nostra linea rossa”. Il ministro degli Esteri Adel al-Jubeir ha dichiarato che le richieste di rimozione del principe ereditario Mohammed bin Salman sono inaccettabili, “la linea rossa” della monarchia. La dichiarazione arriva anche a spazzar via le voci di fronda all’interno della Casa Reale. Anche il discorso dei giorni scorsi di Re Salman, anche se non lo ha menzionato, è stato letto come un appoggio senza condizioni al figlio. Nonostante le continue rivelazioni dei media americani, specie del Washington Post che ospitava gli editoriali del giornalista e dissidente, dopo la presa di posizione di Trump il potere di Mbs è ormai di nuovo consolidato. Anche la Cia ha ammesso che la sua ascesa al trono, alla morte del re, è da dare “per scontata”.