Salute in carcere: un diritto negato di Natascia Ronchetti Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2018 Oltre il sovraffollamento c’è un’altra emergenza-detenuti: quella sanitaria. Nessun posto letto in ospedali di regioni come la Lombardia; la mancanza di personale; una riforma di competenze che ha fatto flop. E intanto c’è chi chiede che i propri cari malati non vengano fatti morire. Quando Agostino Siviglia, garante dei detenuti di Reggio Calabria, presenta la sua relazione sulle due carceri cittadine, Antonino Saladino, 31 anni, è morto per un malore da poco più di due mesi in quella di Arghillà, dove era rinchiuso per traffico di droga. È il 24 maggio scorso, siamo a palazzo San Giorgio, sede del Comune. Siviglia, davanti al vicesindaco e ai carabinieri, affonda la sanità penitenziaria reggina. “La problematica più grave e complessa - dice - è rappresentata da un presidio sanitario che risulta sempre meno garantito. Manca la copertura infermieristica sulle 24 ore, il personale medico è del tutto insufficiente, non c’è un gabinetto radiologico, la specialistica necessita di implementazione”. Erminia, sorella di Saladino, aveva già denunciato: “Mio fratello stava male, aveva la febbre e vomitava. L’ambulanza è stata chiamata quando per lui non c’era più nulla da fare”. L’assistenza fuori dal carcere è quasi inesistente. L’azienda ospedaliera Bianchi-Melacrino-Morelli di Reggio Calabria, solo per citarne una, dispone di 2 soli posti letto per oltre 600 detenuti: in tutta la regione sono 4. Solo che la Calabria non è un caso a sé. E forse non è nemmeno il peggiore. Da Nord a Sud sono appena 133 i posti riservati dagli ospedali italiani a chi è in carcere: e i detenuti sono più di 59mila. Alcune regioni, poi, non ne hanno nemmeno uno. Lombardia, Veneto, Sardegna. Così i tempi di attesa per un intervento chirurgico sono interminabili. Si arriva anche a 5 anni. Non va molto meglio per le visite specialistiche: da un minimo di uno a due anni. Con l’aggravante che le cartelle cliniche digitali sono un miraggio, girano solo scartoffie che spesso si perdono. Così quando un detenuto viene trasferito nessuno può assicurargli la continuità terapeutica, e tutto riparte da zero. “La situazione è drammatica - scandisce Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania. Ricevo una media di 15 lettere alla settimana dai detenuti. E il primo problema è sempre quello della salute. Per un ecodoppler attendono un anno e otto mesi, per una visita ortopedica due anni”. Nel frattempo nei tribunali si impilano i fascicoli sulla malasanità in carcere: nove medici, compreso un perito, imputati di omicidio colposo a Siracusa per la morte di Alfredo Liotta, deceduto nel luglio del 2012 nel carcere di Cavadonna; stessa accusa per otto guardie carcerarie e due medici di Regina Coeli per il suicidio di Valerio Guerrieri, 21 anni: soffriva di disturbi mentali, il giudice ne aveva disposto la scarcerazione ma era ancora in cella in attesa di essere ricoverato in una Rems, le strutture che hanno sostituito gli Opg. Il fatto è che i casi Liotta, Guerrieri, Saladino, sono solo la punta dell’iceberg. “Dopo il sovraffollamento oggi c’è un’altra emergenza: quella sanitaria”, conferma Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio di Antigone, associazione per i diritti dei detenuti. “La sanità in carcere non è affatto un corpo alla pari nel sistema sanitario nazionale”, ammette Luciano Lucania, presidente della Società di medicina penitenziaria. “Il personale scarseggia, Stato e Regioni latitano. Montagne di carte e iniziative e siamo al punto di partenza”. Il punto di partenza è la riforma che nel 2008 ha sancito il passaggio delle competenze dal ministero della Giustizia a quello della Salute. Sono passati dieci anni ed è un flop, con corredo di scaricabarile delle responsabilità. “Le competenze sono delle Regioni e delle Asl”, dice il ministero della Salute. Regioni e Asl, a loro volta, denunciano un conflitto tra le ragioni della sanità e quelle della sicurezza, che guidano un’amministrazione penitenziaria a corto di agenti (sono poco più di 32.300, dovrebbero essere 41.130). “Non c’è il personale, questa è la madre di tutti i problemi - dice Stefano Branchi, coordinatore Cgil degli agenti di polizia penitenziaria. Per questo capita che non si riesca a trasferire un carcerato in ospedale perché mancano le guardie: ne servono due per un detenuto comune, almeno tre per uno sottoposto a regime speciale. Ogni guardia deve coprire più posti di servizio, una volta c’era un agente per ogni sezione con 50-60 detenuti, adesso è costretto a sorvegliarne tre”. L’ultimo bando ministeriale permetterà l’assunzione entro la fine dell’anno di 1.500 agenti, il ministero assicura che farà scorrere le graduatorie per reclutarne altri 1.300. “Ma sono del tutto insufficienti. E il ministero della Giustizia ci dice che mancano le risorse economiche”, aggiunge Branchi. Oggi tra le malattie più diffuse in carcere ci sono quelle psichiatriche, oltre il 40% dei detenuti soffre di disturbi mentali. Poi ci sono le patologie infettive correlate all’epatite C. Ma non funzionano nemmeno i presidi sanitari che avrebbero dovuto essere un esempio, come il Sestante, il reparto psichiatrico aperto nel 2002 nella casa circondariale di Torino. Il Garante nazionale, Mauro Palma, lo ha ispezionato due volte in un anno, l’ultima pochi mesi fa. Trova “sporcizia diffusa, muffa sulle pareti, nessuna doccia interna, servizi igienici a vista, materassi in pessime condizioni, letti privi di lenzuola”. Quando fa il secondo controllo la situazione è persino peggiorata. Si imbatte anche in una cosiddetta “cella liscia” per i detenuti con disturbi psichici in fase acuta. Un’eredità dei manicomi. È completamente vuota, scrive Palma, in condizioni “assolutamente inaccettabili”. “Non sappiamo - spiega Michele Miravalle di Antigone - in base a quali regole un detenuto viene rinchiuso in questo tipo di cella, quante volte viene visto da un medico. E se c’è una necessità di contenimento, questa andrebbe affrontata in un quadro di garanzie”. C’è chi nelle celle lisce è stato rinchiuso anche per più di 20 giorni, anche se dovrebbe essere utilizzata per un massimo di 36 ore. Questo tipo di celle sono più d’una nel nostro sistema carcerario. E, in questo caso, “il confine tra legalità e illegalità è sottile”. Mio figlio, morto in cella a 29 anni di polmonite. Adesso voglio la verità” di Natascia Ronchetti Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2018 “Ilaria Cucchi mi ha mandato un messaggio di solidarietà. L’ho ringraziata e a volte sarei tentata di chiamarla per chiederle un consiglio: è stata caparbia. Non credo che il caso di suo fratello sia paragonabile a quello di mio figlio: Stefano Cucchi è stato massacrato di botte. Ma in qualcosa in comune c’è: un sistema penitenziario che non funziona, strutture sanitarie che latitano. La vita di mio figlio era affidata al carcere. Ora pretendo risposte”. Laura Gottai vive a Portogruaro, in provincia di Venezia. Ha 55 anni, gli ultimi tre li ha passati a combattere, dentro le aule giudiziarie, per conoscere la verità sulla morte di suo figlio Stefano Borriello, stroncato a 29 anni da una polmonite comune nel carcere di Pordenone, dopo una settimana di forti dolori e febbre alta. La perizia di parte civile ha stabilito che una semplice terapia antibiotica avrebbe potuto salvarlo. Terapia mai prescritta dal medico del penitenziario, Giovanni Capovilla, che ora deve rispondere di omicidio colposo. La prima udienza del processo era prevista ieri, ma è stata rinviata per lo sciopero degli avvocati. E ancora una volta la signora Laura deve aspettare. Signora Gottai, quando ha saputo che suo figlio Stefano era morto? Erano le 23 del 7 agosto del 2015 quando mi hanno telefonato dal carcere. Nessuno mi aveva avvertita prima per dirmi che stava male da giorni. Poi ho saputo che è stata chiamata l’ambulanza quando non c’era più nulla da fare. Il personale del Pronto soccorso non ha fatto altro che accertare il decesso. Ha dubbi sulla ricostruzione dei fatti che riguardano la morte di Stefano? Io ho molti dubbi sul funzionamento del sistema penitenziario. Nel diario clinico del medico del carcere non c’è traccia degli accertamenti che avrebbe dovuto fare secondo il protocollo. Sarebbe bastata l’auscultazione: nemmeno quella è stata eseguita, gli sono stati dati solo degli antipiretici. Il medico è stato superficiale. Con l’aggravarsi delle condizioni di mio figlio avrebbe dovuto disporre gli accertamenti necessari. Ma mi domando fino a che punto il personale sanitario di un carcere sia autonomo. Quanto è vincolato dall’amministrazione penitenziaria? Non sono certa che a mio figlio sia sempre stato concesso dagli agenti di recarsi in infermeria quando stava male. Per questo credo che ci siano state concause. Mio figlio era tossicodipendente. Ma è entrato in carcere sano e dopo poco più di due mesi è morto. Ci sono state due richieste di archiviazione dell’inchiesta da parte della Procura a cui lei si è sempre opposta, fino a ottenere l’imputazione coatta per il medico del carcere. Come se le spiega? C’è scarsa attenzione verso ciò che succede in un carcere. I Tribunali sono pieni di fascicoli e fatti come questi sono ampiamente sottovalutati. I periti della Procura hanno ravvisato negligenze affermando però, in sostanza, che la morte di mio figlio non poteva essere evitata. È come dire a uno che ha un tumore: guarda non puoi avere la certezza di guarire quindi non ti prescrivo nemmeno una terapia. Il mio perito ha ribaltato questa conclusione. E io fin dal primo momento non ho accettato di sentirmi dire: “Suo figlio è morto e non c’è altro da aggiungere”. Non era cardiopatico. Non ha avuto un infarto. E non stiamo parlando di una disgrazia. Cosa si aspetta adesso? Mi aspetto che dal processo emerga con la massima chiarezza quello che è accaduto. Parliamo di incapacità? Di superficialità? Io voglio sapere. Sono convinta che mio figlio non sia stato assistito nel modo adeguato. Poi mi sono fatta una idea più complessiva del sistema carcerario: un luogo omertoso, dove tutti stanno attenti a non pestarsi i piedi l’un con l’altro. È solo un’opinione, certo. Ma non credo di essere molto lontana dalla realtà. E ora voglio giustizia. I colletti bianchi in carcere e la chimera del “modello tedesco” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 novembre 2018 In Italia sono 370, in Germania 7.986, ma in molti casi si tratta di semplici impiegati. Ritorna in auge il discorso che i detenuti in Italia per reati dei “colletti bianchi” sono una percentuale irrilevante, mentre in Germania sono il 13,2 percento. Il dato risulta reale. Secondo i dati del ministero di Giustizia, al 31 dicembre 2017 erano in carcere 57.608 persone tra uomini e donne, condannati in via definitiva o in attesa di giudizio. Di questi, secondo i dati Istat, 370 erano detenuti per “peculato, malversazione e altri delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”. I 370 sui 57.608 totali costituiscono in effetti lo 0,6 per cento. Il dato viene spesso utilizzato per dire che i potenti non finiscono in carcere, mentre i poveri sì. Il problema è che i reati dei colletti bianchi non necessariamente riguardano politici o grossi manager. Infatti non hanno una definizione legale precisa: quando si usa questa espressione c’è sempre un inevitabile margine di incertezza e discrezionalità. Di conseguenza, anche le statistiche possono cambiare in base ai reati presi in considerazione. La Germania, presa come esempio virtuoso da molti opinionisti e magistrati, secondo alcuni dati recenti, risulta avere ben 7.986 detenuti per questa tipologia di reati, a differenza dei circa 230 che risultano ristretti in Italia. Eppure, dire che i “potenti”, i dirigenti di enormi aziende - così come i politici - non finiscano in carcere è una falsità. Abbiamo l’esempio del fondatore ed ex presidente di Fastweb, Silvio Scaglia, finito in carcere addirittura da innocente. Così come Mario Rossetti, ex direttore amministrativo e finanziario di Fastweb, che si è fatto 100 giorni da innocente perché considerato, appunto, “l’uomo di Scaglia”. I cosiddetti potenti, se perseguiti, vengono condannati e in carcere ci finiscono, salvo - come chiunque - ricevere, a seconda della pena edittale, la pena sospesa o una misura alternativa. Sono pochi? Sì, perché quello che non si dice è che per “colletti bianchi” non si intende soltanto la classe politica o i grossi manager, ma anche il più ampio ceto impiegatizio. Nel linguaggio comune, per colletti bianchi si intendono quei lavoratori che non svolgono mansioni fisiche. In altre parole, i colletti bianchi sono i professionisti intellettuali, cioè coloro che lavorano utilizzando le conoscenze acquisite dagli studi compiuti. Il nome deriva dall’abito che normalmente queste persone indossano: una camicia bianca, il cui candore rimanda, appunto, al bisogno di non sporcarsi per compiere le loro mansioni. Classici esempi di colletti bianchi sono gli impiegati, i professionisti e i funzionari di Stato. Importante questa precisazione: infatti i numeri che riguardano la Germania coinvolgono soprattutto i dipendenti pubblici e i privati che commettono, appunto, danni alla pubblica amministrazione. La legislazione tedesca, infatti, è durissima nei confronti dei reati riguardanti la pubblica amministrazione. Una persona non può offrire un caffè all’assistente sociale, perché ciò potrebbe apparire come “corruzione”. In Italia, con la legge “spazza corrotti” in via di approvazione, si va in una direzione simile. In sostanza riguarderà ogni singolo piccolo impiegato della pubblica amministrazione o piccolo imprenditore che “si scontri” con la PA nelle attività quotidiane. La Germania, inoltre, ha una percentuale decisamente più alta di noi anche perché è durissima nei confronti dell’evasione fiscale che in ogni caso ha sempre rilevanza penale, anche se viene sottratto al fisco un solo euro. Le autorità considerano “evasore” il contribuente che mostra l’intento di sottrarsi agli obblighi fiscali e reputano sufficiente anche il dolo eventuale. Non fa differenza che l’evasione sia attuata tramite dichiarazione infedele o dichiarazione omessa. L’ordinamento prevede sanzioni pecuniarie e il carcere da 1 a 5 anni, che può arrivare ai 10 anni nei casi più gravi. Ritornando al discorso dell’esiguo numero, in Italia, delle persone recluse per reati considerate dei “colletti bianchi”, se mai dovessero aumentare grazie alla legge voluta dal ministro Bonafede, di certo non risolve il problema dei “ristretti” per altri tipi di reati e appartenenti a fasce deboli. Saranno sempre in carcere visto che rimane l’unica soluzione per loro, con l’aggravante che subiranno un ulteriore sovraffollamento. Innocenti in carcere Avvenire, 22 novembre 2018 In Italia 62 bambini scontano la pena con le mamme. Senza avere colpe. In pochi lo sanno, ma nel nostro Paese ci sono bambini che vivono in carcere. Sessantadue, per l’esattezza, di età compresa tra i due mesi e i sei anni. Detenuti per colpe loro? No di certo. Dietro le sbarre si trovano per i reati compiuti dalle loro mamme. Gravi, gravissimi anche, ma non abbastanza da giustificare la crudeltà di separarle dai loro piccoli quando sono appena nati. Ed eccolo qua, un bel rompicapo: la legge stabilisce che madre e figli non vadano in alcun caso divisi, ma anche che mai e poi mai i bambini dovrebbero vivere da reclusi. Per ovviare al problema si è deciso di istituire delle strutture diverse dalle carceri - anche se sempre chiuse all’esterno e sorvegliate - dove le mamme possano scontare la loro pena e i piccoli respirare un po’ di normalità. Si chiamano Icam - la sigla è l’acronimo di “Istituti a custodia attenuata per detenute madri” - ma nel corso del tempo ne sono nati appena 5 in tutta Italia. Col risultato che dove l’Icam non c’è, i piccoli finiscono comunque in cella. È a loro che l’Autorità garante dei diritti dei minori, il ministero della Giustizia e l’associazione Bambinisenzasbarre hanno pensato in occasione della Giornata mondiale dell’Infanzia che si è celebrata martedì, rinnovando la Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti. Un documento che impegna le istituzioni a un elenco di cose nient’affatto scontate per chi come questi bimbi vive ingiustamente da detenuto: l’accesso libero agli spazi all’aperto, ad asili nido e scuole, la possibilità di incontrare e passare del tempo coi propri familiari, di giocare in spazi adatti alla loro età. Se per ognuno di quei 62 piccoli ci fosse la certezza di questi diritti, in ogni parte d’Italia, si sarebbe fatto già tanto. Ma serve ancora uno sforzo: percorsi di formazione e recupero per le mamme, perché capiscano dove hanno sbagliato, esperti ed educatori a disposizione delle famiglie, perché si ricostruiscano. Finché la strada sarà pronta per lasciare questi piccoli liberi, come dovrebbero essere. Tutti in classe - Se ci sono i bambini, in carcere, occorre che ci siano anche gli asili. E così in molte strutture gli asili sono nati, nel corso degli anni, con pareti colorate, altalene e giardini dedicati. Un’esperienza speciale è quella messa in campo dalla casa circondariale di Bollate, a Milano, dove l’asilo inizialmente era stato creato per i figli del personale che lavorava nell’istituto di pena. Poi la decisione di aprire i cancelli: prima ai piccoli provenienti dalle famiglie del quartiere in cui si trova il carcere e infine anche ai figli delle madri detenute. I bimbi - 24 in tutto - coltivano le piante nell’orto e giocano coi cavalli di cui si prendono cura i detenuti. Dentro e fuori, qui, non esistono. Il Csm boccia il Decreto sicurezza: “criticità costituzionali” di Leo Lancari Il Manifesto, 22 novembre 2018 Slitta a lunedì l’esame del provvedimento da parte dell’aula della Camera. Anticipata la scorsa settimana dalla Sesta commissione, la bocciatura è diventata ufficiale ieri pomeriggio quando il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha votato a maggioranza (19 contro 6) il parere sul decreto sicurezza richiesto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Troppe le “criticità” presenti nelle misure previste dal provvedimento e tali - evidenzia il Csm - da renderlo fortemente a rischio di incostituzionalità. Un parere esclusivamente “tecnico”, come più di un consigliere ha voluto specificato per sgomberare il campo da possibili equivoci e strumentalizzazioni. Sottolineatura che però non è bastata per evitare una spaccatura interna al Consiglio, con i membri laici della Lega e del M5S che hanno votato contro il parere o si sono astenuti, come ha fatto anche uno dei relatori, Alberto Maria Benedetti, laico in quota 5 Stelle. Una scelta che ha provocato l’immediata reazione da parte del Pd: “Appare decisamente grave che alcuni consiglieri del Csm si comportino come se fossero organici a un partito politico”, ha attaccato il dem Ubaldo Pagano prendendo di mira proprio i consiglieri eletti su indicazione del M5S, sospettati di aver obbedito a “un ordine di scuderia”. Nel merito, il giudizio del Csm sulle nuove misure introdotte è pesante, in particolare per quanto riguarda le norme riguardanti l’asilo e i migranti. Uno dei rilievi riguarda l’estensione dei reati per i quali è possibile revocare o negare la protezione internazionale. “L’ampliamento appare per alcune fattispecie non pienamente rispettoso degli obblighi costituzionali”, è scritto nel parere. In base alle nuove norme, infatti, se un richiedente asilo o un rifugiato commettono un reato contro il patrimonio possono essere rimandati nel Paese di origine dove la loro vita sarebbe molto probabilmente a rischio. Per il Csm la sproporzione tra il crimine commesso e le possibili conseguenze del rimpatrio è tale da essere in conflitto con quanto previsto dalla Costituzione e dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra. Non solo. Critiche non vengono risparmiate neanche all’articolo 2 del decreto, riguardante il prolungamento dei tempi di detenzione di richiedente asilo prima negli hotspot e successivamente nel Centri per il rimpatrio, fino all’avvenuta identificazione. Sommando i due periodi si arriva a un tempo massimo di 12 mesi. Troppi, per i consiglieri, che sottolineano come la privazione della libertà personale in questo caso sia imposta non per aver commesso un reato, bensì a causa di una condizione personale come l’essere entrato in maniera irregolare nel territorio italiano. Uno stato di detenzione pari a quella prevista per chi commette reati anche gravi come la corruzione o l’evasione fiscale. Rilievi infine anche alla decisione di abrogare la protezione umanitaria sostituendola con ipotesi specifiche di tutela: Ipotesi che, sottolinea il Csm, non possono essere esaustive “delle varie situazioni di vulnerabilità, potenzialmente idonee a fondare la richiesta di protezione dello straniero per motivi umanitari” determinando così una situazione di “incertezza” e “un possibile incremento del contenzioso davanti ai giudici. Intanto alla Camera slittano i tempi per l’approvazione del decreto, ancora all’esame della commissione Affari costituzionali. La riunione dei capigruppo che si è tenuta ieri ha infatti deciso di posticipare da venerdì a lunedì prossimo l’arrivo in aula del provvedimento. Decreto sicurezza al vaglio del Csm: scontro tra laici e togati di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 22 novembre 2018 Spaccatura in Csm. Al centro dello scontro il parere sul decreto sicurezza. La parte togata del parlamentino, compresi i massimi vertici della Cassazione rappresentati da Giovanni Mammone e Riccardo Fuzio, hanno infatti dato via libera al documento che critica il decreto perché non rispetta “obblighi” e “garanzie” previsti dalla Costituzione. Le principali osservazioni del documento, che evidenzia soprattutto le ricadute degli interventi sul sistema giudiziario, riguardano le norme in tema di immigrazione e in particolare la stretta sulla concessione dei permessi per motivi umanitari. Il decreto rischia di creare “incertezza sullo status dello straniero al quale è riconosciuta la tutela dei diritti costituzionali, senza la mediazione della fonte legislativa primaria, essendo rimessa al l’autorità giudiziaria il compito di definire il perimetro della condizione del titolare del diritto”. La conseguenza di questa incertezza potrebbe essere un “incremento del contenzioso” e il “ritardo nella tutela dei diritti degli stranieri vulnerabili”. Il parere del Consiglio superiore della magistratura sul ddl sicurezza si trasforma in una resa dei conti fra i consiglieri togati e quelli laici. Da un lato i magistrati che rivendicano il diritto di esprimere pareri (non vincolanti) sui provvedimenti di legge in discussione in Parlamento, dall’altro i componenti eletti dalle Camere che accusano i colleghi togati di volere assegnare al Csm un “ruolo politico”. Ma andiamo con ordine. La Sesta commissione, presidente il togato di Area Giuseppe Cascini, aveva nei giorni scorsi redatto ed approvato all’unanimità un parere sul ddl sicurezza. Relatori, il togato di Magistratura indipendente Paolo Crisculi e il professore in quota M5s Alberto Maria Benedetti. Ieri era prevista la votazione finale in Plenum. Numerose le ‘ criticità’ evidenziate nelle oltre 50 pagine del documento. In particolare, sui trattenimenti dei migranti, “il legislatore non individua i parametri in base ai quali il questore può decidere di trattenere o meno lo straniero, in tal modo accordandogli una discrezionalità svincolata da qualsiasi tipizzazione dei presupposti di esercizio come tale non conforme al grado di garanzie richieste dall’articolo 13 della Costituzione”. E ancora: “l’ampliamento della categoria dei reati- presupposto del diniego o revoca della protezione internazionale appare per talune fattispecie non pienamente rispettoso degli obblighi derivanti dagli articoli 10 e 117 della Costituzione”. Diverse, poi, le ricadute che le nuove norme avranno sul sistema giudiziario. In primis, l’eliminazione della clausola aperta di protezione per motivi umanitari, che potrebbe portare a una condizione di incertezza dello status dello straniero, con il conseguente “possibile incremento del contenzioso ed un ritardo nella tutela dei diritti fondamentali degli stranieri vulnerabili”. Quanto alla lista dei Paesi sicuri, “appare dubbio” che “possa considerarsi vincolante; è evidente, infatti - si legge nel parere - che venendo in gioco diritti costituzionali, rimane fermo il potere dell’autorità giurisdizionale ordinaria di riconsiderare l’inserimento di un Paese nella lista dei Paesi sicuri mediante congrua motivazione”. Sul punto va ricordato che lo scorso Csm aveva stipulato un protocollo d’intesa con il Ministero dell’interno per uno scambio informativo finalizzato alla conoscenza delle realtà socio politiche dei vari Paesi di provenienza dei migranti. Tornado al parere, altre osservazioni riguardano la pubblica sicurezza. Il divieto di accesso a locali o pubblici esercizi stabilito dal questore ‘ per ragioni di sicurezzà per chi è condannato per ‘ reati commessi in occasione di gravi disordini avvenuti in pubblici esercizi o in locali di pubblico intrattenimento’ viene ritenuta una ‘ misura caratterizzata da eccessivo rigorè. Giudizi che hanno “scatenato” i due laici in quota Lega. Stefano Cavanna ha bocciato senza appello il parere, “denso di contraddizioni e senza una analisi seria della situazione, oltre ad essere di grave inadeguatezza, non tanto per le conclusioni, quanto per l’architettura retta su un unico pilastro: il legislatore avrebbe complicato il quadro, rischiando di pregiudicare la tutela dei diritti degli interessati”. Emanuele Basile ha sottolineato che “non può darsi luogo all’applicazione della protezione prevista dalla Costituzione fino al compimento dell’accertamento del diritto d’asilo. Fino al riscontro della qualità di rifugiato prevale e ha immediata applicazione la normativa ordinaria in materia di prevenzione generale dei reati in cui risiede il diritto alla sicurezza dei cittadini italiani”. Tranchant invece, il giudizio del forzista Alessio Lanzi che ha invitato il Csm ha “non porsi come terza Camera”, svolgendo un ruolo di “supplenza nell’interpretazione delle legge”. Al momento della votazione, dopo la reazione dell’asse Lega- FI, ecco il colpo di scena: i laici in quota M5s Alberto Maria Benedetti - uno dei relatori del parere - e Fulvio Gigliotti, decidono di astenersi. Immediata la reazione del Pd. “È grave che alcuni consiglieri del Csm si comportino come se fossero organici a un partito politico. La notizia secondo cui i laici indicati dal M5s, in linea con quelli indicati dalla Lega, si sono astenuti e hanno votato contro il parere critico del Csm lascia pensare che ci sia stato un ordine di scuderia”. Ad affermarlo il dem Ubaldo Pagano, componente della commissione Affari sociali della Camera. “E l’ennesimo segnale prosegue Pagano - di militarizzazione del M5S. Una cambiale da pagare a Salvini? Altrimenti si fatica a comprendere perchè professori, che vengono da realtà universitarie diverse e sono accomunati solo dall’essere stati scelti grazie a una votazione sulla Piattaforma Rousseau, decidano di allinearsi su una posizione che sembra mirare a prendere le parti del Governo. Ogni consigliere che entra al Csm, anche quelli scelti dal Parlamento, ha il dovere di mantenere equilibrio e equidistanza dalla politica”. Al vice presidente del Csm, il dem David Ermini, il compito di riportare la calma: “Il Csm non è un organo politico” e “non esprime giudizi di costituzionalità ma segnala solo le criticità tecniche: il legislatore fa le leggi, la magistratura le applica”. Quanto al ruolo dei laici, Ermini ha sottolineato come “una volta qui siamo autonomi e indipendenti, ragioniamo con la nostra testa”. Al termine della discussione, il parere è stato poi approvato con 19 voti (tutti i togati, i capi di Corte e Michele Cerabona, l’altro laico di Forza Italia). Centri anti-violenza, “fondi inutilizzati e poca trasparenza” di Madi Ferrucci Il Manifesto, 22 novembre 2018 Il report di Action Aid. Il totale delle risorse erogate dallo stato ammonta a 85.774.736 milioni di euro, ma i soldi effettivamente utilizzati sono soltanto il 35,9%. I fondi destinanti ai centri-anti violenza sulle donne non arrivano nei tempi previsti e non c’è ancora una completa trasparenza dei dati sul modo in cui vengono utilizzati. Queste le conclusioni del report redatto da ActionAid Italia, che ha monitorato il totale dei fondi stanziati nel periodo 2015-2017. Secondo il rapporto il totale delle risorse erogate dallo stato ammonta a 85.774.736 milioni di euro, ma i soldi effettivamente utilizzati sono soltanto il 35,9%, pari a 30.842.006 milioni di euro. Circa due terzi dei finanziamenti quindi non arrivano a destinazione e rimangono bloccati nelle lungaggini burocratiche. “I fondi in parte vengono stanziati direttamente dal Dipartimento Pari Opportunità alle regioni, le quali poi possono destinarle a loro volta a enti locali e centri anti-violenza; un’altra parte invece è arriva attraverso il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere 2015-2017 che li distribuisce con bandi erogati sulla base dei progetti presentati”, dichiara Isabella Orfano; curatrice del Report. Secondo Orfano nel primo caso il problema è principalmente la burocrazia; i vari passaggi da un ente all’altro hanno tempi troppo lunghi e questo ha una conseguenza diretta sulla possibilità di offrire i servizi necessari alle donne che ne hanno bisogno. Nel secondo caso, invece, oltre ai ritardi il problema riguarda la trasparenza: “Non è sempre facile capire nel dettaglio come vengono utilizzati i finanziamenti. Riuscire ad accedere a tutti i dati sarebbe invece importantissimo, è una questione di democrazia, conoscere la quantità delle risorse permette di capire in che modo migliorare il servizio”, aggiunge. Come si legge nel dossier nessuna delle regioni italiane ha un livello di trasparenza ottimale nella comunicazione delle informazioni riguardo ai fondi e questo provoca una crescente dispersione delle risorse. Permessi-premio. La Cassazione solleva una questione di incostituzionalità sul 4bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 novembre 2018 La Cassazione per la prima volta ha sollevato una questione di incostituzionalità sul 4bis comma 1, l’articolo dell’ordinamento penitenziario che vieta la concessione dei benefici ai condannati per taluni reati, se non in presenza della collaborazione ai sensi dell’art. 58 ter, quando non sia impossibile o inesigibile. In questo caso specifico parliamo del divieto del permesso premio nei confronti di un ergastolano ostativo condannato per il 416 bis, l’associazione di tipo mafioso. La questione è unica, perché in sostanza il permesso (come recita il comma 1 del 4 bis) può essere concesso solo con la collaborazione. Ora, invece, la Cassazione, rimandando alla Corte Costituzionale la questione, dichiara “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale”, nonostante il detenuto non possa usufruire della collaborazione impossibile o inesigibile. Come detto, è una questione sollevata senza precedenti. Anche se, soprattutto analizzando le sentenze recenti che il Dubbio ha riportato, l’orientamento giurisprudenziale pareva volgere lo sguardo sulla modifica sostanziale del 4 bis, articolo più volte considerato da diversi giuristi come dettato dalle emergenze e che quindi non dovrebbe essere più ordinario. Ma parliamo di questo caso specifico. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del detenuto, presentato dall’avvocato del foro di Roma Valerio Vianello Accorretti, che ha ben sottolineato l’incostituzionalità del 4 bis laddove, nel combinato disposto con gli articoli 17, 18 e 22 del codice penale, crea una lesione ai principi rieducativi costituzionalmente protetti: una presunzione di inaccessibilità ai benefici penitenziari, ne impedisce (secondo la difesa) una concreta rieducazione e riabilitazione. Sempre nel ricorso, viene spiegato che tale impedimento al beneficio penitenziario e alle misure alternative (articolo 4 bis comma 1), rende palesemente vano qualsiasi percorso rieducativo del detenuto: quindi non solo viola l’articolo 27 della Costituzione, ma anche le recenti sentenze della Corte Europea dei diritti umani, secondo cui - nei casi di condanna all’ergastolo - l’assenza di strumenti giuridici certi - che possano portare, dopo almeno 25 anni e valorizzando il percorso rieducativo del detenuto, a un riesame della condanna e dunque alla libertà del detenuto - concretizza una violazione dell’articolo 3 della Cedu. Interessante, leggendo sempre il ricorso, come viene sottolineato che la volontà di non collaborare con la giustizia non coincida sempre con la volontà di rimanere collegati con la criminalità organizzata di appartenenza, ma con la volontà di difendere la propria incolumità e dei propri familiari o con l’evidente difficoltà morale di dover accusare un proprio congiunto. La Cassazione - visto l’articolo 3 e 27 della costituzione - ha quindi dichiarato fondato il ricorso, trasmettendo gli atti alla Corte Costituzionale. “È molto importante - commenta l’avvocato Valerio Vianello Accorretti - che la Corte di Cassazione abbia fatto questo passo: è una problematica di cui si discute da molto tempo, che aveva trovato spazio anche nei tavoli di riforma dell’ordinamento penitenziario. In questi anni alcune decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - dinanzi alla quale attualmente pende questione analoga - nonché la più recente sentenza n. 149 del 2018 della Corte Costituzionale, hanno creato un autorevole supporto giuridico per riflettere sulla legittimità di una pena che appare lontana dai principi di rieducazione e riabilitazione del condannato”. Né possiamo dimenticare che proprio in questi mesi il Partito Radicale sta conducendo una raccolta di firme per otto proposte di legge popolare tra cui, una di queste, prevede la modifica dell’art. 4 bis: la proposta è quella, tra gli altri interventi sull’articolo, di abolire la collaborazione, come indice unico di ravvedimento e rieducazione, per contrasto con la finalità rieducativa della pena, di rango costituzionale. Carcere duro. È “detenzione inumana” la mancata cura fisioterapica di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2018 Il detenuto sottoposto al 41 bis ha il diritto di chiedere l’indennizzo per la detenzione inumana a causa della mancata fisioterapia. La Corte di cassazione, con la sentenza 52526, accoglie il ricorso di Pasquale Zagaria, esponente di rilevo del clan dei casalesi e fratello del capocosca Michele. Il ricorso contro il no al ristoro per l’assenza di cure riabilitative era stato considerato inammissibile dal Tribunale di sorveglianza, perché considerato non specifico, avendo il detenuto riprodotto la stessa richiesta già respinta dal magistrato di sorveglianza. La Cassazione annulla, con rinvio, la decisione chiarendo un aspetto procedurale e uno di “merito”. Per quanto riguarda il primo profilo la Suprema corte precisa che non si può considerare inammissibile il ricorso solo perché ripropone argomenti disattesi dal primo giudice, il quale non ha il monopolio dell’attività interpretativa. Né, in nome della specificità dei motivi, si può costringere la parte soccombente a cambiare la sua prospettiva se resta convinta della bontà della sua interpretazione iniziale delle norme. E nel caso specifico non servivano elementi di novità, vistala rilevanza della questione: trattamenti non conformi all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Una tutela - sottolineano i giudici - che non riguarda soltanto i casi di sovraffollamento delle carceri, ma si estende anche al tema dell’offerta delle prestazioni sanitarie adeguate. La violazione della norma sovranazionale scatta dunque “in virtù di condotte di inosservanza - da parte dell’amministrazione penitenziaria - dei diritti fondamentali della persona umana, sottoposta al trattamento rieducativo, la cui individuazione ed il cui livello di gravità va apprezzato in concreto”. Nello specifico al ricorrente, sottoposto al carcere duro, erano stati negati dei cicli di fisioterapia, ritenuti indispensabili per la sua patologia. E il tribunale, di sorveglianza è chiamato a formulare un nuovo giudizio. Omicidio: la compassione non integra attenuante motivi di particolare valore morale e sociale Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2018 Reati - Circostanze attenuanti - Motivi di particolare valore morale o sociale - Compassione - Incompatibile con la condotta di soppressione della vita umana. Nella attuale coscienza sociale il sentimento di compassione o di pietà è incompatibile con la condotta di soppressione della vita umana verso la quale si prova il sentimento medesimo. Non può quindi essere ritenuta di particolare valore morale la condotta di omicidio di persona che si trovi in condizioni di grave ed irreversibile sofferenza fisica. La nozione di compassione, secondo la Suprema Corte, cui il sentire comune riconosce un altissimo valore morale, rimane segnata dal superiore principio del rispetto della vita umana, che è il criterio della moralità dell’agire. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 7 novembre 2018 n. 50378. Reati - Circostanze attenuanti - Motivi di particolare valore morale o sociale. La circostanza attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale (simmetricamente all’aggravante dei motivi abietti o futili) è sostanziata non già da tangibili dati, siano essi naturalistici o ideali, materiali o psicologici, bensì da un giudizio di ordine morale rimesso dalla legge al giudice, giacché non sono preindicati dalla legge i casi in cui il giudice “deve ritenere” che il reo abbia agito per motivi di particolare valore morale o sociale, ma il giudice deve concedere l’attenuante “se ritiene” che il reo abbia agito per i suddetti qualificati motivi”. Con la precisazione che la formulazione di tale giudizio deve condurre il giudice a ritenere, una volta esaminati “tutti i contrassegni e i connotati del fatto penale commesso”, che il soggetto agente, ferma l’illiceità della condotta posta in essere, abbia tuttavia agito “sotto l’impulso di sentimenti, ideali, esigenze tali da far ritenere che ogni altra persona pur della massima onestà avrebbe preferito di agire nello stesso modo solo che avesse avuto le stesse virtù morali del soggetto giudicabile. I motivi di particolare valore morale o sociale possano effettivamente essere ritenuti tali, solo se su di essi si registri il generale consenso sociale, che annette loro l’anzidetto significato • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 15 giugno 2018 n. 27746 Omicidio pluriaggravato - Circostanze attenuanti - Motivi di particolare valore morale o sociale - Applicazione - Presupposti - Fatto esistente soltanto nell’erronea opinione del soggetto attivo del reato - Esclusione. Per il riconoscimento della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale non è sufficiente l’intima convinzione dell’agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile essendo necessaria l’obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori effettivamente apprezzabili dal punto di vista etico o sociale e come tali riconosciuti preminenti dalla collettività. Ne consegue che questa attenuante non può trovare applicazione se il fatto di particolare valore morale o sociale esiste soltanto nell’erronea opinione del soggetto attivo del reato, non potendo la circostanza in esame sottrarsi alla disciplina generale dell’articolo 59 c.p., in base alla quale le aggravanti e le attenuanti devono essere considerate e applicate per le loro connotazioni di oggettività. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 18 maggio 2018 n. 20443. Reati - Circostanze attenuanti - Motivi di particolare valore morale o sociale - Falsa dichiarazione di riconoscimento di paternità nei confronti della figlia della convivente- Applicazione dell’attenuante di cui all’articolo 62, c. p., n. 1, c. p. - Esclusione. L’attenuante di cui all’ articolo 62 c.p., postula che l’azione delittuosa sia nell’intenzione dell’agente diretta ad eliminare una situazione, effettivamente esistente, ritenuta immorale o antisociale ed inoltre che tale movente sia oggettivamente conforme alla morale ed ai costumi del tempo e del luogo del commesso reato. (Nel caso di specie, secondo la Suprema Corte, a spingere l’imputato sono state ragioni di tipo meramente egoistico, in quanto dichiarare dinanzi all’ufficiale dello stato civile di essere il padre naturale della figlia della propria convivente con lo scopo di cementare la raggiunta unione familiare non può non essere considerato un movente meramente personale, di natura egoistica). • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 29 luglio 2008 n. 31635. Responsabilità enti: reato prescritto, confisca beni della società solo se si verifica vantaggio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2018 Corte di cassazione - Sezione II -Sentenza 21 novembre 2018 n. 52470. Il giudice, se il reato presupposto commesso dalla persona fisica è prescritto, non può ordinare la confisca delle quote sociali e dei beni della società nell’ambito di un procedimento per la responsabilità amministrativa dell’ente, senza determinare il vantaggio per la compagine. La Corte di cassazione, con la sentenza 52470, accoglie il ricorso di una Srl condannata a pagare una sanzione di 60 mila euro e nei confronti della quale era stata confermata la confisca delle quote sociali e del capannone industriale. La Cassazione annulla, senza rinvio, sia la sentenza del Tribunale di primo grado sia la sentenza di appello per la violazione del diritto di difesa della Società a responsabilità limitata. La Suprema corte ricorda, infatti, che il Dlgs 231/2001 (articolo 39 e 40) prevede come condizione per la partecipazione dell’ente collettivo al procedimento a suo carico, una formale e valida costituzione. Requisito escluso quando, come nel caso esaminato, la persona fisica autore del reato nomina un difensore di sua fiducia, facendo così scattare un evidente conflitto di interessi, perché l’indagato o l’imputato nel reato presupposto non può nominare il legale dell’ente chiamato a “difendersi” per la responsabilità nell’illecito amministrativo. L’inosservanza dell’articolo 39, dunque, fa scattare l’inefficacia di tutte le attività svolte dal rappresentante incompatibile. Per la Cassazione resta valida la richiesta di rinvio a giudizio da parte del Pm, regolarmente eseguita nella mani del rappresentante legale della società. Né ricorre - spiegano i giudici - l’ipotesi della decadenza della contestazione perché, all’epoca, i reati da cui dipendeva l’illecito amministrativo non erano ancora prescritti. La Cassazione precisa che, in tema da responsabilità da reato degli enti, l’intervenuta prescrizione del reato presupposto dopo la contestazione dell’illecito all’ente non ne determina l’estinzione, dal momento che il termine rimane sospeso fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento nei confronti della persona giuridica. Detto questo però non può accadere quanto avvenuto nel caso esaminato, in cui la corte d’Appello con una stringata esposizione, ha richiamato gli argomenti esposti nella decisione di primo grado in merito alla responsabilità dell’imputato per due episodi di truffa aggravata, affermando che erano stati commessi a vantaggio della società. Il tutto senza indicare specifici elementi a supporto della conclusione raggiunta e senza considerare che i reati erano già stati dichiarati prescritti in primo grado, circostanza che ha indotto il giudice a rendere una motivazione meno esauriente. Il giudice deve invece procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica, nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso. Operazione che non può però “prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto reato”. Nel caso in esame, conclude la Suprema corte, mancano due elementi a supporto della confisca per equivalente: la determinazione dell’illecito vantaggio dell’ente, che potrebbe non coincidere con il profitto ricavato dalla persona fisica, e l’indicazione del valore dell’immobile sottoposto a confisca, mai citato nelle sentenze di merito. Toscana: il Garante “carceri sovraffollate per legislazione proibizionista in materia di droghe” di Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 22 novembre 2018 “Lo spaccio e il consumo di droga riempiono le carceri”. Franco Corleone, garante per i detenuti, non ha dubbi. Da anni combatte per la legalizzazione delle droghe leggere e da anni ripete che su questo fronte la politica perde continuamente occasioni. La fotografia delle presenze dei detenuti nella nostra regione parla chiaro: quasi un terzo sono in cella per articolo 73 del testo unico sulla droga, la norma che punisce lo spaccio ma anche la detenzione di droga in misura superiore ai limiti. Se i reclusi aumentano, in percentuale crescono di più quelli per reati legati alla droga. “Il numero dei detenuti, in Toscana come nel resto d’Italia, ha ripreso a salire. E nel ritorno del sovraffollamento penitenziario gioca un ruolo fondamentale la legislazione proibizionista in materia di droghe - prosegue Corleone - il sistema per combattere il fenomeno cronico del sovraffollamento carcerario c’è ma nessuno sembra capirlo. In assenza di detenuti per articolo 73 o di quelli dichiarati tossicodipendenti, il sovraffollamento sparirebbe”. Tutto il resto del mondo sembra andare in quella direzione - spiega Corleone - qui da noi si pensa invece di aumentare sempre più le pene. Dopo la condanna inflitta all’Italia dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per trattamenti inumani e degradanti a causa del sovraffollamento delle strutture carcerarie sono stati messi in campo una serie di interventi per ridurre le presenze negli istituti penitenziari. E anche la sentenza del 2014 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della legge Fini-Giovanardi, ripristinando la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, ha portato a una diminuzione delle presenze in carcere. Ma adesso il trend positivo sta rallentando. Così in Toscana, a fronte dei 4.242 detenuti presenti alla fine del 2011, siamo arrivati nel dicembre 2017 a 3.281 presenze, già salite a 3.311 nel marzo scorso. Gli stranieri sono 1.640, pari al 49,5 per cento dell’intera popolazione detenuta in regione. Dall’ultimo rapporto del Garante della Toscana emerge che nei 16 istituti penitenziari al dicembre 2017, 988 reclusi sono tossicodipendenti, pari al 30 per cento della popolazione detenuta complessiva. Di questi 951 sono uomini, 37 donne. E molto spesso chi entra in carcere per spaccio è anche tossicodipendente, quindi le due figure tendono a sovrapporsi. A fine anno dovrebbe essere pubblicato l’esito di una ricerca della Fondazione Michelucci sul peso che hanno nelle carceri toscane i detenuti per reati collegati alla droga. E all’inizio dell’anno è stato firmato un protocollo per favorire l’accesso dei detenuti tossicodipendenti alle misure alternative visto che fino ad oggi sono pochi i tossicodipendenti condannati a pena definitiva che non usufruiscono della misura alternativa a scopo terapeutico nonostante siano in possesso dei requisiti richiesti. Molise: fondo per l’inclusione sociale per detenuti e soggetti affetti da dipendenze ilgiornaledelmolise.it, 22 novembre 2018 Un milione e mezzo di euro da utilizzare in tre anni. A tanto ammonta il fondo della Regione Molise messo a disposizione per progetti rivolti a soggetti a rischio di esclusione sociale come detenuti, soggetti disposti a misure alternative alla detenzione o affetti da dipendenze. Destinatari delle risorse sono gli ambiti sociali territoriali che sul tema hanno presentato alla Regione progetti di tirocinio rivolti proprio a queste categorie a rischio che, insieme alla esclusione sociale, rischiano anche di restare a tempo indeterminato fuori dal circuito lavorativo. I tirocini in questione, organizzati dai sette ambiti territoriali molisani, possono avere una durata minima di quattro mesi e massima di dodici. Nei giorni scorsi, proprio in favore di tali tirocini, dalla regione Molise sono partiti i primi pagamenti a favore degli ambiti territoriali di riferimento. Si tratta di una anticipazione pari al 50% del valore complessivo dei progetti. A guidare la classifica dei finanziamenti è l’ambito sociale di Larino, al quale vanno oltre 131mila euro dei 424 e 900 complessivi erogati in questa fase dalla Regione Molise. Seguono Termoli con 107mila, Campobasso 72, Isernia 55, Venafro 21, Bojano 20 e, fanalino di coda, Agnone a cui sono stati assegnati al momento circa 17mila euro. La misura messa in campo dalla Regione deriva da finanziamenti europei destinati alla inclusione lavorativa di persone maggiormente vulnerabili e a rischio di discriminazione che, per diverse ragioni, sono prese in carico dai servizi sociali. Lombardia: la Commissione carceri continua monitoraggio negli Istituti di pena expartibus.it, 22 novembre 2018 Oggi si inaugura a San Vittore (Mi) lo sportello del Garante dei detenuti. La Commissione carceri, presieduta da Gianni Girelli, Pd, continua il suo lavoro di monitoraggio della situazione carceraria in Lombardia. Oggi, 21 novembre, la commissione ha incontrato in audizione i direttori delle case circondariali di Como, Busto Arsizio (Va) e Varese. Dato comune a tutte queste strutture carcerarie è il sovraffollamento, a Busto, in particolare, 446 detenuti, su una capienza di 240, e la carenza di personale, soprattutto nell’area giuridico pedagogica e amministrativa. La peculiarità delle Case circondariali di Como e di Busto Arsizio è costituita dall’alta percentuale di detenuti che scontano una condanna definitiva, a Como 351 detenuti sui 422 totali. Elevata poi la percentuale di stranieri: 220 a Como, oltre la metà del totale, e 266 a Busto, circa il 60% del totale di 446. Il carcere di Varese, che ha anche problemi di vetustà delle strutture, ha un indice di sovraffollamento del 168%, che sale al 214% nelle sezioni “aperte”. Domani mattina un altro momento di attenzione da parte del Consiglio e dei Consiglieri regionali al tema della situazione carceraria: l’inaugurazione, presso il carcere di San Vittore a Milano, di uno Sportello del Garante dei detenuti. Alle 11:00, presso la casa circondariale di Piazza Filangeri, si terrà la conferenza stampa cui parteciperanno Carlo Lio, Difensore regionale di Regione Lombardia, che esercita per legge anche le funzioni di Garante dei detenuti, l’Assessore Silvia Piani, e il Sottosegretario Alan Christian Rizzi, delegati dal Presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana. Roma: detenuto in regime di “41bis” muore a 56 anni, forse per un aneurisma di Angela Sorce siciliatv.org, 22 novembre 2018 È morto a 56 anni il presunto boss di Cammarata Calogerino Giambrone. Era stato arrestato lo scorso 22 gennaio nell’ambito dell’operazione antimafia “Montagna” e si trovava rinchiuso, in regime di 41bis, nel carcere di Rebibbia. Proprio in carcere avrebbe accusato il malore, forse un aneurisma. Inutili i tentativi di soccorso attuati dal personale della polizia penitenziaria in servizio al carcere; Giambrone sarebbe morto durante il trasporto in ospedale. Salerno: carcere di Fuorni, “la negazione dei diritti” di Gaetano de Stefano La Città di Salerno, 22 novembre 2018 Rita Bernardini (Radicali): mancano l’acqua calda e il riscaldamento. Pure l’istruzione è un miraggio. Boccia senza appello la casa circondariale di Fuorni. Rita Bernardini, presidente nazionale dei Radicali, in visita al penitenziario cittadino (con lei hanno varcato il cancello d’ingresso Donato Salzano, Florinda Mirabile, Valentina Restaino, Michele Sarno e Saverio Maria Accarino) giudica il carcere di Salerno “sicuramente al di fuori dei parametri di legalità costituzionale”. Che situazione ha trovato? Una situazione molto difficile: sovraffollamento, fatiscenza dei luoghi, poca attività trattamentale. E, come ciliegina sulla torta, una magistratura di sorveglianza latitante. Ho saputo che da poco è arrivato il nuovo presidente, spero che qualcosa cambi. C’è qualcosa che l’ha turbata in maniera particolare? Sì, ed è la mancanza della scuola primaria nel reparto femminile. Questo significa che manca proprio l’alfabetizzazione. Nonostante la buona volontà del direttore, che tra l’altro è alla fine del suo mandato, e del forte impegno della polizia penitenziaria, devo purtroppo dire che se non si decide d’investire, soprattutto in rieducazione, andrà sempre peggio. Le possibilità di lavoro, infatti, sono limitate esclusivamente all’interno del carcere. Probabilmente l’unico dato positivo è che, per i detenuti maschi, ci sia la possibilità di frequentare le scuole superiori e, precisamente, l’alberghiero. Per il resto è tutto un disastro: la struttura è messa male e tutto quello che il direttore è riuscito a fare l’ha fatto facendo i salti mortali, con il lavoro dei detenuti. Però restano i problemi. Nel reparto femminile, per esempio, non c’è l’acqua calda, per cui non è possibile nemmeno fare la doccia. In quello maschile, in uno dei reparti di media sicurezza, la doccia è utilizzabile 3 volte a settimana. E pure i riscaldamenti, per il momento, sono spenti. C’è anche una carenza di personale… Questo è un altro problema. La mancanza di agenti si fa sentire, tant’è che in alcune sezioni, in qualche caso, un solo agente è costretto a sorvegliare ben due piani. C’è anche mancanza d’educatori e pure questo è un problema nazionale, in quanto la pianta organica, che era già sottodimensionata a 1250 unità, è stata ridotta a 990. Non capisco come al ministero della Giustizia pensino di puntare di più sulla rieducazione, quando non ci sono gli operatori. Quando sento dire che per risolvere il problema di sovraffollamento si punta a costruire nuove carceri, mi chiedo innanzitutto con quali soldi. E poi, per fare un nuovo penitenziario, ci vogliono dai 10 ai 15 anni. E prima che sia collaudato ne passano altri 5. Inoltre, quale personale ci mettiamo dentro se già per gli istituti che si sono oggi l’organico è insufficiente? Si dicono delle cose che non sono assolutamente fondate su elementi di concretezza. Noi continuiamo a lottare perché stiamo parlando di diritti umani negati. Domani incontrerò il ministro Bonafede e gli farò presente tutto questo. Per avere un appuntamento ho dovuto fare lo sciopero della fame per 21 giorni. Però la dignità umana non può essere calpestata. A proposito di dignità umana, nel carcere di Salerno è calpestata? Certamente, non ci sono dubbi. Ma non è responsabilità né del direttore e neppure di chi lavora. Mancano i fondi non solo per la manutenzione straordinaria ma pure per quella ordinaria, tant’è che addirittura piove in alcune celle in quanto per tanti anni non si è intervenuto sulla struttura. A contribuite all’usura è anche il sovraffollamento. Oggigiorno sono reclusi 500 detenuti, di cui il 50 per cento in attesa di giudizio, mentre, secondo i dati ufficiali, la capienza è di 366. I calcoli sono fatti. Roma: Giornata Infanzia, Ciani (Demos) “i bambini di Rebibbia ancora senza scuola” farodiroma.it, 22 novembre 2018 “Nella ricorrenza della Giornata Mondiale dei diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza il mio pensiero va ai tanti minori che non vedono ancora pienamente realizzati i loro diritti e tra loro ai bambini in carcere a Roma con le loro madri che per motivi burocratici non possono andare al nido”. È quanto dichiara Paolo Ciani, Consigliere Regionale del Lazio di Centro Solidale - Demos. “Ho avviato delle visite in carcere e delle consultazioni con le direzioni e gli operatori, verificando come una delle criticità della nostra regione è quella dei bambini in carcere. A due mesi dalla tragedia dei bimbi del nido di Rebibbia, i volontari dell’associazione A Roma-insieme mi hanno comunicato che tre bambini che potrebbero andare al nido (sui sette presenti), per problemi e ritardi burocratici e amministrativi del Municipio non ci vanno ancora”. “A marzo 2018, l’Icam prevista a Rebibbia femminile dovrebbe essere pronta. Saranno quindi presenti in una struttura a custodia attenuata -purtroppo - anche bambini dai 0 ai 6 anni, che potrebbero frequentare il nido e le prime classe della materna. Il municipio, il territorio, credo si debbano attrezzare per realizzare pienamente i diritti all’infanzia di questi bambini a cominciare dai percorsi educativi fondamentali per i bimbi in età evolutiva”, conclude Ciani. Trieste: incontro letterario alla Casa circondariale con Florinda Klevisser di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 22 novembre 2018 Il 24 novembre 2018 ad ore 10.00 Florinda Klevisser presenterà il libro “Trieste al femminile” presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla libertà. L’evento s’inserisce nel ciclo d’incontri letterari organizzati dal Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti di Trieste - Elisabetta Burla - Il libro è una guida turistica e fa parte della collana di Guide edite da Morellini; la sesta guida in “rosa” frutto del lavoro di donne che hanno voluto celebrare città come Milano, Napoli, Torino, New York, Firenze e Trieste. È una guida turistica scritta con occhio attento all’aspetto culturale, artistico, storico, enogastronomico nonché commerciale: attento all’artigianato di qualità frutto delle abilità locali nel campo della scultura del legno, della creazione artistica di gioielli e di oggetti d’arredo, della moda. Una guida concepita da donne (scrittrice Florinda Klevisser e fotografa Lara Perentin) rivolta principalmente alle donne, ma non solo. Un libro che permette di viaggiare, imparare e riflettere; che contribuisce a far conoscere e apprezzare questa città bella, affascinante e ancora molto da scoprire. Una città che ha visto una svolta epocale grazie agli interventi lungimiranti e illuminati dell’Imperatrice Maria Teresa d’Austria. La data scelta per la presentazione di “Trieste al femminile” - che anticipa di qualche ora la giornata mondiale contro la violenza sulle donne - rende l’appuntamento ancor più interessante stante lo scopo nobile che persegue: i diritti d’autore, derivanti dalla vendita del libro, andranno devoluti all’Associazione Di.Re - Donne in Rete contro la violenza. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Cuneo: “Spes contra spem - Liberi dentro”, immagini e testimonianze dal carcere targatocn.it, 22 novembre 2018 Lunedì 26 novembre a cuneo e martedì 27 a Fossano, introduce il garante regionale Bruno Mellano. “Spes contra spem - Liberi dentro” è il titolo del docu-film diretto da Ambrogio Crespi che viene proiettato, rispettivamente lunedì 26 e martedì 27 novembre, a Cuneo e a Fossano. Il titolo è tratto da un passaggio della Lettera di San Paolo ai Romani su Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza” mentre il testo è frutto della riflessione comune fra detenuti e operatori della Casa di Reclusione di Milano Opera. Si compone di interviste con condannati all’ergastolo, il direttore del carcere, gli agenti di polizia penitenziaria ma anche con il capo del DAP. Fa emergere con chiarezza non solo un cambiamento interiore dei detenuti - nel loro modo di pensare, di sentire e di agire - ma persino la rottura esplicita con logiche e comportamenti del passato e testimonia una maggiore fiducia nelle istituzioni: anche il carcere può rendere possibile un cambiamento e una riconversione da persone detenute in persone autenticamente libere. Prodotto da Nessuno tocchi Caino e Indexway, è stato presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e alla Festa del Cinema di Roma. Entrambe le proiezioni sono promosse dall’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte. Lunedì 26 novembre, la proiezione si svolgerà a Cuneo alle ore 21.00, in collaborazione con l’Associazione Nessuno tocchi Caino e con il patrocinio del Comune di Cuneo, presso la Sala del Cinema comunale Monviso in via XX Settembre n. 14. Parteciperanno la Vicesindaco di Cuneo, Patrizia Manassero, e l’Assessore Mauro Mantelli, oltre al Segretario dell’Associazione internazionale “Nessuno tocchi Caino” Sergio D’Elia e il Garante di Cuneo Mario Tretola. Martedì 27 novembre, sarà la volta della proiezione fossanese, sempre alle 21.00, in collaborazione con l’Associazione Nessuno tocchi Caino e con il patrocinio del Comune, presso la Sala del Cinema “I Portici” in via Roma 74 a Fossano, con la partecipazione di Sergio D’Elia. Entrambe le proiezioni sono ad ingresso libero e gratuito e saranno introdotte e moderate da Bruno Mellano. Brescia: colazione in carcere per la Giornata Internazionale dei Diritti dell’Uomo bresciasettegiorni.it, 22 novembre 2018 Sabato 15 dicembre l’Associazione Carcere e Territorio, organizza una colazione nel carcere di Verziano, un occasione di incontro tra comunità e detenuti. Nell’ottica di prosecuzione del lavoro di sensibilizzazione sui Diritti Umani iniziato circa due anni fa presso l’istituto Verziano, confluito nella creazione, in aprile 2018, del gruppo P4HR (Prison 4 Human Rights) e in occasione della Giornata Mondiale dei Diritti dell’Uomo celebrata ogni anno il giorno 10 dicembre, la Garante dei Diritti delle Persone private della libertà personale del Comune di Brescia, i detenuti della casa di reclusione di Verziano, l’Associazione Carcere e Territorio Onlus e la Coop. Nitor organizzano una colazione solidale a Verziano (Coffee Morning), con degustazione di caffè. L’evento presentato diverrà solidale - L’evento è aperto alla collettività esterna e il ricavato sarà devoluto ad un’associazione bresciana di volontariato individuata dai detenuti stessi. L’odierna necessità di mantenere vivo il dibattito sulla tutela Diritti dell’Uomo e la volontà dei detenuti di far sentire alla collettività esterna il proprio contributo per la difesa dei più deboli rende il coffee morning un’occasione preziosa di coesione sociale. In tal senso e nell’ottica della formazione di un senso civico sempre più forte, la presenza dei giovani sarebbe auspicabile. Ferrara: l’importanza del teatro in carcere, Michalis Traitsis in Cina con “Passi sospesi” La Nuova Ferrara, 22 novembre 2018 Sarà il regista e pedagogo teatrale Michalis Traitsis di Balamòs Teatro, insegnante al Centro teatro universitario di Ferrara e responsabile del progetto teatrale “Passi Sospesi” negli istituti penitenziari di Venezia, a rappresentare il Coordinamento nazionale teatro in carcere (Cntic), l’organismo italiano che comprende 51 esperienze qualificate di teatro in ambito penitenziario, alle celebrazioni per il settantesimo anniversario dell’Istituto internazionale del teatro dell’Unesco (Iti-Unesco) che si terranno ad Hainan, in Cina, da venerdì a lunedì. Ad Hainan Michalis Traitsis terrà sabato un intervento dal titolo “Teatro in prigione: nuovi orizzonti artistici ed educativi”, mostrando anche un video dal festival del Coordinamento nazionale di teatro in carcere Destini incrociati, dal 2015 organizzato grazie al sostegno del Ministero dei Beni ed Attività Culturali (Mibac), e un video dal progetto teatrale “Passi Sospesi”, sottolineando l’importanza del teatro nel sistema penale come strumento di riabilitazione e reintegrazione sociale. Alla conferenza parteciperanno maestri e pedagoghi riconosciuti a livello internazionale come il regista russo Anatoly Vasiliev, il coreografo neozelandese Lemi Ponifasio, l’artista ed educatrice ugandese Jessica A. Kaahwa insieme a studiosi e teorici del teatro cinesi e internazionali. Quella del coordinamento nazionale del teatro in carcere italiano è una buona pratica che ha suscitato molta curiosità ed interesse a livello internazionale. Se ne discuterà ancora in concomitanza sabato e domenica a Urbania (Pesaro e Urbino) nell’ambito del XIX convegno internazionale promosso dalla Rivista Europea “Catarsi, Teatri delle diversità” diretta da Vito Minoia, quest’anno dedicato a “L’istruzione degli ultimi: don Lorenzo Milani e il teatro in carcere” con ospiti da Italia, Stati Uniti, Polonia, Grecia e nell’ambito del quale ci sarà un collegamento video con Michalis Traitsis da Hainan. “Per Balamòs Teatro e il progetto teatrale “Passi sospesi” - ha spiegato il regista - si tratta di un riconoscimento molto importante in particolare per il lavoro svolto negli ultimi anni alla Casa di reclusione femminile di Giudecca e anche per le attività che Balamòs Teatro ha svolto dentro e fuori dall’istituto penitenziario nell’ambito della Giornata mondiale del teatro promossa dall’Iti-Unesco e per la Giornata nazionale di teatro in carcere, promossa dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Pordenone: i detenuti regalano un albero di Natale al Papa, per Casa Santa Marta Avvenire, 22 novembre 2018 Non c’è solo in grande albero di Natale che ogni anno svetta in piazza San Pietro. Anche Casa Santa Marta, dove abita papa Francesco, avrà un suo albero di Natale: è un dono dei detenuti di Pordenone. Inoltre lunedì prossimo arriveranno in Vaticano anche 50 alberelli offerti da alcuni comuni del comprensorio di Pordenone, da realtà industriali del territorio friulano ed altri enti ed istituzioni. E ci sarà anche un albero di Natale per Ratzinger. Sarà offerto dall’Unione industriali di Pordenone, dalla Fondazione Cro di Aviano e dalle suore del monastero della Visitazione di San Vito al Tagliamento, l’esemplare destinato al monastero Mater Ecclesiae dove appunto vive Benedetto XVI. In quanto all’albero “numero uno”, la cerimonia di illuminazione dell’albero di Natale in piazza San Pietro si svolgerà il prossimo 7 dicembre, alle 16.30 e le luci rimarranno accese fino al 13 gennaio 2019. La tradizione dell’albero di Natale in piazza San Pietro ha avuto inizio nel 1982 per volontà di san Giovanni Paolo II, che quell’anno aveva ricevuto in dono un abete da un contadino polacco, che l’aveva portato fino a Roma. Da allora e in questi 36 anni, l’albero è stato offerto ogni anno da una diversa regione Europea. Poveri nei numeri e a occhio nudo di Danilo Taino Corriere della Sera, 22 novembre 2018 Uno studio pubblicato di recente dalla Banca mondiale ha dunque anche misurato l’andamento della povertà utilizzando due altre soglie: a 3,20 e 5,50 dollari. La povertà si vede a occhio nudo, spesso. Ma misurarla è piuttosto complicato. Non tanto per mancanza di dati ma perché non è facile stabilire il concetto di povertà. Soprattutto se la si vuole definire a livello globale. La Banca mondiale sta dunque cercando di utilizzare la statistica per arricchire la conoscenza di chi e quanto è povero nel mondo. Dal 1990, l’istituzione di Washington ha stabilito che il primo indice da considerare è la soglia di “estrema povertà”, che oggi è fissata a 1,90 dollari al giorno (a parità di potere d’acquisto parametrato al 2011). È noto che il numero di coloro che sono sotto a questo reddito è crollato da 1,895 miliardi del 1990 a 736 milioni nel 2015, nonostante l’aumento della popolazione mondiale: in percentuale si è passati dal 35,9% della popolazione globale sotto al livello di povertà estrema al 10%. Per quanto a parità di potere d’acquisto, un dollaro e 90 centesimi l’anno a molti sono sempre sembrati un limite troppo basso. Uno studio pubblicato di recente dalla Banca mondiale ha dunque anche misurato l’andamento della povertà utilizzando due altre soglie: a 3,20 e 5,50 dollari. Nel primo caso, la quota di povertà globale è scesa dal 55,1% del 1990 al 26,3% del 2015. Nel secondo, dal 67 al 46%. In entrambi i casi, le riduzioni del 28,9 e del 21% sono molto significative, soprattutto se si considera che la popolazione nel frattempo è passata da 5,3 a 7,3 miliardi. E straordinario è il crollo della povertà, anche misurata a 5,50 dollari, nella regione che più ha beneficiato della globalizzazione, l’Asia dell’Est-Pacifico: dal 95,2 al 34,9%. Resta però il fatto che il 46% degli abitanti della terra vive ancora con meno di 5,50 dollari al giorno. La Banca mondiale ha anche misurato quella che chiama “prosperità condivisa”, all’interno della quale ci sono i consumi del 40% più povero delle famiglie di un Paese. Qui l’Italia ha un problema serio. È uno dei quattro Paesi al mondo che, tra il 2010 e il 2015 li ha visti scendere in modo più significativo, meglio solo di Grecia, Cipro e Spagna: in media del 2,13% ogni anno (il calo è dell’1,08% se ci si riferisce alla popolazione italiana totale), meglio solo di Grecia (meno 8,35%), Cipro (meno 4,34%) e Spagna (meno 2,16%). In effetti, probabilmente lo si notava anche a occhio nudo. Migranti. L’Alto Commissariato Onu accusa il governo italiano: “criminalizza le ong” La Repubblica, 22 novembre 2018 Le nuove critiche sulle politiche per l’accoglienza dopo l’inchiesta con sequestro della nave Aquarius. L’Alto Commissariato dell’Onu torna a bacchettare il governo italiano sulle politiche di accoglienza dei migranti. E non a caso lo fa all’indomani dell’inchiesta con sequestro della nave Aquarius per lo smaltimento di scarti e vestiti infetti dei migranti come rifiuti ordinari. L’organismo, a questo proposito, esprime preoccupazione “per le continue campagne diffamatorie contro le organizzazioni della società civile impegnate in operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo, così come la criminalizzazione del lavoro dei difensori dei diritti dei migranti”. Il governo italiano - denuncia l’Onu - ha reso quasi impossibile per le navi delle Ong continuare a salvare i migranti nel Mar Mediterraneo. Questo ha comportato un aumento dei migranti che muoiono in mare o che scompaiono. Gli esperti dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani hanno contattato il governo italiano in merito alle loro preoccupazioni e “attendono una risposta”. “Il governo deve rispettare i valori sanciti dalla Costituzione italiana e gli impegni internazionali sottoscritti”, avverte l’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani, secondo cui “l’Italia ha proposto un inasprimento delle norme sull’immigrazione che avrà un grave impatto sulla vita dei migranti e sono di grave preoccupazione”. L’Onu sollecita il governo italiano a invertire la rotta. Per l’Alto Commissariato “l’abolizione dello status di protezione umanitaria, l’esclusione dei richiedenti asilo dall’accesso ai centri di accoglienza incentrati sull’inclusione sociale e la durata prolungata della detenzione nei Cie minano fondamentalmente i principi internazionali dei diritti umani e condurranno certamente a violazioni di diritti umani internazionali”. “Da quando è entrato in carica nel giugno 2018 - prosegue l’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani - il nuovo governo italiano ha attuato le misure anti migranti per cui si batteva. Il Decreto legge sicurezza arriva mentre in Italia c’è un clima di odio e discriminazione, sia nei confronti dei migranti e di altre minoranze, sia nei confronti della società civile e dei privati che difendono i diritti dei migranti. Durante la recente campagna elettorale, alcuni politici hanno alimentato discorsi che abbracciavano spudoratamente la retorica razzista e xenofoba anti-immigrati e anti-stranieri. Le persone di origine africana e Rom sono state particolarmente colpite. Durante e subito dopo la campagna elettorale, le organizzazioni della società civile hanno registrato 169 episodi di matrice razzista, 126 dei quali riguardano l’incitamento all’odio razziale, anche in manifestazioni pubbliche. In 19 casi si sono registrati episodi di violenza”. Migranti. Ong, rifiuti e malattie: i medici smentiscono possibilità di contagio di Francesco Floris Redattore Sociale, 22 novembre 2018 L’indagine della Procura di Catania sulle ong mette nel mirino rischi per la salute pubblica degli sbarchi dei migranti. I medici non sono d’accordo: “Su 6000 visite a Lampedusa solo malattie dermatologiche facili da curare” si legge in articoli scientifici. “Il migrante-untore è un cliché: parte solo chi è in buone condizioni di salute”. I medici che in Sicilia hanno monitorato in questi anni la salute dei migranti sbarcati nei porti o ospitati negli hotspot, non hanno ravvisato i rischi di infezione e per la salute pubblica che oggi sono al centro di un’inchiesta giudiziaria. Per la Procura di Catania e la polizia giudiziaria che da gennaio 2017 a maggio 2018 ha lavorato all’indagine “Borderless”, l’ong Medici senza frontiere, la nave Aquarius di Sos Mediterranée e gli intermediari portuali dediti allo smaltimento dei rifiuti prodotti dalle navi di salvataggio a cui queste si affidavano, avrebbero messo anche a rischio la salute pubblica, scaricando e smaltendo illecitamente rifiuti sanitari pericolosi senza classificarli nella maniera corretta. “Nonostante il rischio di contaminazione - si legge nel decreto di sequestro preventivo firmato dal Gip di Catania Carlo Cannella - da agente patogeni e virus infettivi per contatto indiretto con la cute (virus dell’epatite A e E, malattie gastrointestinali, respiratorie, cutanee da germi multi-resistenti, salmonella, scabbia, pediculosi), via aeree (bacillo tubercolare polmonare, varicella) o attraverso il sangue ed altri fluidi biologici (epatite B, C, Aids) ferite, oggetti o materiali biologici contaminati, i vestiti e gli indumenti intimi indossati dai migranti sono stati raccolti sulla nave Vos Prudence e sulla nave Aquarius in maniera indifferenziata, e conferiti illecitamente alle ditte portuali autorizzate attraverso la classificazione indebita nella categoria dei rifiuti solidi urbani o speciali indifferenziati, là dove la potenziale carica infettiva di tali rifiuti ne avrebbe imposto la raccolta e il trattamento indifferenziato”. Fatti in realtà non così allarmanti come li descrivono i giudici etnei, a giudicare da quanto riportano medici e scienziati che in Sicilia hanno studiato in questi anni la salute dei migranti. In un lungo articolo scientifico dedicato alla salute dei migranti irregolari e pubblicato dalla rivista “Epidemiologia e Prevenzione” nel 2017, quattro medici rendono conto di un lavoro di indagine svolto negli hotspot di Lampedusa e Trapani Milo da un’equipe dell’Inmp (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà), ente pubblico sanitario che lavora in convenzione per ministero della Salute e dell’Interno. Numeri che “nel periodo maggio 2015-ottobre 2016 non hanno evidenziato, su circa 6.000 visite effettuate, gravi malattie infettive e diffusive, ma solo malattie dermatologiche facilmente curabili: scabbia, prurito e affezioni correlate, pediculosi, varicella, impetigine e dermatite da contatto”. “Analogamente - proseguono i quattro medici - i dati della sorveglianza sindromica condotta dall’Istituto superiore di sanità (Iss) presso 21 centri per immigrati in Sicilia, tra marzo e agosto 2015, hanno evidenziato, su una popolazione media giornaliera di 5.373 presenze, un totale di 48 allerte statistiche, 33 infestazioni (scabbia), 7 sindromi respiratorie febbrili, 7 malattie febbrili con rash cutaneo (morbillo e varicella) e 1 caso di sospetta tubercolosi polmonare”. In generale va ridimensionato “l’allarme sociale connesso al cliché del migrante-untore” scrivono, perché “gli stessi dati dell’Inmp riferiscono che su 51.000 pazienti visitati nell’arco degli anni 2009-2014 sono stati riscontrati solo 24 casi confermati di tubercolosi (quasi tutti migranti di lunga permanenza), di cui 4 recidive di diagnosi precedentemente stabilite”. Quali sono mediamente le condizioni di salute dei profughi che sbarcano sulle coste italiane? - si domandano gli autori. “Questa domanda continua a suscitare curiosità tra gli addetti ai lavori e allarme nell’opinione pubblica, soprattutto in relazione al rischio di potenziali epidemici e ai costi della sorveglianza sanitaria - rispondono: Tuttavia, vi sono evidenze che l’”effetto migrante sano” si eserciti anche su tale popolazione, almeno per quanto riguarda le patologie infettive di importazione”. L’effetto “migrante sano” è un espressione del gergo con cui i medici indicano “una sorta di selezione naturale all’origine, per cui decide di emigrare solo chi è in buone condizioni di salute” e “la controprova epidemiologica della validità di tale meccanismo sta nella bassa occorrenza di patologie infettive di importazione tra gli immigrati che arrivano nel nostro Paese (oltretutto con rischi di trasmissione alla popolazione ospite trascurabili, in assenza di vettori specifici e/o delle condizioni socioeconomiche favorenti la loro diffusione”. Si tratta inoltre di “dinamiche di salute evidenziate in questi anni sui migranti cosiddetti ‘economici’, il cui progetto di vita, orientato alla ricerca di un lavoro nel Paese ospite, implica in partenza condizioni di piena integrità fisica e psichica”. Gli autori dell’articolo rendono conto anche di monitoraggi effettuati a Roma tra 2008 e 2016 su 23.025 pazienti sprovvisti di permesso di soggiorno dove emerge come il grosso dei problemi sanitari siano legati alla salute mentale: depressione (28%), disturbo post-traumatico da stress (27%), ansia (10%). I quattro medici che hanno raccolto i dati sono: il dottor Giovanni Baglio, epidemiologo specializzato in salute pubblica, che ha già lavorato presso l’Iss e Inmp, laureato all’Università Cattolica con una tesi sugli aspetti socio-sanitari dell’immigrazione, ambito di ricerca di ricerca nel quale esercita da vent’anni; il dottor Raffaele Di Palma, immunologo dell’Università Federico II di Napoli che insegna in Svizzera e Svezia; la dottoressa Erica Eugeni del Dipartimento Sanità pubblica e Malattie infettive della Sapienza; e il dottor Antonio Fortino, medico chirurgo con specializzazioni in endocrinologia, statistica e programmazione sanitaria, che dal 1991 lavora per Fondazione San Raffele, ministero della Salute e aziende sanitarie territoriali. Il Pakistan “apre” ai rifugiati, un segnale per le minoranze di Stefano Vecchia Avvenire, 22 novembre 2018 La cittadinanza a bengalesi e afghani, una svolta storica. Nel mese di agosto 2018, poco dopo la sua designazione a primo ministro, Imran Khan ha dichiarato che il suo governo farà dell’integrazione degli immigrati afghani e bengalesi una priorità. Nel mese di agosto 2018, poco dopo la sua designazione a primo ministro successivamente alla vittoria del suo partito Tehreek-e-Insaf alle elezioni generali del 25 luglio, Imran Khan ha dichiarato che il suo governo farà dell’integrazione degli immigrati afghani e bengalesi una priorità. Sottolineando che la concessione della cittadinanza a un gran numero di individui che da decenni vivono nel suo Paese è da tempo dovuta, con un doppio obiettivo: di giustizia ma anche per disinnescare una potenziale bomba sociale. Non a caso, le sue posizioni sono state accolte con soddisfazione da altre minoranze, gruppi emarginati e attivisti per i diritti umani. Allama Muhammad Ahsan Siddiqi, a capo di una organizzazione interreligiosa con base a Karachi ha segnalato all’agenzia UcaNews il suo appoggio all’iniziativa del capo del governo. “Stiamo parlando di umanità, non di questioni politiche - ha indicato Siddiqi. Tutte le comunità dovrebbero avere uguali diritti come indica la nostra Costituzione, ma sfortunatamente ogni cosa in Pakistan viene politicizzata”, sottolineando così che tanta parte nell’arretratezza di gruppi sociali hanno la manipolazione politica e gli interessi di partiti e gruppi di potere. La concessione della cittadinanza alle maggiori comunità immigrate, avrebbe tra l’altro come contropartita di rilanciare il ruolo umanitario di un Paese noto un tempo per la sua accoglienza e che negli anni è diventato ricettacolo di problemi e di rischi per le minoranze, a partire da quelle religiose, mostrando incapacità di controllare ampie aree di sfruttamento e di privilegio. Secondo i dati più recenti dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, sono quasi un milione e mezzo gli afghani registrati con la qualifica di profugo. A essi si aggiungono circa 250mila bengalesi - eredi in gran parte della migrazione di elementi legati agli interessi del Pakistan dopo la guerra di liberazione di quello che oggi è il Bangladesh nel 1971, e musulmani birmani, di etnia Rohingya ma non solo. Per i leader della comunità bengalese, che come quella afghana ha la sua concentrazione maggiore nella città portuale di Karachi, maggiore agglomerato urbano del Pakistan, i connazionali che vivono nel Paese potrebbero essere oltre due milioni. A conferma della difficoltà di censire e di controllare un fenomeno immigratorio che ha molte ragioni ma che rappresenta una sfida per i governi e a volte rischia di innescare un conflitto sociale. Una problematica sottolineata dallo stesso Khan, durante una manifestazione organizzata per raccogliere fondi destinati alla costruzione di impianti idroelettrici: “Se gli obiettivi mirati e gli attacchi terroristici sono diminuiti, a Karachi la criminalità comune è in crescita e uno dei fattori principali è la crescita di una popolazione sfavorita che non ha un’istruzione e che non ha lavoro a causa della mancanza di un sistema di sicurezza sociale. Questa popolazione include soprattutto profughi afghani e bengalesi i cui figli sono nati e cresciuti qui. Tuttavia, non possono avere passaporti e carte d’identità nazionali e senza di esse non possono accedere a impieghi regolari e, anche quando riescono a farlo, hanno salari inferiori agli altri. Quando una società maltratta una parte della sua popolazione alla fine deve pagarne il prezzo. A Dio piacendo, avranno i loro documenti e non li aiuteremo a avere un’istruzione e a diventare pachistani con uguali diritti”. Come riportato ancora da UcaNews, la Caritas pachistana ha accolto con sollievo le dichiarazioni del premier, ma senza trionfalismo. “I bengalesi che vivono a Karachi meritano tutti i diritti e i documenti necessari come i cittadini comuni e anche gli afghani si trovano davanti a problemi sociali, educativi, medici e abitativi. Anch’essi sono vulnerabili e quindi ogni decisione riguardo la loro situazione richiede una seria riflessione”, ha segnalato il direttore esecutivo della Caritas, Amjad Gulzar. Quella della diaspora afghana (e ancor prima quella bengalese dopo la guerra di liberazione del 1971) resta una situazione dimenticata per molti anni, ma che ha avuto un peso consistente, non solo riguardo i paesi d’origine, ma anche quelli di accoglienza. La conferma è arrivata dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: il Pakistan ospita il più alto numero di rifugiati al mondo, poco meno di un milione e mezzo. Ufficialmente in maggioranza afghani eredi di una diaspora che ha le sue radici nell’invasione sovietica dell’Afghanistan a sostegno di un governo favorevole a Mosca. Una situazione di conflitto perdurata negli anni anche dopo il ritiro dei sovietici e nonostante i cambi di regime a Kabul e a Mosca, che ha portato milioni di afghani a cercare rifugio entro i confini pachistani e in molti casi a farne la propria casa. Un’ospitalità che ha portato in certi periodi al limite delle possibilità del Paese ma che non ha mai acceso particolari fenomeni di opposizione interna. La diaspora afghana, ha dato vita a comunità operose e pacifiche, che però in molti casi sono state infiltrate da istanze jihadiste e dall’ideologia talebana, da contrasti interni, dai traffici di armi e di oppio. Come molti altri prima di loro 1,45 milioni di afghani ancora presenti nel Paese, per i due terzi di seconda generazione, sono sottoposti a una pressione al rientro che ha molte ragioni ma che viene attuata con gradualità. Problematica comunque, perché molti afghani non si riconoscono più in un Paese d’origine ancora in guerra, dove non avrebbero risorse e che non è più il loro da tempo. Inoltre, il movimento di rientro si è incrociato per anni con un movimento di contrario in certi momenti anche superiore. La presenza afghana nel Paese ospitante non ha mai superato i 3,5 milioni. Il movimento di ritorno sostenuto dall’Acnur-Unhcr ha consentito complessivamente il rimpatrio di circa 4,1 milioni di afghani da marzo 2002, il più grande impegno di questo tipo per una organizzazione internazionale, ma la persistenze situazione di conflitto nel Paese d’origine ha frenato in anni recenti le partenze, pur davanti alla pressione del governo di Islamabad che è stata sostenuta da incentivi ma ha anche rasentato l’espulsione indiscriminata, creando fenomeni di clandestinità, reazioni e anche un incremento delle attività di trafficanti transnazionali. Sono stati 137mila gli afghani che hanno ufficialmente lasciato il Pakistan nel 2015, quattro volte più dell’intero 2014. D’altra parte, un accordo tra Islamabad e Kabul per rinnovare i documenti di soggiorno e consentire, ad esempio, permessi biennali, è reso difficile, come per altre questioni bilaterali, da tensioni tra i due Paesi. In particolare, il governo afghano accusa Islamabad di non contrastare efficacemente sul proprio territorio l’azione delle fazioni talebane che non solo hanno goduto dall’inizio del sostegno dei servizi segreti pachistani, ma che ancora hanno nelle regioni confinarie del Pakistan rifugio e supporto. Da questa situazione ha origine anche la presenza di afghani e bengalesi tra i boat-people e i profughi che si dirigono verso le frontiere dell’Unione Europea. A settembre 2017 erano 170.045 gli afghani richiedenti asilo in area Ue, con un tasso crescente di respingimenti, arrivato al 52 per cento dopo un miglioramento significativo tra il 2012 e il 2015. Arabia Saudita. “Attiviste in carcere torturate con le scosse elettriche” di giordano stabile La Stampa, 22 novembre 2018 Le denunce del Washington Post e di Amnesty International: “Ancora violazioni dei diritti umani dopo il caso Khashoggi”. Le attiviste arrestate lo scorso maggio con l’accusa di “attività sovversive” sarebbero state torturate e molestate in carcere. Sono le principali personalità che si sono battute per il diritto alla guida, contro il velo obbligatorio e l’obbligo di uscire accompagnate da un uomo. La maggior parte sarebbe ancora in carcere e il Washington Post ha raccolto testimonianze su quattro di loro. Sono state sottoposte a molestie sessuali, scosse elettriche e fustigazioni. Alcune “non riuscivano a stare in piedi” durante i colloqui con i parenti, avevano tremori incontrollabili e altri segni di tortura. I nomi non sono stati rivelati per proteggere i famigliari che hanno accettato di testimoniare a patto di rimanere anonimi. Movimenti femministi sotto tiro - “Appena poche settimane dopo l’uccisione di Jamal Khashoggi - ha commentato Lynn Maalouf, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente - questi rapporti su torture, molestie sessuali e altre forme di maltrattamenti, se confermati, mettono in luce ulteriori scandalose violazioni dei diritti umani da parte delle autorità saudite”. Secondo Amnesty, almeno una dozzina di donne e uomini legati ai movimenti femministi sauditi sono in carcere da maggio. Fra le persone arrestate nell’ultimo anno e mezzo ci sono attivisti noti a livello internazionale, come Samar Badawi, Aziza al-Yousef e Loujain al-Hathloul. Trump: resteremo alleati di Riad - Le nuove rivelazioni arrivano subito dopo le dichiarazioni di Donald Trump, che ha detto di voler preservare l’alleanza con l’Arabia Saudita, anche se il principe Mohammed bin Salman “potrebbe essere il mandante dell’omicidio di Jamal Khashoggi”. In una nota il presidente Usa ha spiegato che “può essere che il principe ereditario sapesse molto bene di questo evento tragico; può essere, come può non essere”. Poi ha puntualizzato come le agenzie di Intelligence americane stiano “valutando tutte le informazioni”. Ragioni di “sicurezza nazionale” - Nei giorni scorsi gli inquirenti turchi hanno fatto sapere di essere in possesso anche delle registrazioni dei colloqui fra il commando inviato a Istanbul e Riad. In base alle registrazioni e altri elementi forniti dalla Turchia, ma anche di fonte propria, la Cia ha concluso che il Bin Salman “non poteva non essere al corrente” dell’operazione. Nella nota però Trump ha sottolineato soprattutto gli aspetti geopolitici del caso, la “minaccia” che proverrebbe dall’Iran, il principale avversario dell’Arabia Saudita. “Gli Stati Uniti - ha puntualizzato - intendono restare un partner costante dell’Arabia Saudita, affinché siano mesi in sicurezza gli interessi della nostra nazione e dei nostri partner nella regione”.