Una Carta tutelerà meglio i figli minori dei detenuti giustizia.it, 21 novembre 2018 Bonafede: “garantire la prosecuzione del legame familiare”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, la Garante per l’Infanzia e l’adolescenza Filomena Albano e la presidente dell’Associazione “Bambinisenzasbarre” Lia Sacerdote, hanno rinnovato oggi la Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti. Il Protocollo d’intesa siglato raggiunge così il terzo rinnovo, a conferma dell’interesse che le parti riconoscono alle condizioni che vivono i figli minori di genitori detenuti e alle difficoltà che in tante occasioni si trovano ad affrontare, sia che vivano assieme a loro, condividendone le limitazioni degli ambienti di detenzione, sia che li incontrino in carcere nel tempo loro concesso dalla legge. Il Protocollo Carta dei figli di genitori detenuti promuove infatti l’attuazione concreta della Convenzione Onu sulla tutela dei diritti dei bambini e adolescenti, agevolando e sostenendo i minori nei rapporti con il genitore detenuto e indicando forme adeguate per la loro accoglienza in carcere. Nel febbraio 2017 i firmatari del Protocollo sono stati invitati a presentare i risultati sul sistema giudiziario italiano presso la sede ONU di Ginevra, in un incontro a porte aperte che è stato interamente dedicato alla Carta italiana come modello adottabile da altri Paesi. Nei quattro anni di applicazione della Carta, siglata per la prima volta nel marzo del 2014 e successivamente rinnovata il 6 settembre 2016, i risultati raggiunti descrivono fasi di progressivo miglioramento: le sale d’attesa per i bambini sono ora presenti in 80 istituti (nel 2016 erano 66), mentre le sale colloqui risultano presenti in 112 istituti (nel 2016 erano in 105); le ludoteche sono attive in 76 istituti mentre le aree verdi in 114. Grazie a questa crescente attenzione, tradotta in luoghi sempre più accoglienti per i minori e i loro genitori, sono aumentate nell’ultimo biennio anche il numero di visite che i figli minorenni hanno fatto ai genitori: per la fascia di età 0-5 anni si è passati da circa 14mila richieste a 19.200, mentre la fascia 6-11 anni è salita da 13mila a poco più di 16mila. Uno spazio accogliente, incentiva il rapporto genitore detenuto-figlio e favorisce l’affettività che viene coltivata nonostante le situazioni non siano ottimali. La stessa attenzione che la Carta destina ai rapporti genitore detenuto-figlio minore, viene riservata ai fratelli e alle sorelle minorenni dei giovani detenuti. Il Protocollo d’intesa appena rinnovato ha, fra i suoi obiettivi, l’ambizione di evitare la presenza di bambini in carcere, ma in attesa che questo si possa realizzare, vuole fare in modo che i minori abbiano sempre più la sensazione di una vita normale attraverso il libero accesso alle aree all’aperto, agli asili nido e alle scuole; che il personale a contatto con loro sia sempre più specializzato, prevedendo corsi di formazione; che siano attivate misure a supporto della genitorialità, che in carcere vive condizioni di estrema fragilità. “Sono rimasto particolarmente colpito - ha dichiarato il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede - dalla tragedia di Rebibbia, dove una detenuta ha ucciso i suoi due bambini. È preciso dovere dello Stato intervenire per essere vicini alle associazioni che seguono i percorsi di questi minori che, senza nessuna colpa, vivono l’esperienza drammatica della detenzione. Allo stesso modo dobbiamo creare le condizioni perché anche ai minori con un genitore detenuto possa essere garantita l’affettività derivante dalla prosecuzione del legame familiare”. La Garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano ribadendo che “I figli delle persone detenute hanno gli stessi diritti degli altri bambini”, ha auspicato il mantenimento “del legame affettivo con il genitore anche attraverso incontri e contatti regolari, tranne nei casi in cui ciò non sia in contrasto con il superiore interesse del minore”. Lia Sacerdote - presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre - ha a sua volta apprezzato la nuova stipula del Protocollo, che rende “possibile proseguire il processo trasformativo avviato perché la parte più fragile raggiunga e coinvolga la società esterna a cui il carcere appartiene”. [fea] Carceri, Tavolo lavoro permanente Garante nazionale-Procura Napoli Askanews, 21 novembre 2018 Protocollo d’intesa della durata di tre anni. Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, e il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, Giovanni Melillo, hanno sottoscritto un Protocollo d’intesa che impegna le due Istituzioni a realizzare azioni comuni per tutelare i diritti fondamentali delle persone private della libertà, per promuovere e accrescere la cultura di un’esecuzione della pena strettamente aderente al dettato costituzionale nel pieno rispetto della dignità di ogni persona. L’accordo prevede la promozione di programmi di informazione e formazione comuni. In base all’intesa, della durata di tre anni, Garante e Procura convocheranno un tavolo di lavoro almeno ogni due mesi per analizzare le criticità rilevate nel territorio circondariale di competenza del Tribunale di Napoli e per studiarne le possibili soluzioni, sia in termini di prevenzione di eventuali violazioni che del loro perseguimento. Seguiranno operativamente le azioni previste dal Protocollo Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante, e Nunzio Fragliasso, Procuratore aggiunto. Garante e Procuratore esprimono grande soddisfazione per la sottoscrizione di questo significativo Protocollo d’intesa, che - ha sottolineato il Garante - rappresenta un modello per possibili analoghe collaborazioni con altre Procure. La Lega vuole il decreto sicurezza “o salta tutto” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 21 novembre 2018 Nuovo scontro tra Lega e 5Stelle. Sul tavolo del governo c’è ancora il decreto sicurezza che l’ala sinistra e buona parte del movimento non riesce a digerire. Ma Salvini va giù duro e deciso: “Il dl Sicurezza serve al Paese e passerà entro il 3 dicembre o salta tutto e mi rifiuto di pensare che qualcuno voglia tornare indietro”, è il monito lanciato agli alleati dal ministro dell’Interno, commentando il nervosismo di alcuni deputati grillini - 19 prima che qualcuno smarcasse che vorrebbero emendare il provvedimento a Montecitorio e hanno avuto il coraggio di scriverlo nero su bianco su una lettera indirizzata al capogruppo. Il gioco ormai sembra collaudato: Matteo Salvini dice qualcosa che suona come un affronto alla storia del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio si mostra irritato e una parte della base parlamentare grillina manifesta la propria insofferenza nei confronti dell’alleanza col Carroccio. Quasi sempre finisce con una riunione lampo e un comunicato congiunto che riappiana miracolosamente ogni attrito. E quasi sempre è la Lega ad avere la meglio. È già successo col condono fiscale, potrebbe accadere con gli inceneritori e ci sono tutti gli ingredienti perché il copione resti lo stesso adesso, sul decreto sicurezza, a pochi giorni dal voto definitivo alla Camera. “Il dl Sicurezza serve al Paese e passerà entro il 3 dicembre o salta tutto e mi rifiuto di pensare che qualcuno voglia tornare indietro”, è il monito lanciato agli alleati dal ministro dell’Interno, commentando il nervosismo di alcuni deputati grillini - 19 prima che qualcuno smarcasse - che vorrebbero emendare il provvedimento a Montecitorio e hanno avuto il coraggio di scriverlo nero su bianco su una lettera indirizzata al capogruppo. Il decreto “va avanti anche perché se lo apriamo e lo modifichiamo lo facciamo decadere. Quel decreto va votato, altrimenti non possiamo chiedere di rispettare il contratto di governo”, annuncia invece su Radiouno il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico. “Come capo politico del Movimento devo assicurare la lealtà a questo governo: se dico una cosa all’inizio, quella cosa si fa fino alla fine”, spiega ancora Di Maio, mettendo a tacere i malumori pentastellati. Il capo politico si appella al buonsenso di molti “pentiti” che avevano sottoscritto quella richiesta di modifica del testo ma “si stanno sfilando perché non vogliono mettere in difficolta il governo”, dice il vice premier M5S. “Mi stanno scrivendo in molti e stasera farò una ricognizione di chi ancora sostiene quella lettera, con cui, a quanto ho capito, si vuole fare soprattutto un’azione di testimonianza”. Cosa intenda per ricognizione Di Maio non è dato saperlo, ma qualora il dissenso rimanesse irriducibile, i ribelli verrebbero con ogni probabilità deferiti al collegio dei probiviri, già chiamato agli straordinari per valutare la posizione dei cinque senatori eretici anti salviniani. Il rischio per il leader pentastellato però è che la fronda non si limiti ai firmatari della lettera. Altri deputati di peso sono usciti allo scoperto pur senza presentare emendamenti alla legge della Lega, come Giuseppe Brescia, fichiano, presidente della commissione Affari costituzionali e relatore del provvedimento. “Rimangono forti perplessità su diversi punti del testo, come il ridimensionamento dello Sprar e la mancata tutela a chi potrebbe subire trattamenti disumani e degradanti. Sono punti a cui alcuni emendamenti presentati dai colleghi M5S danno risposta”, dice senza paura Brescia. “Personalmente ho ritenuto opportuno non presentare emendamenti migliorativi come relatore perché è noto che non governiamo da soli”. Ma la bocciatura sul decreto sicurezza è sonora: “L’impianto proposto dal decreto regge se aumentano i rimpatri e se il numero di sbarchi rimane invariato, in caso contrario questo sistema e destinato a creare più irregolari, più marginalità e più insicurezza”, chiosa il deputato fuori linea. E invece di rientrare, come sperato da Di Maio, i deputati ribelli firmatari della missiva sono convinti che la sfida ai vertici abbia sortito gli effetti desiderati e si dicono soddisfatti dei cinque emendamenti depositati in Commissione “per conto del Movimento tutto, raccogliendo anche le richieste che insieme ad altri, come e noto, ho voluto esprimere”, dice a nome dei dissidenti la napoletana Gilda Sportiello. Oltre alle modifiche richieste dai ribelli, però, sul decreto pendono 600 emendamenti che potrebbero farlo naufragare. Un rischio che Di Maio non vuole prendere neanche in considerazione in una fase in cui un incidente del genere corrisponderebbe alla fine dell’esperienza di governo. “Per quanto mi riguarda la mia parola e una: se io e tutti ministri M5S abbiamo votato quel decreto in Consiglio dei ministri, quel decreto si deve votare fino alla fine, modificarlo alla Camera significa non convertirlo. Io ho una parola sola e sono una persona corretta”, afferma Di Maio, richiamando almeno i suoi alla disciplina e alla fiducia cieca nei confronti delle scelte dei vertici. E se non fosse sufficiente, Lega e 5 Stelle sono pronte a usare l’arma già sperimentata al Senato: il voto di fiducia. Salvini incassa e ringrazia. Processi in prescrizione e ruolo delle Procure di Giuseppe Pignatone* Corriere della Sera, 21 novembre 2018 Sul Corriere di lunedì 19 Luigi Ferrarella e Milena Gabanelli hanno fatto un attento, se pur sintetico, esame del problema delle prescrizioni dei reati che “manda in fumo” 130.000 processi l’anno. Vorrei fare una precisazione non per difesa di ruolo o di ufficio, che non mi appartiene, ma per evitare che dati sbagliati suggeriscano analisi imprecise e, quindi, rimedi inappropriati. Le statistiche ministeriali dicono che il 62% delle prescrizioni totali “maturano in mano ai pm nelle indagini prima del processo”. Il dato da cui molti - certo non il Corriere - fanno derivare l’affermazione che gran parte delle responsabilità delle lunghezze di procedimenti è delle Procure che non definiscono le indagini in modo tempestivo, è formalmente esatto ma sostanzialmente sbagliato. Posso parlare dei dati di Roma, già di per sé significativi, ma ho ragione di ritenere che la situazione si ripeta in molti altri uffici (lo stesso Corriere cita il caso del Tribunale di Bologna). In realtà vi sono, ormai da più di lo anni, decine di migliaia di procedimenti per cui la Procura ha concluso le indagini, e cioè ha fatto tutto quello che le competeva, ma non riesce a trasmetterle al tribunale per il giudizio perché il tribunale non fissa la data di udienza; e questa attesa si prolunga per anni lasciando il procedimento nella fase delle indagini preliminari finché non matura la prescrizione e il pm non può fare altro che chiederne la declaratoria al gip. Con gli effetti statistici messi in evidenza dal Corriere. Se si tiene conto di questo dato di realtà, la percentuale dei procedimenti che si prescrivono, a Roma ma credo anche in molte altre sedi, durante la fase delle indagini preliminari oscilla tra il 3 e il 4%. E va sottolineato che si tratta spesso di reati, come gran parte di quelli tributari, di cui la Procura ha avuto notizia solo poco tempo, uno-due anni, prima della data di prescrizione. Ci sono sempre spazi di miglioramento, in questo come negli altri Uffici di Procura, ma mi pare essenziale effettuare analisi corrette per cercare le soluzioni adeguate. Allo stesso modo, va detto, la mancata trattazione da parte del Tribunale di tutti i procedimenti che la Procura ha “lavorato” non dipende certo da cattiva volontà o da chissà quale disegno perverso (e anzi sono in corso vari progetti per migliorare, nei limiti del possibile, la situazione), ma dal nodo strutturale che il Corriere individua: il sistema giudiziario non è in grado, con le regole attuali e le risorse, anche di polizia giudiziaria, concretamente disponibili, di trattare tutti i procedimenti per tutti i fatti, alcuni peraltro di scarsissimo rilievo, che il legislatore considera reati. E mi permetto di aggiungere un’ultima considerazione che è sfuggita all’attenta analisi del Corriere. Gli altri Paesi europei, cui naturalmente ci rapportiamo, non solo non hanno, come l’Italia, tre gradi di giudizio, oltre che molte altre fasi incidentali, ma non hanno, per loro fortuna, una criminalità mafiosa potente, pericolosa e sempre più presente in molte regioni diverse da quelle di origine. Non è un dato trascurabile perché le indagini e i processi per fatti di mafia impegnano risorse notevoli e vanno trattati con priorità perché vedono di regola gli imputati in stato di custodia cautelare. E ad ogni priorità, incluse quelle fissate di recente dal legislatore o indicate dal Csm, corrisponde, non bisogna dimenticarlo, un arretramento di altri settori. *Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma Vespa vs Davigo: “Lei dorme con le manette sul comodino” di Gisella Ruccia Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2018 “Finge di non capire”. Scontro su Berlusconi e prescrizione. Botta e risposta serrato a Dimartedì (La7) tra Piercamillo Davigo, presidente della II Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, e il giornalista Bruno Vespa. Quest’ultimo, nel corso di una discussione sulla corruzione in Italia, ironizza sul magistrato: “Il problema è che, mentre mia nonna aveva la foto di papa Giovanni XXIII sul comodino, qualcun altro ha la foto del figlio, il dottor Davigo sul comodino ha le manette. Lui si sveglia dicendo: Oggi a chi tocca?”. Davigo ribatte: “Quello che Vespa fa finta di non capire è che il problema dell’Italia non è la criminalità comune, perché abbiamo il tasso di omicidi più basso in Europa. I due problemi nel nostro Paese sono il crimine organizzato e la devianza delle classi dirigenti. La criminalità dei colletti bianchi fa danni incomparabilmente più gravi di quelli procurati da un borseggiatore o da un piccolo rapinatore. Non capire che il problema dell’Italia è la devianza delle classi dirigenti è un grave errore”. “Alcuni esponenti della classe dirigente, non tutti” - replica Vespa - “Dottor Davigo, quella è la patologia: lei parla della classe dirigente e invece si tratta di una parte minoritaria di essa. Ed è già troppo, abbia pazienza”. “Tutti questi restano al loro posto” - risponde il magistrato - “finché non arrivano i magistrati. Questo è il problema italiano, perché nessuno li manda a casa prima”. “Non sempre”, commenta il giornalista. La polemica riesplode quando Davigo afferma che in Italia non c’è giornalismo d’inchiesta, se non in casi rarissimi. E aggiunge: “Di solito quello che viene scritto sui giornali è il riassunto di quello che avviene nelle aule processuali. E questa è un’anomalia, perché altrove, invece, il circuito è rovesciato: i giornalisti fanno le inchieste e poi si fanno i processi sulle inchieste scritte dai giornalisti”. Vespa controbatte: “Veramente voi di Mani Pulite siete stati dei maestri a riguardo. Era la regola che gli indagati sapessero dai giornali di esserlo. Ma quanti magistrati sono andati sotto processo per aver passato delle informazioni ai giornali? Nessuno. E quanti ufficiali della polizia giudiziaria sono stati indagati per aver passato informazioni ai giornali? Forse un paio. La verità è che voi di Mani Pulite avete utilizzato alla grande i giornali”. Davigo obietta: “Io non ho utilizzato un bel niente, quindi è lei che sta generalizzando”. Vespa rincara: “All’epoca i giornalisti giudiziari erano un tappeto su cui voi magistrati passeggiavate. E i nostri colleghi, per avere una informazione, facevano tutto”. “Ma quale accidente di informazione dovevano avere se erano stati tutti arrestati ed erano fatti notori?”, ribatte Davigo. Vespa menziona il caso di Berlusconi nel novembre 1994, quando all’ex presidente del Consiglio fu consegnata la notifica a comparire durante il vertice sulla criminalità del G7 organizzato a Napoli e presieduto dall’ex Cavaliere. Davigo non ci sta e spiega: “Guardi, io ho subito un procedimento disciplinare da cui sono stato assolto. Ho provato in giudizio che Berlusconi seppe di quella notifica prima e, dopo averlo saputo, ha ritenuto di presiedere un convegno sulla corruzione, pur sapendo di essere sottoposto a un procedimento penale. Quindi, è il contrario di come la racconta”. “Va bene” - replica Vespa - “Da questo momento mi astengo sul tema”. “Fa bene”, controbatte Davigo. L’ultimo match tra i due duellanti si registra sullo stop alla prescrizione. Davigo osserva: “Intanto, la prescrizione, così come è in Italia, ce l’ha solo la Grecia. È una cosa stravagante. Supponiamo che uno venga condannato in primo grado e fa appello dicendo che gli hanno dato troppo. Passa il tempo e non prende neanche il meno che secondo lui era giusto. È una cosa priva di senso comune”. Vespa è di diverso avviso: “È invece aberrante che, se non riformi il processo penale e metti la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, il processo non si fa più. Dopodiché la magistratura fa i processi che vuole fare. Il processo Cusani è durato tre anni dall’arresto di Cusani fino alla Cassazione. Adesso con tre anni non si fa nemmeno un giudizio di primo grado”. Il magistrato replica: “Vespa fa finta di non capire che i processi durano tanto perché ce ne sono troppi. Se, anziché depenalizzare sciocchezze come la sfida a duello, depenalizzassero massicciamente, faremmo meno processi”. Whistleblower protetti in tutta l’Unione europea di Carlo Ghirri Italia Oggi, 21 novembre 2018 Whistleblower protetti in tutta l’Unione europea. Ieri gli eurodeputati della commissione affari legali hanno approvato una proposta di direttiva per garantire un’equa protezione in Europa per chi segnali le violazioni del diritto Ue in materia di evasione fiscale, corruzione, protezione dell’ambiente e della salute e sicurezza pubblica. La protezione dei whistleblower all’interno dell’Ue è attualmente frammentata: solo dieci stati, di cui anche l’Italia, garantiscono determinate garanzie verso chi denuncia le irregolarità. Una mancanza di garanzie che, secondo uno studio della commissione europea, ha portato una perdita di potenziali benefici negli appalti pubblici tra i 5,8 e 9,6 miliardi di euro ogni anno all’interno dell’Unione. Il testo approvato dagli eurodeputati ha così stabilito l’estensione delle stesse misure di protezione anche per chi assiste il soggetto segnalante, come ad esempio un giornalista. Per assicurare un’efficace protezione contro eventuali ritorsioni o intimidazioni, secondo il testo, dovranno essere adottati sistemi di segnalazione sia interni che esterni, sia all’interno del settore pubblico che privato. I tempi di risposta dovranno essere certi: entro una settimana dovrà arrivare la notifica di pervenuta segnalazione, mentre il risultato di accertamento dell’irregolarità dovrà avvenire entro due mesi. Inoltre, all’interno del testo viene stabilita la creazione di un’autorità in ciascuno Stato membro che fornisca gratuitamente informazioni e consulenza, nonché assistenza legale, finanziaria e psicologica. Una volta che la plenaria del Parlamento europeo avrà approvato il mandato negoziale, il testo sarà oggetto di negoziazione con i ministri dell’Ue all’interno del Consiglio, dove verrà approvato il testo definitivo della direttiva. Sul doppio binario no ad automatismi, esame caso per caso di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 52142/2018. Può essere prosciolto l’accusato (penalmente) di evasione fiscale già punito dall’amministrazione finanziaria. La sentenza della Corte costituzionale n. 43 di quest’anno, infatti, corregge il tiro rispetto al principio affermato 5 anni fa dalle Sezioni unite della Cassazione e ribadito dai giudici di merito. Ora, la verifica del giudice sulla legittimità del doppio binario penale-amministrativo per gli illeciti tributari deve essere più attenta e puntuale. Lo sottolinea la Corte di cassazione con la sentenza n. 52142 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte ha così accolto il ricorso presentato da un contribuente sanzionato in appello con 30.000 euro (in sostituzione peraltro di una pena detentiva di 4 mesi) per il mancato versamento di quasi 360.000 euro di Iva. Tra i motivi del ricorso, la difesa aveva fatto valere il divieto di bis in idem, ricordando che la sanzione tributaria comprendeva una maggiorazione del 30% dell’importo del tributo non versato, con la conseguenza che la sanzione penale rappresentava un’evidente duplicazione. La Cassazione, innanzitutto, precisa che il richiamo effettuato dalla Corte di appello alla sentenza n. 37425 delle Sezioni unite non è esaustivo. Quella pronuncia infatti legittimava la possibilità di una doppia misura sanzionatoria penale e amministrativa per le violazioni in materia fiscale, sottolineando la differenza dei presupposti temporali e fattuali e l’esistenza di un rapporto non di specialità, ma di progressione tra un ambito e l’altro. La sentenza di ieri però, pur non sconfessando le conclusioni delle Sezioni unite, invita a considerare con attenzione quanto affermato dalla Consulta con la sentenza n. 43 del 2018, che rappresenta un “netto avanzamento” anche con riferimento all’interpretazione data assai di recente dalla stessa Cassazione alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 6993/2018). Per la Corte, determinante diventa l’allargamento dei margini di discrezionalità a disposizione dell’autorità giudiziaria nella valutazione della connessione temporale e materiale tra procedimento penale e amministrativo. In passato, avverte la Cassazione, l’autonomia dell’uno rispetto all’altro escludeva alla radice che questi potessero sottrarsi al divieto di bis in idem; oggi invece l’autorità giudiziaria deve procedere valorizzando quanto affermato dalla Corte dei diritti dell’uomo con la sentenza A e B contro Norvegia del 2016. La possibilità di duplice giudizio è conseguenza allora di un legame temporale che tuttavia non esige la pendenza contemporanea dei due procedimenti, ma ne ammette anche la successione; mentre il legame materiale dipende “dal perseguimento di finalità complementari connesse ad aspetti differenti della condotta dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi e soprattutto dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si potesse tenere conto della prima”, con l’obiettivo di evitare un “eccessivo fardello” per lo stesso fatto illecito. Il procedimento penale sospende l’azione della giustizia ordinistica di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2018 Il disciplinare di categoria, in caso di comportamenti penalmente rilevanti tenuti dal professionista nello svolgimento della propria attività, si incrocia con la magistratura ordinaria e con le sue regole. In questi casi, è opportuno che la giustizia disciplinare attenda l’esito del processo penale: a condizione, però, che il fatto storico in contestazione sia esattamente identico. Si tratta di una regola di carattere generale, stabilita dall’articolo 653 del Codice di procedura penale: questa norma stabilisce che la sentenza penale irrevocabile - di assoluzione o condanna, ma non di patteggiamento - ha efficacia di giudicato nell’ambito del giudizio disciplinare. È chiara la ragione: evitare conflitti di giudicati dagli effetti paradossali e ingiusti (si pensi a un professionista assolto con formula piena dal giudice penale, ma per lo stesso fatto precedentemente radiato dall’Albo). Il processo penale, a differenza di quello disciplinare, dispone di mezzi che consentono una ricostruzione accurata del fatto: intercettazioni, ispezioni, perquisizioni, esame incrociato dei testimoni. Dunque è bene che la giustizia “ordinistica” sospenda il giudizio contro il proprio iscritto sino a quando il processo penale non ha ricostruito il fatto, se questo è la fonte anche della responsabilità disciplinare. Lo ha stabilito anche la Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza 2223/2010. La sospensione non opera se il professionista è sottoposto solo a procedimento civile (ad esempio per una richiesta di danni fatta dal cliente). I regolamenti disciplinari di quasi tutte le professioni prevedono la possibilità di sospendere il giudizio contro un proprio iscritto in presenza di un processo penale: le uniche eccezioni riguardano ingegneri e architetti, che espressamente la escludono. Il che desta qualche perplessità, alla luce della citata giurisprudenza della Cassazione. Una nota a parte merita la giustizia degli avvocati: dopo la riforma dell’ordinamento forense (legge 247/2012), la sospensione del procedimento disciplinare è stata circoscritta ai soli casi in cui sia “indispensabile acquisire atti e informazioni appartenenti al processo penale”. Il giudizio davanti al consiglio di disciplina però non può rimanere fermo più di due anni: poi deve celebrarsi, anche se non è stata emanata una sentenza penale irrevocabile. Fino a quando il procedimento disciplinare rimane sospeso, anche la prescrizione del relativo illecito è congelata. Gli organi di giustizia della maggior parte delle professioni possono sospendere cautelarmente il proprio iscritto anche prima dell’emanazione della sentenza penale irrevocabile, in presenza di gravi indizi di reità. Generalmente, questi discendono da un provvedimento non definitivo della magistratura penale, quale una misura cautelare o una condanna in primo grado per un reato strettamente collegato all’esercizio della professione. La sospensione cautelare non può però essere infinita, ma ha dei limiti che variano per ciascuna professione. Trento: 20enne nigeriano muore in ospedale dopo il tentato suicidio in carcere di Dafne Roat Corriere Trentino, 21 novembre 2018 Non ce l’ha fatta, ha smesso di combattere il ventenne di origini nigeriane, richiedente asilo, che mercoledì scorso ha tentato di togliersi la vita in carcere poche ore dopo la sentenza di condanna a 7 anni e 4 mesi per stupro di gruppo e rapina inflitta dal giudice delle udienze preliminari. Osaigbovo Osaro Kelvin era ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale Santa Chiara di Trento e lunedì sera il suo cuore si è fermato per sempre. I medici non hanno potuto fare nulla per salvarlo, perché le sue condizioni erano purtroppo troppo gravi. È una tragedia che scuote nel profondo e ha scatenato la reazione degli avvocati. I legali stigmatizzano l’aumento di suicidi in carcere. La Procura di Trento ora ha aperto un’inchiesta a carico di ignoti per poter chiarire che cosa è accaduto in quei brevi attimi all’interno della casa circondariale di Spini di Gardolo. Un atto dovuto da parte della magistratura per chiarire quanto accaduto. Il giovane era praticamente appena arrivato in carcere quando ha tentato il gesto estremo. Sono bastati pochi secondi. Il ragazzo era rimasto coinvolto nell’indagine della squadra mobile di Trento sul presunto stupro di gruppo avvenuto a Maso Ginocchio il 24 novembre 2017. Il ventenne era stato trovato con lo zainetto rubato alla vittima, una donna di origini nigeriane di 35 anni che era stata minacciata con una bottiglia rotta e trascinata nel parco, stuprata a turno dal gruppo di ragazzi, cinque connazionali. Una storia delicata, complessa, terribile, ma segnata anche da contraddizioni. Secondo le difese, infatti, la donna avrebbe più volte cambiato versione, ma il giudice ha ritenuto sufficienti i riscontri a carico del giovane e ha deciso per la condanna. Gli altri amici, Muhammed Inusa, 24 anni, Monphy Ohue, 27 anni e Igbinosa Kenneth Obasuyi, di 25 anni, sono stati rinviati a giudizio. Si difenderanno davanti a un giudice dibattimentale. Mentre il presunto mandante, Social Emmanuel Ehimamigho, 28 anni, è stato prosciolto. Bologna: la Dozza al freddo il riscaldamento non funziona, via alle proteste di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 21 novembre 2018 Impianto ko nella sezione femminile: una madre con un bambino piccolo è stata trasferita a Forlì. “Intervenire subito” Non funziona il riscaldamento e così le detenute e gli agenti della Penitenziaria alla Dozza sono costretti a stare al freddo. Una situazione d’emergenza in pieno inverno, ma che dura ormai da alcuni giorni e che è diventata ancora più pressante in queste ore con l’abbassamento improvviso delle temperature. Ad andare in panne è l’impianto che alimenta la sezione riservata alle donne e alcune stanze nelle quali dormono i detenuti dell’alta sicurezza. Un problema, per giunta, già segnalato lo scorso anno, quando alcune caldaie avevano fatto registrare dei problemi. Durante la scorsa estate qualcuno ha cercato di porvi rimedio, ma l’intervento non è bastato. La mancanza di riscaldamento riguarda solo una parte della casa circondariale e tuttavia, per il Garante dei detenuti di Bologna (che ha immediatamente scritto alla direzione del carcere) e per gli operatori, il rischio è che la situazione possa creare tensioni nell’intera struttura. Tra l’altro nelle celle della sezione rimasta al freddo è detenuta anche una donna che ha con sé il figlioletto di pochi anni. Ieri la svolta: la detenuta è stata trasferita nel penitenziario di Forlì assieme al bambino. Per quanto riguarda la Penitenziaria la questione è duplice. Da una parte ci sono le difficili condizioni di lavoro del personale e quelle di vita delle ospiti, Dall’altro il perdurare della situazione potrebbe creare l’occasione per nuove proteste da parte degli altri detenuti. Tensioni, dicono, già viste in passato e che avevano finito per alimentare conflitti tra detenuti e anche fra loro e il personale. Tra gli agenti si ricordano ancora le recenti aggressioni ai danni di operatori finiti poi in ospedale. Sedici feriti negli ultimi cinque mesi che i sindacati di categoria hanno segnalato, lamentando le difficili condizioni in cui la Penitenziaria è costretta a lavorare. Anche per questo il Garante dei detenuti ha invitato la direzione della Dozza e il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e delle Marche a trovare una soluzione al problema in tempi rapidissimi. “L’auspicio - si dice esplicitamente nella lettera - è che, anche al fine di evitare eventuali situazioni di tensione, possano realizzarsi tempestivi interventi tecnici per la risoluzione delle criticità”. Bologna: il Garante “pochissimi educatori, celle stracolme e infermeria al collasso” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 21 novembre 2018 Sette educatori su oltre 800 detenuti, poche opportunità di lavoro rispetto alle richieste e l’infermeria sempre in emergenza. È il quadro che emerge analizzando la situazione interna alla Dozza. Una situazione che Antonio Ianniello, garante comunale per i diritti delle persone in stato di detenzione, ha segnalato nella sua ultima relazione. Tra i problemi, come accennato, la carenza di educatori, ossia di figure in grado di far svolgere un percorso di recupero ai detenuti. Dice il Garante: “Esiste un problema di proporzioni tra la popolazione detenuta e gli educatori che è gravissimo ed eclatante. Gli educatori sono importanti perché diventano un punto di riferimento per i detenuti, ma visti i numeri e le tante mansioni che devono svolgere (non ultime quelle burocratiche) la loro presenza diventa a volte solo sporadica”. Una carenza di organico che si traduce “in pochi contatti fra il detenuto e il proprio educatore”. Senza dimenticare che “coloro che si trovano in carcere per brevi periodi a volte neppure incontrano gli educatori”. Un problema “complesso da affrontare senza nuove assunzioni, che non sono all’orizzonte”. Altro tema collegato è quello del lavoro, vero strumento per il reinserimento nella società. Ianniello spiega: “La domanda di lavoro è fra le richieste principali soprattutto tra i detenuti più poveri. Quelli con meno possibilità economiche non riescono neppure a comprare i beni di prima necessità. Piccole cose, ma molto importanti”. Avere poi l’opportunità di lavorare, aggiunge il garante “può significare anche poter contribuire, per quanto possibile, al mantenimento della famiglia all’esterno del carcere. E questo attutisce le frustrazioni e rende più sereni i detenuti che non si sentono inutili”. Tra l’altro le attività lavorative svolte, sia pure insufficienti nei numeri, sono un fiore all’occhiello della Dozza, “cosa che dovrebbe incoraggiare l’istituto a incentivare le attività anche se sappiamo che i finanziamenti non sono sufficienti”. C’è poi la nota dolente dell’infermeria. Ianniello nei mesi scorsi aveva segnalato che nell’infermeria “per problemi organizzativi si trovano a convivere detenuti con situazioni diverse e che non dovrebbero incontrarsi”. Purtroppo l’infermeria viene usata per sistemare i nuovi arrivati fino al loro trasferimento in altre sezioni, cosa che spesso non è immediata. La conseguenza, ricorda Ianniello “è che la promiscuità crea momenti di tensione durante i quali si registrano aggressioni al personale e atti di autolesionismo preoccupanti”. Bene funziona, ad esempio, “il rapporto con i volontari che alla Dozza sono sempre ben accetti e svolgono tanti progetti”. Preoccupa invece “il numero di detenuti in costante crescita. In estate la presenza media era di circa 700 ospiti, negli ultimi due mesi sono state molte le giornate in cui il picco è salito ben oltre gli 800”. Saluzzo (Cn): pentole e stoviglie contro le sbarre, la rumorosa protesta dei detenuti La Repubblica, 21 novembre 2018 Pentole e stoviglie usate per battere le grate delle celle del reparto di alta sicurezza del carcere di Saluzzo. La protesta dei detenuti è iniziata questa mattina ed è proseguita per ore. Non è chiaro che cosa abbia portato i detenuti a rivoltarsi contro le regole del carcere ma tra le ipotesi c’è la decisine di spostare i reclusi sottoposti al regime di alta sicurezza in un’alta ala del carcere. Il frastuono delle stoviglie si sentiva anche dall’esterno dell’istituto di pena. “Il carcere in Italia è qualcosa di ben diverso da quello che dovrebbe essere - commenta Leo Beneduci, segretario generale del sindacato di polizia Osapp -. Sono i detenuti a dettare regole e condizioni della vita penitenziaria e le istituzioni ripiegano sempre a discapito dei principi della legalità. In questo modo non è possibile l’opera di reinserimento sociale che il carcere dovrebbe avere. Nonostante la penuria di organico, gli agenti in servizio nel carcere di Saluzzo riescono a mantenere pienamente funzionante la struttura che senza il loro costante sacrificio sarebbe in balia di soggetti violenti e pericolosi”. Lecce: gli architetti ridisegnano le celle del carcere di Francesco Buja Quotidiano di Puglia, 21 novembre 2018 “Six Square Meters” con l’Ordine degli architetti: i tre premiati Progetti e prototipi per migliorare la vita dei detenuti a Lecce Rendere più vivibili le celle del carcere. È questo il motivo ispiratore del concorso nazionale “Six Square Meters. Una nuova idea di arredo per gli spazi detentivi”, promosso dall’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Lecce; sostenuto da Ministero della Giustizia Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Direzione Casa Circondariale di Lecce, Università del Salento, Fondazione Banca Popolare Pugliese “Giorgio Primiceri” - Onlus, Ance Lecce; patrocinato da Consiglio Nazionale Architetti PPC, Regione Puglia, Comune di Lecce. Primo Premio, e riconoscimento di 3mila euro, al Progetto “Taac” degli architetti Fabio Gigone e Angela Gigliotti, da Udine, per l’”ottimo sistema costruttivo e buon design interno, concretezza e soprattutto fattibilità del progetto. Buon sistema razionale dell’insieme”. Secondo Premio, e riconoscimento di 2mila 200euro, per il Progetto “Riabilitazione cellulare” proposto dagli architetti Irene Peron e arch. Valentina Covre, da Vicenza. Motivazione della Giuria: “Idea originale per conformare lo spazio e ottima intuizione sul bagno, apprezzabile l’attenzione all’individuo”. Terzo Premio, e riconoscimento di mille200 euro, al Progetto “Orizzonte di speranza”, proposto da Enrico Bona ed Elisa Nobile, da Milano, per l’ “interessante concept e la sua declinazione. Ottima soluzione per sfruttare l’angolo finestra. Proposta chiara e pulita”. Sono i progetti vincitori del Concorso nazionale “Six Square Meters - Una nuova idea di arredo per gli spazi detentivi”. I progetti sono stati illustrati stamane nel corso di un incontro stampa ospitato nel Rettorato dell’Università del Salento cui hanno partecipato Rita Russo - Direttrice della Casa Circondariale Lecce_Borgo San Nicola; Rocco De Matteis - Presidente dell’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Lecce; Vincenzo Zara - Rettore dell’Università del Salento; Vito Antonio Primiceri - Presidente Fondazione Banca Popolare Pugliese “Giorgio Primiceri - Onlus”; Massimo Crusi - Consigliere Nazionale Cnappc, Tesoriere; Rita Miglietta - Comune di Lecce, Assessore alle politiche urbanistiche e valorizzazione del patrimonio; Silvia Miglietta - Comune di Lecce, Assessore Diritti civili, pari opportunità e volontariato; Flavio De Carlo, Coordinatore del Concorso. Oltre ad individuare i vincitori, la Giuria del Concorso (composta da Roberto Palomba, Nicola Di Battista, Paola Buffa, Rocco De Matteis, Carlo Alberto Augieri. Coordinatore Flavio De Carlo; Segreteria Tecnica Tommaso Marcucci; Responsabile del Procedimento Giuseppe Renna), ha poi ritenuto opportuno menzionare ex-aequo, senza formazione di graduatoria: “Fourteen square meters”, architetto Cesare Burdese, da Torino; “Cluster”, architetto Fabio Sgaramella, da Corato (BA); “Six Square Meters_ persone, luoghi, dignità”, architetto Luigi Mollo, da Massa Lubrense (NA). Rilevanti, come è stato sottolineato più volte nel corso della presentazione, gli obiettivi del Concorso: concorrere alla riscrittura delle schede tecniche di riferimento su modalità, materiali, prescrizioni per progettare e realizzare gli arredi carcerari; chiamare la comunità degli architetti e dei design a misurarsi con la progettazione degli arredi destinati alle stanze di pernottamento degli Istituti Penitenziari; realizzare il prototipo della proposta vincitrice; promuovere l’avviamento di una vera e propria linea produttiva di arredi per gli Istituti penitenziari da realizzare nella Falegnameria della Casa Circondariale di Borgo San Nicola contribuendo così al reinserimento sociale e occupazione dei detenuti. E proprio la particolarità e l’unicità del Concorso è stato argomento evidenziato in tutti gli interventi odierni. “L’Ordine Nazionale degli Architetti e quello di Lecce, l’Università del Salento, L’Ance e, non da ultimo, la Fondazione della Banca Popolare Pugliese”, ha affermato Rita Russo, “sono stati partners di una sinergia istituzionale, promossa e sostenuta dall’Amministrazione Penitenziaria, che ha prodotto una riflessione attenta e ricca di buone prassi sugli spazi della detenzione, e sul significato che la bellezza può assumere nel percorso di rieducazione sostenuto con forza dall’art.27 della Costituzione. E che ha ispirato, insieme ad altre esperienze, il protocollo di intesa firmato nel 2017 tra Ministero della Giustizia e Federlegno per la valorizzazione delle falegnamerie penitenziarie”. Rocco De Matteis ha quindi evidenziato come “il Concorso portava con sé anche una riflessione sul ruolo sociale della nostra professione e sulla centralità che l’architettura deve riconquistare se abbiamo veramente a cuore la natura e l’autorevolezza del nostro ruolo e la qualità degli spazi che siamo chiamati a progettare, di qualsiasi natura siano. La qualità urbana non può infatti esclusivamente dipendere dal valore economico dell’opera ma deve poter connotare ogni contesto fisico che diviene luogo di relazioni e di vita. Focalizzare l’attenzione sul carcere a partire da queste premesse, significa anche fare i conti non solo con gli spazi interni agli istituti penitenziari ma anche, per noi soprattutto, con il carcere come edificio architettonico e luogo fisico e sociale nel più ampio contesto urbano e territoriale” Vincenzo Zara ha parlato di “un’esperienza molto significativa per l’Ateneo salentino, chiamato a contribuire dando “amalgama” a questo importante progetto, fornendo una chiave “estetica” alle esigenze giuridiche e agli aspetti più strettamente tecnici”. Vito Antonio Primiceri ha rilevato: “se gli istituti di pena devono essere, come dice anche la Carta Costituzionale, inseriti a pieno titolo nel tessuto sociale di un territorio, devono essere anche luoghi in cui ci si deve sforzare di aiutare gli individui che in essi sono rinchiusi, a ritrovare il senso della loro vita secondo le regole della società che in un certo momento hanno violato. Il lavoro, che spesso deriva dal “saper fare” qualche cosa, può rappresentare per loro la prima spinta a rientrare nella società a pieno titolo. Ecco la ragione per la quale la Fondazione “Banca Popolare Pugliese - Giorgio Primiceri” ha aderito al progetto “Six Square Meters”, condividendone gli obiettivi di cittadinanza attiva e di senso civico. Abbiamo convintamente sostenuto gli sforzi dei progettisti e degli architetti con le loro idee indirizzate a disegnare dei prototipi più funzionali per gli arredi dei luoghi che costituiscono i padiglioni detentivi del carcere di Lecce, con la speranza - magari - che possano essere presi anche ad esempio per altre case penali italiane”. E Massimo Crusi ha sottolineato le ragioni di adesione del Consiglio Nazionale Architetti PPC. “Abbiamo voluto sostenere il Concorso ritenendolo di alto contenuto sociale e simbolico. Già da tempo il nostro Consiglio Nazionale ha adottato politiche di promozione dei concorsi, puntando soprattutto sul concorso di progettazione a due gradi quale strumento più idoneo per scegliere il miglior progetto ed il professionista a cui affidare i livelli successivi della progettazione quando l’intervento riguarda la realizzazione di opere di architettura. Per questo contrastiamo la ratio che guida l’articolo 17 della Manovra di bilancio attualmente in discussione e l’introduzione della Centrale unica per la progettazione delle opere pubbliche. Non abbiamo bisogno di carrozzoni ma di qualità delle amministrazioni pubbliche, della progettazione, della realizzazione e di un pieno coinvolgimento dei portatori di sapere e dei professionisti”. Infine, l’adesione del Comune di Lecce per voce di Rita Miglietta, Assessore alle politiche urbanistiche, e di Silvia Miglietta, Assessore ai Diritti Civili. Per la prima, “questo concorso ha definito un’occasione unica, esclusiva in Italia, per porre l’attenzione delle istituzioni e del mondo delle professioni su un tema di grande attualità: la qualità degli spazi di vita della Casa Circondariale che, come dice la parola stessa - “casa” - è luogo abitato da donne e uomini, ed ogni spazio pensato per l’uomo non può prescindere dal rispetto delle sue esigenze primarie, dall’obiettivo di tendere sempre verso il miglioramento delle condizioni di vita”. Per la seconda, “preoccuparsi di agevolare un buon utilizzo degli spazi e una maggiore funzionalità degli stessi ai fini delle diminuite libertà di movimento è una idea che va incontro all’inclusione del detenuto, rompendo l’ulteriore barriera psicologica verso l’esterno che può essere rappresentata dal degrado degli ambienti. Il carcere non è un luogo “altro” rispetto alla comunità che lo ospita”. Prossimo step, adesso, come ha avuto modo di illustrare l’architetto Flavio De Carlo, coordinatore del Concorso, la realizzazione del prototipo della proposta vincitrice e, dunque, l’avvio di un percorso che potrebbe portare ad una vera e propria linea di realizzazione degli arredi. Come già previsto nel Protocollo d’Intesa, nel cui ambito si muove il Concorso, sottoscritto da Casa Circondariale Lecce - Borgo San Nicola, Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Lecce, Università del Salento all’indomani della Sentenza Torreggiani con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia per le condizioni disumane delle carceri. Ferrara: formazione in carcere, un laboratorio di cucina per detenuti estense.com, 21 novembre 2018 Dal Comune contributi al Vergani per l’acquisto delle attrezzature. Ammonta a 6mila euro il contributo destinato dal Comune di Ferrara all’istituto Vergani Navarra di Ferrara a sostegno delle spese relative all’acquisto di attrezzature varie per l’allestimento di un laboratorio di cucina dedicato alle esercitazioni dei detenuti che partecipano al corso di formazione. Obiettivo del laboratorio è quello di offrire un’opportunità di crescita sia alle persone ospiti della casa circondariale, sia ai docenti, con l’intento di fare del carcere un luogo dove si studia e ci si impegna, con finalità di rieducazione e reinserimento nella società, grazie all’acquisizione da parte dei detenuti di strumenti e competenze spendibili anche alla fine della pena. “È stato possibile sostenere questa iniziativa con un contributo di 6mila euro - ricorda l’assessore Sapigni - in attuazione della risoluzione al bilancio consuntivo del Comune approvata a fine aprile su proposta dei consiglieri Vitellio, Baraldi, Calò, Turri e Fiorentini”. Augusta (Sr): problemi irrisolti del servizio sanitario del penitenziario di Antonio Gelardi lacivettapress.it, 21 novembre 2018 Profilassi tbc e malattie infettive, locali, visite intra moenia, turn over. Col manager precedente incontri, sorrisi, strette di mano e… tutto come prima. Obiettivo salute, è il tema della riflessione che porto in questo numero della Civetta, partendo da una premessa: generalmente dedico questo spazio a ciò che c’è di positivo dal momento che siamo assediati da denunce scandali notizie di malfunzionamenti, cosicché forse è giusto dare spazio anche a ciò che si fa di buono, fosse anche una cosa su mille. Questo esercizio di positività risulta però più impervio parlando di sanità nel pianeta carcere o meglio nel microcosmo che seguo. Per inquadrare il problema occorre anzitutto dire che un istituto penitenziario di dimensioni medie, medio grandi, grandi, è una piccola città, nella quale è presente giorno e notte una guardia medica ed una guardia infermieristica, così come vari ambulatori. La domanda di salute da parte dei detenuti è mediamente elevata e a volte strumentale dal momento che all’accertamento di determinate patologie può seguire la scarcerazione o una forma di esecuzione penale meno afflittiva del carcere quali ad esempio arresti domiciliari o detenzione domiciliare (rispettivamente per imputati e condannati). Però al netto di questa possibile strumentalità la domanda di salute ragionevole e più che legittima esiste e si presenta in modo accentuato per i condannati a lunga pena, che diversamente da chi sa di poter uscire a breve deve poter affrontare i problemi di salute nella fase di detenzione. Da ultimo è da dire che il servizio sanitario, prima gestito dal Ministero della Giustizia, a partire dagli anni 2008 - 2009 è passato alle ASP. In questa gradualità le regioni a statuto speciale hanno operato il passaggio da ultime e, fra le regioni speciali la Sicilia, da ultimissima. L’obiettivo di questo passaggio, come affermato nei principi del decreto legislativo che lo ha sancito, era il garantire ai detenuti la erogazione di prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, al pari dei cittadini in stato di libertà”. È arduo dire, partendo dal mio osservatorio, che questo obiettivo sia stato nell’insieme raggiunto. Dico nell’insieme perché è bene non generalizzare: in questo percorso di attuazione del passaggio ho incontrato ottimi operatori, ottimi dirigenti con i quali vi è stata e vi è una intesa nell’avviare i servizi e nell’affrontare insieme i problemi derivanti da mancanza di risorse adeguate e da ostacoli normativi. La stessa cosa non può dirsi per il vertice con il quale vi sono stati o incontri cordialissimi, strette di mano alle quali poi però non sono seguite le necessarie definizioni operative, ovvero non incontri. Non mi ha quindi stupito il fatto che nel suo saluto conclusivo il manager uscente abbia citato tutti i servizi possibili, financo la più sperduta guardia medica, ma non il servizio sanitario penitenziario, evidentemente non pervenuto. Dal momento tuttavia che la vita continua, tornerò a sollecitare in settimana un incontro con l’attuale vertice indicando i problemi irrisolti fra cui: profilassi per tubercolosi e malattie infettive; consegna definitiva dei locali; incremento dei servizi specialistici da svolgersi Intra moenia ad evitare l’eccessiva uscita all’esterno dei detenuti ed i disagi che negli ambulatori crea l’arrivo di detenuti con le scorte; il continuo turn over dei medici di guardia che spesso arrivano a svolgere il servizio in istituto senza un periodo di formazione. La questione della sanità penitenziaria è stata fra l’altro oggetto di un recente intervento normativo, un decreto legislativo che contiene norme che rilanciano la questione e ne fanno un punto centrale dell’ordinamento penitenziario. Fra i punti qualificanti la riproposizione della carta dei servizi sanitari di cui ogni istituto deve essere dotato e che deve essere messa a disposizione dei detenuti. Ci si augura che ciò serva da input e che le questioni irrisolte vengano definite in via ordinaria senza che vi sia necessità di richiedere interventi sostitutivi alla regione o al Ministero della salute. Salerno: il Partito Radicale boccia il carcere di Fuorni di Gaetano de Stefano La Città di Salerno, 21 novembre 2018 Rita Bernardini: “A Fuorni mancano l’acqua calda e il riscaldamento”. Boccia senza appello la casa circondariale di Fuorni Rita Bernardini, presidente nazionale del Partito Radicale, in visita al penitenziario cittadino (con lei hanno varcato il cancello d’ingresso Donato Salzano, Florinda Mirabile, Valentina Restaino, Michele Sarno e Saverio Maria Accarino) giudica il carcere di Salerno “sicuramente al di fuori dei parametri di legalità costituzionale”. Che situazione ha trovato? Una situazione molto difficile: sovraffollamento, fatiscenza dei luoghi, poca attività trattamentale. E, come ciliegina sulla torta, una magistratura di sorveglianza latitante. Ho saputo che da poco è arrivato il nuovo presidente, spero che qualcosa cambi. C’è qualcosa che l’ha turbata in maniera particolare? Sì, ed è la mancanza della scuola primaria nel reparto femminile. Questo significa che manca proprio l’alfabetizzazione. Nonostante la buona volontà del direttore, che tra l’altro è alla fine del suo mandato, e del forte impegno della polizia penitenziaria, devo purtroppo dire che se non si decide d’investire, soprattutto in rieducazione, andrà sempre peggio. Le possibilità di lavoro, infatti, sono limitate esclusivamente all’interno del carcere. Probabilmente l’unico dato positivo è che, per i detenuti maschi, ci sia la possibilità di frequentare le scuole superiori e, precisamente, l’alberghiero. Per il resto è tutto un disastro: la struttura è messa male e tutto quello che il direttore è riuscito a fare l’ha fatto facendo i salti mortali, con il lavoro dei detenuti. Però restano i problemi. Nel reparto femminile, per esempio, non c’è l’acqua calda, per cui non è possibile nemmeno fare la doccia. In quello maschile, in uno dei reparti di media sicurezza, la doccia è utilizzabile 3 volte a settimana. E pure i riscaldamenti, per il momento, sono spenti. C’è anche una carenza di personale. Questo è un altro problema. La mancanza di agenti si fa sentire, tant’è che in alcune sezioni, in qualche caso, un solo agente è costretto a sorvegliare ben due piani. C’è anche mancanza d’educatori e pure questo è un problema nazionale, in quanto la pianta organica, che era già sottodimensionata a 1250 unità, è stata ridotta a 990. Non capisco come al ministero della Giustizia pensino di puntare di più sulla rieducazione, quando non ci sono gli operatori. Quando sento dire che per risolvere il problema di sovraffollamento si punta a costruire nuove carceri, mi chiedo innanzitutto con quali soldi. E poi, per fare un nuovo penitenziario, ci vogliono dai 10 ai 15 anni. E prima che sia collaudato ne passano altri 5. Inoltre, quale personale ci mettiamo dentro se già per gli istituti che si sono oggi l’organico è insufficiente? Si dicono delle cose che non sono assolutamente fondate su elementi di concretezza. Noi continuiamo a lottare perché stiamo parlando di diritti umani negati. Domani incontrerò il ministro Bonafede e gli farò presente tutto questo. Per avere un appuntamento ho dovuto fare lo sciopero della fame per 21 giorni. Però la dignità umana non può essere calpestata. A proposito di dignità umana, nel carcere di Salerno è calpestata? Certamente, non ci sono dubbi. Ma non è responsabilità né del direttore e neppure di chi lavora. Mancano i fondi non solo per la manutenzione straordinaria ma pure per quella ordinaria, tant’è che addirittura piove in alcune celle in quanto per tanti anni non si è intervenuto sulla struttura. A contribuite all’usura è anche il sovraffollamento. Oggigiorno sono reclusi 500 detenuti, di cui il 50 per cento in attesa di giudizio, mentre, secondo i dati ufficiali, la capienza è di 366. I calcoli sono fatti. Rossano (Cs): Radicali Italiani e studenti universitari in visita al carcere Cosenza cn24tv.it, 21 novembre 2018 “Riprende l’attività di monitoraggio all’interno degli Istituti Penitenziari della Calabria da parte dei Radicali Italiani, autorizzata dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia Francesco Basentini”. Ad annunciarlo l’ex Consigliere Nazionale Emilio Enzo Quintieri, candidato alla carica di Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti, che giovedì prossimo insieme a Mario Caterini, docente di diritto penale dell’università rendese e ad una delegazione di studenti del corso di laurea magistrale di “Intelligence ed Analisi del Rischio” del Dipartimento di Lingue e Scienze dell’Educazione, farà visita alla casa di reclusione di Rossano, allo stato amministrata dal Direttore “in missione” Caterina Arrotta, dirigente titolare dell’Istituto di Paola. All’esito della il 30 agosto scorso, la delegazione dei Radicali Italiani, aveva relazionato, oltre alle criticità afferenti la Sezione As2 in cui sono ristretti i detenuti imputati o condannati per terrorismo internazionale di matrice islamica, una serie di problematiche al Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al Provveditore Regionale Reggente, al Direttore dell’Istituto, al Magistrato di Sorveglianza di Cosenza ed al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti. “Tra le criticità segnalate nel corso della precedente visita - riporta la nota - vi è quella afferente l’organizzazione del Servizio Sanitario Penitenziario: la delegazione, nel corso della visita, ha avuto modo di interloquire col personale sanitario che presta servizio nell’Istituto, alle dipendenze dell’Asp di Cosenza. Dai colloqui è emerso che nell’Istituto, ormai da tempo, manca un ecografo nonostante la presenza di un medico specialista, il che determina la traduzione di numerosi detenuti presso il locale Presidio Ospedaliero per le indagini ecografiche con tempi di attesa abbastanza lunghi (rispetto a quelli intramoenia) e con tutte le problematiche che ne conseguono per l’Amministrazione Penitenziaria (carburante, manutenzione veicoli, costo personale) dovute al servizio di traduzione individuale diretta su strada a mezzo del Corpo di Polizia Penitenziaria (circa 200 traduzioni nel solo 2017)”. “Ed infatti, com’è noto - continuano i Radicali - per un detenuto appartenente al circuito della media sicurezza occorrono 3 unità di Polizia Penitenziaria, per un detenuto appartenente al circuito dell’Alta Sicurezza - Sotto Circuito As3 criminalità organizzata - occorrono 4 unità e per un detenuto appartenente al Sotto Circuito As2 terrorismo internazionale servono addirittura 6 poliziotti. Inoltre, vista la carenza del personale in forza al Nucleo Traduzioni e Piantonamenti, altro personale addetto agli Uffici ed alle Sezioni detentive, deve assentarsi dal servizio per coadiuvare i loro colleghi nelle traduzioni”. “Eppure, l’apparecchio ecografico di ultima generazione, - specifica la nota - munito anche di ecocolordoppler (costato circa 20 mila euro), assegnandolo al carcere di Rossano che col medico specialista, riusciva ad eseguire tutti gli accertamenti intramoenia (anche 10/15 al giorno), senza necessità di traduzioni in strutture esterne (ove, comunque, non è possibile praticare il servizio con le stesse modalità). Pare che, a seguito di non meglio precisati lavori sul tetto dell’area sanitaria, da parte di una ditta esterna, tale apparecchio sia stato danneggiato e reso inservibile (ci sarebbe piovuto di sopra). Tale questione, peraltro, pare non sia stata mai sollevata da nessuno, prima dei Radicali che hanno chiesto di disporre degli accertamenti per individuare eventuali responsabilità e per ripristinare il servizio”. “Altra problematica relativa sempre al Servizio Sanitario Penitenziario della casa di Reclusione di Rossano, - avanza la nota - in cui sono ristretti numerosi soggetti affetti dal virus dell’epatite b e c, riguarda il ritardo con il quale vengono comunicati dall’Asp di Cosenza gli esiti degli esami ematochimici dei detenuti ed in particolare modo quello emocromocitometrico. Il personale sanitario ha riferito alla delegazione visitante che tali risultati, nonostante la loro semplicità (ed infatti per i cittadini liberi sono previsti, al massimo, 24/48 ore di attesa), giungono all’Istituto, dai Laboratori di Cosenza, addirittura dopo 21 giorni dal prelievo. Ciò, sempre secondo i sanitari, impedisce di gestire in maniera appropriata ed efficiente i detenuti portatori del virus con una ottimizzazione del percorso diagnostico - terapeutico - assistenziale e del trattamento secondo quanto previsto dai protocolli e linee guida più innovativi. Anche per questa problematica, i Radicali, hanno chiesto all’Amministrazione Penitenziaria, centrale e periferica, di sollecitare la Regione Calabria e l’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, ad una migliore organizzazione del servizio, garantendo tempi assolutamente più brevi per la comunicazione all’Istituto degli esiti degli esami, per una migliore tutela della salute delle persone ristrette, affinché il carcere non sia considerato come un luogo in cui vige un regime di extraterritorialità rispetto alle garanzie fondamentali assicurate dallo Stato”. “Infine, la delegazione radicale - conduce la nota - ha espresso soddisfazione per la stipula del protocollo di intesa tra la Direzione del Carcere di Rossano e l’Asp di Cosenza per la prevenzione e gestione degli eventi suicidari. A tale proposito, è stata colta l’occasione per sollecitare l’Amministrazione Penitenziaria, centrale e regionale, a voler fornire tempestivamente all’Istituto il materiale (effetti letterecci) in tessuto non tessuto per la consegna a quei detenuti nei confronti dei quali siano state disposte eccezionali misure di sicurezza, evitando di lasciare gli stessi privati di ogni genere di conforto, ivi compreso le lenzuola, in condizioni di disagio e di afflizione di difficile sopportazione, specialmente quando tale condizione si protragga per considerevoli periodi di tempo”. “Ulteriori segnalazioni, non di minor importanza, sono state fatte in ordine al funzionamento dell’area amministrativo - contabile (nonostante l’organico sia al completo), alla carenza di personale di Polizia Penitenziaria (dal 10 settembre 5 unità sono assenti per partecipare al corso di Vice Ispettore e non rientreranno fino a marzo 2019, restano in servizio 123 unità su 153), alla carenza di attività lavorativa intramoenia (lavorano pochissimi detenuti), all’autorizzazione per l’uso ed il possesso nelle camere detentive del personal computer per motivi di studio ai 15 detenuti iscritti all’Università, alla impraticabilità del campo sportivo (perché quando piove si allaga per molto tempo, non essendoci impianto di drenaggio), al potenziamento delle linee telefoniche dell’Istituto perché insufficienti (sono presenti solo 2 linee telefoniche) ed infine in ordine alla illegittima prassi di sospendere le telefonate straordinarie o escludere dalle attività lavorative quei detenuti che siano stati sanzionati disciplinarmente”. Imperia: protocollo d’intesa per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti riviera24.it, 21 novembre 2018 Il sindaco Scajola: “La pena deve tendere alla rieducazione del condannato”. È stato firmato questa mattina il Protocollo d’intesa tra il Comune di Imperia e la Casa Circondariale del Capoluogo finalizzato all’integrazione socio-lavorativa dei detenuti considerati meritevoli. A siglare il documento il sindaco Claudio Scajola e il direttore Francesco Frontirrè. L’obiettivo del Protocollo è il reinserimento dei soggetti in esecuzione di pena ritenuti idonei, anche in vista di un loro futuro post-detentivo. Attraverso una pianificazione integrata e progetti operativi individuali, i detenuti verranno impiegati in attività di pubblica utilità all’interno del territorio comunale. “Con questa firma ribadiamo quanto è sancito dalla nostra Costituzione, e cioè che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato”, commenta il sindaco Scajola. “Ritengo che per queste persone l’impiego in attività lavorative favorisca il loro reinserimento nella vita sociale. Un percorso di questo genere, con le competenze che potranno acquisire, permetterà loro di immaginare una qualche forma di futuro al termine della detenzione”. Milano: intervista a Silvio Di Gregorio, direttore del carcere di Opera di Silvio Mengotto azionecattolicamilano.it, 21 novembre 2018 “I volontari - dice Silvio Di Gregori - sono assolutamente determinanti. Come è determinate far scoprire alle persone detenute la propria autostima”. “Impariamo a uscire - dice papa Francesco - da noi stessi verso le periferie dell’esistenza”. Una di queste periferie sono le persone del carcere. Con l’obiettivo di costruire un ponte tra il carcere e la società civile l’Azione Cattolica della parrocchia San Michele Arcangelo e Santa Rita (zona Corvetto di Milano) il 15 novembre 2018 ha organizzato l’incontro Accogliere per generare con la presenza di Silvio Di Gregorio direttore del carcere di Opera. Hanno partecipato le voci che nel quartiere fanno accoglienza: Nocetum, il Sole e l’azzurro, gruppo S. Vincenzo e il Centro culturale. Silvio Di Gregorio ha posto al centro una serie di domande rivolte direttamente al pubblico. Come far incontrare il mondo sconosciuto del carcere alla società civile? Che significa rieducare in carcere? È importante che la collettività civile sappia accogliere e come accogliere? Queste le domande attorno alle quali si è sviluppato un nutrito e appassionato confronto tra il pubblico presente e il direttore di Opera. “Ci sono porte e finestre - dice Silvana Ceruti fondatrice del Laboratorio di Scrittura Creativa nel carcere di Opera - che interrompono la comunicazione anziché aprirsi a nuove relazioni. Sono le porte e le finestre delle nostri carceri”. C’è un fossato tra i due mondi che deve essere superato. “Soprattutto - dice Silvio Di Gregorio - facendo capire alla società civile che non può disinteressarsi del carcere altrimenti rimane come un costo. Se invece si interessa il carcere, le persone detenute diventano una risorsa della collettività. Se isoliamo il carcere non risolviamo il problema. Proprio perché il detenuto prima o poi esce, quanto prima la si accoglie, tanto prima diventa una risorsa per il benessere collettivo”. “Sarebbe molto costruttivo - dice Antonio Da Ponte, persona detenuta nel carcere di Opera - cercare di apprezzarci per ciò che siamo, in quanto abbiamo capito e amato la vita nel profondo, ma soprattutto il rispetto delle regole. Vorremmo credere che vi sia anche per noi un futuro. Riteniamo altresì che non necessariamente il compiere azioni non giuste (i reati) agli occhi dell’opinione pubblica, sia un motivo per disprezzarci o biasimarci”. Silvana Ceruti, da oltre vent’anni presente nel carcere di Opera con il suo laboratorio di Lettura e Scrittura Creativa, come volontaria ancora oggi continua ad animarlo con la collaborazione della fotografa Margherita Lazzati. “L’obiettivo fondamentale - dice Silvana Ceruti - è quello di fare un pezzo di strada insieme ha persone “dentro” e persone “fuori”, scoprire sentimenti propri e altrui, sperimentare linguaggi e, attraverso la poesia dire “Ci sono anche io, posso produrre bellezza. Non dimenticarmi”. Questo è lo spirito che ha spinto molte persone detenute ad Opera ha riscoprire, nella frequenza in Laboratorio, sia la relazione mancata con se stessi, sia con la società pubblicando con l’editore Gerardo Mastrullo molte antologie: Nessuna pagina rimanga bianca, Attraversando muri di silenzio, Pane, acqua e…, Preghiere dal carcere, Cara vita ti scrivo. Pino e Silvana “I volontari - continua Silvio Di Gregori - sono assolutamente determinanti. Come è determinate far scoprire alle persone detenute la propria autostima. Far capire che ogni persona, ognuno di noi, ha una risorsa che deve essere valorizzata e messa a disposizione della collettività. Puntando su questo si può trovare la strada per reinserire le persone detenute nella società. Queste attività di volontariato sono un aiuto in questo cammino positivo”. “Ora mi sono levata la cispa dagli occhi, e giuro mai più tradirò me stesso se non per quello o quella che respirerà con me aria pura”. Queste le parole conclusive di una poesia di Giuseppe Carnovale, ex detenuto di Opera, che ha dato il titolo al documentario Levarsi la cispa dagli occhi di Carlo Concina e Cristina Maurelli proiettato in molte case di detenzione italiane e centri culturali in Italia. Il regista racconta la vita e la realtà carceraria di Opera nella sua più cruda realtà. Dalle immagini, dai volti e dalle parole ci si accorge subito che, contrariamente a quanto si legge sui giornali, i detenuti scontano integralmente la pena. Per la prima volta la narrazione è ambientata nei luoghi della detenzione: celle, corridoi lunghissimi, passeggi, infermeria e centro clinico. Il più nasce dalle riprese effettuate all’interno dei diversi laboratori dove si sono svolti incontri importante con scrittori importanti come Vito Mancuso e Duccio Demetrio. “Se apri gli occhi - scrive Giuseppe Carnovale nella poesia L’evento - vedi da dove arriva l’ombra di ogni luce; si allunga la vista all’orizzonte che accende il bagliore delle stelle” (per informazioni e visone del documentario: levarsilacispadagliocchi.it) Firenze: Icam, mozione per velocizzare il progetto per madri in carcere gonews.it, 21 novembre 2018 Progetto Firenze e don Russo ringraziano. “Non abbiamo che da rallegrarci per la mozione consiliare, presentata dal gruppo “Sì Toscana a Sinistra”, dal titolo “Madri in carcere con minori”. Il documento, in caso di approvazione, impegnerebbe la giunta regionale a intervenire, nell’ambito delle proprie competenze, affinché si proceda, entro tempi certi e senza nuovi ritardi, alla ristrutturazione dell’edificio di via Fanfani già destinato ad ospitare l’Icam a Firenze. Un documento importante che potrebbe smuovere le acque su questa storia infinita, a tratti imbarazzante, dell’Istituto per madri detenute a Firenze. Una storia che ha preso il via nel gennaio 2010 con il protocollo d’intesa tra numerosi enti per la creazione dell’Icam in uno stabile di proprietà dell’Opera della Madonnina del Grappa. Da allora altri documenti hanno visto la luce, senza arrivare però a una conclusione. Nel frattempo l’edificio in via Fanfani sta letteralmente cadendo a pezzi. Ringraziamo dunque i consiglieri regionali Tommaso Fattori e Paolo Sarti per il documento consiliare, nella speranza che finalmente si vada a buon fine con il capitolo Icam a Firenze recuperando la dignità perduta per le madri detenute nel carcere di Sollicciano e negli altri istituti della Toscana e sopratutto per evitare lo strazio dei bambini in carcere”. Don Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano Massimo Lensi, Associazione Progetto Firenze Benevento: Diritto Penale, in carcere l’incontro tra studenti e detenuti ottopagine.it, 21 novembre 2018 Anche quest’anno si ripete il consueto appuntamento in cui gli studenti delle Cattedre di Diritto penale dell’Università degli Studi Giustino Fortunato di Benevento - professore Giuseppe Maria Palmieri - e dell’Università Federico II di Napoli - professore Carlo Longobardo - si incontrano con i detenuti presso la Casa circondariale di Benevento. L’appuntamento è in programma domani, con la presenza anche dell’avvocato Mariacarmela Fucci, cultore della materia presso la Giustino Fortunato. L’esperienza, resa possibile grazie alla disponibilità della Direzione della Casa circondariale - nella persona della dottoressa Marianna Adanti, si pone l’obiettivo di arricchire la formazione degli studenti, e di tutti coloro che ne prenderanno parte. L’organizzazione di tale attività, che va al di là della tradizionale didattica accademica, è finalizzata a fornire un utile strumento per la comprensione di differenti problematiche penalistiche, tra cui, su tutte, la funzione risocializzante della pena, esplicitamente affermata dall’art. 27 co.3 della Costituzione. Velletri (Rm): iniziativa nel carcere per la Giornata contro la violenza sulle donne Ristretti Orizzonti, 21 novembre 2018 In occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che si celebra il 25 novembre, in data mercoledì 21 novembre alle ore 13.00, presso il locale teatro “Enzo Tortora”, verrà proiettato il film di Ferzan Ozpetec “Un giorno perfetto”. Il film, del 2008, che ha come protagonisti Isabella Ferrari e Valerio Mastandrea, è basato sul romanzo omonimo di Melania Mazzucco e narra la storia di un dramma familiare simile a molti altri di cui purtroppo spesso parla la cronaca. La proiezione verrà seguita da un dibattito sul tema. L’iniziativa sarà condotta in collaborazione con l’Associazione King Kong Teatro di Roma con la quale, grazie ad un progetto finanziato dalla Regione Lazio, questa Direzione già da tempo collabora per la realizzazione di un laboratorio teatrale rivolto ai detenuti protetti, anche autori di reati violenti contro le donne. Per questa occasione i detenuti coinvolti nel cineforum saranno quelli attualmente ristretti presso il padiglione a custodia aperta. Napoli: il volto di Ilaria Cucchi sui muri dell’Arenella napolitoday.it, 21 novembre 2018 Lo street artist Jorit: “La sua lotta simbolo per l’Italia intera”. Inaugurato in via Verrotti il murales che ritrae il volto di Ilaria Cucchi. “Non è solo la lotta di una sorella a cui hanno ucciso il fratello”, spiega Jorit. “La sua è una lotta di giustizia”. “Ilaria Cucchi é un simbolo di resistenza, non solo per me ma credo per l’Italia”. Così Jorit Agoch, lo street artist diventato famoso per i suoi volti simbolo sulle facciate dei palazzi di Napoli e non solo - da Maradona a Che Guevara a San Giovanni a Teduccio, passando per San Gennaro a Forcella fino a Betlemme dove è stato arrestato mentre realizzava il murales che ritrae Ahed Tamimi - all’inaugurazione nel capoluogo partenopeo del suo ultimo lavoro dedicato a Ilaria Cucchi realizzato in via Verrotti all’Arenella assieme ai ragazzi del Progetto Adolescenti “La città dei ragazzi” dell’assessorato al Welfare del Comune di Napoli. “La lotta che fa da 9 anni è la lotta di tutti”, ha spiegato l’artista, “Non è solo la lotta di una sorella a cui hanno ucciso un fratello. La sua è una lotta di giustizia”. E sulla genesi dell’ultimo lavoro presentato oggi il 28enne di Quarto, con padre italiano e mamma olandese, rivela: “È nato da una semplice telefonata: ho sentito Ilaria ed è stata contenta”. “Stefano è stato ucciso non solo dalla violenza, ma anche dall’indifferenza. Oggi molte cose sono cambiate e l’onda della solidarietà è ormai inarrestabile. Troverò pace solo quando sarà svelata tutta la verità su ciò che è accaduto a mio fratello”, ha dichiarato Ilaria Cucchi, presente alla cerimonia di inaugurazione. Cagliari: presentazione progetto “Essere o non essere. Teatro per il carcere” Antonio Tore comuni24ore.it, 21 novembre 2018 Si terrà mercoledì 28 novembre dalle ore 11, presso lo Spazio Eventi al piano primo della Mem Mediateca del Mediterraneo, la presentazione del progetto Essere o non essere. Teatro per il carcere. L’iniziativa, partita ufficialmente il 5 giugno all’interno della Casa Circondariale Ettore Scalas di Uta, è il frutto della collaborazione tra le associazioni Ardesia e Il miglio verde e realizzata grazie al contributo di Fondazione di Sardegna, con il patrocinio dell’ordine degli Psicologi di Cagliari. Il progetto “Essere o non essere. Teatro per il carcere” è rivolto ai detenuti dell’Istituto di pena - e di riflesso alla popolazione - che, attraverso l’esperienza diretta con il mondo dell’arte scenica e delle tecniche di teatro, ha come obiettivi: favorire stili di vita sani, la crescita e lo sviluppo del legame socio-culturale tra carcere e territorio; stimolare le potenzialità creative dei partecipanti in modo da favorire la ricostruzione di un’identità sociale come opportunità di reinserimento nella cittadinanza attiva. Alla presentazione interverranno gli esponenti principali, la psicologa Rosella Floris, il direttore artistico Roberto Deiana e Isabella Atzeni per raccontare quanto siano importanti queste iniziative, quali siano le ricadute e i benefici sulla società. Durante la conferenza stampa verrà proiettato il video realizzato per raccogliere fondi, in modo da portare avanti il progetto nel tempo e riuscire a mettere in scena lo spettacolo al di fuori della Casa Circondariale Ettore Scalas di Uta. Matera: nel carcere presentazione pubblica del primo studio del Progetto Shame Lab sassilive.it, 21 novembre 2018 Venerdì 23 novembre 2018 alle ore 17 nella Casa circondariale di Matera è in programma la presentazione pubblica del primo studio del progetto Shame Lab, ideato e condotto da Antonella Iallorenzi, esperta in teatro sociale, inserito nel più ampio progetto teatrale La poetica della Vergogna di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, co-prodotto da #reteteatro41, network di quattro compagnie teatrali lucane, e Fondazione Matera Basilicata 2019 in partnership con Accademia Mediterranea dell’Attore di Lecce, Artopia (Fyrom), Qendra Multimedia (Kosovo). Il carcere potrebbe essere considerato il luogo simbolo della vergogna. Quella individuale, indissolubilmente legata al tema della colpa ma anche quella collettiva e sociale, in relazione alle condizioni del sistema carcerario in Italia. E ancora quella riflessa, che riguarda i familiari di chi sta scontando una pena. Sono 16 i partecipanti al laboratorio e tutti hanno messo a disposizione la loro specificità. Il lavoro laboratoriale non parte dalle loro storie ed esperienze (di cui peraltro non si viene messi a conoscenza e non si fa riferimento) per scoprire così che la “vergogna” in carcere è identica a quella che coinvolge tutti noi: ha a che fare con l’amore, con l’esporsi pubblicamente, con il mettersi in gioco. Una riflessione intensa, condivisa e raccontata attraverso gli scatti fotografici del Web Team di Matera 2019 che documenta gli incontri di Antonella Iallorenzi con i detenuti. “Abbiamo seguito gli spunti di riflessione dei partecipanti - spiega Antonella Iallorenzi - e attraverso suggestioni personali abbiamo giocato con gli stereotipi legati alla parola vergogna, perché proprio da qui dal carcere possa nascere una nuova visione che rompa gli schemi e liberi il pensiero”. Prima le orate di Adriano Sofri Il Foglio, 21 novembre 2018 Gli operatori e volontari di Medici senza Frontiere sono una gang di untori internazionali. Il procuratore capo di Catania è un magistrato integerrimo, paladino del popolo contro scabbia, tbc, hiv e tutte le epidemie infettive. La titolare della Commissione Diritti umani della Camera è una paladina dei diritti umani, infornatrice (con la n, “Un forno gli darei”). Il riparo dell’associazione di Baobab era stato sgomberato 21 volte ma solo alla ventiduesima l’abbiamo saputo, perché ora a guidare le ruspe era Salvini, che ha piazzato una compagna di partito esperta di diritti umani a capo della commissione e ha commentato il provvedimento dell’integerrimo e tenace procuratore di Catania contro gli untori: “Faccio bene io che chiudo i porti”. Il ministro dell’Interno, Salvini, riassumendo per intero su di sé il famoso effetto supplenza che contrassegna da qualche decennio la storia d’Italia ha dichiarato che le pene per i drogati vanno quintuplicate, senza ipocrite distinzione fra dosi modiche e consumi personali e leggerezza e pesantezza. Non ho tempo di completare l’indice ultimo, ma bastino gli scarni cenni ad ammonire i chierici che non vogliano tradire la loro missione perché insistano più coraggiosamente sull’illustrazione dell’improprietà, anzi dell’assurdità, di qualunque paragone fra le cose presenti e l’avvento del fascismo, così che la minoranza di elettori ancora prigioniera di stantii pregiudizi, differenze fra fascismi e antifascismi, uguaglianza degli esseri umani (o, mostruoso a dirsi, una torbida parentela fra umani e altri animali), bellezza del soccorso in mare eccetera, si allinei finalmente alla vasta maggioranza raccolta dietro la bandiera della sovranità e del primato della stirpe. Il fascismo venne sulla scia del conflitto fra squadracce e forze dello stato: il regime novissimo che viene ha ripristinato il monopolio delle forze dello stato. Ruspe pubbliche, non ruspe squadriste. È un ministro democraticamente eletto col 17 per cento e già pervenuto al 40 che dal Viminale dirige le operazioni, non con squadristi di partito o servizi d’ordine militanti ma con le forze dell’ordine, perciò seguite al ventiduesimo sgombero da tutte le luci del varietà. Mi raccomando, intellettuali di rango: niente paragoni con l’avvento del fascismo, niente cosmopolitismi e pietismi, unità d’intenti, prima gli italiani, prima certi italiani che sapete voi, niente ricino, niente manganelli privati, solo statali. E medici con le frontiere, infermieri di filo spinato, marittimi e pescatori all’ordine. Prima le orate. La povertà dilaga in tv ma davanti ai poveri veri i politici si dileguano di Dario Di Vico Corriere della Sera, 21 novembre 2018 Neppure alla giornata mondiale voluta da Papa Francesco, che in Vaticano ha organizzato un pranzo con 1.500 nostri concittadini, si sono visti rappresentanti delle forze politiche. Nei talk show più rissosi l’argomento “povertà” è una delle clave preferite. A colpi di citazione dell’Istat e dei-cinque-milioni-di-poveri-assoluti (e di un numero iperbolico di “relativi”) i contendenti usano quest’argomento per bastonare l’avversario e metterlo in fuga. Se però dalla passerella del grande schermo passiamo alla cruda realtà quotidiana l’interesse per i temi dell’indigenza cala paurosamente. Facendo seguito a un appello di Papa Francesco domenica 18 novembre, e per il secondo anno, era stata indetta la giornata mondiale della povertà e conseguentemente in Vaticano è stato organizzato un pranzo con 1.500 nostri concittadini ridotti in stato di povertà. Ora è evidente che nel calendario politico-culturale sono diventate troppe le giornate consacrate a singoli temi e si rischia di creare una grande melassa, ma in questo caso il sigillo papale avrebbe dovuto fare la differenza. E avrebbe dovuto costituire un richiamo per quelle forze politiche, al governo ma anche all’opposizione, che si autocertificano come soggetti capaci di abolire addirittura la povertà o quantomeno di mettere al primo posto del loro rinnovato programma la lotta alle disuguaglianze. Invece niente, la politica domenica era troppo indaffarata a litigare con i leghisti sui rifiuti o a rilanciare lo Zingaretti-pensiero. In realtà nell’un come nell’altro caso il richiamo alla povertà corrisponde solo alla necessità di darsi un posizionamento politico o di scomunicare un avversario. Ma quando si tratta di far vivere nel concreto certe battaglie e magari organizzare esperienze di incontro e solidarietà con il popolo, quello in carne e ossa, i paladini della redistribuzione fanno a gara a girarsi dall’altra parte. Migranti. La guerra alle Ong non si placa, Aquarius sotto sequestro di Alfredo Marsala Il Manifesto, 21 novembre 2018 “Rifiuti pericolosi smaltiti come normali”, la procura di Catania indaga Msf e dispone la confisca della nave salva-migranti. Nel mirino del pm Zuccaro 24mila chili di scarti “infettivi”, tra cui vestiti dismessi. Salvini rivendica: “Ho fatto bene a bloccare le navi”. Non c’entra il terrorismo, non c’entrano le armi e neppure le presunte complicità con i trafficanti di esseri umani su cui la Procura di Catania ha scavato per due anni senza arrivare a un’incriminazione. Gli inquirenti che da tempo indagano sulle Ong che salvavano i migranti in mare prima di essere bloccate da Salvini con la chiusura dei porti, un reato lo hanno trovato: smaltimento illecito di rifiuti. A commetterlo per la Procura, guidata da Carmelo Zuccaro, è stata Medici senza frontiere, l’organizzazione nata nel 1971 dopo la guerra in Biafra e che oggi ha progetti umanitari in 70 paesi con 30mila operatori. Quattordici sono le persone iscritte nel registro degli indagati dai magistrati che hanno persino ordinato il sequestro della nave Aquarius, simbolo dell’odissea dei migranti, ora ferma nel porto di Marsiglia. L’accusa mossa alla Ong è di avere smaltito come normali rifiuti solidi urbani, risparmiando così quasi 500mila euro, materiali pericolosi e infettivi come gli abiti dei migranti soccorsi in mezzo al Mediterraneo, i resti del cibo e quelli dei kit sanitari utilizzati per le prime cure a bordo delle navi umanitarie. L’inchiesta, denominata Borderless, è condotta dagli stessi pm che sequestrarono la nave di Proactiva con l’accusa, poi caduta, di associazione a delinquere. Immediata la reazione del ministro degli Interni, Matteo Salvini: “La pacchia è finita. Ho fatto bene a bloccare le navi delle Ong, ho fermato non solo il traffico di immigrati ma anche quello di rifiuti”. A gestire, per i magistrati, il traffico di rifiuti sarebbero stati due agenti marittimi con il “coinvolgimento diretto” di Msf: da gennaio 2017 a maggio 2018, sostiene l’accusa, sarebbero stati smaltiti in modo illegale circa 24mila chili di materiale pericoloso e infettivo in 11 porti di Sicilia, Calabria, Campania e Puglia dalla Vos Prudence prima e dalla Aquarius dopo; scali dove le navi di Msf si sono fermate per sbarcare i migranti e fare rifornimento. “Non sono mai stati dichiarati rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo o medicinali - scrive il gip nel decreto di sequestro - a fronte di enormi quantitativi di rifiuti conferiti e di numerosissimi casi di malattie infettive dei migranti”. Secondo il Gip il meccanismo messo in piedi si basava sulla presentazione di “una artificiosa comunicazione documentale” che permetteva la “declassificazione dei rifiuti”. Il capitano li segnava prima dell’arrivo in porto come “altro” o “rifiuti speciali”: la parola da evitare era “infettivo” perché si va “sull’ospedaliero, creando un bordello” e si rischia che “la spazzatura rimane a bordo e ve la portate a casa voi”, ammonisce l’agente marittimo Francesco Gianino, titolare della Msa di Augusta intercettato dalla guardia di finanza e dalla polizia mentre parla con un responsabile italiano della Vos Prudence, estraneo all’inchiesta, che “vuole chiarimenti” perché qualcosa non lo convince. L’intermediario lo invita a non fare troppe domande in giro sulla natura dei vestiti dei migranti, perché “ci sono degli equilibri talmente sottili ormai consolidati in 2/3 anni”, che si possono “spezzare”. “Basta una folata di vento”, poi succede che qualcuno si va “a documentare” ed ecco che si scopre l’inghippo, perché “il piscio non è di un italiano o di un francese, ma è piscio di gente che possono avere malattie infettive”. Dunque, rifiuti a rischio contagio sarebbero stati scaricati nello stesso cassone degli altri e inviati insieme all’inceneritore. E il gip osserva come “la pericolosità degli indumenti indossati dai migranti, in quanto fonte di trasmissione di virus o agenti patogeni contratti durante il viaggio, fosse ben nota al personale di Medici senza frontiere”. Come si “desume da numerosi report nei centri di detenzione in Libia” e dai “report degli assistiti a bordo” in cui “si segnalano frequenti casi di scabbia, pidocchi, infezioni del tratto respiratorio, tubercolosi, meningite, infezioni del tratto urinario e sepsi”. A fianco di Msf si schiera il Pd: “Qualcuno alla Procura di Catania sembra aver deciso che le Ong sono un pericolo per la sicurezza del paese. E quindi le si accusa di qualunque cosa”, dice il presidente Matteo Orfini. Mentre la leader della Cgil Susanna Camusso aggiunge: “Mi pare si stia continuando una campagna pretestuosa nei confronti delle organizzazioni umanitarie”. Tra gli indagati, oltre al comandante e al primo ufficiale dell’Aquarius, ci sono diversi membri dell’organizzazione che hanno partecipato a missioni sulle due navi. Sotto inchiesta anche i due centri operativi di Msf, quello di Amsterdam e quello di Bruxelles (che gestivano le missioni), che hanno personalità giuridica e autonomia organizzativa e quindi rispondono in base al decreto legislativo 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti. A far scattare il sequestro della nave è stato invece il “fondato pericolo” che si possa “aggravare o protrarre la conseguenza del reato” perché “è di tutta evidenza che la commissione del delitto è strettamente correlata all’attività di salvataggio in mare”. Dunque, niente migranti salvati e niente reato. Sos Mediterranée: “non siamo coinvolti in attività illegali” (Redattore Sociale) L’ong spiega che la nave ha sempre seguito le procedure standard e parla di “attacchi politicamente orientati”. Penard: “Si criminalizzano gli aiuti umanitari in mare, intanto tutto questo sta portando all’assenza di navi umanitarie di ricerca e salvataggio operanti nel Mediterraneo centrale”. “Rifiutiamo categoricamente l’accusa di essere coinvolti in attività illegali. Le procedure standard, che finora non sono state contestate dalle autorità, sono sempre state seguite dall’Acquarius”. Lo scrive in una nota Sos Mediterranèe, che sostiene con forza il suo partner Medici senza frontiere, nel condannare la decisione delle autorità giudiziarie italiane di sequestrare la nave Aquarius, nell’ambito di un’indagine della procura di Catania sullo smaltimento dei rifiuti. “Tutto questo fa parte della serie di attacchi che criminalizzano gli aiuti umanitari in mare. La tragica situazione attuale sta portando all’assenza di navi umanitarie di ricerca e salvataggio operanti nel Mediterraneo centrale, mentre il tasso di mortalità è in aumento”, afferma Frederic Penard, capo delle operazioni di Sos Mediterranèe. L’ong parla di “un altro attacco politicamente guidato”: “ci aspettiamo che le autorità francesi mostrino moderazione nell’attuazione di questa decisione, poiché l’Aquarius è attualmente attraccato nel porto di Marsiglia - si legge nella nota. In questi momenti difficili per l’Acquarius, in cui ripetute pressioni politiche hanno costretto le nostre due organizzazioni a cessare temporaneamente le operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo, siamo pienamente allineati e supportiamo tutti gli sforzi di MSF per appellarsi alla decisione della corte”. Droghe. L’allarme degli psicologi veneti: la prima “dose” ad 11 anni Corriere della Sera, 21 novembre 2018 Uso di droga precoce e quantità quadruplicate. A Padova 20 casi di “baby drogati”. In Veneto la prima assunzione di sostanze stupefacenti arriva a 11 anni e prelude a situazioni di cronicità che si manifestano già a 16 anni. La denuncia arriva nella Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza dal Tavolo “Un welfare per i minori”, che raccoglie assistenti sociali, educatori professionali e psicologi del Veneto. Secondo i referenti del Tavolo, in Veneto l’uso di sostanze stupefacenti tra gli adolescenti è quadruplicato negli ultimi due anni. A Padova, in particolare, il Servizio dipendenze dell’Usl Euganea segue venti nuovi casi di minorenni con dipendenza da droga, un dato che non si registrava da trent’anni. Nuovo finanziamento - A fronte di questa situazione, negli ultimi cinque anni il sistema sociosanitario del Veneto ha perso circa 300 operatori. E così il Tavolo chiede alla Regione di istituire un finanziamento annuale di 10 milioni di euro per un nuovo piano di azione rivolto alla tutela degli under 18. “Ogni anno - spiega Paolo Rigon, portavoce del Tavolo - in Veneto ci sono 150 mila donne che si rivolgono ai consultori, 55 mila minori seguiti dai servizi di neuropsichiatria e migliaia di persone in cura al Sert. Purtroppo molte prestazioni previste dal piano sociosanitario della Regione non vengono erogate, così come non viene rispettato il numero minimo di consultori per abitanti e gli standard minimi di personale”. Libia. Abusi sui minori nei campi finanziati dall’Ue: “Un inferno in terra” di Renato Zuccheri Il Giornale, 21 novembre 2018 Un’inchiesta del Guardian fa luce sugli abusi nei campi profughi finanziati anche dall’Unione europea. Malnutrizione e violenze sono all’ordine del giorno. In Libia, i campi profughi finanziati anche dall’Unione europea attraverso il Fondo per l’Africa, sono un “inferno in terra”. Secondo l’ultima inchiesta del Guardian, i minori detenuti nei campi libici subiscono violenze e maltrattamenti all’ordine del giorno. Secondo i testimoni, i minori vengono picchiati violentemente dalla polizia e dalle guardie che controllano i campi, vengono lasciati senza cibo per giorni ed è vietato loro avere qualsiasi tipo di contatto con l’esterno. Come spiega il quotidiano britannico, in Libia ci sono 26 campi profughi. Non esistono cifre esatte che dicano il numero dei bambini e dei minori detenuti in questi centri. L’idea è che siano probabilmente già oltre il migliaio. L’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) stima che in questi campi, attualmente, ci siano almeno 5.400 migranti detenuti in totale su tutto il territorio libico. Ovviamente si parla solo di una parte, e probabilmente anche quella minore. A questi 5.400, si aggiungono infatti i centri clandestini, gestiti dai trafficanti di persone e con la complicità delle milizie locali e di gruppi terroristi. Tra le testimonianze raccolte dal Guardian, che sono state pubblicate nella Giornata mondiale dell’infanzia, c’è quella, tragica, di un rifugiato eritreo di 13 anni, detenuto, più che ospitato, in uno di questi campi finanziati dall’Ue vicino Tripoli, capitale della Libia. Il ragazzo ha raccontato che le persone ricevono una piccola porzione di pasta in bianco al giorno, in condizioni igienico-sanitarie certamente molto precarie. Molti sono affamati e denutriti. Nei campi, serpeggiano diverse malattie, fra cui la tubercolosi. Tante persone, specialmente ragazzi e bambini, sono vestiti solo una maglietta e dei pantaloncini: e l’arrivo dell’inverno rischia di provocare congelamenti, malattie e morti. Stati Uniti. Trump bocciato: illegali le restrizioni sul diritto di asilo di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 21 novembre 2018 La sentenza del Giudice Federale Jon Tigar. Prima sconfitta per il presidente Usa Donald Trump nella sua guerra contro la carovana dei migranti che, partita il 12 ottobre dall’Honduras, sta cercando di raggiungere il confine messicano con gli Stati Uniti. Oltre a cittadini honduregni, il convoglio è formato anche da guatemaltechi e salvadoregni. Jon Tigar, un giudice federale del distretto di San Francisco, ha emesso un ordine di sospensione temporale (valido fino al 19 dicembre), contro il provvedimento dell’amministrazione Trump, che impediva ai migranti entrati negli Stati Uniti illegalmente di fare domanda di asilo. Il 9 novembre Trump aveva vietato l’accettazione di domande di asilo che non fossero state presentate a un punto di ingresso ufficiale negli Usa. Il presidente americano aveva giustificato la decisione appellandosi alle sue prerogative, date dall’esigenza di proteggere il popolo statunitense. Il giudice, nelle motivazioni della sentenza però, ha chiarito che neanche il presidente può riscrivere le norme sull’immigrazione, dopo che lo stesso Congresso aveva condannato le modifiche. Intanto secondo fonti del Dipartimento della Difesa, raccolte dalla CNN, Trump potrebbe concedere nuovi poteri ai soldati che presidiano la frontiera sud est con il Messico. Ufficialmente ciò servirebbe a proteggere il personale della dogana in caso di eventuali atti di violenza compiuti dai migranti e a preservare proprietà federali. Attualmente lungo la frontiera sono stati schierati 5900 militari che non possono intervenire se non per difesa personale. Rimane il fatto che il confine tra Messico e Stati Uniti sta diventando un punto caldissimo rispetto al quale Trump sta giocando una partita politica importante, alimentando ogni giorno la sua macchina propagandistica che parla di una vera e propria invasione. Concetto che ha fatto breccia anche tra gli abitanti della città di Tijuana, al bordo estremo del Messico. Il 18 novembre centinaia di persone sono scese in strada protestando contro l’arrivo dei migranti. Slogan nazionalisti che invocavano un respingimento ad ogni costo sono risuonati per le vie della città Al momento sono arrivate circa 3000 persone della carovana ma le autorità messicane temono che il numero possa superare le 10000. Lo stesso sindaco di Tijuana, Manuel Gastelum, ha ammesso l’impreparazione e l’impossibilità di un’accoglienza così massiccia chiedendo aiuto al governo di Città del Messico. Il giorno dopo la protesta, gli Usa hanno fermato per diverse ore il traffico verso nord proveniente dal Messico. Così come hanno chiuso l’attraversamento pedonale al varco di San Isidro. La ragione sta nell’installazione di una nuova barriera mobile costituita da reti metalliche. Il problema è che tutto ciò ha bloccato il flusso di mezzi (circa 40.000 veicoli giornalieri) che usano il varco per transitare negli Usa. In maggioranza si tratta di lavoratori frontalieri. Per gestire la situazione, prevedendo che la crisi durerà a lungo, lo stato della Baja California sta offrendo impieghi temporanei per le persone della carovana in attesa di visto umanitario. Un tentativo di stemperare la tensione e sperare che, visto l’atteggiamento di chiusura di Trump, i migranti faranno marcia indietro. Un altro grande timore è che molti appartenenti alla carovana possono finire nelle maglie dei cartelli del narcotraffico aumentandone la già considerevole capacità di fuoco. Eventualità che potrebbe portare i messicani a fare pressione su Trump per allentarne la rigidità. Turchia. La Corte europea multa Erdogan: rilasci subito il leader dell’Hdp Demirtas di Chiara Cruciati Il Manifesto, 21 novembre 2018 In prigione da due anni e 10 giorni, non è mai andato a processo: su di lui accuse da 142 anni di galera. Secondo i giudici la detenzione preventiva è ingiustificata e viola tre articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A due anni e dieci giorni dall’arresto di Selahattin Demirtas, la Corte europea per i diritti umani si è espressa: la Turchia deve rilasciare il leader dell’Hdp, il partito di opposizione di sinistra e pro-curdo, in una cella della prigione di massima sicurezza di Edirne dal 4 novembre 2016. È da lì che Demirtas ha condotto la sua campagna elettorale, via Twitter, oscurato dai principali media turchi: alle presidenziali del 24 giugno scorso è arrivato terzo, con l’8,4% dei voti, mentre l’Hdp riusciva a entrare in parlamento con l’11,7%, quasi due punti percentuali in più dello sbarramento. La detenzione in attesa di processo (o meglio processi, sono 20), hanno detto ieri i giudici europei, è “ingiustificata” e viola la libertà di espressione perché gli impedisce di svolgere l’attività di parlamentare democraticamente eletto: “Il prolungamento della privazione della libertà, in particolare nelle due ultime cruciali campagne elettorali, persegue lo scopo prevalente non dichiarato di soffocare il pluralismo e di limitare la libertà del dibattito politico”, scrivono i giudici che condannano Ankara al pagamento di 10mila euro simbolici di danni morali e 15mila di spese legali. Alla base sta la violazione degli articoli 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (il diritto ad essere portato prima possibile di fronte a un giudice), 3 del primo protocollo (diritto a elezioni libere) e 18 (limitazioni alla restrizione dei diritti). A seguito della sentenza, non vincolante, della Corte europea i legali di Demirtas hanno subito presentato una richiesta di rilascio alla corte di Ankara responsabile del caso: tenerlo in prigione così a lungo senza mai andare a processo non ha giustificazione. Non è il solo in prigione. Il 4 novembre 2016 erano stati arrestati altri 11 deputati Hdp, tra cui la co-presidente del partito Yuksekdag. Su di lui pesano una serie di accuse, dall’insulto al presidente Erdogan all’appartenenza a organizzazione terroristica (il Pkk): se venissero tutte accolte dai tribunali turchi, rischia condanne fino a 142 anni di prigione. Rischia, perché al momento i processi non sono neppure partiti. Se non quello per insulti al primo ministro, all’epoca Davutoglu (poi dimissionato da Erdogan): il 14 novembre si è tenuta un’udienza, a cui Demirtas ha avuto accesso solo in video conferenza, che ha solo stabilito la non competenza di quella corte a procedere. Se subito è giunta la reazione di Demirtas (“La mia posizione di ostaggio politico è stata legalmente confermata”), non si è fatta attendere nemmeno quella di Erdogan. Che, in sintesi, ha detto di fregarsene: “Le decisioni della Corte europea non sono affar nostro”. Poi ha elaborato: “Ci sono molte cose che possiamo fare contro la sentenza. Faremo una contromossa e chiuderemo la questione”. Una questione che gli preme, e parecchio: Demirtas è tra le figure più carismatiche del panorama politico turco, il solo in grado di unire sotto la bandiera dell’Hdp la sinistra turca, i curdi, i movimenti ambientalisti e la comunità Lgbtqi. Per l’Ankara dell’Akp è stato fondamentale tenerlo dietro le sbarre mentre il paese era chiamato a votare prima il referendum costituzionale che ha regalato (per un soffio) a Erdogan poteri semi-assoluti e poi le presidenziali che hanno chiuso il cerchio della riforma presidenziale. Egitto. “Tortura sui minorenni”, La denuncia di Amnesty International Il Dubbio, 21 novembre 2018 Violazioni dei diritti umani, sparizioni forzate, bambini rinchiusi in cella con gli adulti, il catalogo degli orrori del regime di Al Sisi. In occasione della Giornata mondiale dell’infanzia, Amnesty International ha accusato l’Egitto di aver commesso, a partire dal 2013, orribili violazioni dei diritti umani ai danni di minorenni. “Le autorità egiziane hanno sottoposto minorenni a orribili violazioni dei diritti umani come la tortura, la detenzione in isolamento per lunghi periodi di tempo e la sparizione forzata per periodi anche di sette mesi, dimostrando in questo modo un disprezzo assolutamente vergognoso per i diritti dei minori”, ha dichiarato Najia Bounaim, direttrice delle campagne sull’Africa del Nord di Amnesty International. “Risulta particolarmente oltraggioso il fatto che l’ Egitto, firmatario della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, violi così clamorosamente i diritti dei minori”, ha sottolineato Bounaim. I familiari dei sei minorenni sottoposti a tortura hanno riferito che durante la prigionia i ragazzi sono stati picchiati brutalmente, colpiti con la corrente elettrica sugli organi genitali e su altre parti del corpo e appesi per gli arti. In alcuni di questi casi, i minorenni sono stati torturati per costringerli a “confessare” reati che non avevano commesso. Aser Mohamed è scomparso nel gennaio 2016 all’età di 14 anni. Per 35 giorni è rimasto in detenzione senza contatti con l’esterno ed è stato torturato per costringerlo a “confessare” di aver fatto parte di un gruppo terroristico e di aver attaccato un hotel, reati che sostiene di non aver commesso. Affronterà un processo insieme ad altri imputati adulti e rischia di essere condannato. Abdallah Boumidan è stato arrestato dalle forze armate nel dicembre 2017, all’età di 12 anni, nella città di Arish, nel Sinai settentrionale. Dopo sette mesi di sparizione durante i quali ha subito torture, è stato incriminato per “appartenenza a un gruppo terroristico” e posto in isolamento. Il suo stato di salute è fortemente compromesso. Le autorità egiziane tengono i detenuti minorenni insieme agli adulti, in violazione del diritto internazionale dei diritti umani. In alcuni casi, sono imprigionati in celle sovraffollate e non ricevono cibo in quantità sufficiente. Minorenni sono stati inoltre processati in modo iniquo, talvolta in corte marziale, interrogati in assenza di avvocati e tutori legali e incriminati sulla base di “confessioni” estorte con la tortura dopo aver passato fino a quattro anni in detenzione preventiva. Almeno tre minorenni sono stati condannati a morte al termine di processi irregolari di massa: due condanne sono state poi commutate, la terza è sotto appello. Arabia Saudita. Nelle carceri torture e abusi sessuali contro attivisti asianews.it, 21 novembre 2018 La maggioranza dei casi si concentra nella prigione di Dhahban. Le guardie avrebbero sottoposto i prigionieri a fustigazione e scosse elettriche. A causa delle violenze alcuni detenuti non riescono a camminare. Nel mirino attiviste femminili, leader religiosi e intellettuali dissidenti. Nelle carceri saudite si sono consumati abusi e torture ai danni di attivisti pro diritti umani, fra i quali vi sono anche numerose donne. La maggior parte delle violazioni si è concentrata nel carcere di Dhahban, dove le guardie avrebbero - secondo quanto emerso nella denuncia - sottoposto i detenuti a fustigazione e scosse elettriche. Nel mirino delle autorità del regno le attiviste pro diritti umani arrestate nei primi mesi dell’anno, una delle quali rischia la pena di morte; a queste si aggiungono inoltre un gruppo di leader religiosi di primo piano e alcuni intellettuali e pensatori, anch’essi oggetto di repressione. A denunciare le torture sono i vertici di Amnesty International e Human Rights Watch, i quali hanno diffuso un comunicato congiunto in cui vengono elencate le torture ai danni dei prigionieri. A causa delle percosse, delle frustate e delle scosse elettriche, riferisce la nota, alcuni attivisti non sono in grado di camminare e di stare posizione eretta. Una donna è stata molestata sessualmente da aguzzini che indossavano maschere per non essere identificati. Altre tre sono state vittime di “baci e abbracci forzati”. Nel regno saudita vige una monarchia assoluta sunnita, retta da una visione wahhabita e fondamentalista dell’islam. Gli arresti e le torture in cella mostrano una volta di più quanto sia illusorio e di facciata il programma di “riforme” volute dal 33enne principe ereditario Mohammad bin Salman (Mbs) e tanto sbandierate dai media del Paese nel contesto del programma Vision 2030. Riforme che, in parte, avrebbero toccato la sfera sociale e dei diritti con il via libera alla guida per le donne. In realtà gli arresti di alti funzionati e imprenditori lo scorso anno, la repressione di attivisti e voci critiche e, in ultimo, la vicenda del giornalista dissidente Jamal Khashoggi gettano più di un’ombra sull’immagine riformista di Mbs. Secondo la classifica annuale di Reporter senza frontiere l’Arabia Saudita si piazza al 169mo posto su 180 nazioni al mondo per libertà di stampa. In riferimento alla vicenda Khashoggi, ieri il presidente Usa Donald Trump ha ribadito una volta di più l’importanza dei rapporti con l’Arabia Saudita, pur ammettendo che il principe coronato “con tutta probabilità” era a conoscenza dell’assassinio. Il Senato Usa con una mozione bipartisan ha infine chiesto alla Casa Bianca di determinare un possibile “ruolo” di Mbs nella vicenda. Diseguaglianze, migranti ed ex guerriglieri. La parabola della nuova Colombia di Juan Luis Cebrian* La Stampa, 21 novembre 2018 In “Cent’anni di solitudine”, l’opera di fama mondiale che gli valse il premio Nobel per la Letteratura, Gabriel García Marquez chiude il racconto affermando che “le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra”. Pentito forse di tanto pessimismo, alla fine del suo discorso di accettazione del premio, a Stoccolma, rivendicò con emozione “una nuova e radicale utopia della vita”, che offra “finalmente e per sempre una seconda opportunità”. L’incarnazione di questa utopia sembra ora possibile nella patria dell’autore, la Colombia, adesso che il Paese si apre al futuro dopo gli accordi di pace con i guerriglieri firmati dal presidente uscente Juan Manuel Santos. Ma il subcontinente americano rimane un territorio di paradossi e contraddizioni. La prima in assoluto è che le elezioni dello scorso giugno le abbia vinte l’esponente della formazione politica che più duramente ha criticato quegli accordi. Il successore di Santos, Ivan Duque, ha trionfato grazie alla sponsorizzazione dell’ex presidente Alvaro Uribe, che incarna l’alternativa più a destra dell’arco politico colombiano. Ha vinto il secondo turno delle elezioni contro il leader della sinistra, un ex guerrigliero inevitabilmente contaminato dalla retorica populista, in un Paese polarizzato sulle conseguenze della cosiddetta giustizia di transizione che permette ai guerriglieri di partecipare alla vita politica. Sessant’anni di guerra civile Duque sta facendo uno sforzo meritorio per allontanarsi dall’“uribismo” e porre il suo governo al centro dello schieramento. Il suo difficile compito è quello di iniziare a ricostruire un Paese che ha sofferto sessant’anni di sanguinosa guerra civile, con milioni di sfollati, ottantamila dispersi e decine di migliaia di vittime. Un periodo nel quale praticamente metà del territorio è sfuggito al controllo dello Stato che, tuttavia, è stato in grado di resistere a decenni di violenze e corruzione, assediato dalla guerriglia politica e dal crimine organizzato del traffico di droga, che hanno finito per associarsi. È ammirevole che, nonostante tutto, le istituzioni colombiane siano state in grado di mantenere in quei decenni una certa stabilità politica e che finalmente la democrazia ne emerga rafforzata. Rafforzata sì, ma grazie a un patto: perché la guerra non si è conclusa con una vittoria, ma con accordi di pace la cui attuazione non sarà facile. Santos con la sua firma ha ottenuto un notevole successo, che gli è valso il Nobel assegnato dal Parlamento norvegese, il suo miglior contributo per la continuità del processo è stato il programma di restituzione delle terre ai contadini sfollati. Dunque ora si trova ad affrontare l’aumento della criminalità dovuto agli uomini costretti a deporre le armi ma che non conoscono altro mestiere che il loro uso, e la riluttanza a smobilitare di parte delle residue forze dell’Esercito di Liberazione Nazionale. Corruzione e migranti In un contesto economico di stabilità e crescita, le sfide della nuova Colombia sono soprattutto la lotta alla corruzione, alla povertà e alla disuguaglianza sociale. Marta Lucia Ramirez, la prima donna eletta alla vicepresidenza nella storia del Paese, ha anche pubblicamente insistito sulla necessità di rafforzare le istituzioni democratiche per riconquistare la fiducia perduta dei cittadini “che non si sentono rappresentati”. Ma la principale minaccia che il suo governo sta affrontando sono le conseguenze del massiccio afflusso di rifugiati dal Venezuela. Dei tre milioni di emigranti che, secondo i dati delle Nazioni Unite, hanno lasciato quel Paese negli ultimi dodici mesi, almeno la metà è entrata in Colombia. Le autorità e i cittadini colombiani si sforzano di andare incontro ai bisogni di coloro che fuggono dalla catastrofe umanitaria di una delle nazioni più ricche della regione. L’instabilità e l’insicurezza del confine sono considerate la principale minaccia all’attuazione degli accordi di pace da parte del governo di Bogotà. Il Venezuela, insieme a Cuba e al Nicaragua, continua a essere fattore di enorme disturbo nella politica latinoamericana. Anche se il presidente Duque recentemente a Parigi ha chiesto che venga esercitata una pressione internazionale su Maduro perché si aprano delle trattative sul futuro del Paese, la debolezza della stessa opposizione venezuelana e gli eccessi del presidente, definito da Felipe GonzMez un “tiranno arbitrario”, insieme ai dubbi di molti Stati sull’opportunità di comminare delle sanzioni, non permettono di vedere una via d’uscita dalla situazione. Delle sei maggiori economie dell’America Latina tutte, ad eccezione del Messico, negli ultimi anni e mesi si sono orientate verso governi conservatori a favore di politiche neoliberiste. L’unicità di Ivan Duque è che, mentre la maggior parte dei suoi colleghi si trovano di fronte alla violenza su larga scala e al crimine organizzato, lui deve farsi carico del processo inverso: come integrare gli ex combattenti, capaci solo di usare le armi, e come farlo senza che le vittime dei loro crimini si sentano umiliate e defraudate. Tutto questo con un’opinione pubblica ormai molto polarizzata, come ovunque, e mobilitazioni popolari e studentesche che a malapena gli hanno regalato i cento giorni di luna di miele con l’elettorato a cui aspira ogni neo eletto. Non sarà facile. *Traduzione di Carla Reschia