58 suicidi, quasi raggiunto l’annus horribilis 2012 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 novembre 2018 Sei anni fa furono 60 i detenuti che si tolsero la vita, poi la cifre si era attestata intorno ai 40. La macabra conta dei suicidi in carcere continua. Siamo giunti, fino ad oggi, a 58 decessi per propria volontà, un vero e proprio record che non si vede da sei anni (nel 2012 furono 60, calati intorno ai 40 negli anni successivi, fino ai 52 del 2017). L’ultimo suicidio è avvenuto il 12 novembre nel carcere di Verona. Si tratta di un tunisino di 33 anni, accusato per una rapina commessa a Padova e condannato a quasi tre anni di carcere. Parliamo del terzo suicidio avvenuto nello stesso carcere, gli altri casi a maggio e a luglio, riguardavano sempre stranieri trentenni. Il detenuto tunisino si è suicidato mentre era in isolamento, una sanzione disciplinare per aver avuto un pesante litigio finito con un occhio nero per lui e il ricovero in ospedale per l’altro. Da qualche giorno si era chiuso in silenzio per mancanza di risposte alle sue richieste e per le offese di qualche detenuto. Tutti segnali che preannunciavano un gesto simile. Due giorni prima, il 10 novembre, un altro suicidio. Questa volta nel carcere di Brindisi, vittima un 43enne italiano. La tragica scoperta intorno alle 22.30 di sabato fatta dagli agenti della Polizia penitenziaria che, non vedendolo dopo molto tempo dalla sua entrata nel bagno, hanno effettuato un controllo. Avrebbero trovato la porta bloccata. Una volta aperta, la scoperta dell’impiccagione, utilizzando un asciugamano, e il tentativo di strapparlo invano alla morte. Delle indagini si occupano i carabinieri del Nucleo operativo e radiomobile della compagnia di Brindisi sotto la regia del pm Giuseppe De Nozza intervenuto sul luogo della tragedia. L’uomo, sorvegliato speciale, sarebbe ritornato in carcere dopo una condanna a otto mesi dovuta alle frequenti violazioni degli obblighi della misura alla quale era sottoposto. Il giorno prima, il 9 novembre, ancora un altro suicidio. O meglio, morto in ospedale dopo nove giorni di agonia per aver tentato di impiccarsi in cella con un lenzuolo nel carcere di Avellino. Si chiamava Pellegrino Pulzone, il 31 ottobre gli agenti lo avevano trovato accasciato sul pavimento. Scattato l’allarme immediatamente il detenuto è stato soccorso e condotto dai sanitari del distretto della Casa circondariale di Avellino. Subito è partito il protocollo di rianimazione e il cuore è ripartito. Dopo nove giorni è morto. L’uomo soffriva di problemi psichiatrici ed era già stato sottoposto a vari ricoveri a disposizione degli specialisti psichiatrici, quindi era sotto osservazione particolare. Un altro detenuto che soffriva di patologie psichiatriche si è tolto la vita il 4 novembre nel carcere di Pagliarelli di Palermo. Si chiamava Samuele Bua, aveva 29 anni ed era in isolamento. A denunciare l’accaduto è stato Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia. “Questo ragazzo ha ricevuto tutte le cure necessarie? denuncia Apprendi. Psicologi ed educatori lo hanno incontrato? Ci sono le relazioni quotidiane dei medici che avevano l’obbligo di visitarlo? Quanti giorni è stato in isolamento e perché non era nel reparto di psichiatria? Possibile che non ci siano responsabili della vita di un uomo o di una donna che entra nel carcere? Non mi rassegnerò mai al silenzio, di fronte all’indifferenza per la morte di una persona che lo Stato avrebbe dovuto tutelare e rieducare”. Il carcere, quindi, continua a mietere vittime. Come un luogo pieno di cappelle mortuarie e infatti le celle, tecnicamente, vengono chiamate “cubicoli”. D’altronde la parola “carcere” deriva dall’ebraico “carcar” che vuol dire, appunto, “tumulazione”. Il tema dei suicidi in carcere rimane di estrema attualità. Secondo un vecchio studio del Consiglio d’Europa (riferito agli anni tra il 1993 e il 2010) in Italia il rischio di suicidio in carcere era risultato fra i più elevati. Non solo, mentre fra la popolazione libera negli ultimi 20 anni i tassi di suicidio diminuiscono progressivamente, ciò non accade in carcere. La forbice tra il carcere e il mondo esterno è quindi aumentata. Diversi sono i fattori e in diverse Regioni le direzioni del carcere e le Asl hanno aderito a un protocollo di intesa per prevenire i suicidi e gli atti di autolesionismo. Come ha relazionato nel suo ultimo rapporto il Garante nazionale delle persone private della libertà, molte sono le situazioni che a buon titolo possono essere comprese nel concetto di vulnerabilità: lo stesso numero dei suicidi viene considerato per certi aspetti un indicatore, così come lo sono i tantissimi casi di autolesionismo registrati. Oltre 219 milioni da ripartire per la medicina penitenziaria e il superamento degli Opg quotidianosanita.it, 20 novembre 2018 Intesa all’esame della Conferenza Unificata. Per il finanziamento della sanità penitenziaria 2018 sono previsti 165,4 milioni e per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari circa 53,9 milioni. Gli schemi di intesa sul riparto in Conferenza Unificata e cambiano i criteri per la medicina penitenziaria. Doppio riparto per la medicina penitenziaria all’esame della Conferenza Unificata del 22 novembre. Il primo si riferisce alla quota destinata al finanziamento della sanità penitenziaria 2018, il secondo alla quota destinata al finanziamento di parte corrente, sempre per il 2018, per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Sanità penitenziaria - Si tratta del riparto di 165.424.023 milioni per il finanziamento delle spese che le Aziende sanitarie locali sostengono per effetto del trasferimento di tutte le funzioni sanitarie al Servizio sanitario nazionale, dei rapporti di lavoro, delle attrezzature e dei beni strumentali che riguardano la sanità penitenziaria e delle risorse finanziarie. I milioni in realtà, secondo la finanziaria 2008, avrebbero dovuto essere 167,8, ma è stato ridotto dalla legge di bilancio 2014 di 2.375.977 euro l’anno per la componente del defìnanziamento previsto dalla stessa manovra 2008. Nuovo il criterio di riparto rispetto agli anni precedenti. Le risorse sono ripartite solo sulla base di una quota indistinta calcolata così: - il 65% sulla base dell’incidenza percentuale complessiva del numero di detenuti adulti presenti negli istituti penitenziari al 31 dicembre 2017 e del numero di minori in carico ai servizi della Giustizia Minorile alla stessa data, attribuendo un peso pari a 1 nel caso di inserimento di minori in IPM (Istituti Penali Minorili), CPA (Centri di Prima Accoglienza) e Comunità ministeriali, e un peso pari a 1/10 nel caso di inserimento di minori in Comunità private. La popolazione minorile in carico agli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (USSM) non è contemplata ai fini del presente riparto in quanto alla stessa il Servizio sanitario nazionale è chiamato a garantire specifica assistenza psicologica attraverso i propri servizi territoriali; - il 35% in base all’incidenza percentuale complessiva del numero degli ingressi dalla libertà dei detenuti adulti nel 2017 e del numero degli ingressi dalla libertà dei minori, rilevati nel 2017, attribuendo un peso pari a 1 nel caso di inserimento in IPM (Istituti Penali Minorili), in CPA (Centri di Prima Accoglienza) e Comunità ministeriali, e un peso pari a 1/10 nel caso di inserimento di minori in Comunità private. I dati utilizzati sono stati fomiti dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia con le note sopra indicate. Per i medesimi motivi di cui al punto precedente, anche in tal caso non risulta contemplata la popolazione minorile in carico agli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni(USSM). Le risorse costituiscono fondo finalizzato e spesa obbligatoria e concorrono alla garanzia dei livelli essenziali di assistenza nell’ambito penitenziario, integrandosi con altre risorse sanitarie ordinarie aspecifiche. Non sono quindi le sole per la tutela della salute in carcere, oltre che delle prestazioni dovute agli adulti e minori in esecuzione penale esterna (per es., le prestazioni psicologiche ai minori in carico agli USSM, le prestazioni residenziali per le persone in misura di sicurezza non detentiva). Superamento OPG - In questo caso il riparto è di 53.875.233 euro, solo sulla base della popolazione maggiorenne residente al 1°gennaio 2018 (dati Istat). In origine si sarebbe trattato di 55 milioni, ma la legge di bilancio 2018 le ha ridotte di 1.124.767 euro annui, la quota cioè della componente di finanziamento del Friuli Venezia Giulia relativa al superamento degli OPG, in seguito alle modificazioni apportate allo statuto speciale della Regione. Le spese di funzionamento per il Servizio sanitario nazionale sono correlate in parte all’attivazione delle nuove strutture previste dal Dlgs 252/2010 e in parte al rafforzamento della rete complessiva dei servizi residenziali e ambulatoriali per la salute mentale. 41-bis, diritto alla salute e dignità umana di Carlo Fiorio rivistailmulino.it, 20 novembre 2018 La Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per il regime delle proroghe automatiche. Il 13 luglio 2016, all’età di ottantatré anni, Bernardo Provenzano moriva in un reparto protetto dell’ospedale San Paolo di Milano, nel quale era stato ricoverato oltre due anni prima a causa del progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute. Benché gravemente malato e in stato vegetativo, il detenuto continuava ad essere sottoposto al regime carcerario differenziato previsto dall’art. 41-bis (c. 2 ss. della legge n. 354 del 1975, c.d. ordinamento penitenziario), applicatogli immediatamente dopo la sua cattura (11 aprile 2006) e ininterrottamente prorogato, addirittura poche settimane prima del decesso. La condanna dell’Italia pronunciata all’unanimità dalla prima sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) su ricorso proposto dai familiari del detenuto censura l’automatismo delle proroghe ed è l’occasione per riflettere sui rapporti tra regimi carcerari “di rigore” e condizioni di salute della persona in vinculis. Il regime carcerario differenziato. Inserito nella legge di ordinamento penitenziario tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, l’art. 41-bis ord. penit. attribuisce al ministro della Giustizia, in presenza di gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica e anche a richiesta del ministro dell’Interno, la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti contemplati dall’ordinamento penitenziario che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La norma, inizialmente inserita in via provvisoria, è stata stabilizzata nel 2002 e successivamente modificata - in senso restrittivo - nel 2009, quando, oltre ad ampliarne l’àmbito soggettivo (condannati e imputati), sono stati previsti ulteriori inasprimenti del regime carcerario ed è stata neutralizzata la discrezionalità del giudice in nome di una più marcata connotazione amministrativa del procedimento applicativo, che ha condotto all’emanazione di una circolare “omnibus” il 2 ottobre 2017. Con riferimento alla durata del regime differenziato, l’art. 41-bis prevede che il decreto applicativo si applichi, in prima battuta, per la durata di quattro anni e sia prorogabile ad libitum per ulteriori periodi di due anni. Per espressa previsione legislativa, la proroga è disposta “quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno”. Il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il ricorso, depositato dai familiari di Provenzano nel luglio del 2013, previo esaurimento dei ricorsi contemplati dalla legge italiana, lamentava (§ 101) la violazione dell’art. 3 Cedu (che vieta la tortura, nonché la sottoposizione a pene o a trattamenti inumani o degradanti) sotto un duplice profilo. Da un lato (§§ 117 ss.), infatti, si denunziava l’incompatibilità della detenzione con le condizioni di salute del ricorrente, rispetto alle quali non sarebbero state garantite adeguate cure e benessere (well-being); dall’altro lato, invece, veniva censurata la decennale sottoposizione a regime carcerario differenziato, nonostante l’età avanzata e le gravi condizioni di salute. Provenzano era da tempo affetto da encefalopatia vascolare, morbo di Parkinson e ipertensione arteriosa. Nel dicembre 2012, a seguito dell’asportazione di un ematoma subdurale, il detenuto aveva progressivamente manifestato una ridotta consapevolezza e reattività nei confronti dell’ambiente circostante, unitamente a una limitata capacità di esprimersi. Trasferito dapprima nel centro diagnostico e terapeutico del carcere di Parma e, successivamente, in quello di Milano, Provenzano aveva evidenziato un repentino peggioramento delle proprie condizioni di salute, tanto da indurre l’amministrazione penitenziaria, nell’aprile del 2014, a trasferirlo nel reparto protetto dell’ospedale San Paolo di Milano, dove morirà poco più di due anni dopo. A seguito del rigetto di tutte le istanze presentate dai suoi difensori, volte a ottenere sia il differimento dell’esecuzione per motivi di salute (artt. 146 e 147 c.p.), sia la revoca del regime carcerario differenziato, il “41-bis” veniva prorogato anche in ospedale e senza eccezioni: video-sorveglianza continua e un unico “contatto” mensile con i familiari al di là di un vetro blindato. I colloqui erano, infatti, consentiti solo tramite citofono, avvicinato all’orecchio del boss - ormai in coma, cateterizzato e alimentato artificialmente - da un agente del gruppo operativo mobile. In particolare, il ministro della Giustizia prorogò il regime di “carcere duro” sia nel marzo 2014, sia nel marzo 2016 (qualche mese prima della morte di Provenzano), non prendendo in considerazione alcuna la cartella clinica di un malato terminale, ma recependo acriticamente le relazioni di alcune direzioni distrettuali antimafia, le quali, a differenza di altre, avevano insistito sulla persistente capacità di Provenzano di inviare messaggi all’esterno. Anche l’ultima istanza per una morte “libera”, presentata due giorni prima del decesso, fu rigettata dal magistrato di sorveglianza di Milano. La decisione europea. Con la sentenza del 25 ottobre 2018 (che potrà essere impugnata entro tre mesi dal governo italiano mediante richiesta di rinvio alla Grande Camera), la Corte europea ha accolto solo parzialmente le doglianze formulate dal ricorrente, escludendo che il regime carcerario differenziato sia ontologicamente incompatibile con la convenzione europea e che l’amministrazione penitenziaria italiana abbia prestato al detenuto cure inadeguate. Tuttavia - è questo l’aspetto di rilevante novità - i giudici di Strasburgo hanno individuato la violazione della norma convenzionale nella mancanza di un’autonoma valutazione, da parte del ministro della Giustizia, della situazione cognitiva del ricorrente in rapporto alla valutazione di persistente pericolosità operata dal medesimo organo (§§ 156-157). In particolare, poiché nell’ultimo provvedimento di proroga - a differenza dei precedenti - era carente la motivazione relativa al rapporto tra progressivo deterioramento cognitivo del detenuto ed “attualità” del pericolo di rapporti con l’esterno, la Corte europea ha ritenuto che il governo italiano non abbia dimostrato in modo convincente la necessità di prorogare il regime carcerario differenziato a fronte della peculiare situazione sanitaria del detenuto. Da tale considerazione, i giudici di Strasburgo hanno individuato la violazione dell’art. 3 Cedu, a causa della mancanza della doverosa considerazione del peggioramento delle condizioni cognitive di Provenzano. Con riferimento al danno non patrimoniale, la Corte europea ha rigettato la domanda di risarcimento pecuniario avanzata dai familiari, reputando del tutto soddisfacente la declaratoria di violazione convenzionale. La decisione in commento, unitamente alla quasi trentennale elaborazione della Corte costituzionale italiana, impone la riapertura di un dibattito colpevolmente trascurato sia in àmbito politico-legislativo sia nelle sedi accademiche. Nonostante, infatti, le evidenti criticità che l’art. 41-bis ord. penit. continua a evidenziare sul piano convenzionale (artt. 3, 6 § 1, 8 e 13 Cedu) e su quello costituzionale (artt. 3, 13 commi 2 e 4, 27 commi 2 e 3, 32), il tema del regime carcerario differenziato continua a rimanere in ombra, volutamente ignorato dalla più recente agenda parlamentare e sistematicamente trascurato dal dibattito scientifico avente per oggetto la natura e la fenomenologia della sanzione penale. Inoltre, benché la norma penitenziaria sia una “vecchia conoscenza” del Comitato Onu contro la tortura e del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, essa viene sistematicamente “graziata” dai giudici interni anche sulla base di ragionamenti difficilmente condivisibili, che fanno leva sulla sua natura preventiva anziché penale. Anche le tendenze riformatrici, ispirate dal Rapporto sul regime detentivo speciale, presentato nella passata legislatura dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani e sottese ai Lavori del Tavolo 2 degli Stati generali sull’esecuzione penale, si sono arenate sul veto del legislatore delegante il quale, nel corso della navette parlamentare affrontata dalla legge n. 107 del 2017, ha espressamente abdicato a qualsivoglia prospettiva riformatrice nei confronti del regime carcerario differenziato e più in generale - art. 85, comma 1, lett. b ed e - per i casi di eccezionale gravità e pericolosità e comunque per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale. Resta, tuttavia, incomprimibile - almeno a parere di chi scrive - un diritto a morire dignitosamente. In libertà. E questo diritto (e lo afferma anche la nostra Corte di cassazione nella vicenda Riina) non può essere negato. Nemmeno ai boss. Proprio perché lo Stato punisce, ma non si vendica. Decreto sicurezza, 17 deputati M5S chiedono di modificarlo di Carlo Lania Il Manifesto, 20 novembre 2018 Nuove crepe nel Movimento 5 Stelle. Con una lettera al capogruppo della Camera. Salvini: “Va approvato in fretta”. Otto emendamenti per provare a fare alla Camera quello che non è stato possibile fare al Senato: modificare il decreto sicurezza. I termini per presentarli scadono questa mattina alle 9,30 e se nel frattempo i firmatari non avranno fatto marcia indietro le proposte di modifica rappresenteranno l’ennesima crepa all’interno del Movimento 5 Stelle provocata dal provvedimento voluto dalla Lega e in particolare dal suo leader Matteo Salvini. Ad annunciare gli emendamenti sono stati ieri 17 deputati pentastellati con una lettera al capogruppo alla Camera Francesco D’Uva. Il decreto, hanno spiegato, non fa parte del contratto di governo ed è “in contraddizione con il programma M5S”. Ma soprattutto i dissidenti chiedono di poter discutere punti delicati come la riforma dello Sprar o la limitazione delle libertà personali dei migranti, in pratica l’ossatura del provvedimento che già ha provocato discussioni nel gruppo del Senato. Un confronto che, fa capire il finale della lettera, all’interno del M5S è sempre più difficile avere. “Concludiamo - hanno scritto infatti i diciassette- non più sperando in una maggiore collegialità e condivisione, come facciamo da tempo, ma chiedendola con forza”. La richiesta, però, è destinata a rimanere tale. Le prime reazioni dei vertici del movimento non fanno infatti sperare niente di buono. Nessuna riunione è stata convocata né sarebbe in programma, mentre sia D’Uva che Di Maio fanno capire di voler procedere senza rivedere le stesse situazioni già vissute a Palazzo Madama, dove i senatori De Falco, Nugnes, Fattori, Mantero e La Mura dopo aver chiesto inutilmente anche loro di poter discutere e modificare il testo, alla fine hanno abbandonato l’aula al momento del voto. “Il dl sicurezza è già stato migliorato al Senato e presto verrà approvato anche alla Camera”, ha tagliato corto il capogruppo, mentre Di Maio è stato ancora più categorico nei confronti degli autori della lettera: “Credo che vogliano fare un’azione di testimonianza, ma mi aspetto lealtà al governo che va avanti finché è autonomo”. Va detto che diversamene dal Senato, alla Camera la maggioranza può contare su numeri più che solidi. Insieme, Lega e 5 Stelle dispongono di 346 deputati e se anche i 17 dissidenti dovessero disertare l’aula al momento del voto - previsto per il 23 novembre - l’esito finale resta scontato. E comunque l’ipotesi di un ricorso al voto di fiducia, come è già successo a palazzo Madama, resta sempre in campo. Agli atti rimane quindi un crescente dissenso all’interno dei 5 Stelle, che ad appena otto mesi dall’inizio della legislatura non è un bel segnale per il governo. Come sa bene Salvini, che stanco delle incertezze grilline ieri non ha speso molte parole per l’ennesimo mal di pancia degli alleati. E il suo più che un commento è sembrato un ordine: il dl sicurezza “va approvato in fretta”, ha detto il ministro ansioso di portare a casa il provvedimento. Il decreto prosegue intanto il suo iter. Ieri in commissione Affari costituzionali sono stati ascoltati tra gli altri i rappresentanti dell’Anci, l’Associazione dei Comuni, e dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), e tutti hanno espresso forte preoccupazione per le conseguenze che alcune misure, come l’abrogazione della protezione umanitaria e il prolungamento del periodo di trattenimento nei Centri per i rimpatri, potranno avere sulla gestione di migranti e richiedenti asilo. “Siamo di fronte a un provvedimento socialmente pericoloso, oltre che incostituzionale in molte sue parti, che produrrà irregolarità, conflittualità sociale e marginalità, ledendo diritti fondamentali”, ha commentato il deputato di +Europa e membro della commissione Affari costituzionali Riccardo Magi, firmatario di 100 emendamenti al testo. “L’obiettivo - ha spiegato il deputato - è disinnescare gli aspetti peggiori del decreto favorendo maggiori possibilità di regolarizzazione”. Da oggi i penalisti in sciopero. Ma sulla prescrizione è tutto deciso di Davide Manlio Ruffolo La Notizia, 20 novembre 2018 Businarolo (M5S): i reati devono essere puniti. E non tutti gli avvocati sono contrari alla riforma. Per la relatrice del provvedimento non è tollerabile che un quarto dei procedimenti non arrivi all’Appello. Non è un caso che il tema della riforma della Giustizia, spesso invocato ma sempre rimandato, sia oggi al centro del dibattito politico. Malfunzionamenti e lungaggini, ormai cronici, rendono difficile l’accertamento della verità processuale. Ma tutto sta per cambiare come ci spiega Francesca Businarolo, deputato M5S e relatore del ddl anticorruzione che oggi sarà votato alla Camera. La sospensione della prescrizione, dopo il primo grado di giudizio, in che modo migliorerà la Giustizia italiana? Oggi, circa un quarto dei processi celebrati in Italia non arriva fino in fondo, perché i reati contestati agli imputati vengono dichiarati prescritti in Appello. È un meccanismo che distorce la giustizia, e che non garantisce concretamente al certezza della pena. Non possiamo accettare che imputati condannati in primo grado di giudizio, anche per reati molto gravi, finiscano per rimanere impuniti semplicemente perché il tempo per giudicarli è “scaduto”. Lo stop della prescrizione dopo la sentenza di primo grado serve proprio ad evitare che tutto ciò continui a ripetersi. È soprattutto in questo senso che la riforma porta dei benefici enormi alla giustizia e, soprattutto, ai cittadini. La riforma della Giustizia introdurrà la figura del cosiddetto “agente infiltrato”; di cosa si tratta e quali vantaggi può portare nel contrasto ai reati interni alla PA? Il poliziotto infiltrato è una figura già presente nel nostro ordinamento, per il contrasto a gravi reati come quelli di stampo mafioso o il traffico di droga. In quei settori ha dato eccellenti risultati, quindi abbiamo pensato di impiegarla anche per la lotta alla corruzione. Faccio un esempio per spiegare come opererà l’agente sotto copertura: a un funzionario viene assegnato un nuovo collaboratore, che assiste ai suoi incontri. In una di queste riunioni al dirigente pubblico offrono una mazzetta e lui accetta. Se il nuovo collaboratore è un poliziotto infiltrato, riferirà tutto ai magistrati e il funzionario verrà processato. L’assoluto vantaggio è dato dalla possibilità di scoprire molti più nuovi casi di corruzione ed intervenire tempestivamente, e anche il forte effetto deterrente non è da sottovalutare. Per quale motivo, secondo lei, i penalisti sono sul piede di guerra e cosa vorrebbero? Non tutti gli avvocati penalisti sono contrari alla riforma della prescrizione, è un dato di fatto. Per il resto, so che è stato indetto uno sciopero di tre giorni, per esprimere contrarietà alla riforma. Per quanto riguarda la prescrizione, mi domando in quale misura una norma che consente, finalmente, ai processi di arrivare fino alla fine possa essere considerata dannosa per qualcuno. L’obiettivo del processo è cercare di arrivare a una verità, e penso che valga per tutte le parti coinvolte, senza esclusioni. La lentezza della Giustizia, secondo i dati, è legata soprattutto alla carenza di personale di cancelleria e di Gip. Nella riforma prevedete nuove assunzioni o altre misure capaci di migliorare tale situazione? Nella Manovra abbiamo previsto 500 milioni per il settore della giustizia. Questa è solo la prima di una serie di misure che accompagneranno l’azione di governo da qui all’I. gennaio 2020, data in cui entrerà in vigore la riforma della prescrizione. Abbiamo quindi un anno per mettere a regime le risorse economiche che stiamo destinando al comparto giustizia in legge di Bilancio e per portare a compimento la riforma del processo penale. Solo il 6,7% delle prescrizioni dipende dall’iniziativa degli avvocati di Francesco Damato Il Dubbio, 20 novembre 2018 La prescrizione dei processi è ormai entrata a gamba tesa, grazie ai grillini ma anche a qualche giornalone, nell’elenco delle emergenze più percepite che reali. Come quella della criminalità, smascherata di recente da Piero Sansonetti senza ricorrere ad uno scoop ma solo opponendo ai consueti allarmi, che hanno contribuito a portare Matteo Salvini al Viminale, i dati dello stesso Ministero dell’Interno sulla riduzione di omicidi, rapine e altro ancora registratasi ben prima della rivoluzione, rivolta, cambiamento e via sfogliando il dizionario politico gialloverde. Lo stesso discorso vale per immigrati, sbarchi e simili: un’emergenza percepita a livello elettorale il 4 marzo scorso, a beneficio sempre di Salvini e della sua Lega non più confinata al Nord, anche dopo la forte battuta d’arresto verificatasi durante il governo di Paolo Gentiloni grazie all’azione del suo ministro dell’Interno Marco Minniti. Che fu poi ingenerosamente e improvvidamente accusato, nel marasma della sconfitta elettorale del Pd, dal presidente Matteo Orfini di avere dato e praticato ‘ una lettura di destrà al fenomeno che stava facendo le fortune leghiste. Il Corriere della Sera ha appena pubblicato un paginone, richiamato in prima pagina e confezionato a quattro mani da Luigi Ferrarella e Milena Gabanelli, sui “130 mila processi ogni anno in fumo” per la prescrizione. Che da gennaio del 2020 il governo gialloverde si è perciò proposto, nella legge cosiddetta spazzacorrotti all’esame della Camera, di bloccare all’emissione della prima sentenza, di condanna o di assoluzione che sia. A condizione - hanno precisato i leghisti - che nel frattempo lo stesso governo abbia chiesto, ottenuto dal Parlamento e attuato la riforma del processo penale. Manco per niente, hanno risposto all’unisono dal fronte grillino il guardasigilli Alfonso Bonafede e il vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio, convinti che non ci siano condizioni sospensive di sorta. E ciò - ha aggiunto un sottosegretario a cinque stelle di cui non ricordo il nome, ma sicuramente ardi- mentoso e senza remore scaramantiche - anche se il governo dovesse cadere inciampando in qualcuna delle mine che esso stesso sta mettendo sul suo percorso sfidando mezzo mondo, anzi di più. Eppure, prima di spingersi sino alla pagina 23 del Corriere - graficamente imponente con quel titolo sui processi inceneriti dalla prescrizione, come nei termovalorizzatori reclamati da Salvini per le immondizie in Campania - già nel breve testo di richiamo in prima pagina si trova la notizia, non credo irrilevante, del 58 per cento di riduzione della prescrizione verificatasi rispetto al 2004. Dov’è allora l’emergenza? Viene spontaneo chiedersi e chiedere. Nell’interno si spiega che i 130 mila processi estinti per prescrizione si sono stabilizzati, diciamo così, negli ultimi sei anni “in leggera altalena”, ma “non sempre - ha scritto Ferrarella per colpa dei cavilli di avvocati azzeccagarbugli” di memoria manzoniana, recentemente riproposti al pubblico ludibrio dal guardasigilli, prima di ripensarci e scusarsi. “Su cento rinvii” di cause, foraggio indispensabile per la prescrizione dei processi in corso, “i legittimi impedimenti per avvocato o imputato - ha scritto ancora Ferrarella citando una ricerca di Eurispes del 2010 - hanno contato, rispettivamente, per il 2,3 e l’1,2 per cento, l’omessa citazione o l’assenza dei testi della difesa per lo 0.1 e l’1,2 per cento, le questioni processuali per l’1,9. Il resto va sul conto della macchina giudiziaria, tra cui l’11,2 per cento per assenza o omessa citazione dei testi dell’accusa e il 5,7 per assenza del giudice”. Ma va soprattutto “considerato - ha scritto ancora Ferrarella che dal 58 al 70 per cento delle prescrizioni totali maturano ogni anno nelle indagini prima del processo, in mano ai pubblici ministeri”. Molti dei quali sono magari gli stessi che più si stracciano le vesti nel protestare contro chi usa, anzi abusa della prescrizione. E la vorrebbero abolire nel momento stesso dell’apertura delle indagini, senza aspettare né il rinvio a giudizio né la prima sentenza. L’ultima stilettata di Ferrarella, che conosce i tribunali a menadito, è contro la speranza, o l’illusione, del guardasigilli di aumentare la produttività della macchina giudiziaria con trentamila assunzioni di cancellieri, senza considerare che non riusciranno a pareggiare neppure “il 12- 13 per cento di personale amministrativo in potenziale zona pensione” per effetto della cosiddetta “quota cento”. Che Salvini ha imposto al governo per rottamare la legge Fornero. Milena Gabanelli, dal canto suo, si è chiesta se la “fine degli abusi del diritto” propostasi dal guardasigilli col blocco della prescrizione alla sentenza di primo grado potrà essere “sufficiente a celebrare in tempi ragionevoli”, come garantisce l’articolo 111 della Costituzione, “quei 130 mila processi” oggi condannati dalle statistiche alla prescrizione, peraltro senza grandi differenze fra Nord e Sud. “No”, ha risposto Milena spiegando che “al contrario, i tempi si allungheranno perché il condannato ha sempre interesse a ricorrere in appello per sperare in un’assoluzione, una riduzione di pena, o eventuali modifiche di legge. E i magistrati invece - ha continuato - non più sotto pressione della prescrizione potrebbero prendersela con comodo”, o con più comodo di adesso. È augurabile per la Gabanelli, peraltro già candidata sotto le Cinque Stelle del cielo grillino alla presidenza della Repubblica, che questo suo sospetto, o convinzione, in materia di prescrizione non le costi - con rischi anche fisici, coi tempi che corrono, oltre che verbali l’espulsione dall’albo, appena affisso dal supergrillino Alessandro Di Battista sulla sua bacheca elettronica dal lontano Nicaragua, degli otto giornalisti italiani con la schiena più dritta. Che diventerebbero così sette. Rimarrebbero, in ordine rigorosamente alfabetico, Franco Bechis, Pietrangelo Buttafuoco, Luisella Costamagna, Massimo Fini, Fulvio Grimaldi, Alberto Negri e naturalmente Marco Travaglio. E chi sennò? “Processi troppo lunghi. Così pagano le vittime” di Viviana Daloiso Avvenire, 20 novembre 2018 Il giudice Roia: un aiuto è necessario. Il magistrato milanese è stato il primo ad applicare a uno stalker il codice antimafia: “La misura funzionerebbe se fosse applicata”. Premesso che un “codice rosso” esiste già in sede processuale (“lo ha istituito la legge sui femminicidi del 2013, cambiando l’articolo 132 bis del Codice di procedura penale prevedendo che le cause per violenza e stalking siano trattate in via prioritaria”) secondo Fabio Roia, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, la proposta avanzata da Salvini potrebbe funzionare. Trent’anni trascorsi al “servizio” delle donne vittime di abusi, il magistrato è impegnato in prima linea sul tema delle violenze e sulle norme per contrastarle, tanto che nell’ottobre scorso per primo ha applicato il codice antimafia in un processo a carico di uno stalker. Dedizione per cui sarà insignito tra qualche settimana dell’Ambrogino d’oro, la massima benemerenza civica del Comune. Parliamo di questo “codice rosso” prima di tutto. Potrebbe essere una soluzione decisiva per risolvere la questione della violenza di genere dal punto di vista giuridico? È senz’altro una buona idea. Fino ad ora - e secondo quanto disposto dalla legge del 2013 - la priorità alle cause di violenza e stalking è stata data soltanto in fase processuale, cioè a conclusione delle indagini. Questo significa che dalla denuncia alla effettiva presa in carico del caso passa tempo, spesso troppo vista la mole di cause che oberano gli uffici di procura. E questo tempo è deleterio per la vittima: le donne sono costrette a rimanere a lungo nelle case rifugio-dove le case rifugio esistono, o addirittura ad essere esposte al rischio di nuove violenze. Il risultato è una vittimizzazione secondaria delle donne che fanno denuncia. Sveltire la procedura a partire dalle indagini comporterebbe una svolta in questo senso, anche perché nel caso delle violenze su una donai i tempi richiesti per accertare quanto denunciato sono piuttosto rapidi. Anche se le leggi, e in questo caso il “codice rosso”, funzionano solo se poi vengono applicate e dappertutto. In che tempi si risolve una causa a Milano? Nei casi di maltrattamento, violenza sessuale e stallting arriviamo a processo in 10 mesi. Procedete già in modo spedito. Come mai? Si è fatta rete, qui, già dagli anni Novanta. La città conta su ottimi centri antiviolenza, una Polizia giudiziaria specializzata, un centro dedicato alla clinica Mangiagalli (il Svsed, Soccorso violenza sessuale e domestica, ndr). E “specializzazione” è la parola chiave quando si parla di violenza sulle donne, perché ogni caso e ogni territorio hanno esigenze specifiche. A Milano per esempio abbiamo affrontato la specificità delle comunità sudamericane, molto chiuse e restie alle denunce, andandole a prendere nelle loro case. Ora fronteggiamo l’emergenza delle giovanissime: il 35% delle vittime di violenza hanno trai 17 e i 35 anni di età. Quante ce la fanno? Tante, e non si dice. O si dice soltanto quando ci sono storie straordinarie per il loro impatto mediatico. Io invece ho in mente le centinaia di donne normalissime che ce l’hanno fatta. Quelle che denunciano non cercano mai vendetta, o soddisfazione, solo un’alternativa di vita. Senza violenza. Quando la ottengono rinascono in toto. È a loro che ho deciso di dedicare il riconoscimento che mi verrà dato, e a tutti quelli che in tribunale collaborano per aiutarle ogni giorno. Aboliamo l’obbligatorietà dell’azione penale. Solo così si accorciano i processi di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 20 novembre 2018 Ridurre i tempi dei processi? Un modo c’è, ma non piace ai Pm. Alla fine, e finalmente, la bestemmia qualcuno dovrà ben tirarla fuori. Vogliamo superare davvero il problema di quei 130.000 processi che ogni anno svaniscono nella prescrizione? Aboliamo l’obbligatorietà dell’azione penale. Sradichiamo il mostro che i costituenti vollero come garanzia di una giustizia uguale per tutti e a bilanciamento di una ritrovata indipendenza della magistratura, garantita anche ai pubblici ministeri, dopo la dittatura fascista. L’articolo 112 della Costituzione oggi non ha più senso di esistere. Non nel sistema processuale di tipo accusatorio, pur se nato già in modo ambiguo e abbondantemente annacquato negli anni successivi al 1989 da una serie di norme di tipo opposto. Non per la palese contraddizione con un altro principio costituzionale, quello della ragionevole durata del processo che deve essere garantita a tutti i soggetti, imputati, vittime e parti civili. Ci furono anni, e pare quasi sorprendente, in cui nel nostro Paese le istituzioni funzionavano con una certa coerenza. Era per esempio il 1993 - parliamo di venticinque anni fa - quando un ministro competente e galantuomo di nome Giovanni Conso nominò con decreto una commissione di riforma dell’ordinamento giudiziario composta da magistrati di vario orientamento. Questo organismo, nella sua relazione finale, mise una pietra tombale sul principio dell’azione penale obbligatoria, non solo prendendo atto dell’impossibilità di perseguire tutti i reati, ma denunciando anche il fatto che ogni giorno nei tribunali si commettevano ingiustizie. Infatti, si diceva, quella che era nata come la bandiera dell’uguaglianza, dando di fatto nelle mani del pubblico ministero un totale arbitrio nella scelta delle priorità dei reati da perseguire, si trasformava nella più grande delle diseguaglianze tra i cittadini. Il paradosso è poi, sviluppando il ragionamento di quella commissione, che questa giustizia così diseguale non sia affidata nelle mani di soggetti responsabili del loro operato di fronte ai cittadini (o perché eletti o perché dipendenti da organi governativi), ma a un corpo burocratico, quello della magistratura requirente, reclutato per concorso e senza legittimazione democratica. Questi dubbi non paiono albergare nelle giornate pensose del ministro di giustizia Alfonso Bonafede né nelle costanti passeggiate televisive del suo ispiratore magistrato Pier Camillo Davigo, che propongono di superare le ingiustizie denunciate dai magistrati di 25 anni fa con ulteriori più gravi ingiustizie, bloccando la prescrizione al capezzale del processo di primo grado. L’astuto ex pm milanese in particolare cita in continuazione, senza contraddittorio, gli esempi di Stati Uniti (dove l’azione penale è discrezionale e ben pochi fatti criminosi vanno a processo) e la Francia (dove il Pm dipende dal ministro di giustizia), cioè Paesi dove si selezionano i reati, per giustificare la sua proposta ammazza-diritti, di tutti. Rendiamo i processi eterni, dunque, e accumuliamo condanne all’Italia per la lentezza dei nostri tribunali. Nel frattempo pare siano persino tramontati quei piccoli aggiustamenti che avevano connotato il dibattito, sia in Parlamento che al Csm o in qualche distretto giudiziario, negli anni scorsi, mentre la prescrizione diventava sempre più una sorta di amnistia strisciante. Volenterose proposte di legge di riforma (Pecorella, Pera) rimanevano però nei cassetti. Un pizzico di depenalizzazioni, ascritte a merito della sinistra, stanno forse per essere oggi annullate da controriforme sulla sicurezza. Qualche procuratore come Zagrebesky o Maddalena aveva provato, in modo quasi artigianale, a organizzare nei propri uffici alcune corsie preferenziali per tipologie di reato ben individuate. Esperimenti limitati e a volte magari sbagliati, ma che mostravano un pensiero, forse un progetto di cambiamento. Oggi siamo al nulla. Tutti a dire che in Italia la giustizia non funziona, che il processo penale produce, tra l’altro, la spesa di 29 milioni l’anno per risarcire un migliaio di persone vittime della malagiustizia, degli errori, delle sciatterie di troppe toghe. Di cui sarebbe ora di cominciare almeno a pesare la produttività, anche per rendere merito a quei procuratori che fanno bene il loro dovere, come fanno negli Stati Uniti. Dove il processo, per essere giusto, non ha bisogno di essere obbligatorio. Violenza, priorità alle denunce delle donne di Cristiana Mangani Il Manifesto, 20 novembre 2018 Disegno di legge presto in Consiglio dei ministri: bollino rosso sugli esposti di aggressioni e stalking per accelerare le indagini. La polizia giudiziaria avrà l’obbligo di comunicare subito il reato al pm che dovrà sentire la vittima entro tre giorni. Codice rosso, come le scarpette rosse che ricordano le donne uccise da mariti, da compagni, o da chi diceva di amarle. Il testo del disegno di legge sarà portato quanto prima in Consiglio dei ministri e prevede che le denunce di violenza, in cui si ravvisano seri pericoli per l’incolumità della donna, avranno priorità assoluta: la polizia giudiziaria dovrà comunicare immediatamente la notizie di reato al pm, il quale entro tre giorni dovrà sentire la presunta vittima. Ha ribadito la volontà di fare in fretta il ministro Matteo Salvini che, ieri, a margine del concerto di apertura della campagna “Non sei da sola 2019” della Regione Lombardia, ha dichiarato: “Porterò in Cdm il prima possibile un intervento per introdurre un bollino rosso sulle denunce di stalking e violenza contro le donne, affinché queste segnalazioni dettagliate e documentate abbiano una priorità sulle altre, perché di donne ferite, attaccate con l’acido e anche ammazzate, ne abbiamo contate troppe. Del resto - ha aggiunto - come c’è il codice rosso al pronto soccorso in caso di violenza domestica e violenza contro le donne, ci deve essere il codice rosso per intervenire prima che sia troppo tardi. Sarà una delle prossime iniziative che governo e Parlamento porteranno avanti”. La volontà di intervenire sembra ci sia tutta. Tanto che già nei giorni scorsi il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e quello della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, hanno presentato il disegno di legge in via Arenula, alla presenza di Michelle Hunziker dell’associazione “Doppia difesa”. Obiettivo: arginare i tempi lunghi dei processi. Si comincia dalla modifica dell’articolo 347 del Codice di procedura penale, nel quale verrà stabilito che la polizia giudiziaria avrà l’obbligo di comunicare immediatamente al pubblico ministero le notizie di reato acquisite se riguardano i delitti commessi in contesti familiari o di semplice convivenza, senza lasciare discrezionalità sulla sussistenza dell’urgenza. Con l’articolo 362 C.p.p., invece, il pm dovrà procedere all’ascolto della vittima entro tre giorni dall’avvio del procedimento. E a quel punto, in base all’articolo 370, gli investigatori dovranno dare priorità alle indagini, quando si tratti di reati di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni aggravate, commessi in ambito familiare o di semplice convivenza. Il disegno di legge introduce anche l’obbligo di formazione per la Polizia, per i Carabinieri e per la Penitenziaria. E, ieri, in vista della Giornata internazionale contro la violenza alle donne in programma domenica prossima, un’altra campagna è stata lanciata a Verona, dalla polizia: “Questo non è amore”, iniziativa frutto della strategia della Direzione centrale anticrimine, guidata dal prefetto Vittorio Rizzi. Sono 32 i femminicidi compiuti nei primi nove mesi del 2018 in Italia, tre in meno dello scorso anno (da 97 a 94 casi), e risultano in calo i cosiddetti reati-spia: maltrattamenti in famiglia, stalking, percosse, violenze sessuali, da 9.905 a 8.414 (-15,05 per cento). La Sicilia è la regione in cui le donne denunciano di più, seguita dalla Campania e dall’Emilia Romagna. In media il 27 per cento degli autori dei reati è composto da stranieri. Dati che indicano una tendenza positiva, dunque, anche se il capo della polizia Franco Gabrielli tiene a sottolineare: “Finché ci sarà una donna, una persona fragile che subisce violenza la nostra battaglia non sarà terminata - ha dichiarato. Dobbiamo essere molto attenti a non sottovalutare e far cadere le grida di aiuto da parte delle vittime”. L’allarme di Cantone (Anac): “La camorra e la mafia sono interessate alla sanità” Il Mattino, 20 novembre 2018 “L’azienda ospedaliera di Caserta ha vissuto un record che è ancora ineguagliato, quello di unico ospedale d’Italia ad essere stato commissariato per infiltrazioni camorristiche. Ma tante altre aziende ospedaliere, e non solo al Sud, potrebbero essere sciolte”. Lo ha detto il presidente dell’Anac Raffaele Cantone durante il convegno tenuto all’ospedale Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta per la presentazione del piano di prevenzione della corruzione. Cantone è tornato per la prima volta all’azienda ospedaliera dopo l’indagine del 2015 della Dda di Napoli che accertò il pesante condizionamento del clan guidato dal boss Michele Zagaria nella gestione degli appalti dell’ospedale, portando ad oltre 20 arresti tra dipendenti e funzionari e al conseguente commissariamento dell’azienda. “Quel record di cui non bisogno essere contenti - ha proseguito Cantone - ha rappresentato però il punto per ripartire. Il nuovo piano di prevenzione della corruzione va nella giusta direzione di individuare le aree di rischio, ed è sicuramente un passo avanti molto importante rispetto al precedente, che fu copiato dal piano adottato dall’azienda ospedaliera di Cuneo”. Tale ultima circostanza è stata più volte sottolineata in questi anni da Cantone, ma ora “a Caserta, grazie anche all’opera della Commissione nominata dal Viminale dopo il Commissariamento e al lavoro dell’attuale direttore generale Ferrante, c’è stato un salto di qualità. Al piano manca forse ancora qualcosa sotto il profilo delle misure da adottare per prevenire i fenomeni di corruzione, ma attendiamo la verifica concreta”. Cantone non nasconde però la forte preoccupazione per i legami tra sanità e criminalità organizzata. “Mafia e camorra - dice - sono molto interessate al settore sanitario non soli per i tanti soldi che girano, anche nei periodi di crisi economica, ma perché la sanità è uno strumento per mantenere il consenso”. Uno strumento di consenso “di cui si serve molto anche la politica”. “Il rapporto tra politica e sanità è oggetto di grande preoccupazione e purtroppo i suoi effetti sono molto sottovalutati. Eppure la politica condiziona tutte le nomine nella sanità, penso ai primari oltre che ai vertici di ospedali e aziende sanitarie. I piani di prevenzione anzi rappresentano una rivoluzione copernicana, perché sono lo strumento attraverso cui un’amministrazione guarda al suo interno, ben conoscendo le aree a rischio, e fa pulizia”. Assolti 27 anni dopo l’arresto. E ora lo Stato dovrà risarcirli di Simona Musco Il Dubbio, 20 novembre 2018 Vent’anni per arrivare ad un processo. E altri sette perché dei giudici stabilissero che il fatto non sussiste. È una storia paradossale quella della cosiddetta “banda della coca” di Alghero. Che non esiste, secondo i giudici, che si sono ritrovati a giudicare presunti trafficanti di cocaina, un affare che dalla Sardegna arrivava alla Calabria, passando per Roma e per la Colombia. Ma dopo quasi tre decenni, lo Stato si ritrova ora a dover risarcire i primi quattro imputati per l’irragionevole durata del processo di primo grado. Una strada che potrebbero seguire ora anche le altre persone coinvolte, assieme a quella della richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione. Tutto comincia nel 1991, quando 15 persone, dopo la soffiata di una fonte confidenziale e il lavoro di agenti sotto copertura, vengono coinvolte in un’indagine su un presunto traffico di sostanze stupefacenti. Per otto di loro l’accusa è di aver promosso, diretto e organizzato un’associazione per delinquere finalizzata allo smercio della droga e così finiscono in carcere, rimanendoci per circa un anno. L’udienza preliminare arriva nel 1995, ma il Gup di Sassari annulla la richiesta di rinvio a giudizio, rimettendo gli atti al pm, al quale chiede altre prove a carico delle persone coinvolte. Nel tornare in Procura, però, le carte spariscono. Non se ne accorge nessuno fino al 2010, quando dopo 19 anni di silenzio viene notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, con una nuova udienza preliminare fissata ad ottobre. Alcuni faldoni spariscono e per far iniziare il processo è necessario attingere da più parti: dai carabinieri per le intercettazioni, mentre altri documenti vengono forniti direttamente dalle difese. Con quanto ha in mano, l’accusa chiede il rinvio a giudizio e si arriva, dunque, a luglio del 2011, quando il gup decide di mandare tutti a processo. Ma dopo sei anni, a novembre del 2017, tutti gli imputati vengono assolti perché il fatto non sussiste. “Nonostante fossero decorsi i termini della prescrizione - spiega al Dubbio l’avvocato Paola Milia - i giudici sono entrati nel merito, spiegando che questa banda non è mai esistita. Si è trattato, invece, di una sorta di invenzione di alcuni confidenti e di agenti sotto copertura, che però non hanno mai portato le prove della sua esistenza”. Secondo quanto si legge in sentenza, le testimonianze sono risultate vaghe e insufficienti e “nulla è poi emerso con riferimento al delitto associativo”. Ma non solo: di alcuni dei soggetti indicati come promotori del traffico “non è emerso neppure il nome nel corso dell’attività istruttoria”. La sentenza è diventata irrevocabile il 31 marzo del 2018, ma l’assoluzione non è bastata ai difensori di Salvatore Budruni, Giuseppe Ballone, Antonio Martiri e Gervasio Madeddu, gli avvocati Gabriele Satta, Franco Luigi Satta e Milia, che hanno presentato ricorso alla Corte d’appello, ottenendo un risarcimento di 600 euro per ogni anno successivo ai tre anni riconosciuti come periodo ragionevole di durata di un giudizio di primo grado. Ad ognuno di loro, adesso, andrà una cifra compresa tra i 16mila e i 18mila euro. “Questo caso sottolinea Milia - rappresenta il classico esempio di come la sospensione dei termini della prescrizione sia incostituzionale e illegittima e renderebbe discrezionale la trattazione dei processi in fase d’appello. Noi avvocati da domani (oggi, ndr saremo in agitazione. Molti degli imputati di questo processo hanno dovuto rinunciare a tutto, si sono visti togliere concessioni demaniali e le loro famiglie sono dovute andare via. Si parla sempre e solo dei colpevoli conclude - ma ci si dimentica che a processo ci finiscono anche gli innocenti”. Acquisizione probatoria tramite sequestro di un intero sistema documentale Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2018 Prove - Mezzi di ricerca della prova - Sequestro - Sequestro “ampio” di dati - Contenuti rilevanti per le indagini - Legittimità - Rispetto della proporzionalità e della adeguatezza. In tema di acquisizione della prova, l’Autorità giudiziaria, al fine di esaminare un’ampia massa di dati i cui contenuti sono potenzialmente rilevanti per le indagini, può disporre un sequestro dai contenuti molto estesi, provvedendo, tuttavia, nel rispetto del principio di proporzionalità e adeguatezza, alla immediata restituzione delle cose sottoposte a vincolo non appena sia decorso il tempo ragionevolmente necessario per gli accertamenti; sicché, in caso di mancata tempestiva restituzione, l’interessato potrà presentare la relativa istanza e far valere le proprie ragioni, se necessario, anche mediante i rimedi impugnatori offerti dal sistema. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 8 novembre 2018 n. 50651. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Sequestri - Oggetto - Sequestro di un’ampia massa di dati - Legittimità - Condizioni - Fattispecie. In tema di acquisizione della prova, a determinate e giustificate condizioni è ammissibile un sequestro esteso all’intero sistema (informatico o telematico) - così come, se vi sono particolari ragioni, è possibile il sequestro della totalità delle cartelle cliniche cartacee di un ospedale pur se solo alcune siano di interesse - se ciò è proporzionato rispetto alle esigenze probatorie o per altro motivo venga in questione l’intero sistema, così come non è escluso, “se necessario, il trasferimento fisico dell’apparecchio per poi procedere a perquisizione in luogo e con modalità più convenienti, anche per la necessaria disponibilità di personale tecnico per superare le protezioni del sistema dagli accessi di terzi (in modo, quindi, non dissimile da come può essere sequestrata una intera unità immobiliare in attesa delle condizioni tecniche per una adeguata perquisizione e l’apertura di un vano protetto)”. (Fattispecie relativa al sequestro di interi archivi informatici, contenenti dati potenzialmente rilevanti ai fini della prosecuzione delle indagini per i reati di abuso di ufficio e turbativa d’asta, ipotizzati in relazione a una procedura di affidamento della gestione del servizio idrico integrato). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 15 dicembre 2016 n. 53168. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Sequestri - Oggetto - Perquisizione e sequestro di sistema informatico - Apprensione dell’intero contenuto del sistema informatico in difetto di specifiche ragioni - Principio di proporzionalità e adeguatezza - Violazione - Sussistenza - Fattispecie. È illegittimo, per violazione del principio di proporzionalità e adeguatezza, il sequestro a fini probatori di un sistema informatico, quale è un personal computer, che conduca, in difetto di specifiche ragioni, a una indiscriminata apprensione di tutte le informazioni ivi contenute. (Fattispecie di perquisizione di personal computer di giornalista, in cui la Corte ha ritenuto corretta la procedura di esame ed estrazione, mediante stampa fisica e duplicazione, dei soli dati di interesse presenti nell’archivio del sistema). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 10 giugno 2015 n. 24617. Prove - Sequestro - Archivio informatico - Legittimità - Norma di riferimento. Il sequestro di una vastissima pluralità di atti e documenti cartacei, individuati per categoria generale, ovvero di interi archivi informatici a fini di prova, non è interdetto dalle disposizioni di legge. La possibilità di sequestri documentali ad ampio “spettro” è offerto dall’articolo 81 disp. att. c.p.p., comma 2, secondo periodo, il quale dispone che quando non è possibile procedere a numerazione delle “carte” sottoposte a vincolo, le stesse “sono rinchiuse in uno o più pacchi sigillati, numerati e timbrati”. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 10 giugno 2015 n. 24617. Toscana: l’Ass. Grieco “aiutare la didattica a favore dei detenuti è segno di civiltà” di Marco Ceccarini toscana-notizie.it, 20 novembre 2018 “La Regione è da sempre impegnata nell’estensione del diritto all’istruzione. Questo diritto riguarda anche il mondo carcerario. Mettere i centri per l’istruzione degli adulti, che si occupano tra l’altro di istruzione dei carcerati, nelle condizioni di poter acquistare libri ed altro materiale didattico per consentire a chi, recluso, desidera crescere culturalmente conseguendo anche un titolo di studio, è un qualcosa che riteniamo fondamentale e che pertanto, come amministrazione, sosteniamo concretamente e con convinzione”. Così l’assessore regionale ad Istruzione, formazione e lavoro, Cristina Grieco, commenta la delibera della Giunta toscana che ha stanziato 50 mila euro per l’acquisto di libri, da parte della rete dei Cpia, centri provinciali per l’istruzione degli adulti, da destinare alle attività didattiche a favore degli uomini e delle donne presenti nelle carceri toscane. In Toscana ci sono diciotto istituti di pena, all’interno dei quali i Cpia svolgono corsi scolastici di ogni ordine e grado. Nel complesso i Cpia svolgono le loro attività didattiche nelle sezioni carcerarie presenti nei territori provinciali di competenza. Per inciso, il centro per l’istruzione degli adulti di Arezzo segue la casa circondariale di Arezzo, quello di Firenze l’istituto penale minorile di Firenze, la casa circondariale Sollicciano di Firenze e l’istituto Gozzini di Firenze, il centro di Grosseto la casa circondariale di Grosseto e quella di Massa Marittima, il centro per l’istruzione di Livorno la casa circondariale Le Sughere di Livorno, il carcere dell’isola di Gorgona e quello di Porto Azzurro all’isola d’Elba, il centro di Massa Carrara l’istituto penale minorile di Pointremoli e il carcere di Massa, il centro di Pisa la casa circondariale Don Bosco di Pisa e la casa di reclusione di Volterra, il centro di Prato il carcere La Dogaia di Prato. Il Cpia di Grosseto svolge il ruolo di capofila nelle rete dei centri toscani per l’istruzione. “È un atto di civiltà dotare le sezioni carcerarie degli istituti di prevenzione e pena dei necessari strumenti didattici”, sottolinea l’assessore Grieco. “È per questo che abbiamo deciso di destinare alla rete dei Cpia la cifra di 50 mila euro allo scopo di favorire l’acquisto di libri”. In sintesi la Regione Toscana, considerata importante la possibilità di favorire la frequenza ai corsi di istruzione da parte dei detenuti, ha deciso, attraverso questa misura, di aumentare la dotazione libraria delle carceri e favorire, di conseguenza, l’azione didattica condotta dai Cpia, aumentando gli strumenti e in particolare i libri per accrescere e rendere più decisivi gli interventi di inclusione negli istituti di prevenzione e pena della Toscana. Milano: detenuto morto a San Vittore, per i periti di parte “non fu suicidio” Il Giorno, 20 novembre 2018 Sei anni fa la morte di Alessandro Gallelli nel reparto psichiatrico del carcere milanese. Da sei anni i genitori di Alessandro Gallelli, trovato impiccato nella cella n. 5 del reparto psichiatrico del carcere di San Vittore il 18 febbraio 2012, cercano la verità. E non hanno mai creduto all’ipotesi del suicidio. Ora i dubbi trovano conferma in una dettagliata perizia, condotta da quattro consulenti nominati dall’avvocato della famiglia, Salvatore Tesoriero. I periti scrivono chiaramente che la morte di Alessandro non è compatibile “con l’ipotesi suicidaria” ma è “riconducibile ad un omicidio mediante strozzamento”. In particolare “lo strozzamento è stato causato da un omicida posto frontalmente e lateralmente a destra”, di Alessandro e avrebbe usato la mano sinistra per strozzarlo. Dopo averlo ucciso, ci sarebbe stata “un’attività di stanging”, ossia una “manipolazione volontaria della scena criminis” per simulare un suicidio. Alessandro, allora 21enne, era da solo in cella, in isolamento. La perizia, che ribalta quella dei consulenti del pubblico ministero, sarà discussa nell’udienza del 13 dicembre, quando il giudice dovrà decidere se archiviare o meno il caso. “Dopo tante insistenze abbiamo ottenuto l’autorizzazione a fare un’ispezione in quella cella con i nostri periti- racconta Rita Maggioni, madre di Alessandro- Ci siamo andati anche io e mio marito, nel febbraio scorso. Abbiamo visto dopo sei anni la cella dove è morto nostro figlio”. I quattro periti, Silvio Cavalcanti, Vannio Vercilio, Salvatore Spitaleri e Luca Chianelli, non hanno potuto fare esami sul corpo di Alessandro. Ma, basandosi solo sulle uniche foto disponibili e relative solo al volto e al collo, hanno dedotto che Alessandro potrebbe essere stato strozzato durante un tentativo di “contenimento” perché era magari andato in escandescenze. “Appare doveroso ribadire - scrivono i periti - che forme preterintenzionali di strozzamento, nelle manovre di contenimento di soggetti agitati, sono possibili, in quanto la morte puo’ essere conseguente ad un afferramento energico al collo eseguito senza una concreta volontà omicidiaria”. Alessandro fu trovato impiccato con la sua felpa, annodata alla finestra della cella. Ma per i periti i segni sul collo sarebbero stati causati dalla stretta sul collo di una mano sinistra e non dalla felpa. Non è comunque la prima perizia a mettere in dubbio il suicidio di Alessandro. Già il perito nominato dal Tribunale civile, Luigi Morgese, psichiatra del Policlinico di Milano aveva espresso molte perplessità. Nella cella n.5 c’è infatti solo una finestra, chiusa da una rete spessa con piccoli buchi, dietro la quale ci sono le inferriate. Alessandro avrebbe fatto passare la manica della sua felpa tagliuzzata tra i buchi annodandola poi alle inferriate. Era pero’ controllato a vista e alla 17.25 del 18 febbraio l’agente della polizia carceraria in servizio al reparto psichiatrico (tecnicamente viene chiamato Centro di osservazione neuropsichiatrica - Conp) annota che ha scambiato con lui una breve conversazione. Al controllo successivo, alle 17.30, Alessandro viene trovato impiccato. Cinque minuti per annodare una felpa facendola passare attraverso buchi cosi’ stretti che a fatica ci passa un dito, sono troppo pochi. “Speriamo che il caso di mio figlio non sia archiviato. Finora abbiamo trovato solo muri di gomma. Vogliamo capire perché nostro figlio è morto in carcere”, conclude la madre. Milano: inaugurato Sportello lavoro - Centro per l’impiego al carcere di San Vittore mi-lorenteggio.com, 20 novembre 2018 “Le carceri sono un argomento sociale di cruciale importanza, una cartina di tornasole sullo stato delle nostra civiltà, per questo nel corso della mia vita politica ho avuto modo di visitarne molte, e di scrivere su questo tema anche un libro”. Lo ha dichiarato l’assessore regionale a Istruzione, Formazione e Lavoro Melania Rizzoli, inaugurando lo “Sportello lavoro - centro per l’impiego” all’interno della casa circondariale milanese di San Vittore, il secondo dopo quello di Opera. “Questo di San Vittore - ha sottolineato Rizzoli - sposta in alto l’asticella della sfida: prendere in carico detenuti in attesa di giudizio o ai cautelari significa cominciare immediatamente un percorso che porti al reinserimento nella società civile”. Lo sportello, infatti, frutto di un accordo tra Afol Metropolitana e San Vittore, mette a disposizione dei detenuti i servizi di inserimento lavorativo di Regione Lombardia rivolti ai disoccupati attraverso Dote Unica Lavoro e Garanzia Giovani (per i minori di 29 anni). Questi servizi (colloqui di orientamento, formazione finalizzata all’inserimento, ricerca attiva del lavoro, tirocinio e certificazione) supporteranno gli inserimenti lavorativi nelle realtà produttive gestite da cooperative dentro il carcere, ma anche, quando le condizioni di detenzione lo consentano, all’esterno, caso nel quale gli operatori dello sportello svolgeranno un vero scouting aziendale. “Questo percorso sperimentale”, ha concluso l’assessore Rizzoli, “è una piena applicazione dell’articolo 27 della Costituzione: la pena, se da un lato deve essere certa, dall’altro deve essere il punto di partenza di un cammino che porti alla riabilitazione del condannato”. Bologna: sovraffollamento, se la soluzione è ancora costruire un carcere più grande zic.it, 20 novembre 2018 Per ovviare al sovraffollamento della Dozza verrà presto costruito un nuovo padiglione da 200 posti. Intanto, nella Rems, la struttura sanitaria che ha preso il posto degli Opg, gira una guardia armata di pistola. Nei prossimi mesi inizieranno i lavori per costruire un nuovo padiglione da 200 posti per la casa circondariale cittadina, dove oggi si affollano 800 persone contro una capienza di 500, secondo quanto comunicato recentemente dal Garante comunale dei detenuti Antonio Ianniello. La preoccupazione del Garante è che all’ampliamento corrisponda “un adeguamento dell’organico, tanto dell’area educativa quanto della Polizia penitenziaria”. Nessuna traccia di un ragionamento sui motivi del sovraffollamento e sulla possibilità di ridurlo. Eppure, perfino in ambito accademico, sono consolidate da decenni le riflessioni sulla poca utilità e anzi sulla dannosità sociale del carcere, dove chi è dentro per piccoli reati diventa facile recluta di piccole e grandi mafie ed esce ben più stronzo di come è entrato. Chiaro, c’è poco da illudersi che sia epoca storica adatta a indulti o amnistie. O tantomeno che si intraveda all’orizzonte un tale mutamento sociale da determinare un superamento di questa pratica barbara. Ma sconcerta che escano dal dibattito pubblico perfino misure di banale e liberale buonsenso come ridurre il ricorso alla custodia cautelare o imporre pene alternative almeno per le condanne più lievi. Nel 2018 la soluzione è ancora, sempre, ampliare le carceri, costruirne di nuove. Il Garante ha anche parlato della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, la struttura che ha preso dell’Ospedale psichiatrico giudiziario dopo la chiusura definitiva a livello nazionale nel 2015. A Bologna è in via Terracini e, a norma di legge, deve essere a “esclusiva gestione sanitaria”. E invece c’è una guardia giurata di Coopservice, con pistola penzoloni alla cintola, che entra in contatto con i pazienti. Che ci fa? Nemmeno negli Opg, rileva Ianiello, il personale addetto alla sicurezza girava per le strutture con un arma da fuoco. “Una circostanza inaccettabile”, dice il Garante, e in questo caso è veramente difficile non essere d’accordo. Bolzano: “A scuola di libertà”, carcere e studenti a confronto sul tema della responsabilità agensit.it, 20 novembre 2018 Sono sette gli istituti di lingua italiana e tedesca della provincia di Bolzano, oltre ad un convitto, che aderiscono alla sesta edizione del progetto nazionale “A scuola di libertà”, promosso in Alto Adige dalla Caritas di Bolzano-Bressanone. L’iniziativa, che nasce per approfondire i temi del carcere e della pena e per riflettere insieme sul sottile confine fra trasgressione e illegalità, coinvolgerà oltre 500 studenti di Bolzano, Merano, Bressanone e Ortisei. “Vogliamo fare capire ai ragazzi - spiega Alessandro Pedrotti, responsabile del servizio Odós di Caritas, promotore del progetto a livello locale - che in carcere ci sono persone e non reati che camminano e proporre loro un modello di giustizia diverso, dove investire sul percorso di reinserimento delle persone detenute significa investire sulla sicurezza dell’intera società”. Da metà novembre e fino a febbraio i due mondi della scuola e del carcere avranno l’occasione di conoscersi e confrontarsi. Da alcuni giorni gli operatori di Odós e i volontari hanno già iniziato a entrare negli istituti scolastici dell’Alto Adige per affrontare e dibattere con gli studenti le tematiche della devianza e della detenzione. Con loro gli operatori di Odós cercheranno di superare le semplificazioni che propongono una distinzione netta tra “buoni” e “cattivi”, per parlare di una giustizia non vendicativa, che miri alla riconciliazione attraverso una pena costruttiva. “Quest’anno rifletteremo assieme in particolare sul tema della responsabilità - spiega Pedrotti. Le persone che hanno commesso un reato è necessario che durante la pena ragionino sulle proprie responsabilità. Allo stesso tempo però è responsabilità primaria della società permettere a queste persone che la riflessione venga svolta, nelle condizioni migliori e più umane possibili”. In carcere, infatti, ci sono persone e non reati che camminano. “Chi ha perso la libertà deve avere la possibilità di riconquistarla scontando una pena rispettosa della dignità umana”, conclude Pedrotti. Pene umane, che abbiano un senso e che non abbiano come scopo quello di rispondere al male con altrettanto male. Torino: un’opera d’arte che racconta la spiritualità dei detenuti tra le mura del carcere di Camilla Cupelli La Stampa, 20 novembre 2018 Un progetto in collaborazione con gli studenti del Primo liceo artistico di Torino, sezione carceraria, della casa circondariale Lorusso e Cotugno. Come viene rispettata la spiritualità in carcere? E la religione? Per rispondere a queste domande nasce il progetto in collaborazione con gli studenti del Primo liceo artistico di Torino - sezione carceraria, detenuti nella casa circondariale Lorusso e Cotugno. Una trentina di loro collaborerà, grazie al liceo, alla Fondazione Benvenuti in Italia e al Centro Interculturale, alla realizzazione di un’opera d’arte unica. Una creazione collettiva, che racconterà della spiritualità dei detenuti tra le mura del carcere, a partire da alcune lezioni di storia dell’arte e di storia delle religioni. Il carcere - “Le carceri sono una lente di lettura della società - spiega Mariachiara Giorda, coordinatrice scientifica della Fondazione Benvenuti in Italia -. Un luogo totale, un luogo chiuso, un laboratorio che permette di osservare, anticipare oltre che prevenire alcune tendenze delle società in cui esse sono inserite. L’arte è un modo di vita, una pratica che afferma un modo creativo e libero di stare al mondo e per questo il progetto riguarda la creazione di un’opera artistica”. Il progetto è stato presentato durante un evento alla “Fabbrica delle E” di Torino, dove era presente anche il garante dei detenuti, Monica Gallo. “L’idea di parlare di arte e carcere nasce insieme all’Anno Europeo del Patrimonio Culturale - spiega Alice Turra del Centro Interculturale -. Il principio che l’arte sia accessibile in carcere, che la cultura entri tra quelle mura, è subito piaciuto molto”. E il progetto in partenza è la naturale prosecuzione di queste riflessioni. Radicalismi, arte, scuola - Ad accompagnare il progetto anche una ricerca sul tema dei radicalismi in carcere, già iniziata dalla borsista della Fondazione Goria Elena Sonnini, che proseguirà con interviste ai detenuti durante l’arco di tutto il progetto e con una formazione per operatori mediante il Centro Interculturale. L’obiettivo della creazione collettiva dell’opera è infatti anche quello di smorzare i conflitti all’interno del carcere, dove ci sono diverse nazionalità e religioni, a partire proprio dalla scuola e dalla cultura. L’anno scorso i primi detenuti del Primo liceo artistico - sezione carceraria si sono diplomati, a dimostrazione di una collaborazione fruttuosa che dura ormai da diverso tempo. Negli ultimi anni sono state dipinte le pareti delle sale colloqui nella casa circondariale, con disegni che ne hanno modificato il volto e l’atmosfera, proprio grazie ai docenti di pittura. I miei 123 colloqui in carcere. Ecco cosa ne ho ricavato di Luigi Accattoli luigiaccattoli.it, 20 novembre 2018 Da sette anni sono il presidente della giuria del Premio Castelli, un premio “letterario” per detenuti che ha dietro la Società di San Vincenzo de Paoli. Carlo Castelli (1924-1998), vincenziano operoso, è stato un pioniere del volontariato carcerario. Da questa esperienza ho ricavato una qualche conoscenza delle carceri e qualcosa ne ho riferito in questa rubrica nei mesi di ottobre del 2014, del 2016 e del 2017. La premiazione, seguita da un convegno, avviene sempre in un carcere diverso: quest’anno andiamo al Minorile di Nisida (Napoli). Le dieci precedenti edizioni ci avevano portato a Palermo, Poggioreale, Cagliari, Reggio Calabria, Forlì, Mantova, Bari, Bollate, Augusta, Padova. Ma la vera mia esperienza del carcere è nella lettura delle centinaia di “lavori” che i detenuti inviano alla giuria. Lettura che quasi sempre diviene un colloquio virtuale, o almeno un ascolto. Il tema di quest’anno era quello delle strade sbagliate che rischiamo d’imboccare a ogni passo: argomento del quale un carcerato sa qualcosa e forse qualcosa può segnalare, se non insegnare. “Un’altra strada era possibile: che cosa cambierei nella società e nella mia vita” era la formulazione del tema, che è risultata particolarmente coinvolgente per i 123 detenuti che hanno mandato uno o più lavori nei quali, noi della giuria (siamo nove) abbiamo trovato espresse - più che in altre annate - vivaci note soggettive, sia di tipo emozionale, sia argomentative. Di questa soggettività narrante voglio qui riferire, convinto che in essa si esprima al vivo la tribolata ricerca di ascolto che è propria degli uomini, delle donne e dei ragazzi che popolano le carceri. C’è chi manda dei versi e si scusa per l’ortografia: “Ma è l’emozione che qualcuno può leggere la mia poesia”. Chi si preoccupa della lunghezza dello scritto, che non rispetta il limite posto a tutti delle tre cartelle: “Spero che riusciate a perdonare l’eccessiva lunghezza del testo, ma non avrei potuto usare meno parole per raccontarvi questa storia”. Chi si limita a segnalare la ragionevole attesa di un buon esito del suo lavoro: “Spero di riuscire a vincere il premio”. Ma c’è anche qualcuno che è come intimorito dal tono drammatico del proprio racconto: “Queste sono lacrime d’inchiostro”. E non manca chi semplicemente si vergogna di raccontare errori e delitti: “Mi trovo in difficoltà a scrivere di me”. Ecco un concorrente che spera di dominare il tumulto che sente dentro: “Sono attanagliato nella morsa emotiva. Apro il mio cuore e racconto un pezzo di me. Devo controllare la mente”. L’impegno di autocontrollo che gli richiede la partecipazione al concorso diviene metafora della riabilitazione che va cercando. Un altro scrive, con lo stesso intento: “In questo racconto ho messo nero su bianco la mia vita, il mio errore, i miei pensieri”. Come a dire: considerate bene di che lacrime gronda. Altra volta invece - e questo atteggiamento non è raro - capita che il concorrente ambisca a farsi portavoce del popolo delle carceri: “La mia è la voce narrante corale di persone che stanno scontando una pena per i reati più vari”. L’ambizione di esercitare un magistero ispira a volte l’intera confessione, che persino può essere stata decisa a tale scopo: “Adesso sono qui con questo foglio e questa penna per poter dimostrare a me stesso e a chiunque possa leggere questo scritto che si può cambiare”, scrive l’autore del testo che ha avuto il secondo premio. Non partecipo per vincere ma per urlare - Uno scrive alla mamma ma ugualmente mira a un largo uditorio: “Vorrei che questa lettera non fosse soltanto per te ma per tanti altri ragazzi che leggendola capiscano”. In qualche caso la condizione del carcere è addotta come argomento di interlocuzione con i giurati: “Tutti nella vita ci siamo trovati di fronte a una porta girevole dalle uscite imprevedibili e io che vi scrivo, visto il luogo da cui lo sto facendo, quando mi sono trovato di fronte a quella maledettissima porta devo aver fatto la scelta sbagliata”. Chi è grato d’essere letto: “Ringrazio tutti per questa opportunità”, scrive uno che aggiunge dei cuoricini a penna come si fa con lo smartphone. Questo è forse il ringraziamento più articolato che abbiamo ricevuto, contenente addirittura un incoraggiamento ad andare avanti nel nostro volontariato di giurati che leggono storie drammatiche: “Vi saluto e vi incoraggio. Con questa lettera mi sono sfogato dentro e vi ringrazio dell’opportunità che mi avete dato. Un abbraccio”. Uno dei concorrenti ha svolto un’invettiva universale intitolandola “Sulla loro cattiva strada”, prendendo il titolo da una canzone di Fabrizio De André, che è una specie di parabola del male che contagia gagliardo e annoiato (1975): “Non partecipo per vincere ma solo per avere l’opportunità di urlare tutto ciò che in molti sanno ma per viltà tacciono al mondo”. Cioè l’iniquità del vasto mondo e di quello carcerario in particolare: “Chi non è stato mai in carcere non sa nulla della vita”. Eppure anche l’autore di questa “filippica” (la chiama così) vorrebbe avere uditori vicini e lontani: “Desidererei con tutto il cuore che non mi censuriate e che mi leggessero le persone che giudicano”. Tutti si propongono uno scopo nello scrivere, magari di ammaestramento per un solo eventuale lettore: “Io spero tanto che un ragazzino abbia la possibilità di leggermi, così da essere utile alla sua crescita”. Questo stesso concorrente segnala come “qualcosa di buono” che sta realizzando nella “vita di oggi” la sua stessa partecipazione al concorso: “Perché se andiamo un po’ di tempo indietro non so se avrei avuto il coraggio di scrivere quello che sto scrivendo”. L’obiettivo pedagogico è frequente. È così espresso dal lavoro intitolato “Giovani senza futuro, riflettete” che è tra i dieci che hanno ottenuto la segnalazione e dunque l’inserimento nell’antologia che dà conto del Premio: “La mia speranza è che questo mio racconto vi servirà a non farvi fare errori madornali come quelli che ho commesso io”. Quanto allo sviluppo del tema che veniva proposto ai partecipanti, i tre lavori premiati affermano con forte evidenza che “un’altra via era possibile” e narrano le fasi dolorose di tale scoperta, che per ognuno sono diverse. Per l’autore del lavoro che ottiene il primo premio si tratta di una “scoperta” che avviene “in un attimo” parlando con i figli adolescenti che gli fanno visita in carcere e ai quali cerca di indicare - appunto - una “via” che eviti loro il precipizio in cui lo scrivente si è lasciato cadere. Ho rotto un vetro e ho iniziato a tagliarmi - Per l’autore del secondo premio, invece, la scoperta matura lentamente nel “tempo vuoto di ogni impegno” nel quale si addentra con la carcerazione e che l’aiuta a prendere coscienza dei “tanti errori” compiuti, i quali - ma solo ora lo sa - potevano essere evitati se la vita non fosse stata un “vortice di emozioni” fuori d’ogni consapevolezza. L’autore del terzo premio a quella scoperta ci arriva con il dramma del suicidio avviato ma non compiuto: “Ho rotto un pezzo di vetro e ho iniziato a tagliarmi”. Dalla vista del sangue parte una lenta risalita che passa anche attraverso la decisione di “scrivere ogni cosa” per memorizzare le fasi del recupero di sé. Il secondo elemento del tema che avevamo assegnato, ossia la domanda “che cosa cambierei nella società e nella mia vita”, ha provocato alcuni dei concorrenti a una serrata elencazione dei cambiamenti. Il lavoro che ha avuto il secondo premio segnala “diverse cose che potrebbero essere cambiate per far sì che altri ragazzi non commettano i miei stessi errori”. Elenca rimedi nella sfera dell’accompagnamento e dell’educazione delle giovani generazioni: aumentare i centri di aggregazione e di avviamento allo sport e al lavoro, contrastare la dispersione scolastica, far sentire ai ragazzi che non sono abbandonati a sé stessi. Sono spunti che ricorrono in molti dei lavori pervenuti. Un testo che è entrato nei dieci “segnalati”, intitolato “Se il seme non muore non può nascere a vita nuova”, suggerisce - sull’esperienza dell’autore - di dare preferenza alle case famiglia rispetto a istituti spersonalizzati e di non staccare mai i figli dalle madri. Un altro dei testi segnalati, intitolato “Un jour viendra”, sollecita un ampliamento del concetto di “assistente sociale”, il cui servizio non dev’essere riservato alle persone indigenti economicamente, ma dovrebbe mirare all’ascolto di ogni disagiato: “Il supporto psicologico è troppo sconosciuto e sottovalutato, ma può salvare”. Vorrei essere un mago e tornare a scuola - Un terzo lavoro segnalato, che ha il titolo alato “Vorrei essere un mago”, elenca invece che cosa l’autore cambierebbe nella propria vita: non anticiperebbe all’adolescenza gli “atteggiamenti da uomo” che hanno accelerato la sua devianza, tornerebbe al “tempo della scuola” per goderlo nelle sue pacifiche possibilità invece di farne una palestra di avviamento al crimine. Molti tra i lavori che abbiamo esaminato insistono sull’opportunità - per dirla con il testo protocollato con il numero 98, che non abbiamo né premiato né segnalato - di “scegliere pochi buoni amici invece di circondarmi di molti conoscenti”. Come giuria abbiamo ancora una volta ammirato la capacità di coinvolgimento soggettivo dei concorrenti in narrazioni che sono anche revisioni di vita. Leggendo e rileggendo, di questo coinvolgimento ci siamo fatti partecipi e abbiamo cercato di ascoltarlo anche quando non potevamo premiarlo. A ogni pagina recante quel segno di vita e di pena ho inteso rendere omaggio anche con questa narrazione. Teatro in Carcere: 70° anniversario dell’International Theatre Institute dell’Unesco balamosteatro.org, 20 novembre 2018 Il teatro in carcere italiano a Hainan, Cina per i 70 anni dell’International Theatre Institute dell’Unesco (ITI-Unesco) e al XIX Convegno su I Teatri delle diversità (Urbania, 24-25 novembre 2018) Sarà il regista e pedagogo teatrale Michalis Traitsis di Balamòs Teatro, responsabile del progetto teatrale “Passi Sospesi” negli Istituti Penitenziari di Venezia, a rappresentare il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (CNTiC), l’organismo italiano che comprende 51 esperienze qualificate di teatro in ambito penitenziario, alle celebrazioni per il settantesimo anniversario dell’Istituto Internazionale del Teatro dell’Unesco (ITI - Unesco) che si terranno ad Hainan (Cina) dal 23 al 26 novembre 2018, grazie all’invito pervenuto al CNTiC dal Direttore Generale dell’ITI - Unesco Tobias Biancone. Dopo l’intervento di Vito Minoia, presidente del Coordinamento italiano, al 35° Congresso mondiale dell’ITI a Segovia (Spagna) nel luglio 2017, un grande interesse internazionale continua ad accompagnare le attività dell’organismo che ha come capofila il Teatro Aenigma dell’Università di Urbino Carlo Bo. Ma il sodalizio con l’ITI nasce nel 2013, quando grazie al Protocollo d’Intesa tra Il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria italiano si dà origine alla Giornata Nazionale del Teatro in Carcere in concomitanza con la Giornata Mondiale del Teatro promossa ogni 27 marzo dal 1961 in oltre 90 nazioni. Quest’anno per la quinta edizione dell’evento sono state 102 le iniziative in 56 istituti penitenziari di 17 regioni italiane differenti. Ad Hainan Michalis Traitsis terrà il 24 novembre un intervento dal titolo “Theatre in Prison: new artistic and educational horizons”, nell’ambito della Conferenza “The Performing Arts and Community Development” mostrando anche un video dal festival del Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere “Destini Incrociati”, dal 2015 organizzato grazie al sostegno del Ministero dei Beni ed Attività Culturali (MiBAC), e un video dal progetto teatrale “Passi Sospesi”, sottolineando l’importanza del teatro nel sistema penale come strumento di riabilitazione e reintegrazione sociale. Alla conferenza parteciperanno maestri e pedagoghi riconosciuti a livello internazionale come il regista russo Anatoly Vasiliev, il coreografo neozelandese Lemi Ponifasio, l’artista ed educatrice ugandese Jessica A. Kaahwa insieme a studiosi e teorici del teatro cinesi e internazionali (https://www.iti-worldwide.org/anniversary.html). Quella del Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere italiano è una buona pratica che ha suscitato molta curiosità ed interesse a livello internazionale. Se ne discuterà ancora in concomitanza il 24 e 25 novembre a Urbania (Pesaro e Urbino) nell’ambito del XIX Convegno Internazionale promosso dalla Rivista Europea “Catarsi, Teatri delle diversità” diretta da Vito Minoia, quest’anno dedicato a “L’istruzione degli ultimi: Don Lorenzo Milani e il teatro in carcere” con ospiti da Italia, Stati Uniti, Polonia, Grecia e nell’ambito del quale ci sarà un collegamento video con Michalis Traitsis da Hainan. Il programma completo del Convegno nella città di Urbania, organizzato con il patrocinio dell’Università di Urbino e in collaborazione con l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro è disponibile sul sito www.teatridellediversita.it. Per le attività nazionali e internazionali del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere si rinvia al sito www.teatrocarcere.it Per Balamòs Teatro e il progetto teatrale “Passi Sospesi” negli Istituti Penitenziari di Venezia si tratta di un riconoscimento molto importante in particolare per il lavoro svolto gli ultimi anni alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e anche per le attività che negli ultimi cinque anni Balamòs Teatro ha svolto dentro e fuori dall’Istituto Penitenziario Femminile di Giudecca nell’ambito della Giornata Mondiale del Teatro promossa dall’ITI - Unesco e per la Giornata Nazionale di Teatro in Carcere, promossa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP). Il nostro lavoro si svolge anche grazie alla collaborazione con i nostri partner, la Regione del Veneto, il Teatro Stabile del Veneto, La Biennale di Venezia, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, l’Università Cà Foscari di Venezia, il Centro Teatro Universitario di Ferrara, il Comune di Ferrara, l’Istituto Comprensivo “Govoni” di Ferrara. Don Milani e il carcere: “l’istruzione degli ultimi” ai Teatri delle Diversità di Teresa Valiani Redattore Sociale, 20 novembre 2018 È dedicata alla figura di don Milani la XIX edizione del convegno internazionale promosso dal Teatro Aenigma e dal Coordinamento nazionale Teatro in carcere e che per due giorni vedrà nelle Marche conferenze, incontri, proiezioni e spettacoli. Appuntamento a Urbania il 24 e 25 novembre. “L’istruzione degli ultimi: don Lorenzo Milani e il teatro in carcere”. È un titolo che aderisce completamente ai temi più caldi di queste settimane quello che caratterizza la XIX edizione del Convegno Internazionale “I teatri delle diversità” in programma a Urbania il 24 e 25 novembre prossimi. Promosso dal Teatro Aenigma e dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, della Regione Marche, del Comune di Urbania e con il patrocinio dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, l’evento vedrà convergere nelle Marche relatori, operatori esperti e studiosi. Il programma renderà omaggio ai 70 anni di attività dell’Istituto del Teatro Internazionale/ lti-Unesco e propone conferenze, incontri, proiezioni, spettacoli, laboratori e tavole rotonde. “Abbiamo voluto dedicare quest’anno il Convegno di Urbania alla figura di Don Milani, grazie all’invito rivolto alla Compagnia Voci Erranti che opera stabilmente nella Casa di Reclusione di Saluzzo (Cuneo) con la regia di Grazia Isoardi - spiega il direttore scientifico Vito Minoia. Lo spettacolo ‘La classè, da loro realizzato e in programma il 24 sera al teatro Bramante di Urbania, è ispirato all’esperienza del Priore di Barbiana che continua a far discutere e riflettere: insegnare alle classi meno abbienti l’importanza dello studio e della conoscenza per un riscatto umano e sociale. Non poteva esserci analogia migliore con il lavoro delle significative esperienze di teatro in carcere che aderiscono al Coordinamento Nazionale, un’iniziativa che sta facendo crescere in diverse università italiane, a partire dalla storica esperienza di Urbino, la consapevolezza del valore della ricerca personale, sociale e civile attraverso le esperienze di tipo culturale che vedono come protagonisti gli ultimi”. “Apriremo il convegno - prosegue Minoia - ricordando il valore educativo della figura di Don Milani, proseguiremo con la valorizzazione di buone prassi di teatro in carcere a livello internazionale con l’assegnazione della Terza edizione del Premio Gramsci (ci saranno ospiti da Polonia, Stati Uniti, Grecia) e continueremo a riflettere su Don Milani e il teatro in carcere la domenica mattina quando, in collaborazione con l’Associazione Nazionale Critici di Teatro ci interrogheremo anche sul possibile sguardo critico di chi si avvicina con sempre più consapevolezza alla visione di una elaborazione artistico educativa (etica ed estetica insieme) realizzata in un carcere. È la prima volta che giornalisti e critici si confrontano apertamente su un tema che sarà ripreso anche a Firenze nel corso della quinta edizione della Rassegna Nazionale di Teatro in Carcere prevista a metà dicembre”. Nella prima mattinata della domenica anche un omaggio a Guido Ceronetti, scrittore e marionettista scomparso a inizio settembre all’età di 91 anni, coordinato dal Maestro burattinaio Mariano Dolci, direttore per il teatro Universitario Aenigma della Scuola Sperimentale di Teatro di Animazione Sociale. “Buone prassi” di formazione educativa e civile in primo piano, attraverso il teatro a livello internazionale, con una dedica per i 70 anni dell’Istituto Internazionale del Teatro dell’Unesco che sta valorizzando sempre più il certosino lavoro di cui la Rivista “Catarsi-Teatri delle diversità” si è fatta carico a partire dal 1996. Razzismo e hate speech on line: un libro ci spiega come contrastarli di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 novembre 2018 La copertina dice quasi tutto. Il libro, quasi 200 pagine preziose, stimolanti e ricche di annotazioni, toglie il “quasi”. Lo ascoltate nel pigro chiacchiericcio dei treni, nel livore dei passeggeri degli autobus, nei bar o in taxi, nelle telefonate ai programmi radiofonici. Lo leggete sempre più spesso sui social media. Si chiama “hate speech”: odio online, razzismi 2.0, azioni e linguaggi violenti sul Web. La cultura convergente e la partecipazione, caratteristiche insite nel social media, diffondono e normalizzano sempre più contenuti dichiaratamente ostili o violenti, tra deresponsabilizzazione degli utenti e banalizzazione delle pedagogie d’odio. Stefano Pasta, dottore di ricerca in Pedagogia, è assegnista presso il Centro di Ricerca sull’Educazione ai media dell’Informazione e alla Tecnologia (Cremit) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è esperto d’interventi a contrasto delle discriminazioni, e in particolare della presenza di rom e sinti in Italia, su cui ha realizzato la guida multimediale “Giving memory a future”. Nel 2011 ha vinto per l’Italia il premio “EU journalism Award - Together against discrimination!” della Commissione Europea. Ora, nel suo “Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online”, Pasta descrive le diverse forme di razzismo (alcune di ritorno, favorite dalla mediazione di uno schermo e di una tastiera ma persino ostentate, altre nuove) presenti sui social media, scarsamente e inadeguatamente sanzionate. Se un’associazione che dal 1961 lotta per l’affermazione della libertà d’espressione, come Amnesty International, si sta interessando al fenomeno attraverso una task force sull’hate speech e tavoli di esperti per individuare strategie e comportamenti per contrastare l’odio, vuol dire che siamo di fronte a un problema serio. Parole ieri impronunciabili vengono pronunciate, vocabolari offensivi vengono in soccorso di chi cerca espressioni per esprimere il suo astio. Il tutto amplificato da un’eco (maiuscolo e genere femminile, perché Eco aveva già preannunciato come sarebbe andata a finire sulla Rete) che rimbalza e propaga frasi intrise di odio contro vecchie e nuove minoranze. Pasta spiega i meccanismi che assecondano la diffusione dell’odio on line ma dedica molto spazio all’analisi di buone pratiche per contrastarlo. L’analisi è sociologica, la proposta è educativa e risponde ad alcuni attuali interrogativi: come si risponde all’odio verso l’altro? Come si crea la responsabilità per l’uso del linguaggio? Come promuovere gli anticorpi presenti nella Rete e l’attivismo digitale? Un testo da non perdere, per non perdersi nell’odio e nel razzismo 2.0. “Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online” (Scholé-Morcelliana, 2018), con prefazione di Pier Cesare Rivoltella, direttore del Cremit (Centro di Ricerca sull’Educazione ai media dell’Informazione e alla Tecnologia) dell’Università Cattolica, e con postfazione di Milena Santerini, direttrice del Centro di Ricerca sulle Relazioni Intercultuali dell’Università Cattolica. Migranti. L’inferno dei Sikh, schiavi alle porte di Roma di Floriana Bulfon e Marco Omizzolo L’Espresso, 20 novembre 2018 Salari da fame, nessun diritto, chiusi nei container. E tutto succede nell’Agro Pontino. Anche grazie a una rete di colletti bianchi in rapporti con i caporali. La cartellina di plastica con il nome che rivela un’origine lontana è custodita in un vecchio armadio di lamiera e ruggine, tra confezioni di riso e fili della corrente penzolanti. L’elastico che la chiude non riesce più a trattenere le decine di contratti e buste paga. L’ultima indica un totale di 300 euro per una dozzina di giornate di lavoro. “Altri trecento li ho presi in nero, ma ho pagato il commercialista perché altrimenti non mi rinnovano il permesso di soggiorno”, sospira Hardeep. Quella cartellina gonfia contiene il nuovo volto dello sfruttamento. Una volta erano solo caporali, adesso sembrano broker. Dominano la catena dall’alto, imponendo regole ancora più spietate ai braccianti. Come baroni d’altri tempi, gestiscono il mercato senza sporcarsi le mani: sono i colletti bianchi del lavoro nero, che fanno affari negando ogni diritto: trattano gli stranieri come schiavi, come corpi da cui spremere ogni energia. E proteggono la loro parvenza di legalità dietro carte in regola, prodotte da una filiera di commercialisti, consulenti, ispettori del lavoro e persino sindacalisti. Hardeep indossa un turbante colorato e abiti consumati dalla terra dell’Agro Pontino su cui si inginocchia per 14 ore, sabato e domenica inclusi. Nato in Punjab, la regione nord occidentale dell’India, è arrivato da ormai cinque anni nelle campagne della provincia di Latina, dove pomodori, zucchine, melanzane certificate di “alta qualità” vengono raccolte senza sosta da lavoratori regolari solo all’apparenza. Divide il vecchio container grigio, di quelli usati per dare soccorso ai terremotati, con altri tre connazionali. Senza riscaldamento, un tubo di gomma per lavarsi e il bagno alla turca che scarica direttamente in un canale. Sul fornello l’odore speziato del chai si mescola a quello che la bombola del gas rilascia nell’aria. Per quel container dietro alle serre del padrone, protetto dagli sguardi di chi non vuol vedere, pagano 300 euro al mese. In anticipo e rigorosamente in nero. “Domani non vado al lavoro”, confida, “il padrone mi fa restare qui perché viene l’ispettore”. Nessuna sorpresa, capita persino che si conosca in anticipo quando arrivano le ispezioni. A farle poi sono sempre in meno e il risultato è un incremento del lavoro sommerso. Un giro d’affari che, secondo il Centro Studi e ricerche sul Mezzogiorno, vale ben 320 miliardi di euro. Il 19,5% del Pil. Del resto mettendo a confronto i registri anagrafici dell’Inps con quelli della Camera di Commercio della provincia di Latina a fronte di 16.827 lavoratori iscritti solo 3.400 aziende sono in grado di assumerli stabilmente, in pratica non più di una media di 5 braccianti per ogni ditta. Una cifra evidentemente insostenibile, soprattutto in un’agricoltura che punta ai mercati di qualità. La spiegazione è semplice, basta volerla vedere: una massa di irregolari, regolarmente sfruttati. Ma per questo bisogna andare lontano dai campi e spingersi alla periferia della Latina littoria, nelle anonime palazzine dei nuovi uffici di commercialisti, avvocati e consulenti del lavoro collusi con imprenditori e caporali. Parwinder, che divide il tugurio con Hardeep, sostiene ci sia persino un tariffario: “Duecento euro per ogni busta paga finta, necessaria per rinnovare il permesso di soggiorno, e mille per avere un contratto”. Spesso devono pagarsi da soli i contributi o a firmare il proprio licenziamento. “A me è successo”, ammette, “Ogni sei o sette mesi il padrone mi chiama e mi fa firmare un foglio. Io non capisco cosa c’è scritto, ma con lui c’è sempre un sindacalista. Io firmo e non faccio domande perché altrimenti mi mandano via”. Gli stessi sindacalisti che si sono dileguati quando gli indiani hanno deciso di scioperare per i loro diritti: “Ci dovevano difendere e invece qui se denunci non lavori più. I padroni e i caporali hanno la lista di quelli che hanno manifestato”. Il 18 aprile di due anni fa è stata una giornata memorabile. Sono scesi in piazza per rivendicare quanto previsto nel contratto: nove euro per sei ore di lavoro. Una protesta senza sbocchi. E oggi nelle campagne li ritrovi fianco a fianco ai giovani africani richiedenti asilo, che hanno aspettative infime e non si lamentano. Una coabitazione al ribasso. Il fine è infatti sempre lo stesso: pagarli sempre meno. I richiedenti asilo accettano salari da fame perché nei centri di accoglienza straordinaria che li ospitano (dove dovrebbero essere tutelati, inseriti in progetti di formazione e non abbandonati nelle mani del lavoro nero) hanno vitto e alloggio. Gli indiani sanno che così anche le loro condizioni peggioreranno ma non possono ribellarsi pena non lavorare più. “Non ho mai potuto scegliere quando prendermi le ferie. Viene tutto deciso dal padrone. Anche quando posso tornare in India dalla mia famiglia. La mia vita la decide lui”, dice Parwinder mentre da una finestra mostra le serre e i cassoni che domani mattina dovrà riempire di nuovo. Per sopportare il dolore alla schiena, le piaghe ai piedi e resistere alla fatica molti ingoiano semi d’oppio. E a qualcuno non bastano neanche quelli. Harbhajan è seduto a terra, la testa china. Da oltre un’ora tocca il pugnale. È il simbolo religioso per i Sikh. Dovrebbe portarlo sempre con sé, ma il proprietario dell’azienda agricola glielo vieta. Harbhajan ha trent’anni, una moglie e due figli che vivono in India che non riesce più a mantenere. “In quella serra s’è ammazzato Surwinder”, rivela. Era un suo amico. Lavoravano piegati uno accanto all’altro tutti i giorni. Sull’ultima busta paga di Surwinder c’è scritto 164 euro. Surwinder era disperato, ma non si lamentava. Pensava che quella fosse la regola. Solo che non riusciva a vivere. E così un giorno si è impiccato a un tubo innocenti di acciaio inox. Negli ultimi due anni in queste campagne fra cocomeri e zucchine si sono suicidati dieci braccianti. Ribellarsi diventa impossibile e resta la paura che ti fa accettare tutto pur di lavorare. Ore chinati sotto al sole a spargere fertilizzanti e veleni senza guanti e mascherine. Quanto ai corsi di aggiornamento e sulla sicurezza, quelli finanziati dalla Regione e da vari enti, sono obbligatori ma nessuno dentro questa baracca li ha mai frequentati. “Incredible”. Lo ripete sette volte in mezza giornata Urmila Bhoola, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di schiavitù. È arrivata qui in una mattina di sole di metà ottobre, tra turisti pronti a sdraiarsi sulle spiagge vip di Sabaudia per godersi l’ultimo scampolo d’estate. Sudafricana di origini indiane, giudice impegnata nel contrasto alle disuguaglianze e all’apartheid, si commuove quando incontra Balbir. Lui per sei anni ha vissuto in una roulotte, picchiato quotidianamente e obbligato a mangiare gli avanzi del padrone. È il primo indiano ridotto in schiavitù che riesce ad uscire da questa condizione: merito delle denuncia presentata ai Carabinieri di Latina, che gli ha fatto avere il permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Schiavi del XXI secolo a meno di cento chilometri dalla capitale del Paese. Accanto a Balbir c’è un ragazzo di 20 anni. È impaurito e non ha molta voglia di parlare. Riesce solo a dire che ha lavorato per molti mesi in una stalla senza ricevere un euro di retribuzione. Per arrivare qui ha pagato 10 mila euro ad un trafficante indiano e s’è ritrovato schiavo in un’azienda italiana. Per Bhoola “si tratta di una situazione inaccettabile, inserirò le loro storie nella relazione per l’Onu”. L’obiettivo è quello di riconoscere che in un Paese europeo esistono vecchie e nuove forme di schiavitù. E far sì che il governo italiano non riveda la legge sul caporalato, voluta dopo la morte di Paola Clemente, la giovane donne stroncata sui campi pugliesi: una norma potente, che per tutelare la dignità del lavoro prevede di arrestare non solo i caporali ma anche i “padroni” sequestrando i loro beni. Quel che emerge dalla ricognizione delle Nazioni Unite è un’Italia di sfruttati, da Monfalcone a Ragusa, dall’agricoltura all’edilizia. Donne e uomini, italiani e stranieri che hanno bisogno di sopravvivenza e accettano paghe da due-tre euro l’ora, senza alcuna tutela. “Persone che non si possono nemmeno ribellare. Su oltre un centinaio di processi oggi pendenti, quelli iniziati con la denuncia di un lavoratore si contano sulle dita di una mano”, sottolinea Bruno Giordano, magistrato di Cassazione a cui si deve la legge. Con lo sfruttamento si inculca l’omertà. “Come si può chiedere a chi ha bisogno di un pezzo di pane di farsi paladino contro un sistema, denunciando quello che gli apparati dello Stato sanno benissimo?”, chiede. Punto centrale sono i controlli. “C’è un’enorme confusione di competenze amministrative e risorse investigative, con lo spreco di tempi e forze. Si pensi che se una squadra mobile vuole organizzare un blitz in un’azienda agricola, si deve coordinare con l’Asl, con l’Ispettorato Nazionale del Lavoro che a sua volta dovrebbe coordinare i Carabinieri del lavoro, gli ispettori dell’Inps e quelli dell’Inail. E quello che sanno e fanno questi uffici non confluisce in nessun sistema operativo centralizzato”, sottolinea Giordano. Da dieci anni è stato previsto il Sinp (sistema informatico nazionale della prevenzione) che garantirebbe una banca dati sugli illeciti in materia di sicurezza del lavoro, ma non è ancora partito. Il danno di questo lassismo istituzionale non è solo per i lavoratori ma per la collettività. Sfruttare vuol dire evadere i contributi e le assicurazioni, ossia far pagare ancora di più a braccianti e imprenditori in regola. Il governo Renzi ha accorpato tutte le forze in un’unica centrale di azione, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Negli ultimi cinque anni però il numero degli ispettori è crollato di 1.400 unità. Un migliaio in meno sono quelli del lavoro e nello stesso periodo sono diminuiti di ben 20mila gli accertamenti alle aziende. Il ministro Luigi Di Maio ha promesso un concorso straordinario e messo alla guida dell’Ispettorato Leonardo Alestra: nonostante abbia maturato esperienza in una terra difficile come comandante provinciale dei Carabinieri della Calabria il suo non sarà un compito facile. E poi c’è il grande buco nero delle Asl, con numeri degli ispettori dimezzati negli ultimi 10 anni, nonostante siano loro a poter contestare la maggior parte delle violazioni. Alle otto del mattino Parwinder ha già raccolto un cassone di ravanelli insieme a Mohamed che arriva dalla Guinea. Oggi vengono pagati a cottimo: 2,90 euro ogni 150 mazzetti da 15 ravanelli. Gli stessi ravanelli che ritroviamo dopo giorni in un grande supermercato della Capitale: prezzo al pubblico quasi un euro a mazzetto. Una filiera che si arricchisce sui disperati e che sembra non avere fine. Migranti. Sequestrata nave Aquarius, l’Ong Msf indagata per traffico illecito rifiuti di Alessandro Fulloni Corriere della Sera, 20 novembre 2018 Salvini: “Ho fatto bene a bloccare le navi”. Smaltiti illegalmente nei porti italiani, come fosse normale spazzatura urbana, 24mila chili di rifiuti a rischio infettivo mai dichiarati nonostante “numerosi e documentati casi (5.088 su 21.326 sbarcati) di malattie (scabbia, meningite, tubercolosi, Aids e sifilide). Rifiuti pericolosi a rischio infettivo, sanitari e non, scaricati in maniera indifferenziata nei porti italiani come se fossero rifiuti urbani qualunque, non pericolosi. Questo malgrado “numerosi e documentati casi (5.088 su 21.326 migranti sbarcati) di malattie tra cui scabbia, meningite, tubercolosi, Aids e sifilide. Comportamenti non dissimili, almeno secondo le carte giudiziarie, da quelli di certi imprenditori disposti a ogni tipo di “dribbling” pur di risparmiare sui costi dello smaltimento. È l’accusa nei confronti della Ong Medici Senza Frontiere e di due agenti marittimi - 24 gli avvisi di garanzia in totale, leggi l’elenco di chi sono - che ha fatto scattare il sequestro preventivo dell’Aquarius (attualmente nel porto di Marsiglia) e di 460 mila euro. L’indagine di Guardia di Finanza e Polizia, coordinata dalla Procura di Catania, avrebbe accertato uno smaltimento illecito in 44 occasioni per un totale di 24 mila chilogrammi di rifiuti. L’accusa nei confronti di Msf, considerata dagli inquirenti “produttrice” dello smaltimento al centro del traffico illecito, riguarda sia la Aquarius, per il periodo da gennaio 2017 a maggio 2018, sia la Vos Prudence, la nave utilizzata dalla Ong tra marzo 2017 a luglio 2017. Per questo nel registro degli indagati - con l’accusa di “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti” - sono finiti, oltre ad alcuni membri dell’organizzazione, anche il Centro operativo di Amsterdam che gestiva l’Aquarius e il Centro operativo di Bruxelles, che invece ha gestito e finanziato le missioni di soccorso della Vos Prudence. Salvini: “Ho fatto bene a bloccare le navi” - “Ho fatto bene a bloccare le navi delle Ong, ho fermato non solo il traffico di immigrati ma da quanto emerge anche quello di rifiuti. #portichiusi”: lo ha twittato il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, dopo la notizia del sequestro. Sono 24 gli indagati nell’indagine. I soggetti coinvolti, a vario titolo, avrebbero “sistematicamente condiviso, pianificato ed eseguito un progetto di illegale smaltimento di un ingente quantitativo di rifiuti pericolosi a rischio infettivo, sanitari e non, derivanti dalle attività di soccorso dei migranti a bordo della Vos Prudence e dell’Aquarius e conferiti in modo indifferenziato, unitamente ai rifiuti solidi urbani, in occasione di scali tecnici e sbarco dei migranti” in 11 porti: Trapani, Pozzallo, Augusta, Catania e Messina in Sicilia, Vibo Valentia, Reggio Calabria e Corigliano Calabro in Calabria, Napoli e Salerno in Campania, Brindisi in Puglia. Tra i rifiuti scaricati la procura indica “gli indumenti contaminati indossati dagli extracomunitari”, gli scarti alimentari e i rifiuti sanitari infettivi utilizzati a bordo per l’assistenza medica. Concordato “sistematicamente” lo smaltimento illegale dei rifiuti - L’inchiesta degli uomini del comando provinciale di Catania e dello Scico delle Fiamme gialle e di quelli della squadra mobile di Catania e degli “007” dello Sco dlla polizia avrebbe inoltre accertato che i membri di Msf e i due agenti marittimi Francesco Gianino e Giovanni Ivan Romeo concordavano “sistematicamente” lo smaltimento illegale dei rifiuti - 37 volte per l’Aquarius e 7 per la Vos Prudence - “eludendo i rigidi trattamenti imposti dalla loro natura infettiva”. Tra gli indagati, oltre a Gianino, Romeo e i centri operativi di Amsterdam e di Bruxelles di Msf, ci sono il comandante e il primo ufficiale dell’Aquarius, il russo Evgenii Talanin e l’ucraio Oleksandr Yurchenko. A questi si aggiungono 8 membri di Msf: il vice capo missione Italia di Msf Belgio Michele Trainiti, il vice coordinatore nazionale nazionale e addetta all’approvvigionamento della missione Italia di Msf Belgio Cristina Lomi, il liaison Officer di Mas Belgio Marco Ottaviano, i coordinatori del progetto Sar Aquarius di Msf Olanda, Aloys Vimard e Marcella Kraaij, il coordinatore logistico di Aquarius Joachim Tisch, il delegato alla logistica a bordo della nave Martinus Taminiau e il coordinatore del progetto a bordo della nave, l’inglese Nicholas Romaniuk. “Rilevati 5.088 casi sanitari a rischio infettivo” - Nel periodo compreso tra gennaio 2017 e maggio 2018 dalle navi Vos Prudence e Aquarius “non è stata mai dichiarata la presenza di rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo”, si legge nell’ordinanza, anche in presenza di “numerosi e documentati casi di malattie registrate dai vari Uffici di Sanità Marittima siciliani e del Sud-Italia intervenuti al momento dell’arrivo dei migranti nei porti italiani” duranti i quali sono stati “rilevati 5.088 casi sanitari a rischio infettivo (scabbia, meningite, tubercolosi, Aids e sifilide) su 21.326 migranti sbarcati”. “Nessuna traccia dello smaltimento” - Agli atti dell’inchiesta ci sono controlli eseguiti dalla guardia di finanza. Tra questi c’è anche quello dello sbarco di nave Aquarius con a bordo 416 migranti, avvenuto a Catania il 27 novembre del 2017: nel buono di servizio giornalieri dei rifiuti conferiti “nessuna traccia - scrivono Procura e Fiamme gialle - è stata rinvenuta di quelli solidi composti dagli scarti alimentari e di quelli costituiti dagli indumenti dei migranti a rischio contaminazione, nonché di quelli sanitari veri e propri derivanti dall’attività medico-sanitaria prestata a bordo”. A Trapani, il 15 e il 30 aprile 2017, la Procura contesta “dichiarazioni mendaci di “Medici senza frontiere Olanda” attestanti la non presenza tra i rifiuti scaricati di sostanze infettive o contagiose, nonostante i sette casi sospetti di tubercolosi, infezioni urinarie ed ematurie, varicella e scabbia, segnalati dall’ufficio di sanità marittima di Pozzallo (Ragusa)”. Il 10 maggio del 2018, a Catania, dopo lo sbarco di 105 migranti dall’Aquarius, le Fiamme gialle hanno sequestrato il carico di rifiuti appena conferito a un autocarro autocompattatore diretto al deposito della società cooperativa “La Portuale II”. Tra i 15 metri cubi di rifiuti dichiarati dal comandante della nave come rifiuti alimentari e speciali indifferenziati (carta e plastica), erano presenti 2 metri cubi (80 kg) di rifiuti pericolosi a rischio infettivo: indumenti dismessi dai migranti potenzialmente contaminati da virus ed altri agenti patogeni, nonché rifiuti sanitari a rischio infettivo derivanti dall’attività di assistenza medico-sanitaria prestata a bordo alle persone soccorse, come garze intrise di sangue, guanti e mascherine con tracce ematiche. “Una artificiosa comunicazione documentale” - Avveniva tramite “una artificiosa comunicazione documentale” la “declassificazione dei rifiuti a rischio infettivo” da Vos Prudence e Aquarius durante 44 sbarchi effettuati complessivamente dalle due navi dal gennaio 2017 a maggio 2018. Questo, secondo l’accusa, il meccanismo messo in atto: durante la navigazione verso il porto di destinazione si provvedeva alla fornitura di indumenti nuovi e di alimenti ai migranti salvati in mare, producendo quelli che per l’accusa erano dei “rifiuti pericolosi a rischio infettivo”. Quest’ultimi, in fase di certificazione, prima di entrare nel porto, venivano presentati come rifiuti solidi indifferenziati con l’assegnazione di appositi codici che li contraddistinguevano come “non pericolosi”. Al termine delle operazioni di sbarco erano poi conferiti alla società incaricata con la ditta portuale incaricata che, come emerge da foto segnalazioni fatte a Catania, “li compattava in maniera indiscriminata e li portava in discarica per lo smaltimento finale”. Il giro d’affari - Lo scenario dell’indagine ricorda molto quello delle cronache riguardanti le violazioni delle norme ambientali da parte di imprenditori - da Nord a Sud - che fanno di tutto pur di risparmiare, in modo fraudolento, sui costi dello smaltimento. Dalle indagini è emerso che in occasione di tutti gli sbarchi lo smaltimento dei rifiuti era realizzato per il tramite della M.S.A. di Gianino che nei porti diversi da Augusta si avvaleva di propri sub-agenti, senza mai dichiarare la presenza di rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo derivanti dagli scarti degli alimenti e dagli indumenti indossati dai migranti. L’accordo tra Ong e l’agenzia marittima di Gianino consentiva da un lato alle stesse Ong di realizzare notevoli risparmi di spesa per lo smaltimento dei rifiuti pericolosi, dall’altro allo stesso Gianino di offrire un servizio di smaltimento a prezzi concorrenziali grazie al quale triplicava il suo giro d’affari passato dai 45 mila euro del 2014 ai 140 mila euro del 2016. Tailandia. Il calvario di Denis Cavatassi, l’imprenditore italiano condannato a morte di Eugenia Canistro urbanpost.it, 20 novembre 2018 Per un delitto per il quale si è sempre dichiarato innocente. “Mi rendo conto solo ora che il destino possa riservare delle esperienze che vanno oltre ogni immaginazione”. Sono queste alcune delle drammatiche riflessioni trascritte, nero su bianco, da Denis Cavatassi, imprenditore italiano di 50 anni rinchiuso nelle carceri thailandesi per l’accusa di omicidio dell’ex socio, Luciano Butti, abruzzese di origini e ucciso a Pukhet il 15 marzo del 2011. Dopo due gradi di giudizio, il processo è attualmente pendente davanti ai giudici della Corte Suprema: a rappresentare la difesa dell’imprenditore italiano è l’avvocato Alessandra Ballerini (esperta di diritti umani, stesso procuratore della famiglia Regeni e Rocchelli) la quale, unitamente a Romina Cavatassi - sorella dell’imputato - combatte per garantire a Denis un giusto processo. Processo Cavatassi - Butti veniva ucciso da tre colpi di pistola mentre si trovava a Pukhet per la propria causa di separazione coniugale: i sicari lo stavano aspettando. All’omicidio segue l’arresto di tre sospettati tra i cui un cameriere dipendente del ristorante di proprietà di Cavatassi e l’imprenditore stesso. Inizia da quel giorno il susseguirsi di vicende giudiziarie profondamente viziate, dalle indagini alla condanna in primo grado che ascrive a Cavatassi la responsabilità dell’omicidio, statuendone la carcerazione. “La sentenza di primo grado era scritta su quattro o cinque pagine” racconta oggi il suo legale. “Questo dimostra quanto approfondite siano state le indagini. Non ci sono riscontri, non viene individuato nessun testimone oculare. Cavatassi è considerato il mandante dell’omicidio, ma il movente non esiste”. L’imprenditore si era recato in Tailandia dopo aver collaborato ad un progetto di volontariato volto allo sviluppo agrario in Nepal, durato sei mesi. Denis decideva, quindi, di fare un viaggio nel sud est asiatico, in occasione del quale conobbe Butti. I due entrano in società: Butti era alla ricerca di soci che lo affiancassero durante la ricostruzione di una piccola guest house che era stata completamente distrutta a seguito dello Tsunami. Denis e il suo compagno di viaggio, Giancarlo, decisero di investire una piccola somma di denaro in questa società con l’idea di dedicarcisi durante i mesi invernali, proseguendo invece, l’attività di agronomo d’estate. Qui conobbe la donna che sarebbe diventata sua moglie e con la quale avrebbe avuto Asia, la sua prima bambina. Cavatassi si è sempre dichiarato innocente. Quando gli viene comunicato l’omicidio, Denis si presenta negli uffici della polizia giudiziaria thailandese, dove viene sentito come soggetto informato sui fatti accaduti dando così il proprio contributo utile alle indagini. La violenta caduta nella macchina della giustizia inizia così: i poliziotti lo arrestano convinti che sia lui il mandante e in quarantotto ore chiudono il caso. Lo accusano di avere ingaggiato il cameriere per organizzare l’agguato a Butti e che come tangente per il delitto fossero stati versati circa 700 euro a mezzo bonifico, sul c/c del cameriere. Tuttavia, Cavatassi giustifica la dazione di denaro come il normale stipendio percepito dal cameriere, con qualche centinaia di euro di anticipo per problemi famigliari del giovane. Il movente, secondo l’accusa, riguarderebbe un credito di circa 200.000 euro (sette/otto milioni di baht) vantato dal Cavatassi nei confronti di Butti: ma Denis ha sempre sostenuto l’insistenza del credito. Arrivati sin qui è assolutamente necessario un intervento delle Autorità nazionali italiane. Quell’omicidio, infatti, pare che Denis non l’abbia mai commesso e le condizioni in cui sta scontando una pena, probabilmente ingiusta, violano qualsiasi forma di diritti umani. Quello thailandese è infatti un carcere dilaniante dove i detenuti vengono stipati in stanze troppo piccole, legati alle caviglie e privati di qualsiasi comunicazione con il mondo esterno. Con tali premesse il nostro 41bis diventa una passeggiata al chiar di luna. La situazione appare ancora più drammatica se a scontare la pena rischia di essere un innocente. E qui torna utile una riflessione giuridico - sociale. Sarebbe preferibile un sistema incardinato su principi fortemente garantisti, pur rischiando, talvolta, di rallentare la macchina della giustizia e, nella peggiore delle ipotesi, di impedire l’individuazione di un colpevole o un sistema che proceda, in spregio a ogni regola processuale, a decretarne velocemente la colpevolezza ordinandone la carcerazione? Il bilanciamento di opportunità è molto complesso, probabilmente troppo per essere vagliabile. L’unico modo che Cavatassi ha per comunicare con l’esterno è la corrispondenza epistolare. L’uomo scrive, quindi, intense lettere ai propri famigliari, trovando - afferma - conforto e amore nelle risposte, anche se la consapevolezza di essere esposto in prima linea resta ed è angosciante. Entro fine anno la pena capitale potrebbe essere definitiva: la Corte Suprema è chiamata a pronunciarsi in ultima istanza e dopo i tre gradi di giudizio la sentenza diventa inappellabile ed eseguibile. A quel punto per Denis la pena di morte diventerebbe realtà imminente. La cooperazione internazionale diventa una flebile quanto, tuttavia necessaria, esigenza. Negli anni ottanta l’Italia sottoscriveva un accordo con la Tailandia per concedere ai detenuti connazionali, terminato l’iter giudiziario, di scontare la pena nel nostro Paese. Tuttavia, l’Italia non contempla la pena di morte mentre per l’ordinamento giudiziario thailandese è una prassi inflittiva all’ordine del giorno. Dovremmo auspicare una sentenza di assoluzione che decreti l’innocenza di Denis e ne comporti la scarcerazione immediata, differentemente, la pena diverrà definitiva. “In questi mesi di inferno ho acquisito la consapevolezza che l’essere umano è dotato di una forte capacità di sopravvivenza molto forte” scrive Cavatassi in una delle sue missive. “Per non impazzire, mi sono rifugiato nei libri, nella speranza di ricerca di un barlume di calore sociale. L’istinto di autoconservazione ha acuito, però, con il passare del tempo, le mie capacità intellettive, predisponendomi alla sopravvivenza pura. Il pensiero e la voglia di riabbracciare la mia piccola Asia e la mia famiglia in Tailandia e in Italia, i miei amici che non mi hanno mai abbandonato mi danno la forza di andare avanti e la speranza che la giustizia faccia luce sulla mia innocenza. L’amore mi salva e mi dà la forza di andare avanti e non perdere la testa e la speranza”. Cina. Nei suoi libri storie gay, scrittrice condannata a 10 anni di carcere blitzquotidiano.it, 20 novembre 2018 Dieci anni di carcere per aver scritto e pubblicato libri che contenevano anche scene di sesso omosessuale: è la condanna inflitta in Cina ad una scrittrice, identificata sulla stampa solo con il nome di Liu. Il Global Times, tabloid nato da una costola del Quotidiano del Popolo, “voce” del Partito comunista cinese, ha riferito che la sentenza è del 31 ottobre ed è stata pronunciata dal tribunale di Wuhu, nella provincia meridionale di Anhui, da cui la scrittrice è originaria. La donna scriveva i libri con lo pseudonimo “Tianyi”, e ha attirato l’attenzione della polizia con il successo del 2017 del suo romanzo Gongzhan, nel mirino per i “comportamenti sessuali osceni tra uomini” e “atti perversi sessuali, come violazioni e abusi”. Considerando anche altri libri di cui è autrice, la donna è accusata di aver venduto oltre settemila libri con contenuti “sensibili”, classificati come pornografici dalle autorità cinesi, guadagnando circa 150mila yuan complessivi, pari a quasi 19mila euro. La scrittrice ha presentato istanza di appello presso la Corte Intermedia del Popolo di Wuhu, ma la condanna a dieci anni è apparsa eccessiva a molti, tra cui un sessuologo e sociologo citato dal Global Times, Li Yinhe, per il quale “persino una condanna a un anno sarebbe stata troppo”. La severità della sentenza sarebbe imputabile a un’arretrata interpretazione delle leggi risalenti al 1998, molto indietro rispetto ai cambiamenti della società, secondo l’avvocato Deng Xueping. Il fatto che il Global Times ne parli con toni critici è forse la più chiara e nitida conferma. Su Weibo, il Twitter cinese, in molti hanno anche obiettato che una pena così dura non è comminata in Cina neanche a gravi reati a carattere sessuale.