È dal 1841 che va avanti questa storia! di Glauco Giostra* Ristretti Orizzonti, 1 novembre 2018 Tutto iniziò, sembra, con la sciagurata iniziativa di un facoltoso calzolaio di Boston, certo John Augustus, che nel 1841 chiese al giudice di affidargli un miserabile ubriacone, invece di mandarlo in prigione. La Corte accolse la richiesta sospendendo la pena detentiva a condizione che l’interessato lavorasse e rispettasse rigorosamente i doveri impostigli. L’esperimento purtroppo riuscì. L’ubriacone fu recuperato alla società e la certezza della pena (detentiva, s’intende, che è l’unica pena seria) subì il primo esiziale vulnus. Pare che il calzolaio poi prese in carico, con successo, centinaia di persone. La perniciosa idea non tardò ad attraversare l’oceano, prima infettando soprattutto la giustizia penale minorile, poi contagiando l’intera giustizia penale. E quel che è peggio dalla prassi si passò alle legislazioni nazionali e da queste ai documenti internazionali. Ormai il virus della individualizzazione della pena in vista di un recupero sociale del condannato ha contaminato anche alti consessi. La Corte di Strasburgo si è spinta ad affermare che la pena dell’ergastolo viola l’articolo 3 della Corte europea dei diritti dell’uomo (divieto di trattamenti inumani e degradanti) qualora il sistema interno non preveda la possibilità di riesame o di rimessione in libertà dopo un certo periodo di tempo, in generale venticinque anni di reclusione. Di recente, abbiamo dovuto anche leggere in una della nostra Corte costituzionale che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, fosse anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato”, ma che “non può non chiamare in causa - assieme - la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore - e la concreta concessione da parte del giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società”. I cauti avverbi non riescono a nascondere l’ennesimo durissimo attacco, con il pretesto di attuare l’art. 27 comma 3 Cost., al principio della certezza della pena. Anche a voler concedere che il progressivo reinserimento del condannato meritevole nella società comporti vantaggi in termini di drastica riduzione della recidiva e di cospicue economie di scala, non si dovrebbe rinunciare al nobile principio giuridico “chi sbaglia, paga” (con il carcere, beninteso, perché le sanzioni alternative non soddisfano adeguatamente l’esigenza punitiva avvertita dal popolo). Come non bastasse, stava per tagliare il traguardo un progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario, che estendeva il ricorso a modalità di espiazione non detentiva della pena. È vero che si trattava di modalità molto più impegnative e responsabilizzanti per il condannato di quelle attualmente previste, ma pur sempre di deroghe al principio della rigida fissità della pena. Per fortuna, l’ignavia della precedente maggioranza e la lucida determinazione dell’attuale hanno scongiurato il pericolo. Finalmente si è avuto il coraggio politico - sì, coraggio, giacché la tesi è inspiegabilmente isolata nel mondo occidentale - di affermare che la parte relativa alla misure alternative andava espunta dalla riforma per garantire la certezza della pena detentiva. L’auspicio ora è che, coerentemente, si bonifichi il sistema da tutte le analoghe misure che sin dal 1975, con la scusa del recupero sociale del reo, hanno introdotto la possibilità di mutare le modalità e la durata di esecuzione della pena. Certo, abolendo le misure alternative al carcere la popolazione penitenziaria sarebbe destinata quasi a raddoppiare, ma il rimedio è semplice: basterà costruire nuove carceri. Siamo poi ben consapevoli che ripristinare una pena detentiva che resti del tutto indifferente allo sforzo di riabilitazione sociale compiuto dal condannato sarebbe operazione non priva di ostacoli anche sul piano giuridico. Di certo, stando alle loro consolidate giurisprudenze, la Corte costituzionale ne dichiarerà l’illegittimità, mentre la Corte di Strasburgo si spingerà a condannare il nostro Paese. Ma sappiamo di poter confidare su taluno dei nostri governanti con le idee chiare: se Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo si dovessero mettere di traverso, sarà sufficiente chiudere una volta per tutte questi “baracconi”. È il cambiamento, bellezza. *Ordinario di Procedura Penale all’Università “La Sapienza” di Roma. È stato Coordinatore Comitato scientifico per gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale L’ultimo tabù di Nicola Galati* Ristretti Orizzonti, 1 novembre 2018 Un incubo mi insegue da qualche mese: la tragica notizia di una morte violenta che conquista le prime pagine dei quotidiani, l’indignazione generale che monta, un personaggio pubblico che invoca la reintroduzione della pena di morte. Il rifiuto della pena capitale è ormai l’ultimo tabù rimasto in piedi del Diritto penale liberale. La presunzione d’innocenza, i diversi gradi di giudizio, il diritto di difesa, la funzione risocializzante della pena, il divieto di reformatio in peius, il principio di legalità, la prescrizione, il divieto di tortura, sono già stati diversamente messi in discussione, concretamente o teoricamente. Una volta che si minano le fondamenta di un ordinamento è inevitabile che prima o poi crolli l’intera struttura. In un momento storico in cui prospera una visione autoritaria e forcaiola della Giustizia, il sospettato è già considerato colpevole, le garanzie della difesa vengono percepite come seccature formali, il diritto dell’individuo soccombe dinanzi al bene della collettività, si invocano pene certe ed esemplari e si fomentano politiche securitarie e carcerocentrice, risulta quasi logico invocare l’esecuzione capitale: la pena più certa ed esemplare che ci sia, che asseconda e placa la sete di giustizia (o vendetta). Perciò non meravigliamoci quando accadrà, manca sempre meno, anzi forse è già successo. Dopo la tragica vicenda della giovane Desirée un uomo di spettacolo (Francesco Facchinetti) ha citato il Ministro Salvini in un tweet in cui ha invocato “pene definitive ed esemplari per questi individui che non meritano di vivere”. Facile che il pensiero corra alla pena di morte, trattandosi di individui che non meritano di vivere. Il Ministro ha risposto con un tweet in cui ha ringraziato per l’attenzione, definendo come semplice buonsenso e non populismo le parole di Facchinetti, promettendo infine che, nonostante in 4 mesi abbiano già fatto cose buone, il meglio deve ancora venire. Si obietterà: Salvini non ha invocato la pena di morte. Vero, forse il mio incubo peggiore non si è ancora realizzato, resta però l’ambiguità di quel tweet che asseconda gli istinti peggiori. Questa è forse la cifra della politica comunicativa degli esponenti dell’attuale maggioranza di Governo: abbattere ogni tabù, assecondare le richieste irrealizzabili degli elettori con dichiarazioni social, sapendo benissimo di non poterle poi realizzare, solo per mostrare la vicinanza alle presunte istanze del “popolo”. Una reintroduzione della pena di morte è, ad oggi, altamente improbabile. La pena capitale è stata bandita dal nostro ordinamento ed è esclusa dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sottoscritta dall’Italia (l’inutile baraccone europeo come l’ha definita lo stesso Ministro Salvinia). D’altronde, di pena di morte in passato si parlava solo al bar sport, adesso i social network hanno dato risonanza agli istinti inconfessabili un tempo esclusi dal dibattito pubblico. Basta leggere i commenti alle notizie di cronaca nera: una sfilza di invocazioni della pena di morte e della tortura. Quel che più spaventa non è la remota possibilità che la pena capitale venga reintrodotta nel nostro Paese ma la stessa caduta del tabù, il dato di fatto che nel dibattito pubblico se ne parli. Ancor più preoccupante è che si invochi la pena di morte in un momento storico in cui i reati sono in calo e non vi è alcuna reale emergenza sicurezza, se non quella percepita e fomentata dai media, quando non si è ricorsi a tali rimedi nemmeno durante le fasi più buie della Repubblica. Il vero problema è il boia che si annida in ognuno di noi. P.S. Un consiglio utile per i sovranisti: ricordate che l’Italia è la Patria di Cesare Beccaria. “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio” (Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII). *Avvocato Caro ministro, sono in sciopero della fame per sollecitarle un incontro con il Partito Radicale di Rita Bernardini Il Dubbio, 1 novembre 2018 La lettera di Rita Bernardini al ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Rita Bernardini della presidenza del Partito Radicale, giunta oggi al 16esimo giorno dello sciopero della fame, ha scritto ieri al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per chiedere di essere ricevuta e istaurare un dialogo sulla questione urgente riguardante il sistema penitenziario. Di seguito la lettera. Egregio Ministro Bonafede, sono passati due mesi e mezzo da quando Le rivolsi la richiesta di incontrare una delegazione del Partito Radicale per uno scambio di opinioni sulle questioni più urgenti riguardanti sia l’esecuzione penale che, in generale, l’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Le chiedevo un incontro ravvicinato che, purtroppo, fino ad oggi non ci è stato concesso. In particolare, sul sistema penitenziario, l’analisi che come Partito Radicale facciamo consiste nel suo persistente stato di illegalità in violazione della nostra Costituzione e della Convenzione Europea dei Diritti Umani che, anche grazie alla nostra azione, all’inizio del 2013 portò la Corte Edu a condannare l’Italia per violazione dell’art. 3, cioè per sistematici “trattamenti inumani e degradanti” praticati diffusamente nei nostri istituti penitenziari. Noi siamo convinti che, da allora, nonostante i diversi provvedimenti licenziati dal Parlamento che non hanno avuto caratteristiche di riforma “strutturale”, la situazione permanga nelle violazioni suddette. Naturalmente si può essere di opinioni diverse e Lei stesso, può ritenere che - tutto sommato - la situazione delle nostre carceri e dell’esecuzione penale in generale, sia in un’effettiva condizione di rispetto della normativa. Personalmente, da 15 giorni sono in sciopero della fame proprio per aprire, su questo fronte, un dialogo con le istituzioni e, in particolare, con Lei. Non abbiamo mai praticato il “tanto peggio, tanto meglio” che in un lontano passato ha portato alle rivolte nelle carceri; al contrario - e a partire da quanto ci ha insegnato con la sua vita Marco Pannella - abbiamo sempre coinvolto la comunità penitenziaria, ivi compresi coloro che nelle carceri ci lavorano, in iniziative nonviolente che hanno interessato decine di migliaia di persone. In definitiva, vogliamo, attraverso il dialogo nonviolento, aiutare le istituzioni ad intervenire realizzando ciò di cui sono convinte che, dobbiamo darlo per scontato, non può essere lontano dall’affermazione dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani fondamentali. È per le ragioni suesposte che, dopo due mesi e mezzo, torno a chiederLe di incontrare una delegazione del “Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito”, organizzazione rappresentata, con statuto consultivo, presso il Consiglio economico e sociale (Ecosoc) delle Nazioni Unite. Con i migliori saluti. *Coordinatrice Presidenza Partito Radicale Riforma della prescrizione. Le opposizioni unite: “fermiamo i processi a vita” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 1 novembre 2018 Pd e Fi contro l’emendamento del Guardasigilli. Blitz del Guardasigilli Alfonso Bonafede ieri pomeriggio in Commissione giustizia a Montecitorio. Poco prima che scadessero i termini per presentare gli emendamenti al Ddl “spazza corrotti”, il ministro della Giustizia ha fatto presentare alla relatrice del provvedimento, la grillina Francesca Businarolo, la sua proposta di sospensione dei termini di prescrizione dei reati. Come aveva annunciato il giorno prima in diretta Fb, “il termine della prescrizione rimane sospeso dalla pronuncia della sentenza di primo grado o dal decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o delle irrevocabilità del decreto di condanna”. Un emendamento che, se dovesse essere mai approvato, cambierebbe per sempre il processo penale in Italia. Quella che viene chiamata sospensione è di fatto un “blocco” fino a che la sentenza, di condanna o di assoluzione, non sia divenuta irrevocabile. Queste alcune delle conseguenze. La prima è che l’eventuale condanna definitiva potrebbe essere scontata a moltissimi anni di distanza dalla commissione del reato. Le Corti d’Appello e la Cassazione, poi, non avranno più alcuna necessità di “correre” per definire il procedimento essendo i termini di prescrizioni blindati. Il cittadino innocente, infine, dovrà attendere un tempo indefinito per vedersi riconosciuto tale. Al momento non è dato sapere se il testo sia stato concordato e condiviso da tutte le componenti della maggioranza. Matteo Salvini è di ritorno dal Qatar dove su invito dell’emiro al-Thani ha partecipato in questi giorni alla fiera internazionale degli armamenti di Doha. Al deposito dell’emendamento le opposizioni sono salite subito sulle barricate. Forza Italia ha minacciato di porre in essere una “sommossa costituzionale”, il Pd si è detto sconcertato e preoccupato per la durata dei processi. L’intenzione del ministro, afferma Francesco Paolo Sisto di Fi, è “terrificante”. “Siamo di fronte alla fine delle garanzie processuali e chiediamo con forza che il vaglio di ammissibilità dell’emendamento sia rigoroso. Basta a questo modo di fare politica mortificando i diritti dei cittadini: autoritarismo e arroganza sono parenti stretti della tirannia”, aggiunge. Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in Commissione Giustizia, spiega che la modifica, se approvata, “sconvolgerebbe il sistema delle garanzie, con l’effetto di allungare senza fine i procedimenti, lasciando i cittadini in balia di processi eterni”. La proposta, insiste l’esponente dem, “sconcerta perché il blitz, che avviene quando in Commissione si è già esaurita l’istruttoria sulla legge anticorruzione, impedisce ogni approfondimento e discussione su un tema tanto delicato. Un oltraggio alle prerogative del Parlamento” che dimostra, sostiene, “una mancanza di sensibilità e di rispetto istituzionale preoccupante e inaccettabile” da parte del Guardasigilli. “Con la strada subdola di un emendamento, il M5S intende introdurre una modifica epocale nelsistema penale: eliminare di fatto la prescrizione, concedendo allo Stato un tempo illimitato per processare un cittadino fa eco Franco Vazio, vicepresidente della Commissione giustizia della Camera. Enrico Costa, deputato di Forza Italia chiede alla Lega di fermare Bonafede “o - avverte - sarà complice dell’omicidio del processo penale”, mentre il compagno di partito Luca Squeri afferma che con la sospensione dei termini della prescrizione “il procedimento giudiziario non è più un percorso per cercare la verità, ma uno strumento persecutorio che si avvale di tempi infiniti”. Giusi Bartolozzi, segretaria forzista della Commissione giustizia della Camera, sottolinea come “vi sarà non il rischio ma la certezza di rimanere condannati a vita dopo la sentenza di primo grado. I rimedi per rendere i processi ragionevolmente brevi, secondo quanto stabilito dalla Costituzione, sono e devono essere diversi: le indagini devono essere limitate nel tempo ed il pm deve rispondere del suo operato”. Sferzante il dem Stefano Ceccanti: “Esiste un articolo della Costituzione, il 111, che garantisce la ragionevole durata dei processi. Capisco che è stato introdotto nel 1999 per cui forse Bonafede può non avere consultato una copia aggiornata. Qualcuno gliela fornisca e quindi soprassieda da una riforma improvvisa della prescrizione che in modo palesemente irragionevole va contro quel preciso vincolo. Il Governo eviti di proporre con emendamenti improvvisi norme incostituzionali da Stato di polizia”. Lo Stato di polizia sul modello sudamericano ritorna anche nel commento di Pierantonio Zanettin (Fi) che chiama poi a raccolta “i garantisti che siedono in Parlamento. Devono alzare la voce contro questa “testuggine romana”, manettara e giustizialista, che non è degna del Paese che ha dato i natali a Cesare Beccaria”. Critiche aspre, infine, dall’Unione delle Camere penali che preannuncia di “adottare tutte le necessarie iniziative, anche le più dure e determinate, per impedire che una riforma di questa portata possa essere anche solo avviata con simili, inaudite modalità, estranee alle più elementari regole di una civile sintassi politica e parlamentare, attesa la sua evidente incongruità e non pertinenza con il testo normativo di riferimento in discussione”. “La prescrizione? Abolita. Così inventano la categoria del giudizio penale eterno” di Errico Novi Il Dubbio, 1 novembre 2018 “Hanno inventato la categoria del processo eterno”. A dirlo, con amara ironia, è Tullio Padovani, uno dei maestri del Diritto penale in Italia. Il professore e avvocato nominato socio dell’Accademia dei Lincei risponde al Dubbio sulla modifica della prescrizione proposta dal guardasigilli Alfonso Bonafede, che prevede di “sospenderla” una volta pronunciata la sentenza di primo grado. “Parlano di sospensione fino al giudicato. Peccato che arrivati al giudicato non ci sia più tempo affinché il decorso della prescrizione possa riprendere. Quindi è un’abolizione. Lo svarione nel testo fa il paio con lo spregio dei principi costituzionali”, nota Padovani. “L’articolo 111 chiede che la legge assicuri la ragionevole durata del processo. Una durata eterna è ragionevole?”. Accuse di voler rendere infinito il giudizio penale arrivano anche dalle opposizioni. Ma il dato per ora è tratto. L’emendamento è stato formalmente depositato da due deputati M5S, sulla carta non è governativo. Il che non scongiura scontri con la Lega. Ride. Non riesce a trattenersi. “Sa, io da un po’ sono stato accolto nell’Accademia dei Lincei. Forse sbagliano. L’Accademia è per gente che studia, pondera e riflette bene prima di esprimersi. Io sono uno che mena le mani”. E invece qui il professor Tullio Padovani, maestro del diritto penale, avvocato e studioso che continua a formare schiere di giuristi alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, ride proprio perché ha capito benissimo. Ha colto la gigantesca irrazionalità dell’ultima “riforma” sulla prescrizione… “La fanno per usarla come slogan. Avrà i suoi effetti non prima di 4 o 5 anni, perché la prescrizione è principio di diritto sostanziale e le novità non potrebbero applicarsi a un reato commesso prima della loro entrata in vigore. Poi la modifica sarà dichiarata incostituzionale, mi pare evidente. Ma intanto si fa baccano. E si allungano i processi in corso”. Perché, professore? Semplice: ci sarà un’ubriacatura generale. Intanto il magistrato saprà che gli basta chiudere il primo grado un minuto prima che scatti la prescrizione. Poi le fasi successive del processo potranno durare anche in eterno. Hanno inventato la categoria del processo eterno. Non posso trattenere il riso perché in questo emendamento c’è anche un aspetto comico. Ma poi certo, ci si rende conto di quanto siano difficili e pericolosi i tempi in cui ci tocca di vivere. Partiamo dall’aspetto comico... Nell’emendamento è scritto che la prescrizione è sospesa. Fino a quando? Scrivono: fino al giudicato. O alla irrevocabilità del decreto di condanna. C’è un dettaglio: a quel punto la prescrizione non può più decorrere. Non c’è più tempo. Che senso ha usare la parola “sospensione”? La sospensione è una parentesi. Qui la parentesi non si chiude. È uno strafalcione che rivela l’atteggiamento davvero approssimativo con cui è stato formulato l’emendamento. Dopodiché mi pare chiaro che sia incostituzionale. Ci spieghi esattamente anche la ragione dell’incostituzionalità. La prescrizione da noi ha due anime. Una obbedisce al principio per cui su un determinato reato, dopo che è trascorso tanto tempo, viene meno l’interesse sociale a realizzare la prevenzione che la legge penale assicura. Si impone il trionfo dell’oblio. L’altra anima è nella necessità di dare seguito a quanto previsto dall’articolo 111: la legge assicura la ragionevole durata del processo. Così il processo invece diventa potenzialmente eterno. Durata eterna vuol dire durata ragionevole? Non credo. Il ministro della Giustizia ha risposto in via preventiva: abbiamo stanziato 500 milioni per assumere magistrati e personale in modo da fronteggiare il maggior carico processuale che deriverà dalla “nuova” prescrizione... Dimentica che ogni legislatura ha la sua disgrazia e che in quella precedente si è materializzata con la riforma Orlando. Lì si è già introdotta una bella franchigia rispetto al bilanciamento fra il trionfo dell’oblio e il cosiddetto rito della memoria che si rinnova negli atti qualificanti del processo. Con quella modifica si è regalato un bonus complessivo di tre anni rispetto al naturale decorso della prescrizione, due anni in particolare previsti per l’appello. Le assunzioni servirebbero per rimediare a tale già criticabile novità. Adesso invece si altera del tutto il sistema. L’allungamento dei tempi sarà inevitabile? Nei processi senza detenuti non c’è la sollecitazione dei termini di custodia cautelare, che si rinnovano fase per fase e mettono fretta: laddove viene meno il timore di finire sui giornali per un imputato di mafia rimesso in libertà, è la prescrizione a sollecitare il ritmo del processo. Ma con l’abolizione dopo il primo grado, l’appello si potrà fare dopo quattro o cinque anni, la Cassazione quando parrà più comodo. Certo, è insensato pensare che la modifica appena presentata passi il vaglio di costituzionalità. Ma intanto l’ubriacatura generale raddoppierà la durata dei procedimenti per i reati successivi all’entrata in vigore della norma. Con un bel po’ di indagati ricattati dall’incubo di restare a vita nelle mani del pm: la prescrizione verrebbe bloccata persino se assolti in primo grado... Certo. Ho sostenuto a suo tempo che il pm non può presentare appello contro sentenze di non colpevolezza. Il povero Pecorella ne trasse spunto per la sua famosa legge, la Consulta presieduta ne dichiarò l’incostituzionalità con una pronuncia molto criticabile. Fatto sta che se un giudice ti riconosce innocente, a seguito di un rito regolare, fuori dai casi di nullità dovuta per esempio a prove assunte in modo illegittimo, nessun altro giudice potrà mai riformare quel giudizio e condannarti oltre ogni ragionevole dubbio. Tanto è vero che nei Paesi civili, e non barbarici, l’appello del pm in caso di assoluzione non esiste. Anziché procedere in quella direzione ne scegliamo una diametralmente opposta ai princìpi di uno Stato liberale di diritto. Si cancella anche la norma della ex Cirielli che non consentiva di far decorrere la prescrizione dal reato più recente di una serie continuata di delitti... Quella riforma fu necessaria dopo che con Vassalli si erano allargate le maglie in modo da poter scorgere la continuazione tra reati anche molto diversi. Quella di Vassalli fu una scelta deflattiva che impose la modifica introdotta con la ex Cirielli. Se con l’emendamento Bonafede tale modifica va a farsi benedire, si consegna al giudice il potere di stabilire se c’è un unico disegno criminoso e quindi se un reato altrimenti già prescritto può ancora essere perseguito. In eterno. Viene di nuovo da ridere. Ma è anche una scorciatoia per non cedere allo spavento. Prescrizione lunga. Quel passo indietro che fa male alla giustizia di Carlo Nordio Il Messaggero, 1 novembre 2018 Quando Churchill, il più anticomunista dei politici britannici, venne in soccorso alla Russia aggredita dalle truppe hitleriane e strinse calorosamente la mano del suo baffuto dittatore, il mondo si stupì di una simile amicizia. Winston rispose che se Hitler avesse invaso l’inferno, avrebbe speso una buona parola per il Diavolo. Ora, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non è certo Hitler, Silvio Berlusconi non è Churchill e Maurizio Martina non è Stalin. Tuttavia il ministro grillino è riuscito nello stesso miracolo: mettere d’accordo forzisti e democratici proprio sulla giustizia, materia dove per anni avevano litigato scambiandosi le accuse più vituperevoli. Parlando davanti ai parenti delle vittime del terremoto del 2002, il volonteroso guardasigilli ha infatti annunciato un emendamento al decreto anticorruzione per sospendere la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Non sappiamo come abbiano reagito i presenti, che, per le ragioni che diremo, avrebbero potuto coprirlo di contumelie; ma sappiamo come hanno reagito il centrodestra e il centrosinistra. La forzista onorevole Bartolozzi l’ha definita “idea scellerata”; il capogruppo del Pd in commissione, onorevole Bazoli, è stato altrettanto duro. Gli avvocati, naturalmente, si sono scatenati. L’Anm si è pronunciata timidamente in modo interlocutorio, riconoscendo comunque l’insufficienza di questa proposta che, in effetti, è incostituzionale, dannosa e irragionevole. Primo. È incostituzionale, perché confligge con l’articolo 111 che afferma il principio della durata ragionevole del processo. Ora, soltanto un ingenuo inesperto può credere che, allungando i tempi di prescrizione si riducano quelli delle indagini e dei dibattimenti. È vero invece il contrario, perché questa lentezza non dipende affatto dai sofismi bizantini dei difensori, ma da ragioni ben più profonde e strutturali, sulle quali il provvedimento non incide: l’insufficienza di risorse, la complessità delle procedure, la proliferazione normativa, l’obbligatorietà dell’azione penale ecc. Mentre invece saranno gli stessi magistrati che, svincolati dagli attuali termini rigorosi, se la prenderanno più comoda. Così, certificando la perversione di accollare all’imputato, ancora presunto innocente, le conseguenze dell’inefficienza del sistema, il citato principio costituzionale, già oggi vulnerato di fatto, lo sarà anche di diritto. E l’intervento della Corte sarà inevitabile. Secondo, e consequenziale. La lunghezza dei processi è, notoriamente, una della cause di sfiducia nella nostra giustizia non solo dei cittadini, ma anche dei mercati; essa si traduce in una perdita pari quasi al due per cento del Pil. Il messaggio che arriva da questa iniziativa va in direzione del tutto opposta a quella auspicata da Draghi e condivisa, a parole, praticamente da tutti. E se un imprenditore straniero avesse ancora qualche proposito di investire in Italia ne sarebbe definitivamente scoraggiato. Terzo. Le vittime. Seguendo il principio della eterogeneità dei fini, ben conosciuto da storici e filosofi, il risultato dell’emendamento sarebbe proprio l’opposto di quello auspicato. Perché la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, rinviando all’eternità la conclusione del processo, danneggerebbe proprio le parti offese, che dovrebbero aspettare la sentenza definitiva per ottenere sia il risarcimento, sia la consolazione morale derivante da un accertamento delle eventuali responsabilità. Concludo. Non sappiamo se la Lega, che ha vinto le elezioni associandosi a una forza garantista, ingoierà questo ennesimo boccone amaro in cambio di altrettanta indulgenza dei soci di governo in tema di sicurezza, legittima difesa e immigrazione. Ma sappiamo che vi è un limite oltre il quale la flessibilità programmatica si converte in voltafaccia indecente, e, per molti elettori, in intollerabile tradimento. Le prime reazioni sembrano abbastanza critiche nei confronti della prospettata riforma, e questo ci conforta. In caso contrario, è possibile che l’alleanza di governo, già sottoposta a pressioni centrifughe, crolli con fragore. Anche perché, se restasse in piedi a queste condizioni, assisterebbe al crollo, ben più grave, dello Stato di Diritto. Decreto sicurezza, in Commissione al Senato via libera nel caos di Carlo Lania Il Manifesto, 1 novembre 2018 Pd e LeU abbandonano i lavori per protesta. “Ci prendono in giro”. Esulta Salvini: “Maggioranza compatta”. Lunedì il testo in aula. “Questo è un vero e proprio circo, non possiamo andare avanti così. Lega e M5S ci prendono in giro”. Il colpo di scena arriva nel pomeriggio, dopo che la maggioranza giallo verde per l’ennesima volta ha convocato e poi rinviato le riunioni delle Commissioni Affari costituzionali e Bilancio del Senato alle quali spetta il compito di esaminare il decreto sicurezza. Anzi spetterebbe, perché a parte chiamare al lavoro i senatori, approvare qualche emendamento del governo (ieri ha avuto il via libera uno che istituisce la lista dei Paesi sicuri per la valutazione delle richieste di asilo) e poi lasciare tutti liberi, da tre giorni di fatto non succede niente. Ufficialmente perché dalla ragioneria non arrivano le relazioni tecniche sugli emendamenti e subemendamenti al testo, ma per le opposizioni il ritardo sarebbe dovuto anche agli scontri ancora in corso all’interno dei grillini tra governativi e dissidenti, e soprattutto tra M5S e Lega. Il risultato, per dirla con le parole del dem Andrea Marcucci, è che “il decreto è in un pantano. Lega e 5 Stelle non sono in grado di andare avanti”. Da qui la decisione di Pd e Leu di abbandonare i lavori delle due commissioni e chiedere alla maggioranza di portare il testo direttamente in aula, senza relatore. “Siamo arrivati a questa decisione dopo aver fatto una dura opposizione di un provvedimento che riteniamo pericoloso, incostituzionale e che è solo una manifesto per la propaganda”, spiega invece la senatrice di Liberi e Uguali Loredana De Petris. Altro che “il decreto procede spedito”, come aveva detto solo due giorni fa Matteo Salvini. Al Senato intorno al provvedimento regna invece il caos, al punto che anche l’assemblea congiunta di senatori e deputati 5 Stelle, convocata per fare chiarezza su tutti i provvedimenti contestati, è stata anch’essa rinviata ancora, e questa volta a data da destinarsi. Segno che l’ipotesi di una tregua, frutto magari di una trattativa tra una delegata dei dissidenti e Luigi Di Maio sull’articolo 12 del testo che riforma il Sistema Sprar, non ha prodotto niente di buono. E anche da qui deriva lo stallo. “Senza le relazioni tecniche non si possono verificare le copertura di spesa degli emendamenti e subemendamenti”, spiega il senatore di Leu Vasco Errani, membro della commissione Bilancio. “Per averle però occorre tempo, se invece tu hai fretta e acceleri fai delle forzature, che senso ha?”. La situazione si sblocca in serata quando, assenti Pd e Leu, arrivano uno dopo l’altro il via libera dalle Commissioni Bilancio e Affari costituzionali. Esulta Salvini: “Nessuna polemica e maggioranza compatta nel nome della sicurezza”, dice il ministro leghista. Lunedì alle 9,30 il decreto sarà nell’aula del Senato dove ad attenderlo troverà almeno 80 richieste di voto segreto, destinate però a essere respinte. La possibilità di un ricorso al voto di fiducia a questo punto è infatti praticamente scontata per timore che possa crescere ulteriormente il malumore tra i grillini. Dei quattro usciti fino a oggi allo scoperto, Elena Fattori e Matteo Mantero sono i più decisi a non fare passi indietro: “Non posso votare un provvedimento illiberale e pericoloso. Il M5S si è appiattito sulla Lega”, ha scritto ieri sera Mantero su Facebook. Più attendisti Gregorio De Falco e Paola Nugnes, intenzionati a vedere se sarà ancora possibile migliorare il testo prima del voto finale. “Il decreto tradisce radicalmente il programma del Movimento. Ora dobbiamo mettere insieme le carte: la valutazione complessiva la faremo alla fine, vediamo in aula”, ha spiegato a sua volta la senatrice napoletana. Dubbi dai quali Salvini è però deciso a non farsi condizionare, pronto se serve anche ad aprire ai voti di FdI e Fi. “La fiducia? Vediamo”, spiega a sera il ministro degli Interni. “Spero sempre di no, ma se vogliono tirare a lungo un mese non abbiamo tempo da perdere”. Un avvertimento che il leghista rivolge alle opposizioni, ma che vale anche per gli alleati a 5 Stelle. Nel market abuse con il doppio binario si può ridurre la sanzione penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2018 Una bussola per orientare il giudice di merito nell’applicazione del doppio binario penale-amministrativo per sanzionare le condotte di market abuse. È quella della Cassazione che, con la sentenza della Quinta sezione penale depositata ieri, la n. 49869, affronta il nodo della disapplicazione delle norme interne dopo i giudizi della Corte Ue della primavera scorsa che avevano invitato l’Italia a un’attenta considerazione del principio del ne bis in idem, adeguando, se necessario, il trattamento punitivo. Ora la Cassazione prende atto dei verdetti europei e chiarisce le modalità dell’accertamento e del relativo ragguaglio tra misure penali e amministrative inflitte da Consob. In un contesto, comunque, nel quale già l’articolo 133 del Codice penale detta le coordinate cui deve attenersi la valutazione del giudice nella determinazione della pena. Nel caso delle manipolazioni del mercato, si assiste a un allargamento delle valutazioni stesse che devono essere, da una parte, estese al trattamento sanzionatorio, da intendere come inclusivo anche della sanzione formalmente amministrativa e, dall’altra parte, devono investire il fatto commesso nei diversi aspetti propri dei due illeciti (quello penale e quello amministrativo sul piano formale ma di fatto “para-penale” per afflittività). E allora la palla sta nel campo del giudice penale che nel caso di incompatibilità del complessivo trattamento sanzionatorio, con la garanzia del ne bis in idem dovrà procedere alla disapplicazione delle norme interne. Come? La sentenza sottolinea che una disapplicazione totale è possibile solo quando la prima sanzione è, da sola, proporzionata al disvalore del fatto con riferimento anche agli interessi generali tipici della disciplina repressiva delle varie condotte di market abuse. Si tratta però, prosegue la Cassazione, di ipotesi che devono tenere conto della “evidenziata estraneità della sanzione irrogata dall’autorità amministrativa al nucleo più incisivo del diritto sanzionatorio rappresentato dal diritto penale”: a dovere essere allora disapplicate rispetto alla misura penale irrevocabile e particolarmente severa potrà essere la misura amministrativa. Nel caso opposto, assai più frequente, tra l’altro, vista la generale maggiore durata del giudizio penale rispetto a quello amministrativo, quando è la sanzione amministrativa inflitta da Consob a essere diventata irrevocabile “la disapplicazione in toto della norma sanzionatoria penale può venire in rilievo in ipotesi del tutto eccezionali, in cui la sanzione amministrativa, evidentemente attestata sui massimi edittali in rapporto a un fatto di gravità, sotto il profilo penale, affatto contenuta, risponda da sola al canone della proporzionalità nelle diverse componenti riconducibili ai 2 illeciti”. Altrimenti la sanzione penale andrà rideterminata ma non cancellata per andare a coincidere con un possibile abbassamento rispetto al minimo del trattamento sanzionatorio edittale previsto dalla disciplina penale per le diverse fattispecie di manipolazione del mercato, tenendo presente però che il Codice penale determina in 15 giorni la misura minima della detenzione che può essere inflitta. E con l’esclusione della multa, per la quale scatterà il meccanismo di compensazione tra misura pecuniaria e detentiva già previsto dal Testo unico della finanza all’articolo 187 terdecies. La Cassazione boccia la riforma del market abuse: agevola elusioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 27564/2018. Una normativa criminogena. Anche se in vigore solo da un mese, la bocciatura della nuova disciplina del market abuse da parte della Cassazione è netta. Con la sentenza 27564 della Sezione tributaria, infatti, la Corte, nella vicenda che ha visto Stefano Ricucci sanzionato sul piano penale (scontò 80 giorni di carcere per market abuse, ma la condanna a tre anni per una pluralità di reati, dopo patteggiamento, venne poi azzerata dall’indulto) sia su quello amministrativo per una serie di condotte manipolative sui titoli di Rcs, non nasconde le “perplessità” sul Dlgs 107 del 2018. In particolare, il decreto ritiene che si può configurare una violazione del divieto di doppia sanzione (ne bis in idem) anche nel caso in cui il soggetto giuridico cui è diretta la pena è non una persona fisica ma una società alla quale è applicata una sanzione per l’illecito amministrativo di market abuse e una per il decreto 231 del 2001 quando dal reato commesso da una persona fisica appartenente al suo organico, la società avuto interesse o tratto un vantaggio. Il nuovo articolo 187 terdecies del Tuf, costituisce una normativa più favorevole rispetto a quanto previsto nel passato, anche recente, nella parte in cui ammette il cumulo tra le sanzioni inflitte alla società e alla persona fisica che la rappresenta nella valutazione di proporzionalità. Una riforma che appare alla Cassazione “confliggente” con i i principi definiti dalla Corte di giustizia europea nella parte in cui permette l’applicazione del principio del ne bis in idem anche nel caso di sanzioni inflitte a soggetti diversi. Una disposizione, inoltre, ed è qui il suo aspetto criminogeno, che “agevolerebbe inoltre condotte elusive con la comminatoria di pene nei confronti di persone fisiche che potrebbero essere adoperate come schermo (cosiddette teste di legno) per salvaguardare il patrimonio di società e viceversa”. Nella comparazione tra sanzioni, sulla quale dovrà esercitarsi di nuovo il giudice di merito, la Cassazione invita, quando, come nel caso di Ricucci, ci si trova a dovere confrontare una condanna penale per diversi reati, a circoscrivere l’accertamento ai soli profili puntivi del reato di manipolazione del mercato. A non dovere pesare saranno poi, raccomanda la Corte elementi come la scelta di patteggiare o la condotta processuale (confessione). Grosseto: detenuto si uccide impiccandosi nella cella di Francesca Gori Il Tirreno, 1 novembre 2018 L’uomo aveva 66 anni e doveva scontare un altro anno di reclusione: non aveva mai dato segnali di sofferenza. Inutili i tentativi di rianimazione. Sul referto firmato dal medico del Misericordia c’è scritto “morte per asfissia da strangolamento” e i tentativi di rianimazione, ripetuti, disperati, andati avanti per decine di minuti nel carcere di via Saffi non sono serviti a salvare la vita a un detenuto originario del Napoletano. Aveva 66 anni ed era in carcere dal 2015, da quando era stato condannato a cinque anni e quattro mesi per una serie di scippi compiuti in città. Era diventato il terrore delle anziane: ne aveva rapinate sette, stando all’indagine della squadra mobile che si concluse con un arresto in flagranza. In carcere però, il sessantaseienne aveva saputo dimostrare a tutti che nella vita si può cambiare e aveva conquistato la fiducia del personale e degli altri detenuti. L’amministrazione carceraria lo faceva lavorare, godeva ogni tanto di qualche permesso. Era gentile con tutti, era un detenuto modello e sapeva che sarebbe uscito tra poco più di un anno. Poi, martedì pomeriggio, la tragedia. Senza dire nulla, senza mai aver manifestato un disagio così forte e così serio da spingerlo a togliersi la vita, il sessantaseienne ha deciso di andarsene per sempre. È stato trovato pochi minuti dopo essersi messo un cappio di fortuna intorno al collo e dal carcere è partito subito l’allarme al 118. Gli agenti della penitenziaria sono intervenuti immediatamente e i sanitari hanno fatto il possibile per strapparlo alla morte. Ma l’uomo è arrivato al Misericordia ormai senza vita e la sua salma è ora all’obitorio, in attesa dell’autopsia che si svolgerà nei prossimi giorni, su disposizione del sostituto procuratore Arianna Ciavattini che sta coordinando le indagini dei carabinieri. Un dramma che riporta con la mente a un altro suicidio avvenuto in una cella in via Saffi due anni fa. Episodi che a Grosseto non sono all’ordine del giorno: in Italia, nell’ultimo anno, i detenuti che si sono tolti la vita sono stati 51. Il Garante delle carceri della Toscana Franco Corleone ha fatto visita spesso alla struttura di Grosseto dove i problemi rilevati sono stati sempre gli stessi: la casa circondariale di Grosseto è troppo piccola, angusta e buia, senza uno spazio comune di dimensioni adeguate. Nonostante queste relazioni però, il lavoro della direttrice Maria Cristina Morrone e degli educatori, insieme a quello degli agenti della penitenziaria è un lavoro che ha ricevuto il plauso della città. Così come quello dei Radicali Maremma che proprio a giugno hanno visitato la struttura. “Abbiamo avuto un’ottima impressione - dice Michele Bottoni dei Radicali Maremma - La valutazione finale è estremamente positiva”. Perugia: Aldo Bianzino, nessuna inchiesta bis sulla morte in carcere Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2018 I pm: “Non ci sono elementi per indagine su omicidio”. La Procura ha chiesto l’archiviazione dopo l’istanza presentata dai legali della famiglia dopo le perizie di due consulenti di parte. Nel 2015 un agente penitenziario era stato condannato per omissione di soccorso. La procura di Perugia non riaprirà l’indagine sulla morte di Aldo Bianzino: i magistrati hanno rigettato la richiesta di svolgere nuovi accertamenti avanzata nel maggio scorso dal figlio Rudra. Il falegname di Vercelli, 44 anni, incensurato, era stato arrestato nel 2007 per il possesso di alcune piantine di cannabis e morto dopo nemmeno 48 ore trascorse nel carcere di Perugia. Le indagini hanno escluso l’omicidio fin dall’inizio, identificando in un aneurisma cerebrale come causa del decesso: nel dicembre 2009 il fascicolo per omicidio a carico di ignoti è stato archiviato, mentre quello per omissione di soccorso ha portato, nel giugno 2015, alla condanna dell’agente penitenziario Gianluca Cantoro a un anno di reclusione (coperto da indulto). Per il sostituto procuratore Giuseppe Petrazzini non ci sono elementi sufficienti per aprire un nuovo procedimento. L’istanza di riapertura delle indagini - avanzata dagli avvocati della famiglia Massimo Zaganelli e Cinzia Corbelli - si basava su due perizie svolte dai consulenti medici Luigi Gaetti e Antonio Scalzo, secondo cui l’emorragia che ha portato il falegname alla morte sarebbe stata dovuta ad un evento traumatico. In particolare, secondo i periti la lesione al fegato di Bianzino sarebbe contemporanea alla morte, e non successiva e causata dalle manovre rianimatorie come stabilito nel provvedimento di archiviazione. Rudra Bianzino, però, ha fatto sapere attraverso l’avvocato Corbelli di non essersi arreso, e di lavorare a “nuovi strumenti giuridici con cui far riaprire il caso”. Lodi: una cella nella scuola, ecco come si vive in carcere di Laura De Benedetti Il Giorno, 1 novembre 2018 Un modo per sperimentare cosa significhi spogliarsi dei propri effetti personali, dal cellulare alla catenina, ed essere rinchiusi 20 ore al giorno con un estraneo dietro le sbarre. “Verrà installata, all’interno di una classe, una cella carceraria per 2 detenuti sul modello di quelle esistenti a San Vittore a Milano di 2 metri x 4 (2,70 di altezza), con bagno, letto a castello, tavolo. Già circa 800 studenti del Volta si sono iscritti per sperimentare dal vivo, anche se per circa 15 minuti a testa, cosa significhi spogliarsi dei propri effetti personali, dal cellulare alla catenina, ed essere rinchiusi 20 ore al giorno con un estraneo dietro le sbarre, sentendo scattare dietro di sé la serratura. Ma stanno aderendo anche altre scuole e nei due sabato mattina l’esperienza sarà aperta agli adulti (prenotazioni a loscarcere.lodi@gmail.com)”. Patrizia Faraoni, docente del Volta e volontaria dell’associazione LosCarcere, spiega il progetto che dall’8 al 20 novembre (ore 9-13) porterà la riproduzione reale della cella di una prigione (costruita da Caritas Ambrosiana) all’interno dell’istituto: “Come LosCarcere, all’interno di Sis.AcT, Sistema di Accoglienza Territoriale che ha lo scopo di sensibilizzare sul tema della condizione carceraria e di favorire il reinserimento di ex detenuti, abbiamo già promosso interventi nelle classi, formato una classe quinta del Vegio, che sarà presente per l’accesso alla cella, dialogato con un carnefice e una vittima. La cella è la conclusione di un percorso: l’obiettivo è far capire, attraverso un’esperienza simulata, che la carcerazione, oggi, non conduce al reinserimento di chi ha commesso reato, come dimostra l’alta percentuale di recidive. Un dato, quest’ultimo, che invece scende ai minimi livelli se il detenuto, pur non restando impunito, sconta la pena con forme alternative più efficaci”. Saranno esposti anche pannelli esplicativi con alcuni dati, come i tassi di suicidio nelle carceri, e una mostra fotografica sulle iscrizioni murarie dei carcerati tra il 700 e l’800. “Il progetto, che rientra nei nostri progetti di cittadinanza attiva e Costituzione, è stato approvato anche dal Consiglio d’istituto - spiega la preside, Luciana Tonarelli: speriamo che i ragazzi riescano a capire cosa significhi perdere la libertà, in quelle condizioni; con un sondaggio conclusivo valuteremo cos’hanno recepito da questa esperienza”. Milano: scarcerato grazie a una lettera di 13 anni fa che nessuno aveva letto di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 1 novembre 2018 Dal 2005 era depositata in una stazione dei carabinieri. Era una condanna definitiva in un caso di violenza su minore. I giudici e le parole del compagno suicida. C’è un uomo che urla dalla tomba. E il suo grido postumo di innocenza, affidato prima di suicidarsi nel 2005 a una lettera in busta sigillata conservata a lungo in una stazione dei carabinieri e mai aperta per 13 anni, ora convince i giudici a precipitarsi a tirar fuori dal carcere un altro uomo, il suo compagno, benché questi stia scontando una condanna definitiva per concorso in violenze sessuali nel 2002 sulla nipotina di 4 anni. E così la Procura generale di Milano, competente sull’esecuzione della pena del detenuto nel carcere di Pavia, riceve dalla II Corte d’Appello di Brescia l’ordine di appunto sospendere immediatamente l’espiazione e liberare il condannato, da subito e fino a quando la Corte non avrà deciso nel merito l’istanza straordinaria presentata dal difensore Guglielmo Gulotta per un giudizio di revisione della condanna definitiva: il presidente Deantoni, la giudice relatrice Milesi e il consigliere Vacchiano, infatti, reputano “che il prudente apprezzamento” della lettera, e della proposta difensiva di nuovi test di neuroscienze oggi ancora controversi ma che 15 anni fa comunque non esistevano, “faccia apparire non infondato il rischio che il condannato protragga l’espiazione di una pena che potrebbe rivelarsi ingiusta”. Andrà dunque ai (molto rari) tempi supplementari questo processo dagli esiti altalenanti, che aveva visto l’imputato assolto in primo grado con rito abbreviato a Busto Arsizio nel 2007 dall’accusa di aver concorso (fotografandole) nelle violenze sessuali, asseritamente commesse nell’autunno 2002 dal suo compagno (poi suicida il 15 luglio 2005) sulla figlia di 4 anni della sorella. In Appello, però, nel 2009 i giudici ribaltarono l’assoluzione in condanna, a sua volta tuttavia annullata nel 2010 dalla Corte di Cassazione con rinvio a un nuovo giudizio di secondo grado. Ma nel 2014 questa Corte d’Appello bis ricondannò l’imputato, e al secondo passaggio in Cassazione nel 2016 anche gli ermellini confermarono la sentenza di colpevolezza, rendendo definitivi 4 anni di condanna (fine pena il Ferragosto 2020). Un’altalena di verdetti tutti ruotanti attorno alle differenti valutazioni dei consulenti tecnici sull’affidabilità scientifica o meno dei ricordi (sotto forma di “brutto sogno”) della bimbetta, visto che per il resto la perquisizione a casa non aveva trovato alcun materiale pedopornografico, e negativo era stato anche l’esito della perizia sulla pellicola inserita nella macchina fotografica sequestrata. Ma il 6 settembre 2017 in una stazione dei carabinieri, quella dove nel 2005 erano finiti gli effetti personali del suicida, uno dei succedutisi avvocati recupera la busta chiusa che fino ad allora nessuno - né i familiari, né i legali, né gli inquirenti - aveva evidentemente voluto acquisire e aprire. Nella lettera datata 3 e 11 luglio 2005 lo zio materno della bimba, prima di uccidersi il 15 luglio, appare prostrato per “l’infamia” che da un lato scrive gli stia rovinando la vita, ma contro la quale dall’altro lato confessa di non avere più la forza di combattere: “Quello che posso dire è che non ho fatto niente di così schifoso. Sono innocente, che mi crediate o no”. E prima di chiedere che “l’avvocato vada fino in fondo”, l’uomo che sta per uccidersi chiede perdono al suo compagno (e coimputato) per un gesto “aberrante” che lo lascerà da solo: “Mi sento in colpa solo verso di lui, che ho tradito, solo per questo”. Benevento: il carcere, il Garante e la storia dei due detenuti ammalati Il Mattino, 1 novembre 2018 Il Garante per i detenuti della Campania Samuele Ciambriello, dopo la visita di ieri nel carcere di Benevento, in una nota, ha sottolineato di aver riscontrato molte criticità sanitarie e carenza di personale. Dopo alcuni colloqui in due sezioni maschili, ha visitato l’infermeria e il reparto femminile nel quale sono presenti 72 detenute di cui 17 sex offender. A contrada Capodimonte ci sono 391 detenuti. “Le troppe lamentele- dice Ciambriello - sulla carenza di visite specialistiche, sul personale sanitario, degli infermieri e un reparto detentivo presso il Rummo, mi portano a concludere che i manager sanitari considerano la sanità penitenziaria come residuale. Benevento è l’unica provincia campana che non ha un presidio dedicato a ospitare anche solo 4 o 5 detenuti in degenza, visite e operazione. Ho visto 2 detenuti: uno malato di tumore e l’altro allettato e in sciopero della fame e di farmaci, che meritano, il secondo di stare in un centro attrezzato e il primo in una struttura esterna”. Al garante segnalate anche “criticità interne” e proteste di detenuti riguardanti questioni sanitarie, i pacchi per i colloqui, le funzioni degli educatori e alcuni provvedimenti disciplinari. “Ho apprezzato il ruolo svolto dalla direttrice Carmen Campi - conclude - recatasi in ogni sezione a discutere coi detenuti che avevano iniziato le proteste. Segnalerò la grave lacuna di personale nella sezione femminile, cosi come solleciterò il sindaco Mastella ad intensificare le corse degli autobus che collegano la città con il carcere”. Ascoli Piceno: il Vescovo Giovanni D’Ercole chiede rispetto per i detenuti di Simone Baroncia korazym.org, 1 novembre 2018 “Il carcere va abolito, in quanto elemento di una società che va ripensata totalmente. Il carcere funziona solo se la società funziona aiutando i deboli: rischiamo altrimenti di caricare su di loro le colpe di tutti… Il carcere è un elemento possibile solo in un mondo in cui giustizia e società sono realtà che funzionano. Non è il nostro caso, per cui chiudiamolo e ripensiamo la giustizia”: queste parole molto forti sono quelle pronunciate dal vescovo di Ascoli Piceno, mons. Giovanni D’Ercole, già cappellano del carcere minorile di Roma, alla casa circondariale di Ascoli Piceno in occasione della seconda tappa del Meeting nazionale dei giornalisti cattolici e non’ sul tema “Giornalismo di Pace - La verità oltre le sbarre”. Quindi per mons. D’Ercole il carcere va ripensato e questo cambiamento è il punto di arrivo di un percorso inserito nel “Dna della giustizia” e che passa per lo sviluppo delle misure alternative che al di là di eventi limitati hanno dimostrato di funzionare. Il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, che dalle pagine del quotidiano della Cei che entra in 7500 copie nelle carceri italiane, prova a fare una informazione diversa, più sensibile senza mai dimenticare però le notizie, ha sottolineato: “Ci sono uomini dietro quelle sbarre che prima di tutto sono persone… La verità oltre le sbarre sta nel fatto che ci sono persone, uomini e donne, e scrivere di loro significa coinvolgere anche i loro familiari all’esterno. Nel nostro paese oltre alla certezza della pena, serve anche una certezza delle regole per tutta la società civile. Non bisogna mai dimenticare che a una verità giudiziaria si abbina la vita delle persone. noi siamo le nostre relazioni, anche se il nostro è un mestiere un po’ cinico non possiamo dimenticarlo. Parlare dentro un carcere non può farci dimenticare che i Italia ancora abbiamo l’ergastolo. In altri Paesi hanno il massimo di pena, ad esempio 22 anni, magari ripetibile. Ma c’è un obiettivo di fine che spinge il detenuto a cercare di cambiare”. Infine hanno portato la loro testimonianza anche tre detenuti, denunciando che “in troppi muoiono per colpa di una giustizia lenta, per i tempi così dilatati che se anche dovessero uscire dal carcere le persone sono già morte e soprattutto restano condannate”. E secondo un’indagine di OpenPolis l’Italia è ultima, tra i grandi paesi europei, nel ricorso alle pene alternative al carcere, nonostante i tentativi del legislatore che negli ultimi anni ha cercato di incentivare ed estendere l’uso delle misure alternative al carcere. Infatti la legge 199 del 2010 ha dato la possibilità di passare alla detenzione domiciliare per coloro che hanno una pena residua inferiore ai 18 mesi. In seguito altre riforme, ultima la legge 67 del 2014, hanno potenziato i lavori di pubblica utilità al posto del carcere, norme che hanno avuto un significativo effetto sul sistema penitenziario italiano, anche se non sono stati sufficienti a colmare il gap con molti altri paesi europei. L’Italia resta ultima tra i grandi paesi europei per utilizzo delle misure alternative. Mentre in Italia la maggioranza dei condannati finisce in carcere (55%), in Germania sono solo il 28%, il 30% in Francia, il 36% in Inghilterra e Galles e il 48% in Spagna. Ed all’interno delle 193 carceri italiane sono detenute 54.000 persone, a fronte di una capienza massima di 50.000 posti. Ogni 100 posti disponibili ci sono attualmente 108 detenuti. La Sicilia è la regione che ospita il maggior numero di carceri (23), mentre la Lombardia è prima per numero di detenuti (quasi 8.000). Due terzi dei 54.000 detenuti sono italiani, mentre i restanti 18.000 sono stranieri, cioè il 33,6%. Per questi ultimi si registra un sensibile calo rispetto al 37% di pochi anni fa, dovuto ai provvedimenti che hanno ridotto la carcerazione per le pene fino a 3 anni, commessi con maggiore frequenza da stranieri. La popolazione carceraria è in stragrande maggioranza maschile (solo il 4,2% è donna). Il paese da cui proviene il maggior numero di detenuti non italiani è il Marocco con 3.085 carcerati, il 17% di quelli stranieri. Seguono Romania (2.825 carcerati, pari al 15,6%), Albania (2.485, 13,7%) e Tunisia (2.009, 11,1%). Sono meno di 1.000 i detenuti provenienti da ciascuno degli altri paesi. I detenuti nati in Italia sono circa 35.000, due terzi del totale. Di questi, la maggioranza proviene dalle regioni del Sud, in particolare quelle dove è più forte la criminalità organizzata. Il 28% è nato in Campania (9.847 persone), il 19,9% in Sicilia (7.011), l’11% in Puglia (3.885) e il 9,7% in Calabria (3.422). Seguono Lombardia (7,4%) e Lazio (6,7%). Sotto la quota del 5% tutte le altre regioni. Le fasce d’età più consistenti sono quelle centrali: 8.394 detenuti hanno tra i 50 e i 59 anni, e altri 8.281 hanno tra i 35 e i 39 anni. La maggioranza dei detenuti, 30.723 su circa 54.000, è accusata o condannata per reati contro il patrimonio, tra cui furti, rapine, frodi e danneggiamenti. I reati contro la persona, come lesioni e omicidi o anche diffamazioni, sono la seconda fattispecie più frequente. Al terzo posto, le violazioni del testo unico sugli stupefacenti. Roma: “Altri sguardi”, il cinema oltre le sbarre di Alessandra Vitali La Repubblica, 1 novembre 2018 I film e gli artisti tornano a Rebibbia. La seconda edizione della rassegna promossa dall’associazione Mètide è in corso in queste settimane, andrà avanti fino alla metà di dicembre. In tutto cinque film in gara e altrettanti appuntamenti con autori e protagonisti, poi la conclusione con un film fuori concorso. Titoli selezionati con un occhio all’intrattenimento ma soprattutto alla capacità di stimolare il dibattito, l’approfondimento di temi legati ai valori della società civile, all’integrazione, alla convivenza anche in situazioni in cui si fanno più evidenti le differenze e le criticità. A ogni proiezione-incontro partecipa una platea allargata a cento detenuti della sezione maschile, 20 fanno parte della giuria, gli altri 80 sono a rotazione. A dar vita alla rassegna l’attrice Ilaria Spada, presidente e cofondatrice dell’associazione con Raffaella Mangini; consulenza scientifica della psicoterapeuta Clementina Montezemolo, a Laura Delli Colli, presidente del Sindacato nazionale giornalisti cinematografici, il compito di selezionare i titoli, coordinare e moderare alcuni incontri. L’organizzazione è affidata a Susanna Maurandi. Un’iniziativa animata da una squadra di donne coraggiose e agguerrite ma la vera anima sono loro, i detenuti, di tutte le età, che partecipano e interagiscono con gli ospiti. E si fanno anche parte attiva nella realizzazione pratica degli incontri: chi si occupa del mixer audio, chi di sistemare il proiettore. La rassegna, spiegano le organizzatrici, “intende trasformare un semplice percorso costruito con la formula di un ‘festival’ cinematografico, sia pure sui generis come può esserlo una rassegna che punti a incidere sulla realtà carceraria, in una sorta di viaggio anche dentro se stessi, in un’esperienza di approfondimento che unisca ed avvicini, nel confronto, creando anche un momento di reciproca comprensione oltre il semplice incontro ravvicinato quotidiano alla quale i ritmi del carcere inevitabilmente obbligano i detenuti. Una riflessione sul reale per chi vive in uno straniamento che allontana del mondo esterno”. Il progetto diventa anche occasione di scambio e conoscenza reciproca, nell’attesa che il film inizi e che lo spazio si popoli con il pubblico. C’è un uomo un po’ in là con gli anni che in cella coltiva peperoncini di cui va molto fiero e ti racconta dello spettacolo messo in scena a settembre, “che peccato che non l’abbiate visto, la sala era piena zeppa, c’erano anche i magistrati. Era sulla rivoluzione sudamericana, io facevo il presidente. Dicono che forse ci portano pure al Teatro Argentina”. Un altro uomo scrive libri e ti mostra un quadernone di pagine fitte, sulla copertina due lettere scritte con un pennarello nero, F. M., “è il titolo, Fabbrica dei matti, cioè qui dentro. È il mio sesto libro, però ho anche una poesia dedicata a Totti, te la leggo, pensi che sia possibile fargliela avere?”. Fuori, proprio davanti all’ingresso del teatro, una targa recita: “In questo luogo i detenuti diretti da Paolo e Vittorio Taviani hanno realizzato il film Cesare deve morire dimostrando, insieme, che la dignità non muore mai e l’arte la illumina”. “È una bella occasione quella di poter parlare con una platea che ha un vissuto molto particolare - ha commentato Paola Cortellesi - e con un pubblico che, in questo momento, non so da quando e per quanto tempo, non può avere il contatto con la vita fuori. Mi fa piacere che il film sia stato uno spunto di divertimento e anche lo stimolo per una riflessione”. Molti i temi affrontati nella discussione seguita al film, dall’integrazione alle criticità di chi vive nelle periferie, dal rapporto fra i genitori e i figli a quello fra i politici e i cittadini. I prossimi titoli in calendario sono Metti la nonna in freezer di Giancarlo Fontana e Giuseppe Stasi, A casa tutti bene di Gabriele Muccino, Io sono Tempesta di Daniele Luchetti, Quanto basta di Francesco Falaschi, infine Made in Italy di Luciano Ligabue, nella giornata conclusiva in cui sarà proclamato il vincitore. Pesaro: la Campagna Nastro Rosa per le detenute della Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 1 novembre 2018 Si rinnova anche per il 2018 l’impegno della L.I.L.T., Lega nazionale per la lotta ai tumori, diretta dal dr Vincenzo Catalano, a favore delle detenute della Casa circondariale di Pesaro. Ogni anno, dal 2008, la dottoressa Giuseppina Catalano entra nell’istituto penitenziario di Villa Fastiggi per effettuare visite senologiche, fare informazione, dare consigli alle detenute, offrire, insomma, assistenza sanitaria ma anche stimoli per una educazione alla salute e al benessere in senso lato. Il 9 e 10 novembre prossimi, nell’ambito della Campagna “Nastro Rosa”, le donne presenti nella sezione femminile della Casa Circondariale di Pesaro potranno beneficiare, per il decimo anno consecutivo, degli interventi di prevenzione del tumore alla mammella a cura della L.I.L.T. Bari: iniziative del Soroptimist International Club per i bambini dei detenuti pugliapositiva.it, 1 novembre 2018 Consentire a dei bambini, come figli di carcerati, di poter vedere un genitore è un diritto che va rispettato soprattutto quando la separazione è forzata contro il volere dei più piccoli. Ma il carcere non è certo un luogo tra i più accoglienti. Per renderlo tale le donne del Soroptimist International Club Bari ha ideato un progetto davvero unico ed a misura di bambino. Nella presala dei colloqui, in questo caso particolare della sezione maschile, i figli dei carcerati non solo potranno abbracciare i loro papà, giocare con loro, ma anche colorare, disegnare, leggere libri, creare vestiti di scena e travestirsi per dar vita al gioco del teatro. L’idea è quella di dar vita ad una iniziativa che sarà dilettevole ed utile allo stesso tempo tutto al fine di rendere meno traumatico il momento della visita ed i controlli, e dare supporti didattici che potranno portare a casa. “Si va in biblioteca”, questo il nome del progetto organizzato dal Soroptimist International Club Bari in sinergia con la Casa Circondariale di Bari e la scrittrice e drammaturga Teresa Petruzzelli, vedrà dunque aprire le porte e soprattutto i cancelli della Casa Circondariale di Bari ai figli dei detenuti attraverso due magiche chiavi: la lettura ed il teatro. Attraverso il gioco, la lettura ed il teatro d’animazione, si punta a creare il clima sereno e giocoso necessari a rendere più a portata di bambino un ambiente estraneo, per consentire l’incontro ed il proseguimento del rapporto intra-familiare, la continuità affettiva e la genitorialità interrotta, oltre che a costruire un rapporto positivo tra famiglie, minori e personale carcerario. Soroptimist donerà al carcere strumenti didattici per i bambini, tra cui anche quelli utili per i due spettacoli, “Bimbe e orco” e “Pietrino”, che saranno rappresentati nella sala visite da Teresa Petruzzelli, regista, scrittrice, drammaturga e attrice impegnata dal 1988 con tutoring e progetti culturali all’interno delle carceri. Il teatro è il contenitore perfetto per superare blocchi emotivi e l’ansia in particolare, la lettura ad alta voce invece rinsalda l’autostima e la percezione del sé oltre a favorire la crescita culturale dei bambini il cui target di età varia dai pochi mesi alla preadolescenza. Per cui queste due chiavi saranno davvero utili per dar vita ad interventi variegati e mirati e la stessa oggettistica abbraccerà competenze e abilità dalla prima infanzia in su. La messa in scena di spettacoli favorirà poi la creazione di un clima armonioso, oltre che creare un ambiente favorevole a predisporre la capacità metacognitive di ciascun partecipante al rituale artistico. Il teatro, la creatività e l’arte, da sempre potenti mediatori della comunicazione e veicoli di resilienza, avranno il compito e l’opportunità di trasformare un contesto doloroso in una finestra aperta dalla quale respirare gioia, serenità e speranza. Con “Si va in Biblioteca” non solo si riuniranno nuclei familiari ma si incentiverà anche la lettura nelle fasce più deboli della popolazione. E non ci si ferma qui. Soroptimist International, associazione mondiale di donne di elevata qualificazione professionale, monitorerà l’andamento delle attività anche per implementarle con percorsi successivi. L’iniziativa è stata presentata dal presidente del Municipio I Micaela Paparella, da Michela Labriola Maria Antonietta Paradiso, rispettivamente past president e attuale presidente del Soroptimist International Club Bari, e dalla la regista, scrittrice, drammaturga e attrice Teresa Petruzzelli, nonché dalla direttrice della Casa circondariale di Bari, Valeria Pirè. Livorno: carcere di Porto Azzurro, il teatro di studenti e detenuti di Licia Baldi Toscana Oggi, 1 novembre 2018 “Bello, commovente”! Incontro Luisella, un’amica della Cooperativa Alta Marea, entusiasta dello spettacolo che venerdì scorso 19 ottobre è stato presentato in carcere a Porto Azzurro dal Laboratorio lì attivo da oltre un quarto di secolo. Sì, davvero bello, commovente intenso e vario. Non un’unica proposta, ma, per dirla in sintesi, più quadri, più tematiche, che tuttavia possono riassumersi in un’unica voce, che parla di condivisione, di armonia, di anelito di pace. La prima parte dello spettacolo è una riproposta di un recital di testimonianze relative alla seconda guerra mondiale, lettere di condannati a morte e poesie di autori del ‘900, come “Veglia” di Ungaretti e “Alle fronde dei salici” di Quasimodo. Buona la lettura, interessante la messinscena, efficace e coinvolgente l’accompagnamento musicale. Si conclude con suoni di morte la prima parte, ed ecco una esplosione di gioventù e di vita: sul palco danzano e con esperta gestualità esprimono la loro forza le ragazze ed i ragazzi del Gruppo teatrale del Liceo Foresi, “Le perle dell’Arcipelago”. Coreografie eleganti, con pause di eloquente silenzio curate dalla prof.ssa Ilaria Chirici, stupefacente per passione e fantasia. Il terzo quadro è una rilettura del racconto “La terra (o il paese) dei ciechi”, di Wells, autore britannico a cavallo fra l’800 e il 900. Tra gli abitanti del paese, tutti non vedenti, giunge per caso Nuñes, interpretato con sensibilità e bravura dal giovane detenuto Valentin, e la storia si snoda attraverso dialoghi intensi e profonde riflessioni. Agli spettatori tutti, in particolare ai numerosi studenti, attenti e rispettosi, un grazie sentito perché non c’è teatro senza pubblico, e l’atteggiamento del pubblico è una componente essenziale del risultato e del successo di uno spettacolo. Questa compagnia teatrale, diretta dalla instancabile e coraggiosa regista Manola Scali, coadiuvata da Bruno Pistocchi, da Daniele e dalla sua musica, dalla splendida attrice livornese Loretta Ronsichi, è nata, si è sviluppata e tuttora opera nella casa di reclusione di Porto Azzurro e coinvolge, oltre ad una ventina di detenuti di diversa provenienza, lingua e cultura, anche persone che vengono dall’esterno, gli amici della Cooperativa Alta Marea, gli studenti piombinesi dell’Istituto “Carducci, Volta, Pacinotti”, bravi e molto applauditi, e i ragazzi del Liceo “Foresi” di Portoferraio, brillanti Perle dell’Arcipelago. Il progetto di teatro in carcere a Porto Azzurro, che rientra nella programmazione dell’Associazione Volontariato Dialogo, è reso possibile grazie alla Direzione dell’Istituto longonese, si avvale della collaborazione con l’Area Educativa e con la Polizia penitenziaria ed è inserito nel più vasto progetto della Regione sia la Toscana, ha ricevuto vari riconoscimenti e si avvia senza stanchezza verso nuovi traguardi. Durante la mattinata, alle classi presenti sono state distribuite copie del libro “Non fare come me”, raccolta di scritti di liceali della sezione carceraria di Porto Azzurro. Presenti i docenti curatori Mariateresa Lisco e Nunzio Marotti che hanno ringraziato quanti hanno contribuito alla diffusione del libro, come, in questo caso, la Tce Telecomunicazioni Elba. Messina: nel Carcere di Gazzi il teatro aperto alla città di Marcella Ruggeri messinaoggi.it, 1 novembre 2018 “Il Piccolo Shakespeare” sperimenta con attori di Emma Dante e si mixa alle scuole. La Casa Circondariale di Gazzi può proporsi come un contenitore o addirittura un volano emozionante di arte che si mescola alla professionalità di attori usciti dalla scuola della straordinaria Emma Dante. La regista ieri ed oggi è stata ospitata con la sua Compagnia Sud Costa Occidentale all’interno del carcere di Messina in uno spazio battezzato “Il Piccolo Shakespeare” per suggellare l’inizio di un percorso fortemente voluto dal Direttore Artistico Daniela Ursino. La responsabile, nonché Presidente di D’aRteventi, ha caldeggiato ed esteso agli alunni di scuola primaria e secondaria di primo grado lo spettacolo “Gli alti e bassi di Biancaneve” che vede i detenuti misurarsi sul palcoscenico con la “Libera Compagnia del Teatro per Sognare”. Il Direttore della struttura penitenziaria Calogero Tessitore ambisce ad un teatro diffuso dentro il Carcere che possa in soldoni essere un teatro per la città, aperto a Compagnie esterne con appuntamento di alto profilo artistico. L’incontro tra la squadra di Emma Dante e quella della Casa Circondariale è stato importante e singolare: una fondata nel 1999 da Emma Dante e quella della Libera Compagnia, nata nel 2017 con il Progetto il Teatro per Sognare, rispecchiano due esperienze eccezionali seppur diverse a confronto. L’input più stimolante per la crescita sociale è che molti studenti di tre diversi istituti (Liceo Minutoli, l’istituto d’arte Basile e l’istituto Alberghiero Antonello) fanno scuola in carcere e stanno frequentando il laboratorio mentre altri allievi hanno respirato l’atmosfera dell’impegno artistico fungendo da spettatori. Le classi di vari plessi scolastici hanno assistito ieri ed oggi alla performance “Gli alti e bassi di Biancaneve” e sono Mazzini, Cristo Re (primaria della Mazzini), Paino-Gravitelli, Vittorini, Spirito Santo, Ignatianum e Savio. A sostenere la Libera Compagnia sono la Caritas Diocesana di Messina Lipari e Santa Lucia del Mela. La realizzazione è collaborata dal Dap Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dalla Casa Circondariale di Gazzi in tutte le sue espressioni e il Tribunale di Sorveglianza. Il Progetto ha dato vita al Teatro “Il Piccolo Shakespeare” inaugurato dal Piccolo Teatro di Milano e ha visto la nascita di una scuola Laboratorio Teatrale Condotta dall Attore e regista Flavio Albanese (formatosi con Giorgio Strehler) con l’aiuto regia Antonio Previti, giovane attore messinese, Pippo Venuto della Compagnia della Fortezza, Francesca Cannavò scenografa e regista e Dino Privitera Tecnico audio-luci. Istat. Le diseguaglianze crescono e bloccano la crescita di Luigi Pandolfi Il Manifesto, 1 novembre 2018 Crescita al palo, consumi fermi, disoccupazione in aumento. Gli ultimi dati Istat su economia e lavoro rimettono sul tavolo le vere emergenze, smontando, di fatto, gran parte della narrazione giallo-verde sulla manovra. Dopo tre anni, il Pil non fa registrare alcuna variazione rispetto al trimestre precedente (solo un +0,8% su base annua), mentre torna a salire il tasso di disoccupazione e cresce il lavoro instabile (184 mila contratti stabili in meno a settembre). Fermo anche il “carrello della spesa” (variazione nulla dei prezzi ad ottobre rispetto al mese precedente), con lieve aumento dell’inflazione su base annua grazie solo ai prezzi dei beni energetici e dei servizi. È il quadro di un’economia stagnante, in affanno, che fa i conti con una questione sociale sempre più allarmante. Eppure, qualcosa è cambiato in questi anni. E non si tratta di un qualcosa di poco conto. Ci eravamo lasciati, prima della crisi, con una cartolina del Belpaese sulla quale campeggiava un profondo squilibrio dei nostri conti con l’estero, ci ritroviamo, oggi, a condividere il podio europeo dei paesi con il più alto surplus commerciale insieme alla Germania e all’Olanda. Quante volte avete sentito parlare di un’Europa tagliata a metà, tra un nord creditore e un sud debitore (paesi Piigs)? Bene, questa fotografia non corrisponde più alla realtà. Nel caso dell’Italia, basta leggere una qualsiasi tabella che descrive la sua “posizione patrimoniale netta sull’estero” (saldo delle attività e passività finanziarie nei confronti di soggetti non residenti) dal 2011 ad oggi. Siamo passati da una situazione debitoria “netta” pari al 20% del prodotto lordo al quasi pareggio (3,4% del Pil nel secondo trimestre del 2018). Numeri eccezionali, che, da un lato, denotano un allineamento del nostro paese agli standard delle economie più forti del continente, dall’altro un progressivo allontanamento dal modello di accumulazione che, per alcuni decenni, ha provato a tenere insieme sviluppo economico e coesione sociale. Un primo indicatore di questa deriva si ricava, facilmente, dall’erosione della quota salari in rapporto al reddito nazionale. Non un fenomeno recentissimo, beninteso, che ha subìto però un’accelerazione significativa nell’ultimo ventennio, con un crollo del tasso di crescita a partire dal 2009, in corrispondenza delle decisioni europee volte a contrastare la cosiddetta “crisi dei debiti sovrani”. Rigore finanziario, deflazione salariale, contenimento del costo del lavoro (la quota salari sul reddito nazionale si è ridotta a poco più del 50%, dal 70% circa che era negli anni settanta), usati come leve per rimodellare le economie europee, accrescendone il potenziale competitivo verso l’esterno. Un’opera di macelleria sociale che ha scaraventato nella povertà milioni di persone. E messo un freno alla stessa economia: export alle stelle che fa il paio con una persistente stagnazione economica. Perché? C’entrano il potere d’acquisto dei lavoratori, la disoccupazione ancora elevata (sempre di più quelli che un lavoro non lo cercano più), la bassa domanda interna, la povertà dilagante, le disuguaglianze. A proposito di quest’ultime, studi recenti dell’Ocse hanno sottolineato che negli untimi vent’anni, in paesi come l’Italia, la crescita economica sarebbe stata di 6-9 punti più alta se non fosse aumentata la disparità tra i redditi. Di fronte alla stima dell’Istat sull’andamento del Pil, il governo ha dichiarato che era “tutto previsto” e che la manovra di bilancio contribuirà ad invertire la tendenza. Che un rallentamento dell’economia, anche per effetto di alcuni fattori internazionali (tutta l’Europa è in frenata), fosse prevedibile, non c’è dubbio. Meno giustificato appare invece l’ottimismo del governo sugli effetti espansivi (e redistributivi) della manovra. Né il taglio a casaccio delle tasse alle imprese (anche alle società di capitali, con annessi incentivi all’assunzione precaria) ed ai professionisti (e il condono per gli evasori), né il falso “reddito di cittadinanza” (rischia di assecondare la dinamica salariale al ribasso), d’altro canto, sono gli strumenti adatti per sanare la piaga della povertà e quella della disuguaglianza, causa principale della bassa crescita. Abbiamo bisogno d’altro. Più salario, più lavoro stabile, più investimenti pubblici, più progressività fiscale, più welfare state (compreso il “reddito di base”). Per questi obiettivi, il deficit stimato dal governo (per l’anno in corso e per i prossimi anni) sarebbe pure poco, ma il “gioco”, almeno, varrebbe la candela. L’Italia dei mercati solidali dove si fa la spesa gratis di Paolo Foschini Corriere della Sera, 1 novembre 2018 Alle porte di Bologna è appena nato l’Emporio dei poveri “Amalio”. Sono oltre 60 gli spazi dove si prende cibo senza pagare. Una realtà basata sulle donazioni contro gli 8 miliardi di sprechi. L’hanno chiamato “Amalio” come Amalio Gruppioni, un signore che in quel paesone di San Lazzaro di Savena appena fuori Bologna - debitore della propria popolarità soprattutto se non del tutto a Francesco Guccini, cantore della sua memorabile Fiera - ci era sempre vissuto e che poco prima di andarsene aveva deciso di lasciare in eredità al Comune un intero castagneto. E così è a lui, in memoria della generosità di Amalio, che il Comune ha deciso di intitolare quest’altro posto in cui “si fa la spesa ma non è un supermercato”, né si usano contanti, né carte di credito né bancomat: e non si tratta della fiera di cui sopra bensì del nuovo Emporio Solidale di San Lazzaro, aperto negli spazi rinnovati e ristrutturati di Casa Bastelli. Luogo “dell’incontro e delle nuove possibilità per chi sta attraversando un momento di difficoltà”. Non è il primo in Italia, anzi: i primi Empori Solidali erano nati a Roma e Prato dieci anni fa, oggi in tutto il Paese sono più di sessanta distribuiti in sedici regioni e impegnano fra tutto oltre duemila volontari. Ma l’apertura di questo emporio ennesimo - il ventunesimo in Emilia Romagna, per essere precisi - è una bella notizia perché è la conferma che il modello continua a essere considerato un valido contributo rispetto alla lotta contro quegli otto miliardi di euro di sprechi domestici buttati ogni anno nell’immondizia come una sberla in faccia al milione e mezzo di famiglie (quattro milioni e mezzo di persone) costrette a fare i conti - secondo l’ultimo rapporto Caritas - con condizioni di “povertà assoluta”. La sostenibilità del progetto Amalio, come quella di quasi tutti gli Empori Solidali, si basa sulle donazioni: “Di beni da parte di imprese, associazioni e cittadini; di tempo da parte dei volontari che contribuiranno materialmente a supportare il nuovo servizio. Con Amalio - ha spiegato il sindaco Isabella Conti nel giorno della presentazione - abbiamo voluto dare una risposta ai tanti cittadini che si trovano per la prima volta a doversi rivolgere all’Amministrazione o ai Servizi sociali per un aiuto: padri e madri di famiglia in temporanea situazione di difficoltà, magari perché hanno perso il lavoro, e fanno fatica a provvedere ai bisogni dei propri figli o familiari, ma anche anziani la cui pensione non basta più per far fronte alle spese quotidiane. Si tratta di una fascia “grigia” che abbiamo il dovere di sostenere con tutti i mezzi possibili, non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale, salvaguardandone la dignità”. Un prezioso contributo alla realizzazione di Amalio è arrivato dalla Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. “Il valore aggiunto del progetto Amalio - ha sottolineato Carlo Monti, presidente di Fondazione Carisbo - è rappresentato dal medesimo approccio adottato per offrire dignità alle persone economicamente svantaggiate: la dignità nel chiedere un aiuto e la discrezione nell’offrirlo si incontrano nell’Emporio, un luogo che diventa raccolta non solo di generi di prima necessità ma anche di speranza e di incontro. Il progressivo ampliamento della rete solidale di cittadini, imprese, enti e associazioni coinvolti, è inoltre l’esempio di quella solidarietà diffusa che la nostra comunità sa esprimere e la base sulla quale costruire politiche di welfare sempre più incisive”. Un’iniziativa che “ha stimolato la partecipazione dei cittadini - ha confermato Giusella Finocchiaro, presidente della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna - dando loro l’opportunità di approfondire temi legati alla sostenibilità in maniera professionale”. Internet è sempre meno libero. E danneggia anche la democrazia di Viviana Mazza Corriere della Sera, 1 novembre 2018 Il nuovo rapporto sulla libertà del web di Freedom House è intitolato “Ascesa dell’autoritarismo digitale”. Otto anni fa “Wired Italia” suggeriva di candidare Internet al premio Nobel per la pace. Oggi l’organizzazione Freedom House intitola il suo ultimo rapporto sulla libertà di Internet “Ascesa dell’autoritarismo digitale”. La conclusione, basata sull’analisi di 65 Paesi diversi (l’87% degli utenti globali), è che Internet è sempre meno libero in tutto il mondo e che la stessa democrazia è danneggiata dal modo in cui viene usato. Mentre la propaganda e la disinformazione avvelenano la sfera digitale, molti governi utilizzano le stesse fake news come scusa per reprimere il dissenso. Mentre i “leak” di dati personali pongono il problema di proteggere le informazioni e la privacy degli utenti, le dittature ma anche le democrazie prendono misure in nome della sicurezza che mettono a rischio la libertà e la privacy. La Cina in particolare sta esportando in 36 Paesi il suo modello di censura tenendo seminari sui new media e fornendo strumenti di controllo. Ma il declino della libertà riguarda anche gli Stati Uniti: il rapporto critica l’abolizione della “net neutrality” che impediva ai service provider di decidere di favorire o meno la fruizione di un certo servizio o di offrire una maggiore velocità di accesso solo a pagamento. Ma dopo l’attacco alla sinagoga di Pittsburgh, un altro aspetto è di tragica attualità: l’uso dei social per diffondere l’odio. L’attentatore frequentava un social popolare tra l’estrema destra, “Gab”, dove si trovano messaggi antisemiti e idee complottiste. Mentre Twitter, Facebook e Reddit cercano di “ripulire” i profili, gli utenti espulsi trovano comunque rifugio in altri angoli oscuri del web come Gab, Discord, 4chan. Migranti. Con il decreto sicurezza a rischio il 60% degli ospiti degli Sprar di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 novembre 2018 I Comuni, Riace in testa, saranno costretti ad abbandonare i progetti di inclusione dei migranti. Saranno esclusi dai futuri percorsi anche coloro che oggi in queste strutture hanno la protezione per motivi umanitari, in tutto il sessanta per cento degli ospiti. Proteste da parte di tutti i comuni che hanno adottato lo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Il motivo è il decreto sicurezza voluto dal ministro Matteo Salvini il quale prevede che i “nuovi” Sprar non avranno né i richiedenti asilo né gli ospiti per motivi umanitari, che andranno nei Centri accoglienza straordinari (Cas), finendo a smantellare il modello di accoglienza diffusa che è sempre stato riconosciuto come un modello virtuoso da portare avanti. In Toscana, ad esempio, 1.850 migranti sono nei centri Sprar, presenti in 29 comuni. Grazie a questo modello negli ultimi tre anni è stato possibile garantire una prospettiva di inclusione e preservare la coesione delle comunità locali. La permanenza nei centri si è accompagnata infatti a progetti di integrazione sociale, sperimentazione di attività volontarie, formazione e integrazione lavorativa, diventate buoni prassi raccolte in un libro bianco. Con il decreto saranno esclusi dai futuri percorsi anche coloro che oggi negli Sprar hanno la protezione per motivi umanitari, in tutto il sessanta per cento degli ospiti. Gli altri rischiano di rimanere a carico dei servizi territoriali. Al massimo due su cinque potranno accedere a progetti di inclusione e all’emancipazione dal sistema di accoglienza. Solo chi è già titolare di protezione internazionale o un minore non accompagnato rimarrà negli Sprar. In Piemonte la preoccupazione è identica. Il presidente Sergio Chiamparino ha raccolto le preoccupazioni dei circa 60 comuni piemontesi oggi coinvolti nei progetti di accoglienza diffusa. L’assessora all’Immigrazione, Monica Cerutti ha denunciato che “con lo smantellamento dell’attuale sistema di accoglienza c’è il rischio che si possano perdere circa 350 posti di lavoro, come ad esempio quelli dei mediatori culturali. Il decreto ridimensionerà i progetti Sprar, gestiti dai comuni, che oggi accolgono circa 1900 migranti, a favore dei Cas, i centri gestiti dalle Prefetture che già oggi accolgono la maggioranza dei richiedenti asilo e rifugiati, 10.000 persone circa”. In Calabria, non solo Riace che purtroppo ha dovuto abbandonare il progetto, diversi comuni della provincia di Catanzaro stanno protestando. Al Quotidiano della Calabria la consigliera regionale Flora Sculco chiede: “A chi conviene abbattere questa importante rete di accoglienza, considerata un’eccellenza in Europa, che vede coinvolti comuni, associazioni e volontariato senza avere pronta una soluzione alternativa?”. E ritiene “un errore clamoroso che peraltro, mentre non ha in sé alcun obiettivo politico né una strategia alternativa, rischia soltanto di avere un impatto dannosissimo sull’economia locale, sui comuni interessati (da Nord a Sud) e sull’occupazione”. Anche in Puglia il Coordinamento degli enti gestori dei 30 Sprar della provincia di Lecce, composto da Philos Multiculturale, Gus Gruppo Umana Solidarietà, Cooperativa Rinascita e Arci Lecce, ha lanciato l’allarme: sono seicento i posti di lavoro a rischio, seicento gli operatori salentini, quasi tutti laureati, che rischiano di restare senza occupazione con lo smantellamento, di fatto, degli Sprar. Secondo i gestori, il ridimensionamento degli Sprar favorirebbe un’accoglienza privata gestita nei grandi centri nei quali non si darebbero servizi ma solo vitto e alloggio e sono considerati vera bomba sociale. Ricordiamo che lo Sprar è un servizio istituito dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, meglio nota come legge Bossi-Fini. A differenza del Cas (Centro di accoglienza straordinaria), la rendicontazione delle spese è molto precisa, ci sono dei criteri fissati e qualsiasi variazione deve essere autorizzata. È tutto controllato, monitorato, blindato. Mentre nei Cas questo tipo di trasparenza non esiste: vince il bando della prefettura e chi presenta la migliore offerta economica. Per le spese basta fare una fattura, come vengono spesi i soldi non è rendicontato. Migranti. I sindaci: “il decreto sicurezza aumenta gli irregolari in strada” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 1 novembre 2018 Anche gli amministratori 5S chiedono la sospensione. Aumentano le espulsioni ma i rimpatri calano. Ventitremila migranti in meno nel circuito dell’accoglienza, 1500 permessi di protezione umanitaria revocati o negati, decine di Cas e Sprar chiusi, 25.000 espulsi. Non sono naturalmente ancora gli effetti del decreto sicurezza entrato in vigore solo da poche settimane ma delle indicazioni e delle direttive del governo gialloverde sì. Ma i numeri del 2018 che certificano l’alleggerimento della “pressione” migratoria in Italia non tranquillizzano affatto i sindaci perché al numero delle espulsioni di migranti irregolari, 25.000, non corrisponde affatto un elevato numero dei rimpatri fermi a quota 4.700, un trend che, nonostante i quotidiani annunci di Salvini, si conferma persino in diminuzione rispetto al governo Gentiloni. E dunque i numeri, forniti a Repubblica dal Viminale, confermano i timori della vigilia: e cioè che la stretta sui permessi e sull’accoglienza ha come primo effetto l’aumento dei clandestini sul territorio italiano. “Lo avevamo detto e lo ripetiamo - dice Matteo Buffoni, sindaco di Prato che per l’Anci segue l’iter del decreto Salvini - la sicurezza delle nostre città è sempre più a rischio perché le migliaia di persone buttate fuori dal circuito dell’accoglienza diffusa non lasciano affatto l’Italia ma vanno ad alimentare quello della marginalità e della manovalanza criminale”. Per questo sindaci di ogni colore politico, compresi centrodestra e M5S, sono uniti nel chiedere al governo la sospensione degli effetti del decreto o la modifica in Parlamento. L’ultimo appello è quello lanciato ieri dal comune di Padova, con una lettera al premier Conte in cui si chiede lo stop alla legge e un confronto con l’Anci. A Torino, città governata dai Cinque Stelle, anche i consiglieri del M5S, facendo infuriare i leghisti, hanno firmato la mozione del centrosinistra che chiede di sospendere gli effetti del decreto e di valutare con tutti i comuni “le ricadute concrete in termini economici, sociali e sulla sicurezza”. Solo in Piemonte la metà dei 10.000 ospiti dei centri di accoglienza (che hanno la protezione umanitaria) rischiano di finire in strada nei prossimi mesi, così come 200 minori non accompagnati al compimento del diciottesimo anno d’età. “È una grande ipocrisia, si passa sulla testa dei sindaci - dice Buffoni - le città italiane non reggeranno questi effetti devastanti. Io per primo, quando Salvini ha annunciato l’aumento dei rimpatri ero favorevole, ma qui è un disastro, li abbiamo tutti in strada. Forse c’è qualcuno a cui fa comodo questa percezione di grave insicurezza nelle nostre città”. E d’altra parte non potrebbe essere diversamente visto che di nuovi accordi con i paesi di provenienza dei migranti da rimpatriare in quasi cinque mesi di governo gialloverde non ne è stato fatto neanche uno. E persino la Tunisia (con cui l’accordo c’è e da cui proviene la maggior parte dei migranti sbarcati quest’anno) ha detto no ad un aumento delle persone da poter rispedire indietro ogni settimana. Ma a mettere i sindaci sul piede di guerra c’è anche la continua chiusura di piccoli centri di accoglienza e di molti Sprar con i migranti spostati in centri di accoglienza più grandi o nei Cara che tornano a riempirsi oltremisura creando situazioni di grosso rischio. Vedi Cona, ad esempio, il centro in provincia di Venezia già teatro di diverse proteste che il governo si era impegnato a svuotare. E invece, dopo la chiusura di altri piccoli Cas, a Cona ci sono più di 700 ospiti e il sindaco Alberto Panfilio protesta e attacca la Lega. “Hanno usato l’accoglienza sul territorio per i loro comodi. Salvini ha detto che si procederà allo spostamento dei migranti ma intanto qua continuano a mandare gente”. “Il governo - dice Antonio De Caro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci - ha scelto di smantellare un modello, quello dell’accoglienza diffusa, che funziona perfettamente e di tornare a saturare quelle che abbiamo già sperimentato come bombe sociali”. Migranti. Quella libertà limitata tra decreto sicurezza e legittima difesa di Ezio Menzione Il Dubbio, 1 novembre 2018 Mi pare che nessuno abbia ragionato sui parallelismi e le similitudini che vi sono fra le norme (i primi 12 articoli) del decreto sicurezza e la legge che modifica la legittima difesa, già approvata al Senato. La radice è comune. I primi due articoli del decreto sicurezza disciplinano il “trattamento” da infliggere ai migranti, magari richiedenti asilo. Ed è smaccatamente improntato all’ideologia del respingimento, il più possibile celere e sicuro. Il primo vaglio è un iter tutto amministrativo dinnanzi ad apposite Commissioni sotto le direttive del ministero degli Interni, secondo parametri dunque da questo stesso ministero dettati. Solo di fronte a un diniego si va in Tribunale che applica o dovrebbe applicare norme e canoni dettati da convenzioni internazionali o dalla nostra stessa Costituzione, ma la procedura per accedere al Tribunale è una specie di corsa ad ostacoli. Ancora più difficile, ai limiti dell’impossibile è il ricorso in Cassazione. Al rigetto della domanda consegue velocemente il re- spingimento. Così come il respingimento consegue ad una condanna penale, anche non definitiva, per reati anche di modestissima gravità. Per fortuna i nostri Centri di Permanenza (i vecchi Cie) sono - fino ad un certo punto - dei colabrodo e nessuno riesce ad impedire che i migranti scappino. Un vero e proprio “diritto alla fuga” nell’esercizio del quale essi, se non sono già periti durante la traversata nel deserto, nei centri di concentramento libici o sulle carrette del mare o i gommoni, sono certamente più abili di qualunque burocrate ostile nei loro confronti. Respingere, escludere, rimandare indietro è l’ideologia che sta dietro la nuova normativa. Non lasciarsi non si dica invadere, ma nemmeno un poco contaminare: il Paese deve essere tutto conforme, e si deve allontanare anche solo il pericolo che esso risenta di influssi stranieri. L’Italia come rifugio (per gli italiani) su cui nessuno (migrante) possa nemmeno affacciarsi, cinta da un muro (simbolico, ma altrettanto cogente) da non valicare. Una heimat da custodire nella bambagia. Certo, noi sappiamo che questa è un’illusione impraticabile, ma non per questo essa non viene inculcata a forza di tweet, di frasi ad effetto ed anche di leggi. Non sfugge a nessuno come i nuovi modi di vagliare la posizione del migrante o del richiedente asilo mettano al primo posto il valore della sicurezza rispetto ai diritti fondamentali (un tetto sulla testa, una istruzione decente, un pasto caldo, una sanità minima e via enumerando), fino a quello della vita. Che torna in gioco ad ogni respingimento. Lo stesso avviene con la nuova legittima difesa. Non a caso enfaticamente, ma significativamente denominata “diritto a difendersi” in alcuni dei progetti confluiti nella norma varata dal Senato: ed è per ogni giurista evidente il ribaltamento di prospettiva che sta fra l’affermazione di un diritto e la scriminante, causa di giustificazione. Già la legge varata nel 2006 sul punto (e allora Salvini non c’era!) ribaltava ogni canone da sempre abbracciato (anche dal Codice Zanardelli, almeno in parte) che anteponeva il diritto alla vita dell’aggressore rispetto ai beni dell’aggredito. Ora si pretenderebbe di assolutizzare questa prevalenza dei beni con una nuova ideologia: in gioco non ci sarebbero solo i beni dell’aggredito, appunto, ma il suo poter stare quieto e sicuro nella propria abitazione o nel proprio negozio. La tranquillità nella propria cuccia. Nessuno è così stolto oggidì da proporre di lasciare la chiave di casa sulla toppa, come facevano ancora i nostri nonni. Ma da lì a pensare che il proprio domicilio sia un luogo intoccabile, da non contaminare, da difendere con le armi anche rispetto ad un’ombra che si staglia dietro una finestra, ce ne corre e bisogna rifletterci. Il tema è complesso, ma proprio per questo esige che si mantenga quel margine di possibile riflessione e valutazione espresso dal principio di proporzionalità che sempre i giudici debbono applicare: proporzionalità fra i beni in gioco, fra le armi usate: proporzionalità a tutto campo. Qui invece si è stabilito che l’azione penale non debba nemmeno essere iniziata: altro che valutazione di proporzionalità! Si valorizza invece il turbamento che può insorgere nell’aggredito come nuova attenuante, mai riconosciuta, in nessun caso, dal nostro codice. E su questa nuova trovata si raccoglie il consenso e il voto anche dei più stolti del Pd, che così invece di fare muro nell’opposizione, una volta ancora si sfalda. Ironia finale: il gioielliere che ha sparato al ladro potrà usufruire del beneficio delle spese legali sostenute dallo Stato. Il migrante che ha bisogno di essere assistito da un legale in tutto il penoso iter dell’ingresso in Italia non beneficerà più del patrocinio a spese dello Stato. Così si prevede. Certo, se non verrà modificata alla Camera (ma perché dovrebbe esserlo? M5S e Lega hanno un ampio margine di maggioranza alla Camera quanto al Senato), la legge potrà incappare nel giudizio di incostituzionalità. E i magistrati già li vedo ad inalberarsi perché si è voluto diminuire il loro potere, che si esprimeva appunto nel giudizio di proporzionalità e dunque le rimessioni alla Consulta saranno copiose. Ma la Consulta ormai tentenna su ogni cosa. Non resta che nutrire la tragica sicurezza che, se 1, 2, 3 forse molti figli sedicenni che tornano dalla discoteca alle 5 del mattino verranno freddati dal loro padre che, al di là della tenda, e al di là del vetro li ha scambiati per ladri e, contando sull’immunità, ha comprato un revolver nuovo, allora si tornerà a pensare con lucidità alla legittima difesa. Cinismo? Forse sì, ma a questo ci hanno ridotto le recenti scelte governative. Il Pakistan non giustizierà Asia Bibi, l’ira degli islamisti di Emanuele Giordana Il Manifesto, 1 novembre 2018 L’Alta corte annulla la condanna per blasfemia, protestano i gruppi religiosi radicali. Il premier Imran Khan in tv difende i giudici e minaccia reazioni: “Lo Stato va rispettato”. L’assoluzione dal reato e la liberazione di una donna da otto anni nel braccio della morte con l’accusa di blasfemia e ritenuta innocente dall’Alta Corte del Pakistan. La reazione, verbalmente violenta e con manifestazioni di piazza di gruppuscoli islamisti radicali. La presa di posizione forte in difesa della magistratura da parte del neo premier Imran Khan. Sono, in questa sequenza, i tre fatti che hanno ieri connotato una delle giornate più calde che il nuovo esecutivo pakistano si è trovato ad affrontare e che raccontano con quanta difficoltà stia cambiando il Paese dei puri. Il caso è quello di Asia Bibi. Cristiana di 53 anni, madre di cinque figli (che vivono a Londra), era nel braccio della morte dal 2010 accusata di aver commesso blasfemia nel 2009 e condannata in primo grado alla pena capitale, in seguito confermata dall’Alta corte di Lahore. Accusata da due musulmane di aver offeso il profeta, Asia Bibi diventa un caso internazionale che vede impegnati dai gruppi per i diritti umani al Vaticano. Ma anche in Pakistan si discute. Più che animatamente. Gli islamisti più radicali plaudono. Altri si oppongono. Nel 2011 l’ex governatore del Punjab Salman Taseer, che ha preso posizione a sostegno di Bibi, viene ucciso in pieno giorno a Islamabad. E mentre nel 2015 i legali della donna tentano l’ultimo appello alla Corte suprema chiedendo l’abrogazione della condanna, l’assassino di Taseer, Mumtaz Qadri giustiziato nel 2016 per omicidio, diventa il protagonista di un altro caso e di altre proteste. Ieri la sentenza di assoluzione riscalda nuovamente gli animi. La reazione degli islamisti è immediata e diffusa: Islamabad, Peshawar, Karachi, Lahore. Il volano della protesta è il gruppo Tehreek-e-Labbaik Pakistan (Tlp) guidato dal religioso Khadim Hussain Rizvi, uno dei maggiori fautori della morte di Bibi e difensore di Qadri. L’islamista in sedia a rotelle per infiammare la folla sceglie parole forti: dice che i giudici della Corte suprema meritano di essere uccisi. Passa il segno. Con tutto il suo peso politico entra allora in azione senza esitazioni il premier Imran Khan. Accusa “segmenti” della popolazione di usare un linguaggio che viola le più elementari regole della convivenza del Paese e di attaccare ingiustamente la magistratura il cui operato deve sempre essere rispettato. Imran Khan sceglie la tv per difendere i pilastri del diritto con una mossa che non ha molti precedenti in un Paese dove i gruppi islamisti hanno spesso mano libera, tollerati quando non sostenuti più o meno direttamente. L’uomo nuovo della politica pakistana, che si porta dietro l’appellativo di “Taleban Khan” per la sua fedeltà ai principi dell’islam e l’attacco all’ingerenza americana in Afghanistan e nel suo Paese, sembra aver voluto chiarire che con lui le cose cambieranno. E che essere buoni musulmani non significa ignorare le regole dello stato di diritto. Mette in guardia chi tira troppo la corda: se necessario lo Stato reagirà. Lo fa con la mobilitazione delle forze dell’ordine nei luoghi sensibili per prevenire violenze. Il Punjab ha scelto di tenere oggi le scuole chiuse. E per domani ci si aspettano altre manifestazioni. Forse un messaggio televisivo non basterà a calmare le acque. Ma è un segnale importante in un Paese dove, ricorda Al Jazeera, oltre 70 persone sono state uccise in violenze legate ad accuse di blasfemia e dove una corte può ancora comminare la pena di morte per questo reato anche se poi, nell’80% dei casi, l’imputato viene assolto. I condannati sono per ora, com’era per Bibi, nel braccio della morte in attesa che la sentenza venga eseguita.