Carceri, un ciclo si è chiuso di Stefano Anastasia* huffingtonpost.it, 19 novembre 2018 Sono entrati in vigore, la scorsa settimana, i tre decreti sopravvissuti dell’ambizioso progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario auspicato da Andrea Orlando quando era ministro della giustizia dei governi Renzi e Gentiloni, e sembra essersi chiuso definitivamente un ciclo nella storia recente delle carceri italiane. Quella insolita attenzione emersa improvvisamente a seguito delle ripetute condanne da parte della Corte europea dei diritti umani, per le condizioni di sovraffollamento delle carceri, e quindi per i trattamenti degradanti che ne potevano conseguire, è ormai lontana. Solo un gravissimo caso di cronaca, una tragedia fino a ieri sconosciuta in ambiente penitenziario, la sofferenza di una madre rivolta verso i suoi bambini piccolissimi, ha riportato per qualche giorno l’attenzione su quel mondo separato a cui affidiamo la rimozione del male e delle nostre paure. Ma è stata l’attenzione di un momento, non senza qualche morbosa curiosità e reazioni istituzionali sopra le righe. Poi, nel silenzio generale, il Consiglio dei ministri ha chiuso la pratica aperta con gli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal precedente governo, approvando un minimo aggiornamento dell’ordinamento penitenziario ai cambiamenti più rilevanti consumatisi negli ultimi quarant’anni, le norme specifiche per l’esecuzione penale minorile (attese dal 1975!) e nuove norme a sostegno del lavoro penitenziario. Non è questa la sede per un’analisi dettagliata di questi decreti, ma salta agli occhi una mancanza, in cui si sostanzia il principale contributo portato dal nuovo governo all’elaborazione del precedente: la cancellazione di ogni riferimento alle alternative al carcere per gli adulti. Sono stati cancellati tutti gli spiragli che la Commissione presieduta dal professor Giostra aveva individuato per potenziare l’area penale esterna e per superare la centralità che la privazione della libertà ha ancora nel nostro sistema di giustizia penale. Tale era la preoccupazione per simili scelte che, addirittura, sono state cancellate anche quelle specifiche misure mirate alla presa in carico e alla cura all’esterno del carcere delle persone con gravi problemi di salute mentale. Lo scandalo del sovraffollamento sembra dimenticato e, sotto lo slogan della certezza della pena, torna la confusione tra carcere e pena, e già si annunciano nuovi progetti per la realizzazione di altre carceri. Bisogna allora rammentare ai nuovi governanti, ai vecchi opinionisti, al colto e all’inclita, che carcere e pena non sono equivalenti: il carcere è solo una tra le diverse modalità di sanzione penale e di restituzione del debito sociale contratto con la commissione di un reato. Il nostro ordinamento ne conosce già molte altre, diffusesi significativamente nei quarant’anni che ci separano dalla riforma penitenziaria. Migliaia di persone ogni anno pagano il loro debito senza passare dal carcere, e molti che vi sono entrati terminano la loro pena sotto la supervisione degli uffici per l’esecuzione penale esterna. Non sono condannati quelli che tutti i giorni svolgono attività in affidamento in prova al servizio sociale o che non possono uscire di casa a pena di essere condannati per evasione? Non siamo certi che stiano scontando una pena? La pena detentiva è una pena molto costosa e molto pericolosa. Chiunque sia entrato in un carcere sa quanta sofferenza produca quell’isolamento dal mondo e dagli affetti e quali rischi in termini di salute e di effettiva possibilità di reinserimento essa comporti. Per questo essa va limitata a casi eccezionali, dovrebbe essere una extrema ratio, come diceva - primo fra tutti - Carlo Maria Martini, privilegiando misure alternative che possano arricchire la comunità e il condannato attraverso la produzione di benessere sociale e un effettivo reinserimento in attività legali. Purtroppo questa elementare verità continua a essere misconosciuta e occultata e si continua a proporre alla cittadinanza un rimedio che è peggio del male: chiudere tutti i condannati in carcere per un periodo più o meno lungo. Come se il carcere fosse di per sé rieducativo o come se di là i “cattivi” non dovessero più uscire. Invece, per fortuna, la grandissima parte delle persone detenute escono dal carcere e, inevitabilmente, restituiscono alla società quello che la società ha dato loro: solidarietà e legalità, se questo gli è stato garantito dietro le sbarre; rabbia e illegalità se hanno vissuto in condizione di abbandono e di sofferenza. Già da alcuni anni la popolazione detenuta è tornata a crescere, nonostante tutti gli indici di delittuosità ci dicono che non si commettono più reati che prima, nonostante la società italiana non è mai stata così “sicura” e pochi altri contesti nazionali possono godere, nel mondo, della nostra “sicurezza”. Il 31 ottobre scorso in carcere c’erano di nuovo poco meno di sessantamila persone, quasi quanti nel 2006 giustificarono l’adozione di un provvedimento straordinario di clemenza e nel 2013 motivarono la sentenza pilota della Corte europea dei diritti umani. Se la confusione tra certezza della pena e certezza del carcere dovesse continuare, non è difficile prevedere che arriveremo presto a una nuova crisi del sistema. Lasciamo perdere dunque i velleitari progetti di far fronte al sovraffollamento con nuove carceri. In Italia un carcere non si costruisce in meno di venticinque anni: e nel frattempo che si fa? E ammesso che ci siano i soldi per costruirle, ci saranno anche quelli per gestirle? a partire dalla necessaria assunzione di altro personale? Lasciamo perdere, dunque, le battute d’occasione e pensiamo alla realtà, a quelle migliaia di persone costrette a vivere in condizioni disumane in spazi insufficienti e senza adeguata assistenza, educativa, sociale e sanitaria. Perché di questo si tratta: più crescono i detenuti, meno l’amministrazione penitenziaria può offrire loro, e meno possono fare le associazioni di volontariato, le Regioni, gli enti locali e la società civile esterna, le cui risorse, anch’esse sono limitate e non possono farsi carico di una così vasta domanda di giustizia e di sostegno nel reinserimento sociale. Ma, si dice, questo vuole la gente: tenere chiusi in carcere i “criminali”. Ma non è sempre stato così e non è necessario che sia sempre così. La gente chiede quel che gli si offre: se si cerca la via facile del capro espiatorio, sarà facile che questo vorranno, qualcuno da mettere in galera per sentirsi più sicuri, almeno fino a quando non se ne dovrà trovare un altro da mettere sul banco degli imputati. Altrimenti si può scegliere la strada della convivenza, in cui la sofferenza sociale così diffusa fuori dal carcere possa trovare risposte in un altro vocabolario, lontano da quello della colpa e della pena. Un vocabolario fatto di solidarietà, inclusione e crescita comune. Sì, so bene che sembrano indicazioni un po’ astruse, soprattutto in bocca a una persona che, seppure provvisoriamente, risponde di un pretenzioso incarico di garante delle persone private delle libertà in ben due regioni, e che quindi deve quotidianamente trovare risposte alle domande di persone in carne e ossa (uomini e donne detenute, parenti, familiari e amici), ma non sono un inutile divagare. Tutti i giorni noi che rivestiamo incarichi istituzionali a tutela dei diritti dei detenuti, così come le amiche e gli amici impegnati nel volontariato e gli stessi operatori dell’amministrazione penitenziaria e delle altre amministrazioni pubbliche presenti in carcere, dalla sanità all’istruzione, tutti i giorni dobbiamo fare la nostra parte, e ogni minimo risultato raggiunto darà ragione al nostro impegno, ma tutti noi sappiamo che il mare non si svuota con un bicchiere e che quel che di buono potremo fare in carcere dipende direttamente dalla prudenza con cui vi si farà ricorso. Speriamo, dunque, che i nuovi governanti vogliano ascoltare le parole e l’esperienza di chi conosce il mondo del carcere: ne riceverebbero, come da ogni ascolto, più di quanto non dovessero aver dato. *Portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Garante per le Regioni Lazio e Umbria Meno detenzione per i minorenni. Gli effetti del decreto legislativo n. 121/2018 di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 19 novembre 2018 Meno detenzione per gli imputati minorenni a seguito dell’entrata in vigore della riforma dell’ordinamento penitenziario. Il decreto legislativo numero 121 del 2018 introduce le nuove misure penali in comunità a favore dei detenuti minorenni modificando in maniera radicale la precedente normativa relativa all’esecuzione penitenziaria per i minorenni condannati per reati. Se prima infatti dell’entrata in vigore della riforma, avvenuta il 10 novembre scorso, l’esecuzione nei confronti dei detenuti di età inferiore ai 18 anni era integralmente affidata alla detenzione intesa quale ricovero in un istituto penale, per soggetti di minore età l’articolo 2 del decreto legislativo numero 121 del 2018 modifica radicalmente la prospettiva, con la previsione da parte delle normativa di un esecuzione extra muraria e sul territorio diversificabile a seconda del soggetto. Il legislatore, infatti ritiene che tale tipo di esecuzione, sia nei confronti di un detenuto di giovane età molto più efficace di quella tradizionale al fine di un suo recupero, con minori probabilità di recidiva oggi, assai frequente soprattutto tra gli adulti. L’articolo 2 del decreto legislativo numero 121 del 2018 prevede infatti l’introduzione delle misure penali di comunità, quale base per il trattamento del soggetto minore di età condannato, individuandone diverse specie che vengono, cosi a far parte dell’ordinamento e delle quali i detenuti minorenni potranno ad ogni modo fruire sulla base di una decisione del tribunale di sorveglianza competente per l’esecuzione della pena. Esse sono l’affidamento in prova al servizio sociale, l’affidamento in prova con detenzione domiciliare, la detenzione domiciliare, la semilibertà, l’affidamento in prova in casi particolari, tali misure presentano una disciplina particolare e per essa coniata data la loro diversa tipologia applicativa, che vuole che esse siano diversificate a seconda della condizione del reo. L’ordinamento penitenziario nei confronti del minore di età, si modifica radialmente in attuazione di numerose sentenze della Corte costituzionale, nonché agli impegni assunti dall’Italia nei confronti delle istituzioni sovranazionali che avevano evidenziato l’assoluta inadeguatezza del sistema penitenziario nazionale applicabile ai detenuti minorenni ai quali non era garantita nessuna effettiva possibilità di un esecuzione non detentiva per i reati per i quali essi erano stati condannati. Giustizia, ogni anno in fumo 130.000 processi. Cosa fare? di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 19 novembre 2018 Il Presidente del Tribunale di Bologna (ma non è il solo) ha emesso nel 2015 un decreto che nella sostanza dice: “Quando il processo s’incardina, se un reato si prescrive fra un anno e mezzo, fissate la prima udienza a 2 anni, perché tanto il processo non si riuscirà a fare”. Dai dati del ministero della Giustizia la durata media dei processi penali è di circa due anni per il primo grado, dove sono pendenti 1,2 milioni di processi; 3 anni per l’appello (pendenti 270.000), 8 mesi in Cassazione (pendenti 24.262). Ogni anno si prescrivono circa 130.000 processi. Giustizia è fatta con lo stop al primo grado? - Affinché giustizia sia fatta per tutti il ministro della Giustizia ha proposto di fermare il tempo al primo grado di giudizio. In questo modo gli avvocati non avranno più interesse a cercare di salvare il loro cliente esasperando gli aspetti formali della procedura che allungano i tempi. Si va dalla convocazione di decine di testimoni quando ne basterebbero meno, alle eccezioni di nullità. La più frequente: quando un imputato ha due difensori, e la notifica arriva in ritardo a uno dei due, chiedere il rinvio. La fine di questi “abusi del diritto” sarà sufficiente a celebrare quei 130.000 processi in tempi ragionevoli? No, al contrario i tempi si allungheranno, poiché il condannato ha sempre interesse a ricorrere in appello per sperare in una assoluzione, una riduzione di pena, o eventuali modifiche di legge. I magistrati invece, non più sotto pressione, potrebbero prenderla con comodo. Come sveltire la macchina giudiziaria - Molti avvocati e magistrati sembrano essere d’accordo sul fatto che l’eccessiva durata dei processi dipenda dal loro numero, e per ridurli bisognerebbe modificare alcune regole processuali. Oggi per i reati per i quali di fatto non si va in carcere (dall’abuso edilizio alla recidiva per guida senza patente, dall’omissione di soccorso all’oltraggio) si fanno tre gradi di giudizio. La proposta sarebbe quella di mettere filtri severi per evitare l’appello. Oggi nei processi in cui i giudici sono tre, se uno dei giudici va in pensione, viene trasferito o va in maternità, bisogna ricominciare da capo. Prevedere che le prove già assunte siano utilizzabili e che sia il giudice a decidere se rifare solo quelle per cui è effettivamente necessario. Molti processi ricominciano da zero perché in Cassazione si decide che era competente Roma invece di Milano (o viceversa). Prevedere che queste questioni vengano decise prima del processo. Non andare in Cassazione per tutto: oggi è possibile ricorrere anche dopo aver patteggiato. Il patteggiamento invece, che il processo lo evita, andrebbe incentivato, allargandone i margini. Gli errori di notifica pesano sui tempi: basterebbe inviarle solo al difensore nominato. Monitorare il rendimento dei magistrati: negli uffici tutti sanno chi si tira il collo e chi lavora poco. Nessuna riforma ha un costo zero - Infine: la macchina è ingolfata sia per carenza dei Gip sia del personale di cancelleria, su cui gravano mille adempimenti. Dalla pianta organica mancano 9000 amministrativi. In conclusione fermarsi solo al blocco sine die, danneggia tutti: le vittime, gli innocenti, le parti civili che attendono una sentenza che liquidi loro il danno. E pure il condannato: se l’obbiettivo di una pena è la riabilitazione, che senso ha se arriva 15 anni dopo aver commesso il fatto? Dentro le pieghe di una macchina complessa di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 19 novembre 2018 Le prescrizioni sono troppe, ma se guardiamo alle 213.774 del 2004 si sono ridotte del 58%, per poi assestarsi negli ultimi sei anni, il leggera altalena, intorno alle 130.000 l’anno. Resta alta l’incidenza delle prescrizioni sui procedimenti definiti - 9,4% - ma meno del 2004 quando sfiorava il 15%. Non si può dire che sia sempre colpa dei “cavilli” degli avvocati “azzeccagarbugli” (copyright al ministro Bonafede): una ricerca Eurispes del 2010 ha mostrato come, su 100 rinvii, i legittimi impedimenti per avvocato e imputato contassero per il 2,3% e l’1,2%, l’omessa citazione o l’assenza dei testi della difesa solo per lo 0,1% e l’1,2%, le questioni processuali per l’1,9%. Il resto andava sul conto della macchina giudiziaria, tra cui l’11,2% per assenza o omessa citazione dei testi del pubblico ministero e il 5,7% per assenza del giudice. Prima di intervenire sul sistema di garanzie, occorre considerare che dal 58% al 70% delle prescrizioni totali maturano ogni anno in mano ai pm nelle indagini prima del processo. Meridione scassato rispetto al nord efficiente? Occhiali strabici: Torino e Venezia spiccano accanto a Napoli e Roma tra le quattro corti d’appello che da sole totalizzano metà di tutte le prescrizioni, molte sedi del sud figurano tra i 52 Tribunali su 135 dove la prescrizione fulmina il 3% dei processi definiti (la media nazionale è del 7,3%), mentre molte sedi del Nord compaiono fra i 36 tribunali in doppia cifra, e sopra il 20% stanno tanto Reggio Calabria quanto Reggio Emilia. Certo non tutti i magistrati lavorano molto e i dirigenti degli uffici non sono sempre all’altezza del compito, ma la questione è anche un’altra: in tribunale a Bergamo, ad esempio, l’anno scorso i giudici hanno dovuto alzare il piede dall’acceleratore della loro produttività di sentenze (doppia dei già celeri colleghi di Milano) perché le cancellerie, sotto organico del 40%, non erano in grado di reggere i successivi adempimenti. Servirà certamente trovare (entro i 500 milioni annunciati dal Guardasigilli) più soldi per assumere più cancellieri, ma non basta. L’ex ministro Orlando, dopo 20 anni senza concorsi, con 267 milioni ha immesso 4.000 cancellieri: ma più che colmare le carenze di organico, hanno appena arginato i contemporanei pensionamenti di un personale dall’età media molto alta. E con “quota 100” le 3.000 assunzioni promesse da Bonafede non pareggeranno l’esodo del 12-13% di personale amministrativo in potenziale zona pensione. Se dunque si conviene sul bloccare intanto la prescrizione al primo grado, o meglio già al rinvio a giudizio, è cruciale affiancare rimedi compensativi che evitino all’imputato di restare appeso in eterno a un processo, quando l’irragionevole durata non dipenda da sue manovre dilatorie ma da lentezze patologiche della macchina giudiziaria. Magari guardando alla Germania, dove si detrae dalla condanna una quota proporzionale di pena ed è previsto un indennizzo e il pagamento delle spese legali in caso di assoluzione. Orgogliosi del Paese che oggi esporta antimafia con coraggio di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2018 Per almeno centoquarant’anni le “nostre” cosche sono prosperate all’estero, adesso però è davvero l’ora del riscatto. Eva Klose è una signora amabile e severa che si occupa di cose italiane da decenni. La nostra lingua l’ha imparata a Bologna, perfezionandola “in Maremma”. E anche se ormai è in pensione non smette di sostenere le buone cause dell’Italia. Non pensiate però che questa professoressa di Stoccarda sia una mosca bianca nella capitale del Baden Württemberg, che di italiani ha fatto il pieno. È solo la capofila di una generazione di insegnanti che ha scelto di occuparsi delle nostre storie e di quel che nei magazine tedeschi finisce spesso in copertina insieme agli spaghetti: la mafia, neanche a dirlo. Sono 72 le scuole della regione che contano insegnanti di italiano, terza lingua e qualche volta seconda. Professori e professoresse di ruolo o tirocinanti, molte giovani. Circa la metà sono italiani di nascita o di origine. Come Paolo Vetrano, un elegante spilungone che insegna matematica. Suo padre venne a lavorare qui da Caltabellotta, provincia di Agrigento, ai tempi in cui Germania, Svizzera e Belgio erano per il nostro Sud un faticoso Eldorado. Lui è nato nella Foresta nera, e ne ha nostalgia per via dei colori e dei fiumi. Oppure Julia Bruno, appassionata di giornalismo, anche lei con il padre della provincia di Agrigento e che a Stoccarda incontrò l’anima gemella. O Erina Teresa Rigotti, trentina sale e pepe, che progetta senza interruzione cose nuove, mantenendo -perché così è previsto da queste parti - sia l’insegnamento attivo sia l’attività di pianificazione centrale. Erina ha il suo bel gruppo di tirocinanti, come anche Monika Rueß, bionda signora innamorata dell’Italia, attivissima, e che fa da padrona di casa allo Staatliches Seminar fur Didaktik und Lehrerblidung di Stoccarda. È la loro giornata di formazione. Vedendoli insieme così effervescenti si è percorsi da un misto di orgoglio e commozione. Perché da questa città tedesca stanno cercando di partecipare anche loro alla grande sfida in cui l’Italia migliore spende da tempo forze generose, la lotta contro i poteri mafiosi. L’aggiornamento è dedicato esattamente a questo tema. Che loro hanno fatto mettere esplicitamente e obbligatoriamente tra le materie di formazione dal proprio provveditorato agli studi. La parola “mafia” in verità vi era già stata inserita più di v e nt ‘anni fa, subito dopo le stragi. Poi scomparve e riapparve. C’erano diversi italiani a cui la cosa non garbava. Raccontano Eva Klose e Paolo Vetrano che c’erano i contrari, quelli che studiare la mafia rafforza gli stereotipi sugli italiani e rovina la nostra immagine all’estero. Così loro, due anni fa, vollero aggiungere tra le materie di studio anche la parola “antimafia”, altro che stereotipi. Per indicare un giovane pezzo di storia da studiare e di cui andar fieri. Qualcuno ricevette pure delle minacce, da italiani naturalmente. Lo racconta Marina D’Angelo, impegnata nella grande stagione palermitana degli anni 80, quando migliaia di insegnanti si rimboccarono le maniche e gettarono la scuola in una lotta mai affrontata. Ora vogliono sapere che cosa accade nel nostro Paese, che cosa fa l’ateneo di Milano, che cos’è questa università itinerante di cui hanno letto. E svelano che anche loro hanno fatto la scuola itinerante. Nel 2012. Andarono a Cinisi, il paese di Peppino Impastato. Mostrano con orgoglio il programma di allora, una settimana tra maggio e giugno, “Viaggio di studio per docenti d’italiano del Baden-Württemberg”, titolo “La rete della legalità”. Un calendario perfetto. Incontri con colleghi palermitani, scuole e università, magistrati, giornalisti, familiari di vittime. E poi Corleone e l’albero Falcone e via D’Amelio, Brancaccio e Partinico. Libera e Addiopizzo. Il 29 maggio, si legge nel programma, anche la focacceria San Francesco con “panel - le, assaggi di pane con milza, cannolo”. E poi i viaggi di scambio con gli studenti. Eva Klose ha un bellissimo album con le foto scattate in un campo estivo. Decine di ragazze e ragazzi con la maglietta gialla. “Chi li incontrò ci disse che erano più preparati degli italiani”, e vista la serietà del gruppo c’è da crederci. Li passi in rassegna mentre raccontano e ascoltano, o commentano divertiti L’ora legale di Ficarra e Picone, o spiegano di evitare in città i ristoranti di proprietà dei clan calabresi. Rivedi le loro storie, l’Italia lontana ma amatissima, patria morale da aiutare, e pensi che questo Paese che ha esportato mafia per centoquarant’anni ora produce ed esporta il suo contrario. E che è l’unico a farlo. Il reato di “terrorismo di piazza” e la fine della democrazia di Federico Giusti osservatoriorepressione.info, 19 novembre 2018 “L’immigrazione può essere viatico di terrorismo” sono le parole dell’ assessore regionale allo sviluppo economico della Regione Veneto in una cerimonia pubblica di qualche mese fa. E con queste premesse non c’è da meravigliarsi poi se un Consiglio Regionale si fa promotore della modifica del codice penale introducendo, con il plauso di alcuni sindacati di polizia, il reato di terrorismo di piazza. Niente codice identificativo (come accade in molti paesi occidentali) per i reparti celere impiegati nella repressione di piazza ma un pesante reato ipotizzato per i contestatori con parlamentari della destra pronti a fare da gran cassa nelle aule parlamentari per la rapida approvazione della proposta di legge. La lettura della proposta di legge merita attenzione anche sotto l’aspetto del linguaggio: il diritto al dissenso pacifico messo a rischio di delinquenti (così definiti) il cui obiettivo è rovesciare l’ordine costituito e la pacifica convivenza, manifestanti di professione il cui fine è solo quello di destabilizzare l’ordine precostituito rappresentando una minaccia vera e propria per la società. Neppure negli anni settanta, in cui ogni giorno le piazze del paese erano attraversate da manifestazioni e contestazioni anche violente, si era pensato di introdurre il reato di terrorismo di piazza, non che le istituzioni siano state tenere con gli oppositori (torture nelle caserme e nei carceri documentati e consegnati alla storia ma allo stesso tempo rimossi dalla memoria collettiva, uccisione di manifestanti, terrorismo di trato, strategia della tensione) ma nessuno era arrivato a tanto, al punto di criminalizzare il diritto a manifestare. La confinante Francia, paralizzata in queste ore da proteste contro il caro carburante, non si sognerebbe neppure reati del genere, in Italia la deriva securitaria non conosce ormai confini. Chi provoca terrore tra la popolazione e minaccia i civili? Assistiamo ogni giorno a sgomberi forzati di migranti, campi rom, case occupate, presidi e picchetti operai, centinaia di denunciati e decine di arresti, reati pesantissimi previsti dal pacchetto Sicurezza del Ministro Salvini che prevede il carcere per gli organizzatori di queste iniziative. Nei luoghi di lavoro, i codici etici e di comportamento hanno annullato il diritto di critica dei subordinati verso il datore di lavoro, pubblico o privato non fa differenza, la costante minaccia del provvedimento disciplinare, o del licenziamento, ha creato un clima di paura e di rassegnazione, le Riforme giuslavoriste del Governo Renzi hanno favorito il potere padronale sui subordinati, una volta licenziati al massimo potremo ottenere risarcimenti economici di poche mensilità ma senza tornare piu’ nei luoghi di lavoro. Una repressione a tutto campo che colpisce diritti civili e sociali, lavoratori, occupanti di casa e antagonismo sociale ma con una profonda revisione, indispensabile, dei codici del lavoro, civile (perché le richieste di risarcimento sono talvolta una minaccia maggiore di pene detentive) e penale. La premessa del testo, con cui si propone di inserire nel codice penale il reato di terrorismo di piazza, è una veloce ed esaustiva descrizione della realtà secondo l’immaginario fascio leghista, da una parte i difensori dell’ordine costituito e dall’altra i nemici dell’ordine e della convivenza civile. Ben venga il diritto al dissenso se si limita a poche parole (se sbagli un aggettivo scatta la querela e la richiesta di danni) ma se la protesta diventa, organizzata e di piazza, se intende portare avanti le proprie ragioni sarà fin troppo facile scivolare nel reato di terrorismo di piazza. Reati con pene dai 4 agli 8 anni, pene pesanti se confrontate con le condanne inflitte agli uomini in divisa giudicati colpevoli di lesioni e morte ai danni di cittadini, i protagonisti degli abusi in divisa o di reati di tortura, anzi moli di loro hanno fatto carriera. Il potere assoluto dei dominanti che calpestano il diritto al manifestare e anche a difendersi. La lotta contro gli ultimi, iniziata con i daspo urbani e proseguita con le ordinanze securitarie, con gli agenti di Pm dotati di manganelli e taser, è questo il modello sociale della Lega . Vogliamo prenderne allora atto capendo che non possiamo tacere e subire ulteriormente? Cassazione: per i detenuti allergici necessari pasti alternativi horecanews.it, 19 novembre 2018 La Cassazione, accogliendo il ricorso di un detenuto, ha stabilito che in carcere deve essere fornita ai detenuti una dieta varia ed equilibrata che tenga in considerazione eventuali allergie alimentari dei reclusi fornendo loro cibi alternativi ma dello stesso genere. Il quarantaseienne ricorrente, Umberto O. recluso nel carcere di Terni e originario di Torre Annnziata era afflitto da una documentata e certificata allergia al pesce azzurro. L’amministrazione penitenziaria aveva eliminato ogni tipo di pesce dalla sua dieta nonostante il personale sanitario avesse indicato un pesce alternativo al pesce azzurro che doveva essere preparato almeno due volte a settimana. In prima istanza il magistrato aveva dato ragione al detenuto ma il Tribunale di sorveglianza di Perugia aveva sostenuto la tesi della “piena fungibilità della carne con il pesce a fini nutrizionali” e la conseguente assenza di lesione al diritto alla salute. Ora la decisione della Suprema Corte che ha dato ragione definitivamente al reclamo del detenuto tenendo fede l’articolo 9 dell’Ordinamento penitenziario che stabilisce che ai detenuti “sia assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata, tra l’altro, allo stato di salute”. “La particolare dieta di Umberto O., nell’escludere taluni alimenti, ricomprende tipi di pesce assolutamente comuni, notoriamente reperibili sul mercato anche a prezzi economici. A fronte di ciò - rileva la Cassazione - e di una tabella vittuaria che dovesse includere una o più porzioni settimanali di pesce nella dieta, l’Amministrazione dovrebbe dare adeguato conto delle contingenti ragioni, di ordine organizzativo, finanziario, o di altra natura, che le impediscano di adeguarvisi, imponendo il bando totale dell’alimento dai pasti del detenuto”. La Cassazione ha preso le distanze dal giudice di Perugia che aveva stabilito che non ci fossero problemi a sostituire qualsiasi tipo di pesce con sola carne; “agli organici tecnici ed amministrativi a ciò espressamente deputati e stabilire lui stesso ciò che rientri o non rientri nella nozione di alimentazione sana ed equilibrata”. Ora il Tribunale di sorveglianza perugino deve rivalutare il caso “nel rispetto dei principi enunciati”. Responsabilità 231 anche alle società “pubbliche” di Andrea Giordano Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2018 La società pubblica non può delinquere. È questo il principio che sembra, ad una prima lettura, sotteso al Dlgs 231/2001, che, nel sancire che anche gli enti “possono delinquere” esclude lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni costituzionali. Eppure, disegno contrario appare la giurisprudenza penale, che ha aperto all’applicazione del decreto alle società pubbliche. La materia del contendere avrebbe potuto cessare con il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (Dlgs 175/2016). Ma dall’articolo 6 non si evincono coordinate di lettura. Argomenti sistematici si possono, tuttavia, trarre dalla riconduzione al diritto privato, compiuta dal Testo unico, della materia delle società pubbliche. Se queste ultime sono società come tutte le altre, tese allo scopo-mezzo dell’esercizio in comune di un’attività economica, e allo scopo-fine della realizzazione di utili, esonerarle dal decreto 231 comporterebbe ingiustificati sbilanciamenti, forieri di risultati irragionevoli. La ratio preventiva del decreto 231 vale per tutte le società, non potendola natura pubblica comportare differenziati binari. Quanto detto non muta nell’ottica dell’interesse pubblico. L’articolo 1, comma 2- bis della legge 190/2012 (la cosiddetta legge Severino) consacra, infatti, il connubio tra modello 231 e misure anticorruzione, definendo queste ultime integrative del primo. Alla domanda sul se adottare il modello, seguono i quesiti sul come della sua applicazione. Le risposte non si rinvengono nel Testo unico, che, ai tipi societari che descrive, non fa corrispondere regimi normativi differenziati né, tanto meno, filtrate e calibrate applicazioni del modello 231. Eppure, sia dall’articolo i8 della legge 124/2015 (cosiddetta legge Madia), sia dalle determinazioni (n. 8 del 2015 e 1134 del 2017) dell’Anac sembra derivare il criterio della differenziazione della disciplina. Già nella determina n.8 del 2015, l’Authority ha, infatti, evidenziato come la distinzione tra società a controllo pubblico e altre società partecipate conformerebbe l’applicazione della normativa anticorruzione, in ragione del diverso grado di coinvolgimento delle amministrazioni pubbliche all’interno dei due diversi tipi societari. Per analoghe ragioni, i profili differenziali che connotano le società pubbliche dovrebbero indurre all’adeguamento del modello 231, non solo nell’ottica di selettivamente disapplicare le norme del decreto delegato, per ovviare ad ostacoli all’esercizio delle pubbliche funzioni, ma anche alfine di coordinare le misure 231 con i presidi190, la cui contestuale applicazione potrebbe sortire effetti distorsivi. La diversa linea, o meglio l’assenza di linea del Testo unico rischiano di condurre a superfetazioni o disfunzioni di dubbia compatibilità coni canoni di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa. Come l’assoggettamento delle società in house all’azione della Procura contabile e a quella fallimentare, così il non regolato cumulo delle misure190 e del modello 231 porta con sé, non solo un potenziale aggravio dei costi, ma anche la perniciosa paralisi di quella buona amministrazione che, proprio in forza dei controlli, si sarebbe voluta promuovere. Reato urbanistico: con tenuità del fatto non scatta demolizione o rimessione in pristino di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2018 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 23 ottobre 2018 n. 48248. Con riferimento al reato urbanistico (articolo 44 del decreto del Presidente della Repubblica 380/2011) e al reato paesaggistico (articolo 181 del decreto legislativo 42/2004), il giudice che dichiari l’imputato non punibile ex articolo 131-bis del codice penale non può ordinare, rispettivamente, la demolizione delle opere abusive o la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, in quanto non è configurabile il presupposto della sentenza di condanna, malgrado vi sia un accertamento di responsabilità dell’imputato. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza 23 ottobre 2018 n. 48248. In senso contrario, si è affermato che, in tema di reati edilizi, alla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto consegue l’applicazione, demandata all’autorità amministrativa competente, della sanzione accessoria dell’ordine di demolizione (sezione III, 29 settembre 2017, Proc. Rep. Trib. Pesaro in proc. Bassetti). Va poi aggiunto che, certamente, il carattere permanente del reato edilizio o urbanistico, non osta in senso stretto all’applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto perché non è riconducibile nell’alveo del “comportamento abituale” come individuabile ai sensi dell’articolo 131-bis del Cp, peraltro la permanenza della condotta (e la protrazione della stessa, se non seguita da demolizione o rimessione in pristino) è certamente da valutare negativamente con riferimento all’“indice-criterio” della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza sarà tanto più difficilmente rilevabile quanto più tardi sia cessata la permanenza e, comunque, quanto tale permanenza non sia cessata affatto (cfr. per utili riferimenti, sezione III, 8 ottobre 2015, Proc. Rep. Trib. Asti in proc. Derossi). Ricorso inammissibile se sottoscritto da avvocato non iscritto nell’albo della Cassazione Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2018 Impugnazioni penali - Ricorso per cassazione - Difensore - Avvocato - Cassazionista - Appello convertito in ricorso - Deroga - Esclusione. Alla regola secondo cui il ricorso per cassazione è inammissibile qualora i motivi siano sottoscritti da avvocato non iscritto nello speciale albo dei professionisti abilitati al patrocinio dinanzi le giurisdizioni superiori, non è prevista deroga per il caso di appello convertito in ricorso. In caso diverso verrebbero elusi, in favore di chi abbia erroneamente qualificato il ricorso, obblighi sanzionati per chi abbia proposto l’esatto mezzo di impugnazione. • Corte di cassazione, sezione III penale, ordinanza 9 novembre 2018 n. 51049. Ricorso per cassazione - Proposizione da parte dell’imputato personalmente - Violazione dell’art. 613 c.p.p. come novellato dalla l. n. 103/17 - Inammissibilità. Deve essere dichiarato inammissibile il ricorso successivo al 4 agosto 2017, data dell’entrata in vigore della L. n. 103 del 2017, con cui si è esclusa la facoltà dell’imputato (e quindi anche del condannato) di proporre personalmente ricorso per cassazione, prevedendosi che esso deve essere in ogni caso sottoscritto, a pena d’inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale della Corte di cassazione (articolo 571 c.p.p., comma 1, e articolo 613 c.p.p., comma 1). • Corte di cassazione, sezione I penale, ordinanza 26 settembre 2018 n. 42025. Impugnazioni - Cassazione - Difensori - Sottoscrizione del ricorso - Esclusivamente da difensore non iscritto nell’albo speciale della corte di cassazione - Conseguenze. Il ricorso per cassazione che non sia proposto personalmente dall’imputato deve essere sottoscritto, a pena d’inammissibilità (articolo 613 c.p.p., comma 1), da un difensore iscritto nell’apposito albo speciale; la relativa causa di inammissibilità integra un vizio originario dell’atto, che lo rende inidoneo alla finalità processuale perseguita e osta alla valida instaurazione del giudizio di impugnazione; il vizio non potrebbe essere sanato nemmeno dal successivo conseguimento da parte del difensore della specifica abilitazione richiesta, né dagli eventuali motivi nuovi che fossero presentati da un difensore cassazionista dopo la scadenza del termine per impugnare. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 16 giugno 2017 n. 30390. Cassazione - Difensori - Sottoscrizione del ricorso - Difensore non iscritto nell’albo speciale della Corte di cassazione - Conseguenze - Inammissibilità del ricorso. In caso di sottoscrizione dell’atto d’appello esclusivamente da parte di un difensore non iscritto nell’albo speciale della Corte di Cassazione, la qualificazione dell’impugnazione da parte del giudice adito come ricorso con trasmissione degli atti al giudice di legittimità rende l’atto irricevibile per difetto di ius postulandi; né il vizio può essere sanato dalla successiva iscrizione del difensore nell’albo speciale o dalla presentazione, dopo la scadenza del termine per impugnare, di motivi nuovi da parte di un difensore cassazionista. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 7 giugno 2017 n. 28359. Puglia: M5S “nuove tecnologie e stanziamenti per rafforzare le carceri” traniviva.it, 19 novembre 2018 “La sicurezza rispetto ai fenomeni di criminalità e terrorismo internazionali è una competenza condivisa fra l’Unione Europea e gli Stati Membri. Di recente è stata approvata la direttiva europea sul riciclaggio d’iniziativa di un europarlamentare M5S che mira proprio a facilitare la cooperazione penale in Europa e a contrastare le attività transnazionali delle mafie. A livello nazionale il Governo e la maggioranza parlamentare di cui faccio parte stanno dedicando risorse e impegno alla giustizia e alla sicurezza. Voglio sottolineare che la Polizia penitenziaria quotidianamente è impegnata a fronteggiare e monitorare il fenomeno del radicalismo islamico. Oltre il 50% delle persone espulse sono state allontanate grazie alle segnalazioni della Polizia penitenziaria. Per questi motivi nelle amministrazioni carcerarie si sta puntando a introdurre nuove tecnologie per elevare gli standard di sicurezza, il decreto sicurezza ha previsto uno stanziamento di 180 milioni di euro in 5 anni per incrementare gli standard di sicurezza e funzionalità delle strutture carcerarie. Nella legge di Bilancio 2019 sarà poi previsto un piano straordinario quinquennale di assunzioni”. Lo ha detto la senatrice del M5S Bruna Piarulli, capogruppo in commissione Giustizia, a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, nel corso del convegno “Prevention, repression and rehabilitation: a judicial perspective”. Roma: manifestazione nazionale dell’Unione Camere Penali il 23 novembre camerepenali.it, 19 novembre 2018 Contro il populismo giustizialista in difesa della Costituzione e dei diritti della persona, al termine dei quattro giorni di astensione, si terrà il 23 novembre a Roma, presso il teatro Manzoni, la manifestazione nazionale dell’Unione. Hanno confermato la propria partecipazione o adesione, tra gli altri, numerosi esponenti dell’Accademia il cui elenco sarà pubblicato domani. I penalisti italiani chiamano la comunità dei giuristi, la cultura, la politica e l’informazione a difesa dei diritti della persona riconosciuti dalla Costituzione e contro la restaurazione giustizialista del processo penale, per dire con chiarezza a tutti i cittadini che: 1. Il processo penale non è il luogo popolato di colpevoli in attesa di essere condannati o altrimenti di farla franca grazie ai cavilli degli azzeccagarbugli. Il processo è il rito pubblico e solenne mediante il quale il giudice verifica la fondatezza di una accusa formulata nei confronti di un imputato che si presume innocente 2. L’imputato ha diritto a che il Giudice pronunci la sentenza in un tempo ragionevole e definito. Solo una concezione disumana della persona ed un’idea incivile del processo penale possono generare il processo infinito, che oltraggia e pregiudica i diritti più elementari dell’imputato e delle stesse persone offese. 3. È inaccettabile la pretesa di intervenire sulla eccessiva durata dei processi comprimendo i diritti di difesa e le forme di acquisizione della prova in contraddittorio tra le parti, lasciando invece intatta la signoria dei pubblici ministeri sulla durata delle indagini 4. È insanabilmente contraddittoria la pretesa di accorciare i tempi di celebrazione del processo ed allo stesso tempo di demolire la efficacia dei riti alternativi al dibattimento 5. Nessun Governo può seriamente affrontare materie complesse e delicate come il processo penale mediante emendamenti dell’ultim’ora, o comunque improvvisando riforme “epocali” senza alcun confronto serio con la comunità dei giuristi, e senza alcun rispetto per tempi, modi e forme irrinunciabili per qualsiasi democrazia parlamentare. Agrigento: penalisti in sciopero contro la riforma sulla prescrizione scrivolibero.it, 19 novembre 2018 Un nuovo stop per la giustizia. La Camera Penale Agrigentina, presieduta dall’Avvocato Nicola Grillo e dal segretario Gianfranco Pilato, aderisce infatti all’astensione, indetta dall’Unione delle Camere Penali Italiane, dalle udienze e dalle attività giudiziarie in ambito nazionale per i giorni 20, 21, 22 e 23 novembre 2018. Per quattro giorni, dunque, gli avvocati si asterranno da ogni attività giudiziaria nel settore penale, ad eccezione di quelle che riguardano imputati detenuti in custodia cautelare. La ragione è legata alle nuove politiche di governo destinate ad incidere sui meccanismi della giustizia penale. In particolare, a suscitare maggiori preoccupazioni la possibile approvazione del Disegno di Legge in materia di “Misure di contrasto dei reati contro la P.A.”, all’interno del quale è contenuto l’emendamento governativo per l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Attualmente all’esame delle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera dei Deputati, secondo i penalisti tale disegno di legge rappresenterebbe un progetto ancora più grave rispetto a quello portato avanti nella scorsa legislatura con l’allungamento del tempo necessario a prescrivere per le fasi delle impugnazioni. L’attuale progetto di riforma, invece, prevedendo la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado fino al giudicato - senza, tra l’altro, distinguere tra sentenza di condanna o di assoluzione - equivarrebbe ad una sostanziale abolizione del detto istituto. “La prescrizione nel nostro ordinamento è chiamata tra l’altro a svolgere la funzione di presidio del principio costituzionale della ragionevole durata del processo - si legge nella delibera nazionale dell’Unione Camere Penali - Soppresso tale equilibratore il tempo dell’accertamento diviene infinito, definitivamente trasformandosi il processo stesso in pena, con evidenti ricadute sulla stabilità dei rapporti giuridici”. Sulla stessa linea di pensiero anche il Presidente del Consiglio Nazionale Forense Andrea Mascherin che, nei giorni scorsi, ha ribadito le conseguenze dannose di un emendamento che produrrebbe l’effetto di “tenere sotto ricatto processuale il cittadino a tempo indeterminato”. Ma le risposte ai “progetti di controriforma della giustizia penale” non si fermano qui. Vi è nei penalisti grande preoccupazione anche per le altre ipotesi di riforma che chiamano in causa i principi del giusto processo, la terzietà del giudice, il principio di non colpevolezza, la libertà personale e la funzione rieducativa della pena. È per questo che, oltre all’astensione collettiva dalle udienze, l’Ucpi ha indetto per il 23 novembre una manifestazione nazionale a Roma, presso il teatro Manzoni, invitando ad una partecipazione attiva la comunità dei giuristi, la cultura, la politica e l’informazione a difesa dei diritti della persona riconosciuti dalla Costituzione. Lucca: “Buona galera a tutti”, la Giustizia al tempo del Governo del cambiamento lavocedilucca.it, 19 novembre 2018 Si è svolto sabato 17 novembre a Lucca presso la Casa del Boia il convegno organizzato da +Europa che ha chiamato a raccolta avvocati e cittadini a discutere sulla Giustizia in particolare le recenti proposte del governo giallo-verde ispirate alle idee del magistrato Pier Camillo Davigo circa la prescrizione e la figura dell’agente provocatore. Tema dell’incontro “Buona galera a tutti, la Giustizia al tempo del Governo del cambiamento”. Straordinaria la partecipazione del pubblico circa 150 persone tra avvocati, studenti, imprenditori e amministratori. Presenti l’On. Riccardo Zucconi di Fratelli d’Italia e il Sindaco di Viareggio Giorgio Del Ghingaro, consiglieri e assessori di vari Comuni, ma anche ex amministratori toscani: da Mauro Favilla, Senatore e Sindaco di Lucca, Alberto Baccini, già Sindaco di Porcari, Federico Eligi, già assessore a Pisa. Molti i partecipanti da fuori Lucca, da Pescia, Montecatini, Pistoia, Pisa, Cascina, Livorno e perfino da Piombino. Gli interventi sono stati introdotti da Massimo Bulckaen che ha affermato quanto il populismo grillino ispirato al regime sudamericano venezuelano di Chavez e Maduro e il sovranismo di Salvini ispirato alle democrazie illiberali di Orban in Ungheria e Putin in Russia siano un attacco al cuore della democrazia e dello stato di diritto e la volontà di organizzare oggi questo convegno nella Casa del boia. Successivamente il Prof. Luca Bresciani, Diritto penitenziario Università di Pisa, si è soffermato sul tema del carcere e della pena osservando che nelle democrazie occidentali il deterioramento della idea di giustizia si è affermato via via che a partire dagli anni ‘70 negli Stati Uniti e poi in Europa la giustizia e la pena sono divenuti argomenti che avevano al centro la rabbia ed il rancore sociale invece che l’obbiettivo del recupero dell’uomo e la sua vita nella propria comunità e la pena si è trasformata in medicina del popolo che soffre per sollevarlo dalla rabbia e dalla frustrazione quotidiana e dunque una pena intesa come vendetta e strumento per ottenere consenso elettorale o vincere la competizione nei media TV . Ha osservato il Prof. Bresciani che le pene alternative al carcere sono divenute misure per ridurre il sovraffollamento al carcere piuttosto che misure volte al recupero dell’uomo e del cittadino. Gli avvocati penalisti Ludovica Giorgi e Andrea Niccolai (delle Camere Penali di Lucca e Pistoia) hanno affrontato nello specifico le proposte del Ministro della Giustizia Bonafede in tema di prescrizione che portano la persona ad essere un imputato a vita con un arretramento della civiltà giuridica propria dei totalitarismi, ed hanno sottolineato che in realtà le proposte di questo governo sposano le idee di quella parte di magistratura italiana guidata da PierCamillo Davigo. L’intervento del Sindaco di Lucca Alessandro Tambellini ha dapprima sottolineato quanto il tema della giustizia non sia un problema tecnico ma rappresenta la civiltà complessiva di un paese e la sua preoccupazione per una fase della storia italiana che mette in mora la scienza e quindi anche la scienza giuridica nel nome di una volontà popolare che una parte politica afferma di essere divenuta unico interprete, ed al tempo stesso si è detto preoccupato dello strapotere della magistratura, potere diffuso e privo di controllo. Inoltre ha spiegato le competenze del comune nella gestione degli immigrati affidati ai centri di accoglienza SPRAR, i comuni possono scegliere di aderire o non aderire al sistema di accoglienza e ha sottolineato come il comune di Lucca ha fatto il suo dovere ed ha aderito al sistema di accoglienza ma ha voluto sottolineare la farraginosità del sistema e la inadeguatezza del sistema che è solo emergenziale e non si presta a costruire una reale integrazione tanto è vero che è impossibile utilizzare il lavoro nel percorso di formazione e integrazione dell’immigrato che richiede asilo ovvero la legge attuale permette di utilizzare i migranti in attesa di regolarizzazione solo per “lavoretti” come raccogliere le foglie a carattere volontario. Milano: clochard trovato morto al freddo tra i cartoni della sua panchina di Federico Berni Corriere della Sera, 19 novembre 2018 I primi ad accorgersi di quel corpo rigido, disteso su una panchina dei giardini pubblici, è stato un cittadino uscito di casa per una passeggiata mattutina. Vicino al cadavere, scoperto verso le nove in via Sidoli, nel quartiere di Città Studi, c’era il solito corredo di cartoni di vino e altri generi di illusorio conforto, che di solito accompagnano l’esistenza di molti senzatetto. Ed è forse dovuta a una combinazione letale tra l’abuso di alcol, e il freddo che in queste notti comincia a mordere, la causa del decesso di un uomo di 47 anni, Ardjan Sulo, clochard di origine albanese. Questa, almeno, è l’ipotesi prevalente, maturata dopo i primi accertamenti effettuati sul posto dai carabinieri. Sul corpo, infatti, non sono stati rilevati segnali evidenti di violenza, e le prime analisi di carattere medico legale hanno avvalorato la possibile causa naturale. Via Sidoli è una strada di palazzi borghesi residenziali, attraversata da un spartitraffico centrale ampio, con un percorso pedonale costeggiato sui due lati da alberi e panchine. Su una di queste sedute, è stato trovato il quarantasettenne. È probabile che la vittima, stordita dagli alcolici a buon mercato trovati nelle vicinanze, si sia addormentata senza essersi preventivamente attrezzata contro il freddo. Da quanto emerso, l’albanese non aveva precedenti penali. A carico dell’uomo, risulta giusto un’unica segnalazione dovuta alla sua condizione di immigrato senza permesso di soggiorno, per la quale era stato raggiunto da un decreto di espulsione. Non era un habitué della zona, stando a quanto riferito da alcuni frequentatori del quartiere. Nessuno lo conosceva, ma qualche giorno fa avrebbe bussato alla porta della vicina parrocchia di Santa Croce per chiedere un piccolo aiuto. In questi giorni le temperature sono scese, ma è ancora presto per l’emergenza gelo che ogni anno fa qualche vittima fra i senzacasa della città. “Rammarico” per la vicenda è stato espresso dall’assessore ai servizi sociali Pierfrancesco Majorino. “Non si era mai rivolto ai nostri servizi, ma questa circostanza non cambia le cose - ha aggiunto - siamo pronti ad affrontare il periodo più critico, il piano invernale di interventi e la presenza di decine d operatori, sta infatti entrando nella fase più rilevante”. Isernia: in carcere l’evento contro la violenza sulle donne isnews.it, 19 novembre 2018 L’incontro curato dal giornalista Umberto Di Giacomo si terrà il prossimo 26 novembre nella sala teatro del penitenziario di Ponte San Leonardo. Anche Isernia si prepara a celebrare la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne. Una tematica strettamente attuale, che sarà affrontata nel corso dell’incontro che il 26 novembre alle ore 10 sarà ospitato nella sala teatro del carcere di Ponte San Leonardo, grazie all’iniziativa della direzione del penitenziario. L’evento rivolto ai detenuti, è curato dal giornalista Umberto Di Giacomo, ideatore e referente del Laboratorio di Lettura avviato internamente all’istituto in favore dei ristretti. “Preme evidenziare - afferma il direttore del carcere Maria Antonietta Lauria - la valenza etica e rieducativa di un evento di scambio e condivisione su un argomento di estrema significatività morale e sociale, ideato secondo il punto di vista di un uomo, ovvero il docente e i detenuti coinvolti nella realizzazione dell’iniziativa”. Treviso: il direttore “il carcere è azzurro in onore del tricolore del Napoli” di Silvia Madiotto Corriere Veneto, 19 novembre 2018 Il direttore Massimo: “Era il 1990, era ruggine e lo scudetto mi ha ispirato”. Per la rubrica “Forse non tutti sanno che”: se il carcere di Treviso è azzurro lo si deve al suo storico direttore, Francesco Massimo, e alla sua passione calcistica, diventata un gigantesco omaggio sotto gli occhi di tutti i trevigiani, a due passi dalle mura della città. “L’ho fatto ridipingere quando il Napoli ha vinto il secondo scudetto”. Era il 1990, il Napoli macinava trofei internazionali e Massimo, arrivato da soli due anni, ha dato subito un’impronta netta a quella che sarebbe diventata la sua casa per trent’anni. Direttore, una curiosità: nessuno ha contestato o commentato questa decisione? “Ma no (sorride). All’interno del carcere sono io la massima autorità. Prima era color ruggine, troppo triste. Meglio azzurro, no? E poi mi hanno fatto notare che anche il Treviso indossa i colori biancocelesti”. Mentre parla, seduto alla sua scrivania in una stanza all’interno della casa circondariale, alza lo sguardo sulla parete di sinistra. C’è un enorme stemma della squadra partenopea. “Bello, vero? L’ha disegnato un detenuto”. Al cuor non si comanda, soprattutto quando si lascia una terra così amata. Massimo dal 13 giugno 1988 è il responsabile di una struttura con 147 dipendenti del comparto di sicurezza, una ventina del comparto ministeri e 220 detenuti. Arrivava dal carcere di Poggioreale, dov’era vicedirettore. “Dovevo ridare prestigio all’istituto, recuperare il rapporto con il personale che non si sentiva rappresentato, insomma rimettere a posto il carcere. Oggi sono orgoglioso del lavoro fatto”. Direttore Massimo, il sistema carcerario riceve la giusta attenzione dalle istituzioni? “Diciamo che rispetto a trent’anni fa il rapporto si è rovesciato. Prima l’attenzione era nei confronti del personale e della popolazione detenuta, oggi sembra che venga prima la popolazione detenuta e poi quella dei lavoratori”. Lo dice con rammarico... “Con il personale ho un ottimo rapporto, di stima e collaborazione reciproca”. Com’è cambiata la popolazione carceraria in questo lasso di tempo? “Trent’anni fa c’erano molti più italiani, oggi sono circa la metà e l’anno scorso abbiamo contato 37 diverse nazionalità”. Che tipo di attività vengono svolte per il reinserimento dei detenuti? “Devo ringraziare innanzitutto il personale, gli insegnanti e la Cooperativa Alternativa. L’impegno sulla rieducazione dovrebbe interessare solo le condanne definitive ma noi cerchiamo di coinvolgere tutti. Ci sono corsi scolastici, attività lavorative, gruppi di sostegno con psicologi e famiglie, partite di calcio e rugby, corsi di musica e fotografia, gruppi di lettura e di integrazione”. Il carcere di Santa Bona ha vissuto un periodo di sovraffollamento. L’avete risolto? “Certamente. Più di cinque anni fa eravamo arrivati a trecento detenuti, ma oggi abbiamo la garanzia che ogni detenuto ha lo spazio stabilito per legge. Credo che il calcolo di 3 metri quadrati per persona, a dire il vero, sia troppo ridotto, ma è la legge ed è pienamente rispettata”. Come sono stati questi 30 anni a Treviso? “Impegnativi ma meravigliosi, ricostruendo i rapporti con le istituzioni. Con il sacrificio ho cambiato il volto a questa struttura, le tante cattiverie che ho dovuto sopportare sono state ripagate dal personale, e addirittura dai detenuti e dalle loro famiglie che hanno capito più dei dirigenti superiori quali sforzi siano stati fatti”. L’anno prossimo va in pensione. Cosa farà? “Rimarrò a Treviso, mi dedicherò a mio nipote e farò quello che non sono riuscito a fare in questi 30 anni. Andrò in giro per il mondo e mi dedicherò al mio hobby preferito, il poker Texas Holdem”. Egitto. Continua la repressione contro gli attivisti per i diritti umani tpi.it, 19 novembre 2018 L’allarme dell’ong Human Rights Watch: solo nel mese di novembre sono stati arrestati almeno 40 avvocati e difensori impegnati a fornire aiuto ai familiari dei detenuti politici. Stretta sui difensori dei diritti umani in Egitto. Secondo Human Rights Watch (Hrw), nell’ultimo mese le forze dell’ordine hanno arrestato almeno 40 attivisti e avvocati impegnati a fornire sostegno legale e umanitario alle famiglie dei detenuti politici. “La repressione delle agenzie di sicurezza egiziane adesso si estende anche alla sparizione di uomini e donne coraggiosi che hanno provato a proteggere gli scomparsi e a porre fine alla pratica illegale delle sparizioni forzate”, ha detto Michael Page, il vicedirettore dell’ufficio regionale di Hrw. Secondo l’organizzazione umanitaria, che riporta quanto dichiarato da legali e difensori dei diritti umani, in nessuno degli arresti in questione le forze di sicurezza hanno mostrato un mandato e non hanno fornito indicazioni su quale sarebbe stato il luogo di detenzione. “Il governo sembra voler annullare quanto ancora rimane della società civile egiziana”, ha aggiunto Page. Uno degli operatori legali ascoltati dall’associazione ha affermato che gli attivisti sono stati prelevati dalle loro abitazioni, fatta eccezione per una donna arrestata all’aeroporto mentre cercava di uscire dal paese. “Stanno cercando di arrestarci tutti”, ha continuato l’avvocato, specificando che la maggior parte dei fermati apparteneva al Coordinamento egiziano per i Diritti e le Libertà, una nota ong che fornisce aiuto legale e documenta le violazioni dei diritti umani in Egitto. Ezzat Ghoniem, avvocato e direttore esecutivo del Centro, è nell’elenco: si trova in isolamento dal 4 settembre 2018, nonostante un tribunale abbia ordinato di rilasciarlo. E in carcere figura anche Hoda Abdel Moneim, celebre avvocata per i diritti umani ed ex componente del Consiglio nazionale per i diritti umani. Le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nel suo appartamento al Cairo, mettendolo a soqquadro, per poi portarla in una località sconosciuta. L’allarme sulla sua sparizione era stato lanciato anche da Amnesty International: “Questa agghiacciante ondata di arresti contro la comunità egiziana dei diritti umani segna un ulteriore passo indietro. Le autorità hanno mostrato ancora una volta la loro spietata determinazione a stroncare ogni forma di attivismo e a smantellare il movimento per i diritti umani nel paese. Chiunque osi parlare di violazioni dei diritti umani oggi in Egitto è in pericolo”, ha dichiarato Najia Bounaim, direttrice delle campagne di Amnesty International sull’Africa del Nord. Come raccontato dai familiari, le forze di sicurezza, che si sono identificate come appartenenti al Dipartimento investigativo della polizia della città, non hanno mostrato i mandati di perquisizione ma hanno ugualmente perquisito la casa, distruggendo anche alcuni dei beni della donna. Poi, l’hanno bendata e portata via. Cosa sono le sparizioni forzate - Secondo il diritto internazionale, con il termine “sparizioni forzate” si indica chi non è mai stato trovato a seguito di una sparizione. Al contempo, l’espressione fa riferimento anche gli uomini e le donne arrestati dalle forze dell’ordine, o da agenti in borghese, portati in centri di detenzione, non necessariamente ufficiali, senza comparire di fronte a un giudice. Iran. Altre donne curde “giustiziate” di Gianni Sartori retekurdistan.it, 19 novembre 2018 Il 13 novembre un’altra donna curda è stata “giustiziata” - cioè uccisa dal boia di Stato - in Iran. L’esecuzione è avvenuta nel carcere di Sanandaj. Imprigionata da cinque anni e accusata di omicidio, Sharareh Eliasi aveva 27 anni. Oltre al poco invidiabile record delle esecuzioni capitali, l’Iran detiene quello ancora più macabro di donne e minori condannati a morte e poi “giustiziati”. Contando solo quelle avvenute da quando è presidente il “moderato” Hassan Rouhani (eletto nel 2013, riconfermato nel 2017) le esecuzioni capitali sono oltre tremilaseicento. Nello stesso periodo, calcolando anche Sharareh Eliasi, le donne finite nelle mani del boia sono già 85. Anche recentemente un’altra giovane donna curda di 22 anni, Zeinab Sekaanvand, era stata impiccata. Veniva arrestata e condannata a morte ancora nel 2012 - all’età di 17 anni, quindi minorenne - per la presunta uccisione del marito. Segregata per 20 giorni - senza poter vedere un avvocato - in un posto di polizia, Zeinab aveva poi denunciato di essere stata sottoposta ripetutamente a torture e maltrattamenti. Per porvi fine avrebbe finito col “confessare” di aver pugnalato l’uomo. A causa della povertà familiare si era dovuta sposare all’età di 15 anni e durante i due anni di convivenza l’uomo l’aveva percossa e picchiata continuamente. Contro il marito lei aveva inoltrato diverse denunce per i maltrattamenti subiti, ma senza alcun risultato. Inoltre il marito aveva respinto la richiesta di Zeinab di poter divorziare, mentre i familiari si erano rifiutati di accoglierla nuovamente fra loro. In tribunale aveva accusato del delitto il fratello del marito. Dato che Zeinab era rimasta incinta (ufficialmente per la “relazione con un detenuto”; ma non si può escludere che sia stata violentata dai suoi carcerieri) la sua esecuzione era stata rinviata per consentire la nascita del bambino (nato morto il 30 settembre 2016). Fino al tragico, inesorabile epilogo. Il 2 ottobre di quest’anno la corda del boia poneva termine alla breve vita - condita di sofferenza, violenza e umiliazioni - della donna curda Zeinab Sekaanvand. Parlare di “genocidio” nei confronti dei curdi in Iran sarebbe eccessivo. Ma appare evidente - e inquietante - che quando si tratta di eliminarne qualcuno o qualcuna, Teheran non ci pensa due volte. Qualche compagno mi ha fatto sapere che giudica “alquanto inopportuno” sollevare polemiche nel momento in cui l’Iran viene sottoposto a ulteriori sanzioni da parte di Trump e potrebbe diventare obiettivo di attacchi militari da parte di Israele. Per quanto io sia contrario - ovviamente - a ogni ingerenza imperialista in Medio Oriente, non mi sembra motivo per tacere sulle violazioni dei diritti umani e sulla violenza istituzionalizzata esercitata nei confronti della popolazione curda in Rojhelat. Ma anche su altri crimini di questo governo. La sequenza delle esecuzioni non sembra doversi arrestare e quindi dovremo riparlane. Purtroppo. Cile. Un nuovo omicidio di Stato contro il popolo mapuche di Claudia Fanti Il Manifesto, 19 novembre 2018 Proteste a Santiago per la morte di Camillo Catrillanca, a cui i carabinieri del corpo antiterrorismo hanno sparato alle spalle mentre guidava il suo trattore. Si aggiunge un nuovo capitolo, l’ennesimo, alla storia di violenza e abusi nei confronti del popolo mapuche. L’ultima vittima, appena 24enne, era un weichafe (un “guerriero” della causa mapuche) della comunità di Temucuicui, a Ercilla, nell’Araucanía: Camillo Catrillanca - questo il suo nome - era il nipote di Juan Segundo Catrillanca, lonko (guida) della comunità, e figlio di Marcelo Catrillanca, storico attivista per i diritti indigeni. Il 14 novembre Camillo stava a bordo del suo trattore accanto a un adolescente, di ritorno dai campi, quando il Comando Jungla - il corpo antiterrorista dei carabinieri cileni - gli ha sparato alla nuca, nel quadro di un’operazione scattata in seguito al furto di tre veicoli nella zona. La reazione del ministro dell’Interno Andrés Chadwick è stata quella che ci si poteva attendere: quanto accaduto non è che “un episodio di delinquenza comune, senza alcun nesso con il cosiddetto conflitto mapuche”. Secondo le autorità, insomma, Camilo Catrillanca sarebbe stato coinvolto nel furto di auto e poi raggiunto da un proiettile durante lo scontro a fuoco tra i ladri e i carabinieri. Non ha però spiegato, il ministro, come mai il giovane mapuche sia stato colpito alle spalle, né, soprattutto, per quale ragione un comando speciale con compiti di antiterrorismo si occupasse di un reato comune. Per non parlare del controverso ruolo del corpo dei carabinieri, addestrato in Colombia e poi spedito nell’Araucanía dal governo di Sebastián Piñera come se la realtà del narcotraffico e dei paramilitari colombiani possa essere anche solo lontanamente paragonata a quella della regione più povera del paese. Subito smentito è stato anche l’intendente dell’Araucanía Luis Mayol, che aveva accusato Catrillanca di avere “precedenti per ricettazione di veicoli rubati”, malgrado la fedina penale del giovane comunero, come ha dimostrato il deputato socialista Leonardo Soto, dicesse tutt’altro. La morte di Camilo, che lascia una figlia di 6 anni e una moglie incinta, va così ad aggiungersi a un lungo elenco di vittime, come Alex Lemum, Matias Catrileo, Mendoza Collio, tutti giovanissimi, assassinati durante l’occupazione di terreni rivendicati dalle loro comunità. Solo briciole dei 5 milioni di ettari usurpati dallo Stato cileno e rivenduti all’oligarchia o alle multinazionali, di cui i mapuche esigono la restituzione, insieme al riconoscimento della propria identità culturale e al risarcimento per il genocidio realizzato durante più di 150 anni nel sud del Cile e dell’Argentina, il Wallmapu, il Paese Mapuche dalla terra fertile e generosa. E se il nuovo omicidio ha scatenato un’ondata di proteste nel paese (giovedì, a Santiago, la storica Plaza Italia si è riempita di manifestanti contro il governo), la promessa del ministro dell’Interno di investigare sull’accaduto - fondamentale sarà la testimonianza dell’adolescente che era accanto a Catrillanca sul trattore - andrà probabilmente ad aggiungersi a tutte le altre promesse mancate.