Verso il record dei suicidi in carcere: al 15 novembre sono già 58 di Maurizio Tortorella affaritaliani.it, 18 novembre 2018 La polizia penitenziaria nei primi sei mesi di quest’anno ne ha sventati 585. La punta massima risale al 2011 con 66 casi, ma il 2018 potrebbe battere quel dato. Il sovraffollamento delle carceri italiane (al momento sono 59.805 i detenuti, ospitati in strutture spesso fatiscenti, che in base ai regolamenti ne potrebbero contenere al massimo 50.600) sta producendo un affetto drammatico, ma ignorato dai mass media. Nel 2018, fino alla data del 15 novembre, sono già 58 i reclusi che si sono suicidati in cella. L’ultimo caso si è verificato nel carcere veronese di Montorio, dove un detenuto di 33 anni e di origini tunisine si è impiccato in cella: era stato condannato a quasi tre anni di carcere per una rapina commessa a Padova. Si tratta del terzo suicidio avvenuto quest’anno in quella prigione (gli altri risalgono a maggio e a luglio, sempre con stranieri). Il 12 novembre nel carcere di Brindisi si era ucciso invece un detenuto italiano, di 43 anni, impiccandosi con un asciugamano nel bagno. Ai 58 suicidi conclamati vanno aggiunti altri 70 detenuti morti in carcere quest’anno, in molti casi per overdose da droga, per assistenza sanitaria inadeguata o in circostanze ancora da accertare. Il totale al 15 novembre, che ha raggiunto finora 128 decessi, supera già di cinque unità il totale dell’intero 2017. E il numero è in aumento anche rispetto al 2016, quando i morti in totale furono 115, con 45 suicidi. L’anno peggiore nella recente storia carceraria, da questo punto di vista, è il 2011: 66 suicidi e 186 morti in totale. Ma se il ritmo dei casi dovesse confermarsi, quel record potrebbe essere superato. Dal 200 a oggi, i suicidi nelle prigioni italiane sono stati 1.044 mentre i morti in totale sono stati 2.864. Va ricordato, e anche questa è una verità sottaciuta, che i reclusi per una condanna definitiva oggi sono 39.504: questo significa che quasi il 34% degli attuali detenuti è ancora in attesa di giudizio. E statistiche consolidate rivelano che più della metà di loro, alla fine del processo, risulterà innocente. Il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria aggiunge che “nel primo semestre del 2018 nelle carceri italiane si sono verificati anche 5.157 atti di autolesionismo, e sono stati 585 i tentativi di suicidi sventati dal personale di polizia penitenziaria, contro i 24 suicidi portati a termine in quello stesso periodo: gli episodi hanno riguardato prevalentemente detenuti in attesa di giudizio e nel primo periodo di restrizione nella struttura penitenziaria”. Grosso modo, quindi, per ogni suicidio messo in atto ce ne sono almeno 25 tentati. Se si dovesse moltiplicare per 25 il numero dei suicidi riusciti alla metà di novembre, questo significa che il totale arriverebbe a 1.450. È una statistica sconvolgente, che meriterebbe più attenzione da parte del ministero della Giustizia, della politica e anche dell’opinione pubblica. Il precipizio che si evita di vedere di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 18 novembre 2018 Il governo non sembra avvertire il pericolo reale e sfida l’Unione europea convinto di avere il vento del consenso a suo favore. Il potere inebria, specie quando si hanno molti posti da spartire e non si è abituati a farlo. Stordisce poi gli ultimi arrivati. Siamo sull’orlo del precipizio ma il governo non sembra avvertirne il pericolo reale. Sfida l’Unione europea convinto di avere il vento del consenso, persino della storia, a suo favore. Scommette e forse si illude che un trionfo del voto sovranista alle prossime elezioni europee possa mutare i rapporti di forza nell’Unione. Il potere inebria, specie quando si hanno molti posti da spartire e non si è abituati a farlo. Stordisce poi gli ultimi arrivati, emersi dal nulla. Una parte crescente dell’Italia che produce e lavora teme di pagare un prezzo sanguinoso, ingiusto. Di pagarlo più all’incompetenza e all’arroganza di qualche ministro che al calcolo politico sovranista o populista di leader spregiudicati. Ma questa consapevolezza del rischio, che mina già di fatto la solidità dei nostri risparmi, non è ancora pienamente percepita dall’opinione pubblica. Non si può vivere a lungo con un spread oltre quota 300. Quello che dovrebbe preoccupare di più poi è il differenziale con la Spagna. Segnala tutta la nostra debolezza relativa. Come se fossimo già tornati al 2011. Si riflette poco sulla probabile crisi di alcuni istituti bancari che, ironia della sorte per l’attuale maggioranza, potrebbero essere ancora salvati con il denaro dei contribuenti. Se dovesse poi partire una procedura d’infrazione per violazione della regola del debito, non reggeremmo all’onda speculativa, specie se un’asta dei titoli pubblici andasse male e sorgessero problemi di liquidità. Andrebbe in frantumi anche l’alleanza gialloverde. Poi fare la campagna elettorale sulle macerie di cui si è responsabili sarebbe tutt’altro che semplice. L’Italia è oggi isolata in Europa. Respinta anche da quei governi, Austria e Ungheria ma non solo, che la Lega considera interlocutori naturali, alleati preziosi. Il paradosso di questi giorni è che l’unico sottilissimo filo di trattativa con la Commissione europea è teso dai due personaggi più presi di mira dal verbo sovranista e populista: il presidente Jean-Claude Juncker e il commissario agli affari economici Pierre Moscovici. Solo attraverso un dialogo realista con loro, non necessariamente remissivo, si potrebbe arrivare a qualche forma di compromesso. Semmai ancora sia possibile. Il ruolo più delicato lo ricopre, su questo fronte, il ministro dell’Economia Giovanni Tria. Il suo arretrare da quella che appariva, anche a lui non solo all’Europa, una soglia insuperabile del deficit 2019, ovvero l’1,6 per cento, ha indebolito al limite dell’irrimediabile la sua credibilità. Appare un prigioniero di Salvini e Di Maio, attestati nella difesa a oltranza di un ormai mitologico e irrealistico disavanzo del 2,4 per cento. Un ostaggio rassegnato. Lui, personaggio mite e misurato, si è dovuto convertire al linguaggio acrobatico della politica muscolare che può permettersi di dubitare persino delle leggi della fisica e della matematica. Costretto a rifugiarsi nell’inedita formula di “défaillance tecnica” per dire che Bruxelles non sa far di conto, inimicandosi così i suoi colleghi stranieri. Nonostante tutto, siamo convinti che Tria sia un economista capace, un tecnico di valore, ma soprattutto una persona seria e per bene. Ed è dunque a lui che molti guardano aspettandosi un discorso di verità. Non un gesto di coraggio per sfogarsi e andarsene. No, sarebbe dannoso per il Paese. Ma un esame serio, giudizioso, e soprattutto pubblico, dei pericoli dell’avventurismo cieco, del costo pluriennale della violazione alle regole europee, questo sì. Lo dovrebbe sentire come un dovere morale. Ha l’autorevolezza e la competenza per spiegare, in modo semplice e comprensibile a tutti, il costo opportunità di alcune scelte politiche che un Paese fortemente indebitato non può fare a cuor leggero. Denunciare l’assalto dadaista in Parlamento per votare norme e normette alla legge di Bilancio. Sempre più costose. Sottolineare la contraddizione fra la voglia di un ritorno miracolistico dello Stato in economia e la promessa, del tutto fantasiosa aggiungiamo noi, di fare 18 miliardi di privatizzazioni. E non sarebbe male se il mite Tria trovasse anche il tempo di dire che i cosiddetti tecnici di area del governo, ogni volta che parlano sognando a occhi aperti l’uscita dall’euro, producono danni irreversibili. Rischierebbe il posto? Sì ma farebbe chiarezza e aiuterebbe il Paese. Nel settembre scorso, durante il workshop Ambrosetti a Cernobbio, il ministro disse di temere che il vantaggio di fare un po’ di deficit in più sarebbe stato annullato dall’aumento del costo per gli interessi passivi sul debito. È quello che sta puntualmente accadendo. La Commissione europea ha chiesto, nei giorni scorsi, quali fossero i “fattori rilevanti” a giustificazione di una maggiore spesa pubblica. I primi due riguardano il raffreddamento del ciclo internazionale, complicato peraltro anche dal caos sulla Brexit. Dunque, in un documento ufficiale, ammettiamo che il quadro macroeconomico sul quale è stata formulata la manovra è cambiato. In peggio. Ciò renderebbe urgenti interventi, ma più sugli investimenti che sui sussidi. I dati negativi sulla crescita, la produzione, l’andamento degli ordinativi dovrebbero suscitare qualche saggio ripensamento sull’intero impianto della legge di Bilancio. Tria dice ai suoi collaboratori di non credere che il reddito di cittadinanza possa essere facilmente operativo nei prossimi mesi. Si spenderà meno del previsto. Peccato che i mercati non lo sappiano. Forse ci illudiamo. Ma avanti così il mite Tria rischia di passare alla storia per la sua pavidità. E non lo merita. Prescrizione “pericolosa”, meglio accorciare i processi di Carlo Taormina Il Tempo, 18 novembre 2018 Per fare in modo che i processi penali siano celebrati nei tempi ragionevoli voluti dalla Costituzione, bisogna partire dal presupposto che la norma costituzionale non intende impone semplicemente un regolamento della cronologia dei processi ma vuole dire che i giudici hanno un certo tempo, appunto ragionevole, per emettere la sentenza. Con la conseguenza che, trascorso il tempo previsto dalla legge, il giudice decade dal potere di decidere e l’imputato deve essere lasciato libero dichiarando la improcedibilità a causa di tale decadenza. Come si vede, la logica costituzionale ribalta i regime di prescrizione nato prima della Costituzione con il codice fascista ma le incrostazioni mentali di giuristi e operatori giudiziari hanno fatto in modo di non cogliere mai questo aspetto essenziale voluto dalla Costituzione Repubblicana. Oggi che si vuole discutere seriamente di prescrizione, va detto che la proposta Bonafede marcia certamente in una direzione interessante ma, a mio avviso, pericolosa. È interessante dire che dopo la sentenza non esiste più prescrizione; ancor più interessante sarebbe stato se la scomparsa della prescrizione si fosse inteso stabilirla dal momento del rinvio a giudizio dell’imputato ma questo non coglie lo spirito della Costituzione. Va detto, inoltre, che non operando più la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, il nostro sistema sarebbe caratterizzato da una infinità di eterni giudicabili perché i giudici non avrebbero alcun limite temporale per decidere, così violandosi il principio costituzionale della ragionevole durata dei processi. Credo che sia venuto il momento di risolvere costituzionalmente il problema della prescrizione, capovolgendo la logica attuale. Ognuno intende che se un delitto è una cosa grave e comporta carcerazione, questo accade perché valori essenziali per la convivenza civile sono stati calpestati e in ogni caso lo Stato deve punire e se non punisce tradisce il suo ruolo. Per questa ragione la prescrizione non dovrebbe esistere perché quei valori sono sempre essenziali e il tempo non li fa divenire meno essenziali. Detto questo, però, la Costituzione ritiene di non dover permettere che un cittadino possa essere perseguito per tutta la vita anche perché più tempo passa e più complicato è raccogliere le prove del delitto. Il ribaltamento della logica attuale passa per la determinazione di un tempo ragionevole di durata del processo con la previsione per la quale, ove il giudice non decida, decade dal potere di emettere sentenze, così determinandosi un sistema che obblighi i giudici a lavorare invece di trastullarsi per anni in perdite di tempo varie che fanno pagare solo agli imputati, spesso facendoli rimanere in galera inutilmente ed oltre ogni misura: 4 anni per il processo di primo grado,2 anni per il secondo grado e 2 anni per la cassazione, potrebbero essere cosa accettabile, salvo altre più accettabili proposte. L’attuale sistema, come anche quello che si prospetta, sono e sarebbero fonte di grandi disparità di trattamento tra imputati che raggiungono e altri che non raggiungono la prescrizione e questa violazione sostanziale della Costituzione non è ulteriormente sopportabile. Naturalmente, il giudice che dovesse far cadere il processo sarebbe penalmente e disciplinarmente sanzionabile per non aver fatto il suo dovere. I termini sopra indicati decorrerebbero non dal momento della consumazione del reato ma dall’iscrizione della notizia di reato. Caso Magherini, la sentenza che tutela la forza e non la vita di Luigi Manconi e Valentina Calderone Il Manifesto, 18 novembre 2018 Ci siamo trovati a commentare, in questi anni, sentenze a conclusione di processi che hanno visto a giudizio uomini in divisa accusati di avere provocato, con il loro operato, la morte di alcune persone. È il caso di Riccardo Magherini, che nel 2014 venne fermato a Firenze da una pattuglia di carabinieri, assolti con formula piena dalla Corte di Cassazione tre giorni fa. Questi processi, tutti, hanno tratti sorprendentemente comuni e, verrebbe da dire, immutabili: la vittima è indagata nelle sue attività quotidiane, vengono scandagliate le sue abitudini, elencati i suoi consumi (tanto più quelli illegali), censurato lo stile di vita, messo in cattiva luce il rapporto con la famiglia. Esemplare, in tal senso, la frase di un pubblico ministero nella requisitoria finale del primo processo per la morte di Stefano Cucchi: “Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni”. A parte il fatto che Cucchi 20 anni prima della sua morte di anni ne aveva 11, questo ci sembra un buon sunto del clima di quei processi e di come essere un “drogato” renda più sopportabile, quando non proprio legittima, la sua morte per mano delle forze di polizia. I due processi di primo e secondo grado per quanto accaduto a Magherini si sono conclusi con la condanna a sette e otto mesi per i tre carabinieri accusati di omicidio colposo. In questo caso, a supporto della tesi della sproporzione dell’intervento e dell’uso della coercizione, c’erano dei video, filmati da persone presenti sulla scena. Grazie alle immagini e ai testimoni, si è potuto accertare che Magherini rimase ammanettato con le mani dietro la schiena, steso per terra a pancia in giù, con i tre carabinieri a gravare con le ginocchia sul suo corpo impedendogli di muoversi e respirare, per almeno un quarto d’ora. Quindici minuti in cui l’uomo gridava “aiutatemi”, fino a quando ha smesso di parlare. Ma nemmeno il suo silenzio ha indotto i carabinieri a liberargli i polsi, tanto che all’infermiera arrivata con l’ambulanza è stato impedito di prendere i parametri vitali. Magherini è morto così. E non è solo la sua memoria e i suoi famigliari ad avere subito un duro colpo, perché se la Cassazione decide di annullare senza rinvio la condanna affermando che “il fatto non costituisce reato”, significa che tutti noi abbiamo più di un problema. Leggeremo le motivazioni, ma l’assoluzione piena fa pensare che sia stata sposata totalmente la tesi della difesa, per la quale i carabinieri “non sono dei medici”: impossibile per loro individuare le avvisaglie della mancanza di ossigeno. Peccato che, solo il mese precedente alla morte di Magherini, il Comando generale dell’Arma avesse emanato una circolare a uso di tutti gli operatori in cui venivano esplicitate le linee di intervento nei confronti di fermati in stato di alterazione psicofisica “al fine di ridurre al minimo i rischi per l’incolumità delle persone”. Per esempio, si evidenziava come fosse ritenuto importante scongiurare i “rischi derivanti da prolungate colluttazioni o da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona” e si specificava di evitare “in ogni caso posture che comportino qualsiasi forma di compressione toracica”, la quale “può costituire causa di asfissia posturale”. Il comando dell’Arma, dunque, aveva individuato proprio quella posizione come altamente pericolosa, tanto da imporre una specifica formazione su questo aspetto agli operatori. Parliamo al passato perché, nel frattempo, quella circolare è stata abrogata. Forse si è ritenuto che non fosse più vero che una persona agitata cui venga schiacciata la cassa toracica inevitabilmente smetterà di respirare; o si è pensato che da quegli operatori, titolari dell’uso legittimo della forza, non si dovesse pretendere anche la conoscenza dei minimi elementi di sicurezza indispensabili per evitare la morte delle persone fermate. Non si propone qui l’obbligo della laurea in medicina per tutti i carabinieri, ma davvero ci pare estremamente pericoloso affermare che - a parte la velocità nell’inseguire i furfanti, la forza nel placcarli e la risolutezza nel trattenerli - non sia richiesta loro alcuna competenza per aiutarli a capire quando è il momento di fermarsi. Se per la Cassazione, evidentemente, il bene principale da tutelare è stata l’operatività di quei tre carabinieri al di fuori di ogni vincolo o limite, noi continuiamo a pensare che una vita, la vita di Riccardo Magherini, la vita di chiunque venga fermato da uomini in divisa, valga decisamente più di questo. Magherini e non solo: il precedente “razzista” in Cassazione di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 novembre 2018 “Il ministro Bonafede ci ha promesso un suo interessamento”. La famiglia di Riccardo parla dopo la sentenza di giovedì scorso. Il caso del 2015 dell’annullamento senza rinvio (rari) sostenuto dallo stesso relatore. “Alfonso Bonafede ha seguito sempre il caso di Riccardo, anche prima di diventare ministro ha partecipato a alcuni eventi ed è venuto in tribunale. Ci ha chiamato per vicinanza, è stata una chiamata da amico non da ministro, e ci ha promesso un suo interessamento”. Andrea, il fratello di Riccardo Magherini, l’ex calciatore della Fiorentina morto nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 durante un arresto eseguito dai carabinieri, ha impiegato quasi due giorni per ritrovare la parola. Tanto è stato pesante per lui, la sua famiglia e il loro legale, l’avvocato Fabio Anselmo, il colpo inferto dalla Cassazione che giovedì sera ha annullato senza rinvio “perché il fatto non costituisce reato”, la condanna per omicidio colposo - emessa in primo grado e confermata in Appello - dei tre militari che quella notte ammanettarono il 40enne fiorentino stendendolo prono a terra, schiacciandolo sul selciato e colpendolo, come confermato dai video girati dai testimoni. Ora la famiglia spera nell’intervento del ministro di Giustizia: “Oltre ad aver ucciso un’altra volta Riccardo, questa sentenza proclama il funerale dello Stato di diritto nel nostro Paese - aggiunge Andrea Magherini: scrivere nella sentenza che non costituisce reato vuol dire che le forze dell’ordine possono fermare e picchiare le persone. È grave, siamo in un Paese civile”. E il padre Guido, intervistato da Lady Radio annuncia: “Ho qualche bene, e venderò tutto per dare giustizia a Riccardo”. “Un pronunciamento così fatto non se lo aspettava nessuno, neppure i difensori, ha lasciato tutti allibiti”, riferisce ora l’avvocato Anselmo, legale anche delle famiglie Cucchi, Aldrovandi e di altre vittime delle violenze delle forze dell’ordine, spiegando che per la Cassazione “non sussisterebbe l’elemento psicologico a carico dei Carabinieri imputati perché o non potevano accorgersi di quanto stava accadendo a Riccardo - e cioè che stava morendo asfissiato sotto di loro - oppure (peggio) perché hanno semplicemente fatto il loro dovere non avendo in quel momento alcuna posizione di garanzia sulla salute e sulla vita di quel “soggetto” arrestato”. Magherini quella notte venne fermato mentre era in preda ad un attacco di panico dovuto all’assunzione di cocaina e stava dando in escandescenze. La Corte d’Appello confermò le condanne di primo grado a 8 e 7 mesi di reclusione per i tre carabinieri basando le motivazioni sulle prove prodotte dai video girati con i telefonini da alcuni abitanti del Borgo di San Frediano che mostravano le modalità con cui avvenne l’arresto, la sofferenza della vittima, i colpi che gli vennero inferti mentre era a terra riverso sul selciato, e le sue urla di aiuto mentre stava morendo. I tre militari obiettarono però di non avere le competenze mediche per distinguere se l’arrestato fosse effettivamente in pericolo di vita oppure se fingesse malore, ma i due gradi di giudizio non confutarono il dato reale dei colpi inferti a Magherini mentre era ammanettato con i polsi dietro la schiena. La Cassazione invece ha annullato tutto, evidentemente ritenendo che non ci sono prove “oltre ogni ragionevole dubbio”. “Non è la prima volta che avviene, certamente, anche se gli annullamenti della Cassazione sono in numero limitato, e quelli senza rinvio ancora meno”, spiega il cassazionista Francesco Petrelli, ex segretario dell’ Unione delle camere penali. “Bisognerà leggere le motivazioni per capire, ma certamente il confine tra fatto e diritto, che dovrebbe essere la linea discriminante tra il giudizio di cognizione della Corte d’Appello e il giudizio di legittimità della Cassazione, a volte è incerto”. In ogni caso, conclude Petrelli, la Suprema corte “basa il suo giudizio, di metodo e non di merito, solo sul testo della sentenza e sugli atti di impugnazione, perché non ha in mano né le trascrizioni delle udienze, né le perizie, né i video o i documenti prodotti in dibattimento”. Proprio per questo appare incomprensibile quella formula che sembra entrare nel merito del caso e contro la quale Anselmo ha annunciato di ricorrere alla Corte europea dei diritti umani. Ma c’è un precedente: il 23 giugno 2015, con il medesimo relatore Vincenzo Pezzella, la Cassazione annullò senza rinvio anche un’altra condanna (anche questa confermata da due tribunali) per incitamento all’odio e discriminazione razziale nei confronti di un uomo che aveva distribuito a Trieste durante la campagna elettorale delle europee un volantino dove a fianco delle caricature di rom che rubano, di neri che spacciano, ecc. e di Abramo Lincoln attorniato da dollari, c’era il messaggio: “Basta Usurai - basta Stranieri”. Per la Cassazione non è reato, perché si tratta di un hate speech contestualizzato a un frangente di propaganda politica, e discriminante peraltro non per etnia ma per “l’altrui criminosità”. Palermo: Samuele, morto suicida in carcere. “Mio figlio non doveva essere lì” di Roberto Puglisi livesicilia.it, 18 novembre 2018 Samuele Bua si è suicidato al Pagliarelli. Troppi, forse, l’hanno dimenticato. La sua famiglia no. La madre tiene accanto al cuore il figlio, ritratto nella fotografia sul tavolo del soggiorno. Si chiamava Samuele Bua, aveva ventinove anni. Si è ucciso, il 4 novembre, in una cella del carcere Pagliarelli, a Palermo. Quasi tutti lo hanno già dimenticato, perché per troppi indifferenti il suicidio dietro le sbarre è la variante di una atroce normalità. Coloro che lo amavano, però, non si rassegnano a pensarlo come una cosa di cui si può fare a meno. Samuele, nell’immagine sbiadita, non somiglia a un ragazzo cattivo; smarrito, questo sì. Gli occhi chiari. Il sorriso vago. Sua madre, Lucia Agnello, non grida, non alza nemmeno la voce, mantiene una compostezza che ha il peso della dignità. Dice: “Mio figlio stava male, non doveva essere lì”. C’è una denuncia presentata dalla famiglia. Un’inchiesta accerterà i fatti e chiarirà se ci siano state responsabilità in calce alla tragedia. La signora Lucia, intanto, racconta la storia di un essere umano precipitato nella sofferenza e nell’oblio, attraverso la discarica che chiamiamo carcere: il tappeto che nasconde la polvere dolente che non vogliamo vedere. “Sì, mio figlio stava tanto male - racconta Lucia, assistita da Annalisa ed Ester, altre due figlie - ma di indole era un buono. Abbiamo cercato di non fargli mancare niente dal punto di vista affettivo. Lui era difficile e non siamo stati aiutati da nessuno. Nessuno ci è mai venuto incontro... Ha avuto guai con la droga. Era un tipo nervoso, strappava i documenti e si arrabbiava. L’ultima volta non era riuscito a prendere la pensione e si è arrabbiato ancora di più, non ci stava con la testa. Mi ha chiesto dei soldi, mi ha aggredito. I vicini, sentendo il trambusto, hanno chiamato i carabinieri”. Siamo nel maggio scorso. C’erano stati delle denunce e un provvedimento di allontanamento. Samuele Bua soffriva di allucinazioni, manie di persecuzione. La diagnosi di schizofrenia e turbe comportamentali aveva preceduto il riconoscimento di una invalidità all’ottanta per cento. Era stato ricoverato, in una occasione, per le ferite ai polsi che si era inflitto da solo. Tutto secondo quanto riferito dai familiari. Dopo l’arresto, il percorso classico: le udienze, la vita al Pagliarelli, le visite. Lucia racconta: “In cella aveva rotto un vetro, lanciando un pezzo di caffettiera. Sono andata a trovarlo il più possibile, per quanto era consentito. Era depresso, mi abbracciava, mi baciava e piangeva. Il 21 settembre l’ho trovato molto agitato. Si lamentava, faceva discorsi strani, ripeteva che voleva morire e che aveva una lametta nella scarpa. Io quella lametta, per la verità, non l’ho vista, ma ho avvertito subito gli agenti. Chi c’era si è messo in azione per controllarlo. Samuele era in isolamento. Lui non voleva starci con gli altri detenuti, si sentiva deriso e non capito. Per qualche settimana non ha voluto neanche incontrarci”. La madre accarezza la foto. Annalisa ed Ester la sorreggono durante la chiacchierata. Gli sguardi, a turno, riflettono la profondità della mutilazione. Dal Pagliarelli non si levano repliche, secondo le regole e il riserbo dovuto in presenza di una indagine. Si avverte umana condivisione con la consapevolezza del disagio. Tutto va a finire laggiù, pure i corpi e le anime che andrebbero accuditi altrove. Prigionieri insieme: personale e detenuti nella discarica sociale che inghiotte le esistenze. L’inchiesta verificherà le circostanze riportate nell’esposto. L’avvocato Filippo Mulè, che segue la famiglia Bua, commenta: “Attendiamo gli esiti dell’autopsia. Chiediamo e speriamo che venga fatta piena luce sull’accaduto”. Pino Apprendi, presidente di ‘Antigone Sicilia’, ha espresso indignazione con parole dure: “Ormai è routine, non fa più notizia, tanto il detenuto è considerato un rifiuto. Il ministero non penserà nemmeno di fare una ispezione, sarebbe una perdita di tempo inutile secondo qualcuno. Io dico basta, non è giusto che avvengano tanti suicidi nel carcere, qualcosa non funziona. Questo ragazzo ha ricevuto tutte le cure necessarie? Gli psicologi e gli educatori lo hanno incontrato? Ci sono le relazioni quotidiane dei medici che avevano l’obbligo di visitarlo? Quanti giorni è stato in isolamento e perché non era nel reparto di psichiatria? Possibile che non ci siano responsabili della vita di un uomo o di una donna che entra nel carcere?”. Il garante dei diritti dei detenuti, Giovanni Fiandaca, si è recato nella struttura: “Dei sei psichiatri presenti sulla carta - ha dichiarato - in atto al Pagliarelli sono disponibili e in servizio soltanto in due. Troppo pochi se si considerano le dimensioni del carcere. Occorre che le autorità sanitarie competenti si facciano carico al più presto di intervenire per garantire un servizio psichiatrico adeguato”. Intanto, Samuele Bua è morto. Aveva ventinove anni. Si sarebbe impiccato con i lacci delle scarpe. Gli indifferenti penseranno che non vale la pena di parlarne, né di soffermarsi sull’indistinto carnaio che agonizza all’ombra di corridoi e chiavistelli, la polvere sotto il tappeto. Eppure, questo ragazzo era una persona, come i suoi compagni di reclusione. Era amato ed è rimpianto, oltre gli errori e gli smarrimenti, questo figlio che ora riposa in pace, sul tavolo del soggiorno, accanto al cuore di sua madre. Reggio Calabria: un solo medico di notte per fronte a oltre 300 detenuti di Alfonso Naso Gazzetta del Sud, 18 novembre 2018 Un solo medico nelle ore serali dentro il carcere di Arghillà per oltre 350 detenuti. Una situazione oramai insostenibile e paradossale ma dall’Asp (perché ormai da oltre 10 anni è il servizio sanitario ordinario a gestire anche le attività dentro gli istituti penitenziari) non arrivano segnali di inversioni di tendenza. Manca la costante presenza di un presidio infermieristico e per ogni problematica il medico deve provvedere a tutte le necessità. Rendere operativo un carcere dopo anni di degrado e abbandono e lasciarlo in queste condizioni non è il massimo perché, oltre all’esiguità delle prestazioni sanitarie, come riporta la Gazzetta del Sud in edicola, manca anche il personale ordinario della penitenziaria. Insomma carenza di organico ovunque e un sovraffollamento che, come avviene in quasi tutti gli istituti detentivi italiani, certamente non aiuta. Solo ultimamente c’è stato un primo segnale con la nomina di un referente che deve gestire le tante emergenze ma che non ha poteri certamente di inviare medici e infermieri al carcere. Ma cosa succede se nel penitenziario dovesse succedere qualcosa di “serio” durante la notte? Difficile capirlo ma certamente il medico dovrà sdoppiarsi o anche triplicarsi e di giorno le cose non è che vadano tanto meglio. Durante le ore diurne è presente l’assistenza infermieristica ma manca il presidio-gabinetto radiologico e la specialistica ambulatoriale latita. In sostanza vuol dire che per consulti bisogna attendere l’arrivo di guardie per il trasporto all’esterno con tempi lunghi. Una situazione difficile da gestire e che è nota all’amministrazione penitenziaria che non può fare molto visto che tutto questo grande e importante settore esula dalla sua competenza. Alba (Cn): Bonafede telefona al Dap davanti al sindaco “sbloccate i lavori nel carcere” di Roberto Fiori La Stampa, 18 novembre 2018 Il ministro ha incontrato Marello durante un convegno al Centro ricerche Ferrero. Una telefonata “in diretta” per sbloccare i lavori di ristrutturazione nel carcere “G. Montalto” e l’annuncio di voler tornare presto ad Alba per visitare lo Sportello di prossimità del tribunale, che è attivo dal 5 febbraio 2016 e potrebbe essere potenziato. È l’esito dell’incontro che il sindaco di Alba, Maurizio Marello, ha avuto oggi (sabato 17 novembre) con il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, a margine del convegno “Finanziamento e crisi della piccola media impresa” organizzato dall’associazione albese Studi di diritto commerciale. Il ministro è arrivato al Centro ricerche Ferrero intorno alle 10 per un intervento su “Governo del cambiamento e riforma della legge fallimentare”. Ma al di là delle importanti questioni nazionali affrontate dal convegno da relatori illustri come il neo vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, David Ermini, il presidente del Consiglio nazionale dottori commercialisti, Massimo Miani, e il direttore generale di Banca d’Italia, Salvatore Rossi, ad Alba premeva avere risposte sulle due scottanti problematiche locali. Sulla riapertura dei tribunali soppressi, Bonafede ha risposto a Marello e successivamente ha ribadito al consigliere comunale pentastellato Ivano Martinetti che “è molto complicato riaprire i tribunali”. Il ministro sta puntando sugli Sportelli di prossimità e, venendo a conoscenza della positiva esperienza albese, ha detto che verrà a visitarlo per promuovere le buone pratiche. Intanto ha chiesto una relazione dettagliata sullo Sportello per capire come funziona e valutare la possibilità di incrementarne i servizi. Per quanto riguarda i lavori nella casa di reclusione, il sindaco e il garante Prandi hanno consegnato al ministro una relazione sul carcere chiuso nel 2016 dopo i casi di legionella e riaperto solo parzialmente nel 2017. Hanno chiesto il prosieguo dei lavori nella struttura, considerato anche che 4,5 milioni di euro sono già stati stanziati dal ministero della Giustizia. Bonafede ha comunicato in diretta con il capo del Dap, Francesco Basentini, chiedendo di sbloccare la vicenda. Torino: folla per Ilaria Cucchi al Campus, poi all’Anpi con Mimmo Lucano di Mauro Ravarino Il Manifesto, 18 novembre 2018 Nella notte Forza Nuova ha affisso davanti al conservatorio uno striscione: “Anpi oggi come ieri: traditori del popolo”. Ilaria Cucchi replica: “Abbiamo le spalle larghe, sono abituata a insulti e accuse”. Troppo piccolo il conservatorio Verdi di Torino per raccogliere l’affetto attorno a Ilaria Cucchi e Mimmo Lucano, che ieri hanno ricevuto la tessera onoraria dell’Anpi. In molti, durante la cerimonia, sono rimasti fuori dalla sala concerti. È stata una decisione forte e importante quella dell’associazione partigiani guidata da Carla Nespolo, una scelta che testimonia vicinanza ai nuovi partigiani della Costituzione e a chi spende la vita per i diritti degli ultimi. Insieme alla sorella di Stefano Cucchi, morto nel 2009 mentre era in stato di arresto, e al sindaco di Riace, sottoposto tuttora al divieto di dimora, anche l’artista Ugo Nespolo ha ricevuto la tessera onoraria dall’Anpi: “Il nostro dovere di intellettuali - ha detto - è smascherare il fascismo, sempre”. Ilaria è stata accolta dagli applausi. “Abbiamo portato avanti una battaglia di civiltà in un momento in cui eravamo soli, questo riconoscimento mi onora e mi emoziona”, ha dichiarato a caldo. “Stefano - aveva sottolineato poche ore prima nella presentazione del film “Sulla mia pelle” al campus universitario Einaudi - è morto per l’indifferenza, quella di oltre centoquaranta pubblici ufficiali, tra forze dell’ordine, giudici, infermieri e medici. Nessuno di loro ha fatto nulla, nessuno ha denunciato subito quello che aveva davanti agli occhi. Stefano non era un eroe, era un tossicodipendente, un essere umano anche un po’ rompiscatole, ma questo non c’entra nulla con quello che gli hanno fatto. È morto come un ultimo tra gli ultimi e non è giusto”. Emozionato, Lucano, il sindaco dei migranti, nel ricevere il riconoscimento. “È sorprendente dopo le amarezze di questo periodo avere questa dimostrazione di affetto, non l’avrei immaginato. Questo governo ci indica la strada della barbarie e della disumanizzazione. Stiano correndo il grave pericolo di una società autoritaria. Dobbiamo essere uniti. Ora stanno trasferendo tutti i rifugiati, pensano che questa sia una vittoria, in realtà è una sconfitta. Riace la sua vittoria l’ha già avuta e quello che è accaduto a Riace, una terra difficile per tante ragioni, può essere possibile in tutta Europa”. Nella notte tra venerdì e sabato Forza Nuova ha affisso davanti al conservatorio uno striscione: “Anpi oggi come ieri: traditori del popolo”. Ilaria Cucchi ha replicato: “Abbiamo le spalle larghe, sono abituata a insulti e accuse. Più volte sono stata accusata di strumentalizzare la morte di mio fratello. Sì, l’ho fatto e lo farò finché ne avrò la forza perché è troppo facile far finta che gli ultimi non esistano, convincere le persone che il nostro benessere è legato alla violazione dei diritti di qualcun altro. I diritti non sono per nessun motivo sacrificabili”. Milano: Bookcity, carcerati e agenti leggono poesie insieme di Paola Farina radiolombardia.it, 18 novembre 2018 Oggi, domenica 18 novembre, alle 18.00 alla Casa della Memoria (via Federico Confalonieri 14, Milano), nell’ambito della rassegna Bookcity detenuti, agenti, operatori e volontari del carcere di San Vittore, leggeranno i versi dell’antica poesia persiana, alternandoli con gli appunti dei propri diari. Il reading “Leggendo Simurgh” mescola l’esperienza concreta di chi sperimenta la difficoltà di vivere l’incontro tra tradizioni religiose e culturali differenti nella realtà carceraria e alcune delle pagine più belle e affascinanti del poema “La conferenza degli uccelli”, grande metafora del viaggio verso la verità oltre le differenze. Nell’antica opera risalente al XII secolo il misterioso poeta e viaggiatore Farid Addin racconta come, per sottrarsi al caos e alla disperazione che opprimono il mondo, l’Upupa raccolga la moltitudine di tutti gli uccelli esistenti e la guidi alla ricerca di un re perduto, Simurgh, che si dice abbia tutte le risposte. È l’inizio di un viaggio meraviglioso e tremendo verso la dimora del sovrano, protetta da sette misteriose valli. In ognuna, gli uccelli dovranno affrontare insidie mortali: ma chi riuscirà a superarle otterrà una rivelazione inattesa. Il racconto ha incantato da sempre chi lo legge o lo ascolta. Carcerati, agenti e operatori hanno studiato il testo nella versione del poema nelle loro rispettive lingue, l’italiano e l’arabo, sotto la guida della regista Roberta Secchi, attrice e pedagoga teatrale all’interno di laboratori in cui hanno potuto rielaborare la propria personale esperienza. Il testo che sarà recitato in italiano è il frutto del personale incontro di ognuno degli interpreti con l’opera letteraria. Il reading rientra nel “Progetto Simurgh - Conoscere e gestire il pluralismo religioso negli istituti di pena lombardi” promosso nelle 9 carceri lombarde. Il progetto cofinanziato da Fondazione Cariplo con la collaborazione dell’Università degli Studi di Milano - Dipartimento di Scienze giuridiche Cesare Beccaria, è l’esito del lavoro di un’équipe che riunisce il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, la Pinacoteca e biblioteca ambrosiana, la Curia arcivescovile di Milano, la Caritas Ambrosiana, la Comunità Ebraica di Milano, la Comunità Religiosa Islamica Italiana, l’Istituto studi di buddismo tibetano di Milano Ghe Pel Ling, Biblioteche in rete di San Vittore. Isernia: manufatti dei detenuti per il mercatino di beneficenza isnews.it, 18 novembre 2018 La casa circondariale di Ponte San Leonardo aderisce all’iniziativa solidale e sociale organizzata per il mese di dicembre nel capoluogo pentro. Il carcere di Isernia aderisce all’iniziativa solidale e sociale dell’Associazione pentra Onlus famiglie Sma, attraverso la produzione e donazione, da parte della popolazione detenuta, di manufatti artigianali che potranno essere utilmente impiegati nell’ambito del mercatino di beneficenza organizzato nel mese di dicembre dalla stessa Associazione. Ad annunciarlo la direttrice della Casa circondariale Maria Antonietta Lauria: “Preme sottolineare - afferma in una nota - come i detenuti abbiano aderito entusiasticamente alla proposta, esprimendo vicinanza e solidarietà a persone, che come loro, vivono condizioni di dolore e sofferenza. La sensibilità e l’empatia, che tale gesto permette di promuovere e sostenere, consente loro di sentirsi utili e vicini alla comunità esterna, in particolare alle fasce più bisognose di tutela ed affetto, quali quelle dei bambini e degli ammalati. In questa iniziativa la persona detenuta ricostruisce un rapporto positivo con la società, ritrova un riconoscimento della propria dignità ed alimenta l’amore genitoriale esperito tramite l’immedesimazione dei bimbi dell’associazione con il proprio figlio. A questa importante opportunità riabilitativa, per la quale si ringrazia la referente regionale dell’Associazione Oriana Lauducci - ancora la direttrice - ha preso parte con gran motivazione l’intero staff educativo interno all’Istituto, sostenuto sensibilmente dall’Area Sicurezza: in particolare la scuola carceraria Cpia della dirigente Clotilde Franco, sensibile e attenta alle più critiche e delicate tematiche sociali, il cui corso interno è condotto dall’insegnante Lucia Lozzi, sensibilmente motivata alla realizzazione di un efficace percorso non meramente didattico, ma di ricostruzione etica e valoriale, e il giornalista Umberto Di Giacomo, ideatore e referente del Laboratorio di Lettura, fortemente impegnato in un significativo progetto di crescita ed evoluzione morale, etica e sociale della personalità dei ristretti”. Lanciano (Aq): lettura nel carcere, premiato il progetto Il Centro, 18 novembre 2018 Il progetto di promozione della lettura “Uomo, un patrimonio da salvare” della casa circondariale e del liceo classico di Lanciano è stato premiato dal Centro per il libro e la lettura del Mibact tra le cinque migliori iniziative a livello nazionale tra quelle aderenti al Maggio dei Libri. “Un successo per la nostra città che spinge a fare ancora di più per diffondere cultura dal basso, a partire dalla lettura e dai libri”, commenta l’assessore alla cultura Marusca Miscia. Il progetto è stato promosso e realizzato dalla casa circondariale di Villa Stanazzo e dal Classico Vittorio Emanuele II ed è stato premiato dal Cepell quale migliore iniziativa nella categoria carceri, strutture sanitarie e di accoglienza per anziani, ex-aequo con il progetto “Leggi con me e vola” della scuola primaria dell’ospedale pediatrico Bambin Gesù di Santa Marinella (Roma). Il lavoro è stato realizzato concretamente con i detenuti dalle volontarie operanti nel carcere Alessandra Di Labio e Cristiana Antonelli. “Questo premio è un’enorme soddisfazione soprattutto per i detenuti, che erano e sono il fulcro del progetto”, dicono le due volontarie, “con i detenuti e i ragazzi della VB del liceo classico abbiamo riflettuto su quanto sia importante valorizzare quello che c’è nel nostro io più profondo, che sia una fragilità o un punto di forza, un difetto piuttosto che un pregio. Ringraziamo la direttrice della casa circondariale, Lucia Avantaggiato, per la fiducia nei nostri percorsi di rieducazione e volontariato e l’amministrazione comunale per aver accolto la nostra domanda di partecipazione al progetto”. La cerimonia di premiazione si terrà mercoledì 5 dicembre, alle 15,30, nella sala della Luna della Fiera della piccola e media editoria “Più libri più liberi” al Roma Convention Center-La Nuvola. Caserta: iniziativa della Gmc Onlus nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ottopagine.it, 18 novembre 2018 L’evento Gospel nella Casa circondariale con 40 detenute e gli educatori. Si è tenuto questa mattina nel carcere di Santa Maria Capua Vetere un evento che ha coinvolto i detenuti della locale casa circondariale a cura de La Gmc Onlus, attiva dal 2013 nello svolgere opere di solidarietà e nell’apportare aiuti materiali, morali, ma soprattutto spirituali ai detenuti e alle rispettive famiglie, ha promosso un evento Gospel nel carcere sammaritano. Il penitenziario di Santa Maria Capua Vetere ha accolto la GMC offrendo collaborazione e partecipazione, allestendo una stanza all’interno del reparto Senna, reparto per detenute di sesso femminile. All’iniziativa hanno partecipato più di 40 recluse accompagnati da guardie ed educatori. “Lodi al Signore” si sono elevate grazie alla partecipazione dei Controtempo band, gruppo musicale che da anni collabora con la Gmc onlus nelle carceri di tutta Italia. La band ha esordito realizzando cantici spirituali, permettendo - spiegano dalla Onlus - alle detenute presenti in quel luogo di toccare con mano grandi benedizioni. Il canto, l’adorazione hanno toccato i cuori delle presenti che hanno potuto partecipare alla pace e alla gioia che solo Dio sa e può dare. Tante anime hanno invocato il Signore ed hanno aperto il loro cuore al Redentore”. Domenico Turco, pastore evangelico delle Assemblee di Dio in Italia proprio nella città di Santa Maria Capua Vetere e membro del direttivo Gmc Onlus, ha diretto e presenziato l’evento. I “controtempo band” si sono esibiti proponendo cantici spirituali. Giuseppe Di Iorio, pastore evangelico delle Assemblee di Dio in Italia, ha predicato un messaggio dalla Parola di Dio. “Decine e decine di detenute hanno potuto ascoltare le lodi ed il messaggio dell’Evangelo e questo per noi è una gioia immensa”, ha sottolineato Maria Garofalo, presidentessa della Gmc Onlus. “Queste donne nei loro occhi esprimono profonde sofferenze e la lontananza dai propri figli e dalla propria famiglia li logora interiormente. Portare un messaggio di pace e di speranza a queste persone è una missione, un piacere, ma anche un dovere spirituale che abbiamo in cuore di adempiere per la gloria del nostro Signore” L’evento si è concluso con l’invito a continuare a partecipare alle riunioni evangelistiche che ogni settimana, il lunedì mattina, il pastore Giuseppe di Iorio, che da anni svolge la pastorale carceraria nelle svariate carceri campane, tiene nel carcere sammaritano e con l’invito a ricevere il messaggio dell’evangelo anche nelle rispettive famiglie, delle quali alcune sono già curate spiritualmente dal pastore Domenico Turco insieme col gruppo gmc Onlus. Tante sono state le adesioni agli inviti proposti. La gmc onlus e la band Controtempo non si fermano. Ci sono ancora molti progetti che hanno in programma di attuare in Campania e in tutta Italia e tanti sono gli eventi già programmati che prenderanno vita a breve”. “Finalmente per me e Fabo vince il principio di libertà” di Valeria Imbrogno Il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2018 La compagna del dj dopo la sentenza. Non è nemmeno questione di eutanasia: per noi (Fabo ed io), è la vittoria del concetto di libertà. Quello stesso principio che ha lasciato Fabo libero di poter scegliere cosa fare della sua vita fino alla fine, e della sua sofferenza, e io libera di rispettarne con amore l’autodeterminazione. Per me, oggi, leggere le motivazioni della Corte costituzionale è dare un significato a quella immensa sofferenza, vissuta insieme prima, e da sola poi con la sua mancanza. È dare un senso, se non il senso, a tutto il dolore provocato dall’impedimento, e la fatica nel cercare di realizzare la sua volontà. Oggi è come se intravedessi la speranza di poter realizzare quello che Fabiano voleva: poter regalare un po’ di libertà a tutte quelle persone che soffrono come lui. La Corte dice proprio questo: “L’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione “. E ancora: “Il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2,13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita”. Non sono abituata al linguaggio giuridico, ma riconosco in queste parole ciò che abbiamo vissuto, le sento coerenti con l’idea che mi sono fatta del concetto di dignità e di autodeterminazione. Credo soprattutto che Fabo ne sarebbe fiero e orgoglioso: parlando della sua condizione la Corte parla di tanti malati che ancora soffrono e soffriranno in futuro. Grazie al lavoro dell’Associazione Luca Coscioni, dei Radicali e della disobbedienza civile di Marco Cappato, non solo il desiderio di Fabiano è stato esaudito, ma certamente lo sarà anche quello di altri. Ripenso a quando decise di agire pubblicamente, di non cercare una soluzione di nascosto, nonostante le difficoltà in più che sapevamo sarebbero arrivate. E mi piace immaginare che oggi forse mi guarderebbe dritto negli occhi e mi direbbe: “Lo sapevo! hai visto che ce l’abbiamo fatta?”. Un po’ incredula e un po’ complice, gli risponderei con un silenzio, facendogli così capire che ancora una volta la penso come lui. Sperare che il Parlamento possa arrivare a decidere e legiferare concretamente partendo da una battaglia consapevole intrapresa anni fa da Fabiano mi aiuta a dare ancora più senso a una sua risposta mentre gli chiedevo aiuto. “Come farò io senza di te Fabo?”. Mi sorrise: “non ti devi preoccupare, ti lascerò un sacco di cose importanti da fare che non avrai tempo di stare male!”. Cresce la popolazione carceraria femminile in America latina di David Lifodi labottegadelbarbieri.org, 18 novembre 2018 Mancano politiche di genere adeguate e delle attività che possano favorire il reinserimento delle recluse nella società. Povertà, mancanza di lavoro e di adeguate politiche di genere sono tra le cause che hanno provocato la forte crescita della popolazione carceraria femminile in America latina. A dirlo è la Comisión Interamericana de Mujeres, che sottolinea il coinvolgimento spesso forzato delle donne (definite mulas o burreras) nel trasporto e nel commercio della droga. Uno studio del Centro de Investigaciones y Estudios Superiores en Antropología Social (Ciesas) mette in rilievo, inoltre, altri fattori, tra cui la mancanza di misure alternative al carcere, i lunghi tempi di attesa prima del processo, l’inasprimento delle pene ed il costante aumento del numero di donne che si sono macchiate di delitti gravi. Anche se le detenute rappresentano soltanto il 5% del totale dei reclusi nelle carceri latinoamericane, preoccupa che la loro attitudine a delinquere avvenga attraverso le attività illecite dei loro compagni o mariti. Più che essere legate all’utilizzo delle armi o all’uso della violenza in qualità di prime responsabili, le donne sono spesso vittime sfruttate da un sistema che non offre la possibilità di poter contare su un lavoro stabile e su un salario fisso e le costringe, fin da giovanissime, a doversi occupare obbligatoriamente dei figli e della casa, in una sorta di figura perenne di ama de casa (donna di casa) alla quale sono relegate dai mariti. È in questo contesto che si legano al traffico e al trasporto della droga, una delle poche possibilità che hanno per garantirsi un salario. Purtroppo, quando escono dal carcere si trovano di fronte le stesse, minime possibilità di trovare lavoro del periodo precedente alla detenzione e, in gran parte dei casi, finiscono per rimanere impigliate nel giro della piccola delinquenza. Per evitare il ritorno in carcere delle donne servirebbero delle politiche in grado di ridurre, se non far scomparire, gli episodi di violenza domestica e favorire il loro reinserimento nella società e nel mondo del lavoro, soprattutto dal punto di vista di una prospettiva di genere che però resta assente. Il carcere rappresenta per le donne un ulteriore spazio discriminatorio e oppressivo: prevale l’idea che se si trovano in carcere sono necessariamente portate a delinquere e tutto ciò cozza contro il ruolo di sposa, madre, sottomessa, dipendente e docile tipico di una certa cultura machista latinoamericana. Tutto ciò, implicitamente, è condiviso dagli stessi istituti di pena, dove si ricorre alle tradizionali attività di socializzazione pensando che per aiutare le carcerate a tornare alla vita reale basti far seguire loro corsi di cucina e di cucito e promuovere lavori domestici per invitarle a stirare, a pulire e a realizzare piccoli lavori di artigianato, tutte attività poco redditizie che difficilmente permetteranno alle donne di poter contare su un lavoro sufficientemente remunerato per essere indipendenti una volta uscite dal carcere. Gli istituti di pena latinoamericani si contraddistinguono per il gran numero di detenuti non condannati in attesa di giudizio, carcere duro, mancanza di cure mediche adeguate e poche iniziative di carattere educativo, ma nelle carceri femminili uno degli aspetti più difficilmente sopportabile per le recluse riguarda la mancanza dei propri figli. Tra loro prevale il timore di essere considerate della malas madres, delle cattive madri, dai loro stessi figli, e questo si somma alla solitudine che ne caratterizza la vita carceraria, spesso abbandonate anche dai loro mariti o compagni, con la totale assenza di prospettive una volta uscite dal carcere. In alcuni paesi, la legislazione carceraria permette che i minori possano rimanere in carcere con le madri dalla loro nascita fino ai 4 anni (in alcuni casi anche fino a 11), ma tutto ciò rappresenta comunque una evidente violazione dei diritti umani poiché le donne restano facilmente ricattabili e sono costrette a mantenere una condotta necessariamente docile e rassegnata pur di poter restare insieme ai loro figli. Ancora più difficoltosa la situazione delle madri che arrivano in carcere in stato di gravidanza. Trasferite in ospedale giusto il tempo del parto, anche lì subiscono le stesse forme di discriminazione degli istituti di pena e sono guardate con estremo sospetto. Attualmente l’America latina, insieme all’Asia, è la regione del mondo con il maggior numero di detenute. Stati Uniti. Il progetto no-profit che consegna i libri ai detenuti libreriamo.com, 18 novembre 2018 Dal 2004, l’Appalachian Prison Book Project ha distribuito circa 25.000 libri ai detenuti nella regione degli Appalachi, la catena montuosa situata nella parte orientale del nord America. Solitamente, le biblioteche carcerarie di oggi non sono molto curate, hanno libri obsoleti accatastati o disseminati in modo malconcio. Alcune carceri stanno persino tentando di eliminare completamente le biblioteche, obbligando contemporaneamente i detenuti a pagarsi gli e-reader per leggere libri in formato digitale (In Pennsylvania, i detenuti per leggere devono pagare un tablet da $ 147). In America, fortunatamente, esiste un progetto per favorire la voglia di lettura da parte dei carcerati. Si chiama Appalachian Prison Book Project (APBP) è un’organizzazione senza scopo di lucro con sede a Morgantown, West Virginia, che invia libri gratuiti a persone detenute in sei stati negli Appalachi, la catena montuosa situata nella parte orientale del nord America che comprende Kentucky, Tennessee, Ohio, Maryland, Virginia e West Virginia. La cofondatrice - “La qualità delle librerie è molto irregolare. Le persone non hanno accesso ai libri che desiderano veramente leggere, in particolare se ricercano un argomento specifico. Alcune carceri cercano di fare prestiti inter-bibliotecari, ma è un servizio che va molto a rilento e limitato”. Parla così Katy Ryan, professoressa alla West Virginia University e cofondatrice dell’Appalachian Prison Book Project, ai colleghi di Buzzfeed Books. Ryan mostra al giornalista una recente lettera di un detenuto nel Tennessee che descrive la biblioteca nella sua struttura. “La nostra biblioteca qui non è molto grande, e inoltre, per accedere ad esso serve un atto del Congresso. Sono un detenuto indigente e non ho TV, radio, ecc., quindi i libri sono la mia vita. Un collega detenuto ha detto che voi ragazzi potete aiutarmi a ottenere nuovo materiale di lettura.” Libri importanti per i carcerati - The Appalachian Prison Book Project, fondato nel 2004 da Ryan e dal collega professore (e recentemente eletto sindaco di Morgantown) Mark Brazaitis, è nato in una classe in cui Ryan ha insegnato la letteratura carceraria. “Durante la lettura di opere di persone precedentemente detenute o in carcere, abbiamo appreso quanto fossero importanti per loro i libri - spiega Ryan - Ho detto agli studenti che non sapevo se esistesse un progetto bibliotecario nel carcere nel West Virginia. Abbiamo quindi scoperto che non ce n’era uno nell’intera regione. Quindi, abbiamo preso contatto con quei sei stati e ci siamo impegnati a inviare libri a persone che li volevano “. Come funziona il progetto - Ryan e dei suoi volontari iniziarono a lavorare in una cantina di una chiesa, per poi finalmente trovare una sede all’interno dell’Aull Center, un edificio storico nel centro di Morgantown dove il piccolo spazio donato degli uffici è impilato in alto con lettere in arrivo e libri in uscita. In ogni momento, ci sono fino a una dozzina di volontari, tutti formati nel sistema APBP, che ricevono lettere di richiesta di libri da parte dei detenuti. La maggior parte dei libri donati proviene dalla comunità locale di Morgantown, ma l’APBP riceve regolarmente anche scatoli pieni di romanzi, guide pratiche e oltre, da tutto il paese. I libri con copertina morbida sono preferiti ai libri a copertina rigida (che sono più difficili da inserire nelle prigioni). “L’ufficio [Apbp] è aperto sei giorni alla settimana, così le persone possono entrare e rispondere [alle lettere] a loro piacimento. È intrecciato con le vite delle persone - spiega Ryan - Stiamo solo cercando di portare libri a persone che vogliono leggere, e può essere difficile portare i libri in carcere in altri modi”. Il passaparola - All’interno delle prigioni, le informazioni su APBP si diffondono principalmente tramite passaparola o lettere tra individui detenuti in luoghi diversi. Ryan afferma che prima ancora che il programma fosse ufficialmente attivo e funzionante, ricevevano dozzine di lettere di richiesta dai detenuti di tutti gli Stati Uniti, basati esclusivamente su reti di comunicazione all’interno delle strutture. Il bisogno di libri all’interno delle carceri è forte. La forza trainante di APBP, senza dubbio, è Ryan, che alimenta l’APBP grazie all’entusiasmo della sua comunità, l’aiuto degli studenti della West Virginia University e le modeste donazioni senza scopo di lucro. Ryan è la figlia di un assistente sociale e lavorare con i giovani nel sistema giovanile all’inizio degli anni ‘90 l’ha spinta ad impegnarsi a tempo pieno nel movimento per la giustizia sociale. Cosa vogliono leggere i carcerati - Il programma ha avuto un enorme impatto sulle comunità incarcerate negli Appalachi negli ultimi 14 anni. L’APBP è uno dei circa 30 progetti legati ai libri per i prigionieri negli Stati Uniti, la maggior parte dei quali si concentra su uno specifico stato o area geografica. Da APBP ricevono circa 100 lettere a settimana dai detenuti e hanno distribuito circa 25.000 libri totali fino ad oggi. Gli almanacchi e le enciclopedie sono spesso richiesti e una lista dei desideri di Amazon delinea le loro ultime esigenze: libri sul disegno, western, romanzi di fantascienza, libri di incantesimi, manuali di istruzioni per sopravvivere fuori dalla prigione. Il libro più richiesto, di gran lunga, è un dizionario. Stati Uniti. Caso Assange, tutto quello che c’è da sapere sull’incriminazione di Stefania Maurizi La Repubblica, 18 novembre 2018 Contro il fondatore di WikiLeaks esiste un mandato coperto da segreto. Fin dal 2010, le autorità Usa hanno cercato di incriminare Assange e la sua organizzazione per la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano. Ieri i grandi media americani, dal Wall Street Journal al Washington Post e New York Times, hanno rivelato che esiste un mandato di incriminazione coperto da segreto contro il fondatore di WikiLeaks. Repubblica ricostruisce tutto quello che c’è da sapere sul caso. Non si sapeva già da molto tempo che le autorità americane erano pronte a incriminare Julian Assange? Sì, le intenzioni delle autorità Usa erano note fin dall’inizio. Nel 2010, quando WikiLeaks iniziò a pubblicare i documenti segreti più esplosivi del governo americano - come il video “Collateral Murder”, in cui si vedeva un elicottero USA Apache sparare su civili inermi a Baghdad e i cablo della diplomazia Usa - le autorità Usa aprirono immediatamente un’inchiesta del Grand Jury, ad Alexandria, in Virginia. L’inchiesta è rimasta attiva fin da allora ed è coperta da segreto da ben otto anni. Le intenzioni delle autorità americane erano, quindi, ben chiare dall’inizio, ma ora la novità è che c’è un ordine di incriminazione per Julian Assange da parte del governo americano. Come sappiamo per certo che c’è un ordine di incriminazione da parte degli Usa? Lo sappiamo grazie a quello che sembrerebbe essere un “incidente spettacolare” da parte delle autorità americane: per otto anni hanno tenuto segreto qualsiasi elemento dell’inchiesta giudiziaria contro il fondatore di WikiLeaks e il suo staff. Poi, improvvisamente ad agosto, hanno commesso un errore a dir poco marchiano: hanno fatto il copia-incolla di un passaggio dell’atto segreto di incriminazione di Julian Assange in un atto giudiziario relativo a un’inchiesta della magistratura Usa che nulla ha a che vedere con il caso Assange, e così hanno rivelato l’esistenza dell’ordine di incriminazione contro il fondatore di WikiLeaks che intendevano mantenere segreto. L’atto giudiziario è disponibile in inglese (e in pdf) qui. Di cosa è accusato esattamente Julian Assange? L’atto giudiziario che ha rivelato l’incriminazione non lo specifica. Fin dal 2010, però, le autorità americane hanno cercato di incriminare Assange e la sua organizzazione per la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano, utilizzando il controverso Espionage Act, una legge draconiana del 1917 pensata per punire i traditori che durante la Prima guerra mondiale passavano informazioni al nemico. Si tratta della stessa legge utilizzata in modo particolare dal presidente Barack Obama per punire tutte le fonti giornalistiche, i whistleblower e i giornalisti che hanno rivelato informazioni segrete sugli abusi del governo americano dopo l’11 settembre. L’Espionage Act ha colpito, tra gli altri: Chelsea Manning, la fonte giornalistica che ha passato tutti i documenti pubblicati da WikiLeaks nel 2010 (Collateral Murder, Afghan War Logs, Iraq War Logs, i cablo e le schede dei detenuti di Guantanamo); Edward Snowden per la rivelazione dei programmi di sorveglianza di massa della Nsa; John Kiriakou per aver rivelato alla stampa le torture della Cia; Thomas Drake, per aver parlato con giornalisti e membri del Congresso Usa degli abusi della Nsa; Reality Winner per aver rivelato alla stampa un documento segreto sui presunti tentativi di hackeraggio dei sistemi elettorali americani nel 2016. Gli Stati Uniti possono arrestare ed estradare Julian Assange e il suo staff? Fino a quanto Julian Assange rimane nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, in cui si trova confinato dal 19 giugno 2012, protetto dall’asilo che gli ha concesso l’Ecuador, gli Stati Uniti non potranno estradarlo. Il problema è fino a quando l’Ecuador reggerà alle pressioni di grandi potenze, come Usa e Inghilterra, che premono affinché l’Ecuador arrivi ad espellerlo dall’edificio. Se Julian Assange viene buttato fuori dall’ambasciata dell’Ecuador, che succede? Viene immediatamente arrestato dalle autorità inglesi sulla base di un ordine di arresto per aver violato le condizioni del rilascio di cauzione, nel 2012, quando non si consegnò alle autorità svedesi che volevano estradarlo per interrogarlo in merito alle accuse di stupro (in realtà la fattispecie meno grave in assoluto, che la legge svedese caratterizza come “minor rape”), e si rifugiò nell’ambasciata dell’Ecuador per chiedere asilo. L’Ecuador, allora guidato dal presidente Rafael Correa, glielo concesse perché ritenne fondato il rischio che, se estradato in Svezia per essere interrogato, avrebbe poi potuto essere estradato negli Usa e incriminato per la pubblicazione dei documenti segreti. Se Assange esce o viene espulso dall’ambasciata dell’Ecuador e viene arrestato dall’Inghilterra, poi qual è lo sviluppo successivo? Una volta arrestato dagli inglesi, le autorità americane inizierebbero il procedimento di estradizione. L’esistenza dell’ordine di incriminazione che, recita il documento, doveva rimanere segreto fino a quando Assange non fosse arrestato, in modo da non potersi più sottrarre all’arresto, conferma questa strategia. È dal 2010 che i legali di WikiLeaks mettono in guardia Assange e WikiLeaks contro questo rischio. Di qui la scelta di Assange di combattere l’estradizione in Svezia con le unghie e con i denti, convinto che l’arresto e l’estradizione svedese lo avessero esposto all’arresto e all’estradizione negli Usa. Ma in Svezia Assange è ancora ricercato? No, la Svezia ha archiviato l’inchiesta il 19 maggio 2017, dopo averlo interrogato a Londra, come Assange e i suoi legali avevano chiesto fin dall’inizio. La paralisi giudiziaria e diplomatica creata dalla decisione della Svezia di non andare a interrogare Assange a Londra ha prodotto un’inchiesta rimasta alla fase preliminare per ben sette anni, senza che i magistrati svedesi si decidessero a incriminarlo o a scagionarlo una volta per tutte. Il nostro giornale ha rivelato grazie a un’azione legale in tribunale a Londra, il ruolo delle autorità inglesi nel contribuire a creare questa paralisi, sconsigliando ai procuratori svedesi l’unica soluzione giudiziaria che avrebbe permesso una rapida conclusione delle indagini: interrogare Assange a Londra, come lui aveva chiesto, invece che estradarlo a Stoccolma solo per interrogarlo. È sicuro che l’Inghilterra estraderebbe Assange e il suo staff se le autorità Usa lo richiedessero? È certo che le autorità inglesi non hanno alcun problema a estradare Julian Assange e il suo staff, nonostante il Tribunale di Londra a cui il nostro giornale ha fatto ricorso per avere tutti i documenti del caso Assange e WikiLeaks abbia sentenziato che WikiLeaks è un’organizzazione giornalistica (qui il Guardian in inglese). Nel corso del dibattimento, le autorità inglesi hanno chiarito che Repubblica non ha alcun diritto di sapere se esiste una richiesta di estradizione da parte degli Usa contro Julian Assange perché rendere nota questa informazione equivarrebbe a fornire “una soffiata” al fondatore di WikiLeaks, soffiata a cui non ha diritto, secondo le autorità di Londra. Questa sentenza lascia emergere il fatto che Londra è disposta a considerare l’estradizione di Assange come quella di un criminale qualunque, non importa che egli abbia pubblicato documenti nel pubblico interesse in collaborazione con decine di media internazionali. Per le autorità inglesi, se c’è o se ci sarà una richiesta di estradizione, verrà valutata alla stregua di tutte le altre. Assange non può difendersi dall’incriminazione per aver pubblicato i documenti segreti del governo Usa, dicendo che si tratta di un lavoro giornalistico, visto che perfino il Tribunale di Londra nella sentenza sull’appello di Repubblica ha riconosciuto WikiLeaks come organizzazione giornalistica? No, purtroppo, se lui e il suo staff di WikiLeaks verranno incriminati ai sensi dell’Espionage Act - come accaduto a Chelsea Manning, Edward Snowden e tanti altri giornalisti o fonti giornalistiche- non potranno appellarsi al fatto che le loro rivelazioni sono un atto di giornalismo, ovvero la rivelazione di documenti nel pubblico interesse. Non possono farlo, perché l’Espionage Act non consente una tale difesa: la controversa legge del 1917 punisce la pubblicazione di informazioni segrete a prescindere da qualsiasi motivazione che possa averla determinata. L’Espionage Act mette esattamente sullo stesso piano traditori che vendono informazioni al nemico e giornali o fonti che rivelano file segreti per fini nobilissimi, come far conoscere il vero volto della guerra in Afghanistan o le torture della Cia. Assange non è anche al centro di un’inchiesta sulle presunte operazioni di influenza dei russi nel voto per le presidenziali Usa del 2016? Sì, ma per quello che se ne sa, ad oggi, né Assange né nessuno del suo staff o dei suoi legali è stato mai convocato o anche contattato dal procuratore americano Robert S. Mueller, che ha condotto l’inchiesta. Cosa rischia Assange se viene estradato e incriminato negli Usa per la pubblicazione dei documenti? Pene pesantissime: dai 30 anni di prigione fino all’ergastolo o la pena capitale. Considerando che Chelsea Manning per undici mesi è stata trattata in condizioni che lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite ha definito “crudeli e inumane” e considerando anche che nei sette anni di prigione Chelsea ha tentato il suicidio per due volte, è prevedibile immaginare come potrebbe essere trattato il fondatore di WikiLeaks in una prigione di massima sicurezza. Perché organizzazioni come l’American Civil Liberties Union (Aclu) e anche il Committee to Protect Journalists (CPJ) hanno lanciato l’allarme sul fatto che un’incriminazione di Assange e WikiLeaks avrebbe pesantissime ripercussioni sulla libertà di stampa? Ad oggi negli Stati Uniti nessuna organizzazione giornalistica e nessun giornalista sono mai stati incriminati per la pubblicazione di documenti, segreti o no, nel pubblico interesse. La libertà di stampa negli Usa gode di un formibabile scudo: gode di protezione costituzionale, ai sensi del First Amendment della Costituzione. Se Assange finisse in carcere, si aprirebbe un vulnus gravissimo in questo sistema di protezione, un precedente che metterà a rischio tutte le altre organizzazioni giornalistiche. Per questo sono in molti ad avvertire che Assange e WikiLeaks sono lo “stress test” della libertà di stampa nelle nostre democrazie occidentali. Uno stress test che manderà segnali molto precisi ad autocrati e tiranni di tutto il mondo. Turchia. Ankara inventa il reato “terrorismo di Gezi” e arresta 13 persone di Chiara Cruciati Il Manifesto, 18 novembre 2018 Tra loro, due noti accademici. La Turchia compie un altro passo verso la totale repressione delle opposizioni collegando le proteste sociali del 2013 al fallito golpe del 2016. Come se Taksim fosse il primo passo di un percorso verso il putsch. I 13 arresti compiuti venerdì dalla polizia turca non sono come tutti gli altri. Non tanto perché colpiscono anche due accademici (è già successo dopo il tentato golpe del 2016) ma perché Ankara - per usare le parole dell’ong Freedom House - “passa il Rubicone”. Ovvero collega con un filo rosso le proteste di Gezi Park della primavera 2013 al fallito putsch di tre anni dopo. Come fossero un evento unico, con le manifestazioni iniziate in piazza Taksim considerate il primo passo del tentativo di rovesciare il governo dell’Akp, secondo una narrativa manichea che infila nel calderone le proteste sociali, le spinte autonomiste del Pkk, gli attentati dello Stato Islamico e infine la notte di quasi golpe del 15 luglio del 2016. Come spiega il direttore dell’agenzia curda Ahval, Ergun Babahan, Erdogan sta creando un nuovo gruppo target, “l’organizzazione terroristica di Gezi”. In piazza nel maggio 2013 scesero oltre tre milioni di persone in 81 città, un sit-in lungo mesi, fatto di dibattiti e attività che coinvolsero persone di diverse estrazioni politiche e sociali: c’erano gli ambientalisti, gli islamisti, gli ultrà, c’erano i giovani, i comunisti, c’erano i curdi e gli aleviti, c’era la comunità Lgbtqi. Tutti loro sono minacciati, non tanto di finire in prigione (la repressione è sì ampia, ma è una tale detenzione di massa è impossibile) ma di restare privi della leadership che fu e che potrebbe essere in futuro. Nel mirino ci sono infatti i leader di quella protesta, o almeno i suoi volti più noti. Tra cui i 13 arrestati venerdì in operazioni della polizia tra Istanbul, Adana, Mugla e Antalya, tutti accusati di aver finanziato e organizzato le proteste di Gezi. Nello specifico li si accusa di legami con Osma Kavala, attivista e uomo d’affari, a capo della fondazione culturale Anadolu Kültür e della casa editrice Iletisim, noto filantropo. Arrestato tredici mesi fa, Kavala è ancora in attesa di un processo e di un’accusa formale. Alcuni dei detenuti di venerdì sono dipendenti della fondazione. Ma i più noti sono due accademici: Turgut Tarhanli, vice preside della facoltà di Legge all’Università Bilgi, e Betul Tanbay, professoressa di matematica dell’ateneo Bogazici e prossima vice presidentessa dell’European Mathematical Society. Entrambi firmarono l’appello “Accademici per la Pace” che all’inizio del 2016 chiedeva la fine delle operazioni militari contro il sud est curdo: fu poi usato da Ankara per licenziare, dopo il golpe, migliaia di professori universitari. Ora l’accusa nei loro confronti è aver tentato di “scatenare il caos” nel paese, attraverso propaganda a mezzo stampa, campagne contro l’importazione di gas lacrimogeni e la formazione dei partecipanti alla disobbedienza civile con special trainer arrivati da fuori. Immediato è scoppiato lo sdegno tra le opposizioni turche e in Europa. “Chi si aspetta normalizzazione da questo regime, continui a sognare”, il commento dei repubblicani del Chp. In Italia a parlare è l’Unione Matematica Italiana che esprime “sdegno e profonda amarezza” per l’arresto di Betul Tanbay. Interviene anche Bruxelles, prima con l’inviato dell’Europarlamento in Turchia Kati Piri (“Un altro brutale assalto alla società civile”), poi con l’Alta rappresentanza agli affari esteri che chiede il rilascio immediato e definisce gli arresti “allarmanti”. Messico. Nella Tijuana “trumpista” pietre sui migranti di Luca Celada Il Manifesto, 18 novembre 2018 Nella città messicana di frontiera, gruppi di residenti aggrediscono i primi 500 honduregni della carovana diretta negli Stati Uniti. Dall’altro lato del confine, li attendono valichi fortificati con filo spinato e agenti antisommossa. Attaccati su due fronti: dalla barriera Usa sempre più fortificata e le pietre dei residenti di Tijuana. Sale la tensione sulla linea di confine fra Messico e Stati uniti ora che i primi migranti delle carovane centroamericane sono giunti a ridosso della loro destinazione. Nella notte di giovedì si sono sfiorate colluttazioni a Playas de Tijuana dove la barriera di metallo che separa i due paesi attraversa gli ultimi metri di spiaggia a si getta nel Pacifico. Qui si erano radunati in bivacco un centinaio di honduregni che si apprestavano a passare la notte all’addiaccio con coperte e lenzuola stese in terra. Attorno alla mezzanotte gruppi di cittadini hanno improvvisato un corteo scandendo slogan contro gli immigrati, reclamando il rimpatrio sommario e chiedendo che venisse ripristinata la sicurezza del loro quartiere con la rimozione degli stranieri. Una mostra di sovranismo da parte dei residenti del quartiere litoraneo punteggiato di condomini e case vacanze (fra i più benestanti di Tijuana) che ha colto di sorpresa i migranti nonché i numerosi messicani presenti ad assisterli con donazioni di coperte e generi alimentari. Alcuni di questi hanno formato una catena umana per proteggere i migranti dai nazionalisti. Ci sono stati spintoni e si è sfiorata la rissa, si sono verificati anche lanci di pietre verso i bivacchi dei migranti dove erano presenti molti bambini. Una sparuta presenza di polizia municipale ha stentato a tenere separati i due schieramenti che si sono affrontati nella zona per alcune ore. Esponenti delle ong e volontari che nella città settentrionale, come in molte altre località lungo il percorso, hanno assistito i componenti della carovana hanno espresso vergogna per le espressioni “xenofobe e razziste” dei concittadini. Secondo Hugo Castro, attivista della Embajada del Migrante che da anni assiste emigranti di passaggio proprio a Playas, si tratta di incresciosi “trumpisti messicani”. Lo ha effettivamente confermato il contestatore che a una telecamera ha dichiarato: “Le leggi sull’immigrazione di Trump funzionano. Faremmo bene a imitarlo!”. Adottando un repertorio noto ai nazionalismi globali, molti hanno lamentato “il disordine e la delinquenza” portati dai migranti “entrati in Messico con la violenza”, benché l’avanguardia della carovana sia giunta da un paio di giorni appena. Alcuni si sono spinti fino a scandire un improbabile “rendiamo nuovamente grande il Messico!”. Il sentimento xenofobo è stato probabilmente stimolato anche dalle misure intraprese dalle autorità sul lato nord della barriera. Mentre la retorica sull’”invasione dal sud” è prevedibilmente in gran parte evaporata e Trump non l’ha praticamente più menzionata una volta esaurito lo scopo elettorale di esasperare la psicosi fra i sostenitori, rimangono stanziati circa 5mila soldati a titolo “precauzionale”. Le truppe - che in settimana hanno ricevuto l’ispezione del segretario alla difesa Mattis - oziano però in Texas, un migliaio di chilometri più a est. Sul lato americano del confine di Tijuana ferve l’attività. Le pattuglie del border patrol sfoggiano assetto antisommossa e armi da fuoco vistosamente imbracciate mentre sulla barriera vengono apposte bobine di filo spinato. Sono stati “fortificati” anche i valichi: al principale varco automobilistico dove passano ogni giorno 50mila veicoli e 25mila pedoni, le autorità americane hanno installato barriere in cemento e chiuso un terzo delle corsie provocando attese di molte ore al valico già normalmente intasato di traffico di turisti e lavoratori frontalieri. Molti di questi ultimi temono che la presenza dei richiedenti asilo diventi pretesto per una stretta di vite americana che minaccia direttamente il loro lavoro. Per ora a Tijuana sono arrivati alla spicciolata attorno a 500 migranti (compresa un ottantina di profughi lgbtq) via pullman. Alcune migliaia di centroamericani si trovano ancora in marcia a molte centinaia di chilometri dal confine: alcuni hanno lasciato solo in questi giorni Città del Messico. Altre carovane (ce ne sarebbero quattro principali per un totale di circa 5mila persone) si trovano negli Stati centrali di Oaxaca, Vera Cruz, Jalisco, Nayarit e Guanajuato. Man mano che arrivano al confine i rifugiati devono decidere se iniziare il processo di richiesta di asilo che comporta un’attesa potenzialmente di diversi mesi. Ai varchi di Tijuana sono già oltre 2mila i richiedenti in lista di attesa e le autorità americane non accettano più di alcune decine di domande al giorno. Arabia Saudita. Cia: l’ordine di uccidere Khashoggi è partito da Bin Salman di Giordano Stabile La Stampa, 18 novembre 2018 La Cia è convinta che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman abbia ordinato di uccidere il giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Lo rivelano media americani in base a “fonti interne” all’agenzia. Secondo i servizi statunitensi, anche se non c’è “una pistola fumante” che provi la colpevolezza del principe, una operazione del genere non sarebbe stata possibile senza la sua approvazione. Due giorni fa Riad ha detto di aver individuato i colpevoli e la procura generale ha annunciato che chiederà la pena di morte per 5 degli 11 imputati. Fra loro c’è il numero due dell’Intelligence saudita, generale Ahmed al-Assiri, uno stretto collaboratore del principe. Ma Riad ha negato ogni coinvolgimento di Bin Salman, che “non era al corrente” di quanto stava succedendo nel consolato a Istanbul il 2 ottobre. Secondo Riad il commando di 15 uomini arrivati in Turchia aveva il compito di convincere il giornalista a tornare in patria ma dopo una “colluttazione” a Khashoggi è stata fatta una iniezione per addormentarlo che è risultata fatale. La versione saudita però non convince gli inquirenti turchi che ritengono l’assassinio “premeditato”. Il presidente Recep tayyip Erdogan ha detto che l’ordine è arrivato “dai massimi vertici del governo saudita”, cioè dal principe ereditario. Arabia Saudita. La protesta delle donne con l’abaya alla rovescia di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 18 novembre 2018 Le donne saudite non vogliono più essere costrette a portare l’abaya, la lunga veste nera che le copre dalla testa ai piedi e impedisce loro anche di sentire il vento sulla pelle. Per questo hanno deciso di portare avanti una protesta silenziosa ma efficace: escono di casa con la veste messa alla rovescia. “Ho cominciato a portare la mia veste a rovescio per espimere la mia contrarietà alla Sharia che viola la libertà delle donne di vestirsi come vogliono” ha scritto una. “Siccome le femministe saudite sono molto creative hanno elaborato questa nuova forma di protesta” ha cinguettato l’attivista Nora Abdulkarim. Lo scorso marzo il principe Mohammed Bin Salman aveva sostenuto, in un’intervista televisiva, che indossare la lunga veste nera non era obbligatorio. “Le leggi sono molto chiare: le donne devono vestirsi in modo decente e rispettoso, come anche gli uomini. Ma non è specificato che debba essere un’abaya, sta alle donne scegliere che tipo di indumento, decente e rispettoso, indossare” aveva detto. Alle parole, però, non sono seguiti i fatti e la polizia ha continuato a fermare e redarguire chi non indossa l’abito. Amani Al-Ahmadi, un’attivista dell’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor è convinta che la protesta sia un’idea brillante e che possa ottenere risultati: “Vedere altre donne con l’abaya a rovescio innesca una catena di solidarietà tra le donne” ha detto. Lo scorso anno una donna era stata arrestata dopo essere apparsa su Snapchat indossando una minigonna e un top. Il principe Mbs, come viene soprannominato, è accusato da più parti (non ultima la Cia) di essere il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Prima, invece, era stato considerato la speranza di una svolta liberale in Arabia Saudita. Lo scorso giugno Riad ha tolto il divieto di guida per le donne ed è stato loro permesso di andare allo stadio. Ma, a fronte delle riforme, molte attiviste sono finite in carcere. Per le saudite la strada da compiere è ancora lunga.