Più psicologi in carcere per trattamento autori di reati contro le donne Askanews, 17 novembre 2018 “Al fine di garantire e implementare la presenza di professionalità psicologiche esperte all’interno degli istituti penitenziari per consentire un trattamento intensificato cognitivo-comportamentale nei confronti degli autori di reati contro le donne ed i minori e per la prevenzione della recidiva è autorizzata la spesa di 2 milioni di euro per ciascuno degli anni 2019, 2020 e 2021”. È quanto prevede un emendamento alla manovra approvato dalla commissione giustizia della Camera in sede consultiva. Il processo infinito di Andrea Minuz Il Foglio, 17 novembre 2018 La sospensione della prescrizione è il sogno più sfrenato della rabbia populista. Un plagio di Kafka, l’estensione del teorema inquisitorio di Pasolini. E richiama una straziante commedia con Alberto Sordi. Viene in mente la scala infinita di Penrose, le prospettive di Escher, le carceri perennemente espandibili di Piranesi, i loro oscuri labirinti inviolabili come un enigma. Viene in mente naturalmente Kafka. La proposta del blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio sembra scaturire dalle migliori pagine del “Processo” come la concreta realizzazione dell’idea di “assoluzione apparente”: “Se lei è assolto in questo modo”, spiega il pittore Titorelli all’imputato K., “per il momento è sottratto all’imputazione, ma questa continua a rimanere sospesa sopra di lei, se viene l’ordine superiore può tornare subito in vigore”; il processo può sempre riprendere, tutto è provvisorio, imprevedibile, interminabile: “Alla seconda assoluzione fa seguito il terzo arresto, alla terza assoluzione il quarto arresto e così via. Questo è lo spirito dell’assoluzione apparente”. Nel contratto di governo si annidano plagi da Kafka e Wikipedia. Com’è noto, pare che Kafka amasse leggere il primo capitolo del “Processo” ad amici e conoscenti sganasciandosi dalle risate; forse oggi si divertirebbe un mondo a leggergli il decreto di legge 1189, con gli “agenti provocatori”, l’abolizione della prescrizione, uno stato che persegue all’infinito tutti i reati. Roba da far impallidire “Il processo”, anche perché lì K. viene arrestato il giorno del suo trentesimo compleanno e la vicenda si conclude alla vigilia dei suoi trentuno anni: tutto sommato gli è andata bene. La sospensione della prescrizione dopo la prima sentenza, non importa se di condanna o assoluzione, è il sogno più sfrenato della rabbia populista. È l’utopia che incarna al meglio la sintesi di ferocia giustizialista, demone della purezza e culto per la paralisi burocratica dell’ideologia grillina, una visione del mondo che trova proprio nell’estensione potenzialmente infinita della pretesa punitiva dello stato la sua chiave di volta. L’idea di uno stato che ci processa per sempre apre mondi sconfinati, eppure lascia freddi i guardiani della Costituzione più bella del mondo (tutti scomparsi). Nessun appello, sit-in, fiaccolata, neanche una copertina di Rolling Stone. Nessun intellettuale e scrittore disposto a “mettere in gioco il proprio corpo” come con la “Diciotti”, l’emergenza migranti o il ritorno del fascismo un giorno sì, l’altro pure. Si resta tutti impassibili di fronte alla prospettiva di una macchina processuale senza alcun termine di prescrizione, di cause con avvicendamenti generazionali, di invecchiamenti in tribunale. Non resta che confidare in un moto di sdegno della buona borghesia torinese o dei Parioli. Staremo a vedere. “Quando si parla di giustizia - dice il ministro Bonafede - pensiamo che i nostri riferimenti possano essere i giudici o gli avvocati, ma in realtà i veri giudici della giustizia sono i cittadini”. Ci vorrebbe però anche un bel referendum sulla ghigliottina, se non è abbastanza democrazia diretta. D’altronde, se come dice Davigo, “tagliando la prescrizione i processi si accorciano”, perché in certi casi non tagliare direttamente i processi? Se la gigantografia di Rocco Casalino in collegamento da Fazio era l’emblema della vendetta del “Grande Fratello” sulle liturgie del servizio pubblico, il processo interminabile è il coronamento di un immaginario democratico costruito sull’indignazione, la vendetta, il trasferimento della sovranità a favore dei giudici che affonda le proprie radici negli anni furiosi di Mani pulite. È da lì (e dal processo a Giulio Andreotti) che viene questa riforma della giustizia. Se Massimo Bordin ha recentemente ricordato quanto il processo Andreotti “fu inutile e foriero della peggiore demagogia negli anni successivi”, Panebianco ha definito Mani pulite “la madre di tutte le fake news, la falsa idea secondo cui questo sarebbe il paese più corrotto del mondo o giù di lì” e solo, ovviamente “per responsabilità dei politici”. “Un’idea”, prosegue Panebianco, “che nessuno ha più tolto dalla testa di gran parte degli italiani. Si capisce perché. Alle suddette burocrazie fa comodo che i nostri concittadini lo pensino per tenere sulla graticola la politica rappresentativa, per mantenere deboli, ricattatili e al guinzaglio i politici”. La sospensione della prescrizione diventa così anche l’estensione infinita del teorema inquisitorio di Pasolini, “io so ma non ho le prove”, però ho tempo, aspetterò, hai visto mai. “La prescrizione è un’isola di impunità che indebolisce la lotta alla corruzione”, spiegava pochi giorni fa il ministro della Giustizia; è un intralcio nell’oceano- mare della colpa collettiva. Forse è per questo che non abbiamo un premier ma un “avvocato difensore del popolo italiano”. Si possono già immaginare nuovi scenari per i “legal drama” italiani: “Un anno in pretura”, “Forum in loop”, “Il verdetto infinito”. Si ritorna sempre al punto di partenza, si ritorna cioè su quelle formidabili pagine di Enzo Tortora, pubblicate nel 1984 mentre aspettava l’inizio del suo processo: “Io sono convinto che gli italiani abbiano della giustizia un’idea ricavata esclusivamente dai telefilm polizieschi inglesi o americani, ambientati in una bella aula di tribunale, tutta in acero, con un giudice in parrucca, sempre calmo, sereno, molto cortese che batte, di tanto in tanto, il suo martelletto di legno e che appena si sente dire dal difensore di un imputato: Vostro onore, mi oppongo! Risponde amabilmente: Obiezione accolta, sentiamo”. “Alle volte - proseguiva Tortora - penso che sarebbe molto proficuo se, invece dei telefilm alla Perry Mason, la tv statale fosse tenuta per legge a trasmettere i processi che si celebrano in Italia. Solo allora probabilmente la gente prenderebbe coscienza delle lungaggine, della trasandatezza, della curialità della nostra giustizia”. Di lì a qualche anno la tv avrebbe seguito il consiglio di Tortora. Nel 1988 parte “Un giorno in pretura”. All’inizio si sviluppa come una specie di versione neorealista di “Forum” (liti condominiali, piccole rapine), poi darà visibilità ai grandi processi della cronaca politica, Enimont, Priebke e le Fosse Ardeatine, la Strage di Bologna, ma sempre con l’idea della presa diretta senza commenti, della “long durée” come contraltare ai botta e risposta fulminanti dei courtroom drama hollywoodiani. Nel cinema italiano, invece, la trasandatezza della giustizia si trasforma quasi sempre in commedia, più raramente in incubo, registri che però da noi, si sa, sono sempre sovrapponibili. Il contributo del cinema alla storia giudiziaria del paese è racchiuso tutto sommato in pochi titoli, con le aule di tribunale a fare per lo più da sfondo a vicende comiche, lazzi, arringhe iperboliche di avvocati in preda a fumisterie dannunziane e lessico borbonico. Però nella pulsione giustizialista che ora ci presenta il conto si riconoscono i lineamenti di vecchi film che tornano a parlarci. Titoli “profetici”, come si dice in questi casi. “Detenuto in attesa di giudizio” e “In nome del popolo italiano” escono entrambi nel 1971 e restano ancora oggi tra le pellicole più formidabili sul rapporto tra giustizia e ideologia italiana, sull’impasto di trasandatezza e follia della nostra burocrazia, sui pericoli di una magistratura che si trascina dietro pregiudizi morali, cultura del sospetto e odio ideologico. All’epoca in pochi li prendono sul serio, anche perché non hanno il pedigree dell’impegno civile ma appartengono alla galassia già in crisi della commedia (il primo è un film con Alberto Sordi, l’altro una regia di Dino Risi con la coppia dei “mostri”, Gassman-Tognazzi). Viene spesso ricordato quanto e come il film di Risi anticipi il clima e il furore ideologico di Tangentopoli; meno evocato è invece il film con Sordi che però ha una capacità oggi immutata di mandarci a sbattere contro le anomalie, le abnormità, le follie, le iniquità della giustizia italiana. Se “In nome del popolo italiano” intercettava un passaggio storico cruciale, ovvero la ridefinizione del ruolo sociale del magistrato che in quegli anni, sulla scia dell’ideologa egualitaria e della corrente di Magistratura democratica, si avvia a farsi interprete, risolutore e vendicatore dei “conflitti sociali”, “Detenuto in attesa di giudizio” metteva in scena all’opposto l’universo kafkiano in cui sprofonda un cittadino alle prese con la giustizia italiana (un cittadino qualunque simboleggiato dal nome didascalico: “Giuseppe Di Noi”). Sordi raccontava che il primo spunto del film (ideato in seguito dal suo “cervello” di fiducia, Rodolfo Sonego) venne da un viaggio in Svezia, agli inizi degli anni Sessanta, durante le riprese del film “Il diavolo”: “Una signora che lavorava alle Belle arti e che mi aveva aiutato a rubare alcune scene della consegna del Nobel, mi portò a visitare Stoccolma. Nei dintorni, mi colpì una struttura molto ampia, ridente, circondata dal verde: Un hotel a quattro stelle? domandai. No, mi risposero, è il carcere dove i detenuti in attesa di giudizio aspettano il processo, liberi di ricevere i familiari e seguire i propri interessi. Allora io pensai: e in Italia cosa succede a uno che aspetta di venire giudicato?”. Giuseppe di Noi, di professione geometra diplomato, vive con la moglie Ingrid e i suoi due bambini biondissimi. Dopo sette anni di agognata attesa decide di prendersi una breve vacanza e tornare in Italia per far conoscere a moglie e figli la sua amata terra di origine. Qui inizia l’incubo. Dopo una sfilza di commedie vacanziere con Sordi spedito all’estero ora, all’opposto, rientrava in Italia dalla Svezia e improvvisamente veniva fermato e arrestato alla dogana. Motivo? Omicidio colposo di un tale Franz Kartenbruner. Nel pellegrinaggio da un carcere all’altro, Giuseppe Di Noi si sforza di pensare a questo Franz Kartenbruner che però non hai mai conosciuto. Annaspa nel vuoto e si aggrappa infine all’ipotesi più surreale: Kartenbruner potrebbe essere il nome della guardia tedesca del campo di prigionia dove Di Noi era rinchiuso ai tempi della guerra: “Fosse morto per le botte che mi ha dato?”. “Detenuto in attesa di giudizio” è un lento, straziante inabissamento nella sciatteria della nostra burocrazia, nella disumanità del carcere e della carcerazione preventiva, un viaggio che porterà Giuseppe Di Noi alla follia. Alla fine, rinchiuso in un ospedale psichiatrico, arriva finalmente la spiegazione dell’errore, anche questo attualissimo: Franz Kartenbruner era un turista tedesco morto a causa del crollo del viadotto della superstrada Battipaglia-Matera mentre era in vacanza in Italia; Di Noi lavorava per l’impresa edile che aveva costruito la strada e anche se al momento crollo viveva in Svezia ormai da sette anni risultava ancora al servizio della ditta. Un mancato coordinamento e trasmissione di notifiche tra gli uffici del ministero dell’Interno e la polizia di frontiera. “Avrei potuto fare ben poco senza la solerzia e la comprensione del giudice che ha persino rimandato di qualche giorno la partenza per le vacanze per seguire personalmente l’iter della pratica”, gli spiega alla fine l’avvocato, ma il giudice non si era mai visto. Aveva altro da fare. Di Noi torna infine in Svezia, ma è un uomo distrutto. Al momento di fornire i documenti alla dogana tutto sembra ripartire dall’inizio, un altro fermo di polizia, come in un processo infinito, ma è solo un incubo, o un mondo senza più prescrizione. Fosse stato un film con Gian Maria Volonté, “Detenuto in attesa di giudizio” sarebbe ancora oggi ricordato come uno tra i titoli più “alti” e indignati del cinema civile italiano. Invece era solo un film con Alberto Sordi (che vincerà il premio come miglior attore al Festival di Berlino). Di più, era un film su un borghese che finisce stritolato dentro una macchina processuale incomprensibile, dunque un personaggio inservibile alla causa del conflitto sociale: “Detenuto in attesa di giudizio”, si leggeva nelle recensioni dell’epoca, “è un film che non fa un discorso sulle carceri, ma sul borghese in carcere; manca una riflessione sulle classi sociali e non emerge con chiarezza l’uso politico della carcerazione preventiva”. Chiaro no? Un borghese in carcere non finirà mai davvero in carcere “ingiustamente”. Ha pur sempre da scontare la colpa di essere borghese. Oggi che questo antico furore ideologico si è finalmente saldato con la rabbia demagogico-populista possiamo chiudere il cerchio. E buttare la chiave. Lo stop alla prescrizione è una resa: ecco perché il no dell’Ucpi è giusto di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 17 novembre 2018 La vita professionale, come quella personale, è scandita dal decorrere del tempo e dettata da tabelle di scadenze. Ipotizziamo di vivere senza una mappa temporale che ci inviti a rispettare puntuali adempimenti o a tenere una certa condotta volta ad evitare precise decadenze: che sensazione proveremmo? Un sentimento di totale inadeguatezza e carenza di strumenti per fronteggiare la deriva dell’ultimo baluardo della giustizia, il diritto ad un giusto processo, la cui durata sia equa e proporzionata alle accuse. Questo è il quadro senza cornice della controriforma relativa alla prescrizione; un emendamento che troviamo nel posto sbagliato, al momento sbagliato e con un iter ancora più errato. Incidere solo sul populistico blocco del decorso temporale dopo la sentenza di primo grado senza alcun metodo ed armonicità globale significa ammettere l’epilogo - ed anche dei peggiori - di un sistema che doveva da tempo essere profondamente riformato nella sua organicità, sapientemente bilanciando tutti i princìpi di livello costituzionale e codicistico che il nostro ordinamento vanta: pensare che così possa essere rispettata la ragionevole durata dei processi e le garanzie dei soggetti sottoposti a vario titolo nel procedimento penale è fantascienza, degna dei migliori film. Finanche il momento storico non è dei migliori: ad oggi non si sono visti ancora gli effetti delle precedenti riforme e dei correttivi introdotti nelle leggi speciali. La mancanza della “Legge Zero”, cioè quella che personalmente definisco legge che impedisce di adottare riforme prima di aver compreso la bontà o meno delle precedenti, sterilizza ogni velleità di salvaguardare assetti collaudati e sicuramente perfettibili, obiettivo che certamente non può essere perseguito lungo i percorsi che in queste settimane si cerca di disegnare. Se è vero che è giunto il tempo di non perdere più tempo, appare quanto più inaccettabile un processo infinito, privo delle certezze e delle garanzie che tutelano il vero protagonista del sistema penale, l’imputato, e rispettano le pretese della persona offesa. Fra tutti il primo soggetto, innocente fino a prova contraria, non può subire la barbarie di non sapere quando uscirà dalle maglie della giustizia penale. Sarebbe irragionevole negare che l’attesa della celebrazione dell’udienza e del suo esito sottrae al medesimo imputato anni di vita. Allora basta. La toga è inviolabile e l’avvocato penalista è sinonimo di libertà e giustizia. Questo è il tempo di difendere tutti gli assistiti, per il tramite della nostra indispensabile funzione, da decisioni politiche prive di logica, astenendosi da ogni attività come indetto nel programma, non solo deontologicamente condivisibile ma del tutto sottoscrivibile, dell’Unione Camere penali, senza restare alla scrivania ma manifestando - come avviene per i più nobili propositi - e facendo sentire con forza la voce di chi difende i diritti del proprio cliente. Nell’era dell’alta velocità e dell’industria 4.0., la Giustizia Penale rischia di retrocedere all’età della pietra: noi dovremmo stare alla finestra? Ecco perché quella proclamata dall’Ucpi è una astensione legittima che anche la magistratura potrebbe condividere. Come insegna Calamandrei, dovrebbero essere i Giudici i più strenui difensori dell’avvocatura: poiché solo là dove gli Avvocati sono rispettati, sono onorati i Giudici, e dove si scredita l’avvocatura, colpita per prima è la dignità dei magistrati, e resa assai più difficile ed angosciosa la loro missione di giustizia. *Avvocato, direttore Ispeg (Istituto per gli studi politici, economici e giuridici) “Pene più severe per i minorenni”. Coro di no a Salvini di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 17 novembre 2018 Un coro di no. La proposta avanzata ieri da Matteo Salvini al termine del comitato per l’ordine pubblico celebrato in Prefettura a Napoli sulla necessità di inasprire le pene previste per i minori che commettono reati non convince. E tanto meno l’idea del ministro dell’Interno - che si è detto disponibile a ragionare sull’abbassamento dell’età imputabile - riscuote consensi. L’ex procuratore - Giovandomenico Lepore è stato al vertice della Procura di Napoli per sette lunghi e difficili anni durante i quali l’ufficio inquirente partenopeo ha opposto una energica azione di contrasto non solo contro i clan di camorra, ma anche nei confronti della microcriminalità e della delinquenza giovanile. Il suo giudizio sulle proposte formulate dal leader leghista è senza appello: “Inasprire le pene nei confronti dei minori non serve a niente. Come non serve abbassare il livello dell’età imputabile”. “L’inasprimento delle pene edittali - spiega l’ex procuratore - non ha mai costituito un deterrente per nessuno. Se si vogliono affrontare seriamente certi argomenti bisogna sposare tutt’altra filosofia: agendo a monte, sulle cause e non certo sugli effetti dei comportamenti dei giovanissimi. Forse sembrerà ripetitivo, ma non è banale ripetere che i minori, specialmente a Napoli come in molte altre realtà del Sud, vanno educati alla legalità attraverso centri di aggregazione: penso alle palestre e allo sport in generale, alle scuole aperte tutto il giorno e ad altre attività ricreative come lo erano un tempo gli oratori”. “Parlo con cognizione di causa: da quando presiedo l’Osservatorio della Legalità di Scampia ho verificato quanto importanti siano le associazioni di volontari che sottraggono letteralmente e materialmente i ragazzi a rischio dalla strada. Inasprire le pene? Non serve per gli adulti, figuriamoci per i ragazzini: vogliamo forse arrestarli quando sono ancora nella culla, o a 12 anni?”. L’ex questore - Sulla stessa lunghezza d’onda anche l’ex questore di Napoli e prefetto Luigi Merolla. “I giovani con i coltelli addosso? E storia antica, nulla di nuovo sotto il sole - dice - Ricordo bene due episodi: il primo risale all’ormai lontano 1975, quando ero un giovane vice-commissario della Polizia di Stato in servizio alla Squadra mobile di Nuoro. Una notte si verificò un grave fatto di sangue: un sergente dell’Esercito venne ferito gravemente a coltellate in un paesino dell’entroterra. A colpirlo quasi mortalmente fu un ragazzino. Poi ricordo quando, proprio a Napoli, l’allora prefetto Renato Profili decise di vietare la vendita di coltelli che venivano addirittura venduti nelle edicole, all’indomani dell’omicidio di un povero edicolante del Vomero da parte di un minorenne già pregiudicato. Da allora ad oggi nulla è cambiato, ma questo non significa che inasprendo le pene o abbassando il livello dell’età punibile si risolvano drammi e tragedie”. “Se poi allarghiamo lo sguardo dell’orizzonte - prosegue - ci accorgiamo che i fenomeni legati al bullismo, alle babygang e al disagio giovanile è lo stesso sotto tutte le latitudini. Da Parigi a Londra - e sottolineo Londra, dove solo qualche mese fa c’è stata un’escalation di aggressioni e fatti di sangue anche molto gravi che hanno visto come protagonisti dei ragazzini - la violenza è sempre la stessa”. Proposte? “La strada da seguire - conclude il prefetto Merolla - resta quella della prevenzione, seguita da una repressione altrettanto seria. Poi, ovviamente, è necessaria la certezza della pena”. L’avvocato - Claudio Botti è uno degli avvocati penalisti più affermati e stimati a Napoli, e non solo a Napoli. Anche lui si dice contrario alle “ricette” stilate dal ministro dell’Interno in tema di minori. “Su questa materia - dice - imboccare la strada del giro di vite non serve. L’inasprimento delle pene non ha mai sortito effetto su nessuno, a cominciare dagli adulti”. “Ed è un’idea sbagliata, inutile, improduttiva e dannosa - conclude - anche quella di modificare la soglia dell’età imputabile. Oggi ho letto sul “Mattino” un’intervista al giudice dei minori Maurizio Barruffo, che condivido totalmente. Ha ragione il magistrato quando dice che le strade da seguire sono ben altre. Ci pensi, il ministro dell’Interno”. “Confessa o resti in cella”. Davigo dice che va bene così di Piero Sansonetti Il Dubbio, 17 novembre 2018 Il consigliere del Csm rivendica l’uso del carcere come strumento di pressione. Piercamillo Davigo - l’ex presidente dell’Anm, il giudice di Cassazione, l’attuale consigliere del Csm, insomma, una delle autorità della nostra magistratura - ieri, in Tv, intervistato da Goffredo Buccini del “Corriere della Sera”, ha rivendicato l’uso del carcere come strumento per far confessare gli indagati. Ha usato un giro di parole e un sorriso per affermare questo principio, ma lo ha affermato. Buccini lo ha portato a parlare del rapporto tra arresti e confessioni, riferendosi soprattutto ai metodi di indagine usati dal famoso pool mani- pulite negli anni novanta. Davigo, con una smorfia ironica, ha spiegato che loro non arrestavano per far confessare ma semplicemente scarceravano dopo la confessione. Dalla smorfia di Davigo si capiva che il magistrato sa benissimo che non c’è una gran differenza tra le due cose. Gli piace giocare un po’ sulle parole, con destrezza. I magistrati milanesi mettevano in prigione le persone e le tenevano lì finché non confessavano. Spiegando loro, durante gli interrogatori, che non potevano fare altrimenti, perché solo se confessavano si poteva star tranquilli che non ci fossero più rischi di reiterazione del reato. E in questo modo i Pm milanesi ottennero decine di confessioni, nessuno sa quanto spontanee e quanto veritiere (ma ottennero anche qualche suicidio, che ancora brucia). Non ci vuole molto a capire che se ti trovi in cella, magari da un mese, o da due, e sei disperato, impaurito, pieno di angosce - e forse anche innocente - e ti fanno intuire, o ti dicono esplicitamente, che o confessi qualcosa (e magari ti fanno capire anche cosa) o resti dietro le sbarre, beh è abbastanza probabile che prima o poi tu confessi. Quanto è attendibile una confessione ottenuta in questo modo? Poco, molto poco. Quanto è rispettoso della Costituzione e dello stato di diritto e del codice di procedura penale, e dei diritti dell’uomo, questo metodo? Poco, forse niente. Vorrei fare una breve digressione, che potete pensare fuori luogo, ma io credo che invece c’entri qualcosa col ragionamento di Davigo. Nel diciottesimo secolo, in Francia, fu eliminata la tortura dal sistema penale. Prima la tortura era ammessa, anche se regolata da norme molto precise e piuttosto rigorose. Che tra l’altro davano al torturato un piccolo vantaggio: se resisteva alla tortura era definitivamente e incontrovertibilmente assolto e il magistrato accusatore aveva perso. Fu eliminata - questo è il dettaglio più interessante - non perché considerata un metodo crudele e inumano. No, per un’altra ragione, più di dottrina. Perché fu stabilito che non potevano mescolarsi gli strumenti di indagine e la pena. Dovevano restare assolutamente distinti e distanti. Mentre la tortura, indubitabilmente, era una pena. Quindi non poteva valere ai fini dell’indagine. Certo, la tortura fisica era molto molto dura e sanguinosa, e non è paragonabile alla detenzione in una prigione italiana del ventunesimo secolo. Quando si dice che la detenzione è una tortura si usa una metafora (o, almeno, per comodità di ragionamento, ammettiamo che sia così). Resta il fatto che indiscutibilmente la detenzione è una pena. Pena addirittura identica a quella che poi si deve scontare se si è riconosciuti colpevoli dopo il terzo grado di giudizio. La cella è quella, le condizioni della prigionia son quelle. Possibile che in Italia, nel ventunesimo secolo, non si sia ancora arrivati a comprendere, o a riconoscere, e ad attuare un principio che i francesi affermarono più di 250 anni fa? E possibile che una persona colta e sensibile come Piercamillo Davigo non avverta questo problema come problema serio e reale? Il problema generale è quello della liceità della detenzione preventiva, se non in casi estremi. Il diritto e le leggi prevedono che sia così. Prevedono che l’indagato sia considerato innocente e che il suo arresto possa avvenire solo per ragioni particolarissime. Però sappiamo che questo non avviene. La detenzione preventiva è molto, molto usata. Quasi il 40 per cento degli attuali detenuti non ha subito una condanna definitiva. Le statistiche ci dicono che più della metà di loro risulterà innocente. Parliamo di decine di migliaia di persone innocenti in prigione. Possibile che di fronte a questi problemi e a queste cifre indiscutibili, una personalità come quella di Davigo possa limitarsi, in una intervista Tv, a lamentarsi - come ha fatto - perché in Italia troppi pochi condannati scontano effettivamente la pena? Dopodiché devo ammettere che l’intervista di Buccini e di Formigli (si è svolta nel programma Piazza Pulita della 7) a Davigo è stata molto divertente. Davigo sicuramente è l’esponente più radicale dello schieramento giustizialista, ma è comunque una persona colta e anche spiritosa. Non solo: sicuramente è un uomo libero (sono quelli che finiscono sotto il suo martello, spesso, a non essere più liberi…) e infatti su molti argomenti ha picchiato duro sul governo e anche sul movimento dei 5 Stelle che pure, notoriamente, è un movimento davighista. Ha liquidato il condono, ha liquidato la “daspo” anticorruzione, ha liquidato la riforma della prescrizione, ha liquidato soprattutto la proposta di riformare le norme sulla legittima difesa. Ha fatto notare che se uno spara a qualcuno che scappa disarmato, e il proiettile entra dalla schiena e uccide il poveretto, non c’è legge che possa impedire di processare quel tale per omicidio. E ha anche ricordato che la legge sulla legittima difesa (prima ancora che fosse modificata e resa più lasca, nel 2006, quando ministro era un leghista) era stata scritta non da un pericoloso anarchico amico dei ladruncoli, ma da Alfredo Rocco, ministro della giustizia di Mussolini. Detto tutto questo, il problema del rapporto tra arresti e confessione resta drammaticamente in piedi. L’idea che un membro del Csm ritenga legittimo usare le manette per indurre gli indagati a “cantare”, getta un’ombra cupa, molto cupa, sul nostro stato di diritto. Il “cambiamento” che non c’è, 100mila studenti contro il governo di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 17 novembre 2018 Cortei in 70 città contestano gli spot su scuola e università dell’esecutivo Lega-Cinque Stelle. Polemico il ministro dell’Interno Salvini sulle bandiere bruciate. La ministra per il Sud Lezzi: “Hanno ragione a protestare”. La carica politica di una nuova generazione antirazzista e femminista a 10 anni dall’Onda. La sfida lanciata al governo populista dai centomila studenti medi che ieri hanno manifestato da Torino alla Sicilia e in Puglia è sulla natura del cambiamento che Lega e Cinque Stelle pretendono di rappresentare. “Questo non è il vero cambiamento” diceva lo striscione di apertura dietro al quale hanno sfilato 5mila studenti romani. Non è un cambiamento prospettare misure improvvisate e cosmetiche come la “Sugar tax” da cui il ministro dell’Istruzione Bussetti punta ad ottenere 100 milioni di euro mentre servirebbero almeno 7 miliardi tagliati a scuola e università dieci anni fa dal governo Berlusconi e mai più, da allora, rifinanziati. Invece di promuovere politiche sanitarie, la sensibilizzazione e l’educazione al consumo critico, si prendono misure spot. Non è un cambiamento spendere 2,5 milioni di euro per l’operazione di marketing securitario anti-spaccio voluta dal ministro dell’Interno Salvini che sostiene di aver circondato le scuole con unità cinofile e telecamere. E non è un cambiamento annunciare una tassa sui petrolieri per due miliardi, come ha fatto il ministro del lavoro e sviluppo Di Maio, e poi constatarne l’assenza nella legge di bilancio. a dieci anni dall’Onda che nel 2008 si oppose alla “riforma Gelmini” di scuola, università e ricerca, la nuova generazione “che non si arrende” ha mostrato una consapevolezza politica radicale del mondo che le elezioni del 4 marzo, e la formazione del governo del 1 giugno, ci hanno consegnato. Il senso comune tra gli studenti è chiaramente antirazzista, ha recepito le critiche del movimento femminista “Non Una di Meno” al Ddl Pillon. Gli studenti vogliono l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro voluta da Renzi e dal Pd. I Cinque Stelle avevano promesso di abolirla, insieme alla “Buona Scuola”. Bussetti ha invece diminuito le ore nei licei e negli istituti tecnico-professionale e ha sospeso solo per un anno la sua obbligatorietà per accedere alla maturità. L’educazione morale al precariato era, e resta, obbligatoria per tutti. Cambiamento o fallimento? Gli studenti a Milano hanno raggiunto il consolato degli Stati Uniti manifestando solidarietà alla “carovana migrante” giunta ai confini dal Messico. Chiaro il messaggio lasciato tra i binari del tram in via Turati: un’enorme scritta bianca “No border” contro le politiche di polizia dentro e fuori i confini. “Basta morti in mare” hanno scandito gli studenti. Il corteo si è concluso con l’occupazione del nuovo spazio di Zip (zona indipendente politica) per rispondere agli sgomberi estivi. A Zip si sta svolgendo il “Fuck Government festival”, con immagini, fumetti e dibattiti. Manichini raffiguranti il ministro dell’interno sono stati bruciati a Milano e appesi da un ponte sul Tevere. Bandiere leghiste e 5 stelle date alle fiamme nel capoluogo lombardo. Solidarietà a Mimmo Lucano e ai ragazzi di Baobab è stata espressa nei diversi cortei. La materializzazione di un’opposizione così determinata da lanciare il “No Salvini Day” ha spinto il governo a rispondere alle piazze. È andato in scena un botta e risposta già visto in occasione dei cortei del 12 ottobre scorso, quando Salvini chiese punizioni esemplari per le studentesse di Torino che avevano incendiato la sua immagine, mentre Di Maio disse di voler cancellare un “reato medioevale come il vilipendio”. Sui social ieri Salvini ha scritto: “Bruciare bandiere, immagini, simboli, libri non è bello. All’odio e all’ignoranza dei nazisti rossi risponderemo con le idee e il sorriso”. La Ministra per il Sud Barbara Lezzi (M5S) si è invece schierata con i manifestanti: “Oggi ci sono ragazzi che manifestano perché le scuole cadono a pezzi e hanno ragione. Dobbiamo riconoscere che ci sono i fondi e sarebbe interessante sapere perché non sono stati spesi”. Dovrebbe dirlo lei, ministra. Milano: sovraffollamento nelle carceri, focus San Vittore di Karoline Gapit milanoallnews.it, 17 novembre 2018 Casa circondariale di San Vittore, case di reclusione di Opera e Bollate e istituto minorile Cesare Beccaria. Queste sono le quattro carceri principali dell’area milanese, tutte accomunate da un grave problema che affligge detenuti e personale penitenziario: il sovraffollamento. Secondo i dati riportati quest’estate da Antigone, associazione per il rispetto e la tutela dei diritti nel sistema penale, le carceri milanesi necessitano di un pronto intervento a causa dell’eccessivo numero di detenuti all’interno delle strutture. Il carcere di San Vittore, nel mirino dell’Antigone da diversi anni, ha suscitato numerose polemiche circa le condizioni logistiche della struttura. Costruito nella seconda metà dell’800, già negli anni settanta del XX secolo è afflitto dal problema del sovraffollamento. Nella fattispecie la struttura destinata ad accogliere circa 700 detenuti, oggi ne accoglie ben 1700 obbligando questi a convivere in situazioni quasi estreme, accompagnate da pessime condizioni igienico-sanitarie. Negli istituti penitenziari milanesi è allarme anche per l’assistenza medica, psicologica e sociale. Differente discorso per il carcere di reclusione ad Opera che vanta un centro diagnostico terapeutico volto a curare gli individui affetti da gravi problemi di salute e/o infermità. La popolazione detenuta nel carcere di San Vittore è composta quasi dal 70% di immigrati irregolari, alta è la presenza di moldavi, romeni, etiopi e ungheresi. I cittadini egiziani irregolari sono in minoranza e questi difficilmente saranno rimpatriati a causa delle misure sanzionatorie, come il rischio di tortura, ampiamente adottate nel loro Paese. “Nessuno deve morire in carcere, non deve accadere. La salute è al centro delle attenzioni e su come trattiamo i detenuti misuriamo il tasso di civiltà della nostra Repubblica italiana”. A denunciare la situazione critica è stata M. Cartabia (vice presidente della Corte Costituzionale) a seguito delle denunce arrivate direttamente da Strasburgo. Di fatto, l’Italia è stata sollecitata a più riprese dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio Europeo, proprio per le condizioni drammatiche delle carceri milanesi. Il Cpt infatti ha sottolineato come l’Italia non adempia agli obblighi dell’Unione Europea in merito ai regimi di celle chiuse, che prevedono almeno 6mx2m di spazio vitale, esclusi i sanitari, per le sole celle singole. Tuttavia queste condizioni europee, di mancata esecuzione sul suolo italiano, si vedono accantonate sul tavolo di Patrizio Gonnella, presidente del carcere di San Vittore. Malgrado la situazione opinabile, Gonnella si dice soddisfatto per l’introduzione della neo-sorveglianza dinamica e la nomina del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, innovazione che nel futuro dovrà affrontare altre tematiche di maggior rilevanza: come per esempio le 2.219 sentenze della Cedu (Corte Europea dei diritti dell’uomo) indirizzate all’Italia, di queste oltre il 30% riguardanti il solo tema del sovraffollamento. Gran fetta di queste sono soprattutto sentenze enhanced, ossia necessitano di una pronta esecuzione e nella fattispecie il Governo italiano si deve assumere le responsabilità imprescindibili cui deriveranno cambi fondamentali nel sistema. Lo sguardo non manca anche sui costi e il profilo meramente legale. Ogni detenuto costa quotidianamente meno di 140 euro e oltre 51.000 euro all’anno: bisognerebbe dunque considerare misure alternative alla pena detentiva ed infine pensare l’istituto penitenziario come estrema ratio, con questo si risparmierebbe oltre 1 miliardo di euro. Tuttavia questa prassi, ritenuta molto lunga, manca delle disposizioni indispensabili per poter essere eseguite. L’Antigone denuncia come 1 detenuto su 6 sia ancora in attesa del primo processo, mentre 1 detenuto su 3 invece non ha una condanna definitiva. Per quasi il 21% dei casi il primo colloquio con l’avvocato avviene in meno 10 minuti prima dell’udienza; percentuale minore, seppur significativa, anche per i criteri di riservatezza, pari al 16% che si vede ogni anno in crescita. Oltre il 25% dei casi riguardano invece i colloqui con gli stessi difensori che non avvengono a causa dell’assenza d’interpreti per i detenuti stranieri. Per il carcere di San Vittore, al fine di dirimere i molteplici problemi, si è espresso direttamente il ministro per la Giustizia Alfonso Bonafede firmando il “Programma 2121” volto all’inclusione sociale dei detenuti e la promozione di inserimenti lavorativi. Con l’auspicio di garantire una seconda opportunità ai cittadini che hanno commesso errori e che si sono impegnati ad intraprendere un percorso di responsabilizzazione e riabilitazione, il “Programma 2121” potrà essere una soluzione tangibile per questo problema ormai propagatosi dal nord fino al sud Italia. Udine: nuovo carcere, misure anti-terrorismo e sezione femminile Il Gazzettino, 17 novembre 2018 “Si spera che entro l’inizio del 2019 si raggiunga una ragionevole risoluzione della contesa per la costruzione del nuovo penitenziario. Altrimenti, inizierebbe un conto alla rovescia in negativo considerato che nel frattempo continuerebbe a salire il numero di detenuti in Italia”. Parole, queste, del provveditore del Triveneto del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Enrico Sbriglia, tra gli ospiti del convegno internazionale Prevention, repression and rehabilitation: a judicial prespective organizzato dal ministero della Giustizia assieme al Provveditorato e alla fondazione Agenfor International. A margine dell’iniziativa, parlando con i giornalisti, Sbriglia ha auspicato che si giunga a una soluzione riferendosi alla svolta giudiziaria impressa dal Consiglio di Stato che ha accolto il ricorso presentato dall’Impresa Pizzarotti di Parma, giunta seconda per la costruzione del penitenziario da trecento posti, escludendo il raggruppamento capeggiato da Coveco (in seguito Kostruttiva). I lavori non sono ancora stati consegnati alla Coveco, che dovrà passare la mano alla Pizzarotti. Sbriglia chiarisce “che tale argomento, di aspetto contrattualistico è di competenza del ministero, ma si spera che arrivi a una risoluzione entro pochi mesi”. Poi si è soffermato sul carcere Del Castello di Pordenone “che non è più tollerabile” sia come sovraffollamento che come vetustà della struttura, neppure per il personale di polizia penitenziaria e amministrativo che vi lavora. Come si diceva ieri San Vito ha ospitato l’importante convegno - e qualche problema di traffico si è registrato come effetto delle misure di sicurezza - che ha visto tra i vari ospiti anche l’assessore regionale alla Sicurezza, Pierpaolo Roberti, il quale ha annunciato “che la Regione sta mettendo a punto una legge per contrastare i fenomeni di radicalizzazione in Friuli, inclusi quelli a matrice jihadista. Per questo motivo, nella legge di stabilità sono già state inserire delle specifiche poste con le quali dare avvio a progetti concreti”. Roberti ha quindi chiesto pubblicamente una sorta di collaborazione con il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto, con cui avviare un dialogo per migliorare e rendere più efficiente la norma. Dal canto suo, Sbriglia ha proposto di creare nel Nordest un’agenzia europea che si occupi di temi legati alla criminalità e ai penitenziari. Infine, il sindaco Antonio Di Bisceglie, ha rinnovato l’invito a prendere in considerazione la possibilità “di ospitare a San Vito una sezione del carcere femminile con annesso Icam (Istituto che accolga le detenute madri con i figli), attualmente non presente in regione, mettendo a disposizione un antico podere immerso nel verde”. Lucca: il Garante lancia allarme sulla condizione dei detenuti di Paolo Lazzari luccaindiretta.it, 17 novembre 2018 “Nella città capitale del volontariato non riusciamo a coinvolgere associazioni disponibili a seguire i carcerati. Abbiamo bisogno di aiuto da parte loro”: l’appello lo lancia Mia Pisano, garante dei detenuti del Comune di Lucca. Sentita stamani (16 novembre) in seno alla commissione politiche sociali, anche alla presenza dell’assessore Lucia Del Chiaro, Pisano traccia un quadro delle questioni più pressanti per la casa circondariale di Lucca. Il San Giorgio ospita attualmente 106 detenuti, per la maggior parte extracomunitari: si attende la nomina di un nuovo direttore, perché quello precedente è stato recentemente trasferito al carcere di Pisa. Una struttura che racconta uno stato di sofferenza, poiché il personale sotto dimensionato non riesce a seguire tutte le attività che, di conseguenza, sono ridotte all’osso. “La situazione carceraria - afferma Pisano - è di stallo: l’area relativa alle attività aggregative e culturali è ferma con le quattro frecce, per il problema dell’organico. Serve più personale per gestirla. Il sotto numero crea disagi perché all’interno della struttura ci sono state diverse situazioni di agitazione, come il caso del ragazzo salito sul tetto della struttura, perché si sentiva violato nei diritti di trasferimento. I detenuti si sentono chiusi, non possono esternare la loro creatività, nel periodo estivo non possono fare quasi nulla. Vogliono andare a Massa, che però è un carcere, mentre questa è casa circondariale che accoglie la breve detenzione (massimo 4 anni, ndr).” La maggiore insofferenza si concentra intorno alle attività fisiche: i detenuti, per la maggior parte giovanissimi, hanno a disposizione soltanto 3 ore di palestra settimanali. “Mancano i volontari - prosegue il garante - e serve più personale preposto per queste attività: i detenuti ambiscono a fare attività fisica, ma possono fare soltanto un giro nel campo esterno. La palestra viene aperta tre volte per settimana dalle 9 a 12, ma ogni sezione ha un’ora a disposizione”. La biblioteca viene aperta di più, ma interessa poco dato che la maggior parte degli ospiti sono extra comunitari. I corsi, mediamente, vengono monitorati da un solo agente di polizia penitenziaria per volta. Servirebbero, inoltre, più psicologi volontari: “Stiamo cercando di coinvolgere ex professionisti in pensione - ricorda Pisano - perché molti, specialmente al primo carcere, accusano pesantemente la detenzione”. Sta ripartendo, nel frattempo, il corso di cucina, vero fiore all’occhiello della struttura, capace di rilasciare un attestato spendibile per una futura integrazione lavorativa. Poi c’è il cineforum, fatto da un’associazione esterna, e ci sono i corsi di teatro. “Abbiamo un caso di riabilitazione - prosegue il garante - di un ex detenuto che è diventato scrittore e collabora con uno studio legale. Questa è l’ipotesi migliore, ma non è facile controllare quello che succede dopo che i detenuti lasciano la casa circondariale”. Partono in questi giorni, inoltre, il corso di italiano e di pittura seguito dalla Caritas, che gode di una partecipazione altissima. Non meno importanti il progetto con la Usl per la digitalizzazione dei documenti aziendali ed i corsi di ciclo officina. “In questi 3 anni di mandato - precisa Pisano - ho visto uscire e rientrare spesso chi ha commesso reati contro il patrimonio. È invece più difficile che rientri chi commette reati contro la persona”. Giornate molto lunghe, quelle dei detenuti, che se inattivi rischiano di scivolare verso il deperimento fisico e mentale: “Sono persone per la maggior parte fragili e poco erudite - commenta il cappellano del carcere, don Simone Giuli - e, per questo, potenziare le attività per aiutarli a ripensare la loro vita è fondamentale”. L’assessore Del Chiaro, rispetto a queste questioni, propone di “riallacciare e sviluppare i rapporti con il gruppo volontari carcere, perché si tratta di un gruppo di persone che svolge attività molto utili”. La commissione il prossimo venerdì (23 novembre) alle 11 sarà proprio in visita alla casa circondariale per vedere direttamente le condizioni dei detenuti Ancona: detenuto scrive al Consigliere e scatta l’ispezione “diritti umani sospesi” di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 17 novembre 2018 Un detenuto scrive una lettera al consigliere comunale Francesco Rubini (Altra Idea di Città) per chiedere l’intervento della politica e lui si fa promotore di una visita. Un detenuto scrive una lettera al consigliere comunale Francesco Rubini (Altra Idea di Città) per chiedere l’intervento della politica, perché guardi alle condizioni di vita della popolazione carceraria nella casa circondariale di Montacuto dove ormai il livello dei diritti umani sembra essere sceso al livello più basso: quello in cui la crisi di sistema e di risorse economiche diventa crisi di diritti civili. Nel carcere anconetano la funzione rieducativa volta al reinserimento sociale, garantita dalla Costituzione, è sospesa. È l’impietosa conclusione del consigliere Rubini (foto in basso a sinistra) condivisa con chi, proprio ieri, è stato in visita ispettiva insieme a lui nel carcere: in primis il Garante dei Diritti della Regione Marche l’avvocato Andrea Nobili, poi i consiglieri Stefano Tombolini, Daniela Diomedi (M5S), Diego Urbisaglia (Verdi) e Susanna Dini (Pd). Il sovraffollamento, di per sé illegale, non è più una notizia per celle da 25 metri quadrati in cui vivono anche 5 detenuti di varie nazionalità e religione. Non ci sono più attività formative. La palestra è sprovvista di attrezzi per l’attività fisica. Ma soprattutto i detenuti denunciano come l’elenco dei prodotti da poter acquistare abbiano un prezzo esponenzialmente più alto rispetto a quelli della casa detentiva di Barcaglione. Un fatto strano se si pensa come la ditta incaricata di fornire prodotti per la persona sia la stessa di altri penitenziari dove il tariffario è più basso. A Montacuto il detenuto deve pagare di più e questo ha portato a diverse proteste, sempre civili e pacifiche. Di fronte a questo il direttore del carcere Santa Lebboroni si è impegnata ad attivarsi per porre rimedio. Una miglioria che resta una goccia nel mare di fronte alle condizioni generali: il campo da calcio inutilizzabile e con le reti distrutte, alle mura di un istituto dove l’intonaco scopre le parti in ferro dentro il calcestruzzo. Dove gli agenti di Polizia Penitenziaria sono sempre di meno a fronte di una popolazione di 298 detenuti, dove non ci sono più volontari e dove il team di supporto è formato da 1 psicologo e 5 educatori. Mediatori culturali? Nemmeno 1. È un problema in un carcere dove 1 detenuto su 2 è straniero, dove ci sono problemi di ordine tra la comunità albanese e quella marocchina, dove da tempo è emerso il problema di una potenziale radicalizzazione islamica tra le stesse mura in cui sconta la pena Luca Traini, il maceratese condannato a 12 anni per strage, porto abusivo d’armi e danneggiamenti con l’aggravante dell’odio razziale, considerato un “eroe” da una parte di carcerati. Dove tutti i detenuti dell’”Alta sicurezza” sono italiani. Problemi da affrontare con maggiori investimenti nell’ultima fase di un sistema giustizia dove sono in gioco i diritti degli ultimi. Ma impegnarsi non porta voti e la crisi politica ed economica diventa così crisi di diritti umani. “Quel carcere non e più in grado di risocializzare alcuno, da qui si entra e si esce. Basta - ha commentato il consigliere comunale Rubini, promotore della visita in carcere - La situazione costituisce un rischio vero di aumento della criminalizzazione di chi esce dopo essere stato in contatto col crimine vero. Certo, se paragonato alle situazioni delle carceri in Italia, Montacuto tiene, ma serve un’attenta riflessione su come l’assenza di risorse possano provocare un collasso del sistema. È un tema strategico perché continuare a disinvestire sul sistema punitivo significa aumentare la proliferazione del crimine. Se non diamo una possibilità a chi sta lì dentro di guardare al futuro con speranza, creeremo sempre più uomini potenzialmente più disillusi e propensi a perseguire la via dell’illegalità”. “Una delle problematiche emerse dal colloquio con la direttrice è quella del previsto finanziamento per le attività trattamentali, che nonostante gli innumerevoli solleciti avanzati da questa Autorità di garanzia ancora tarda ad essere erogato - ha detto Nobili - Teniamo conto che siamo ormai a metà novembre e molti dei progetti avviati hanno avuto inevitabili ripercussioni negative considerato questo stato di cose. Attraverso l’assestamento di bilancio, di recente era stato contemplato un rifinanziamento della legge regionale di settore del 2008 con una somma pari a 220.000 euro, a tutt’oggi non ancora disponibile. Si tratta di una di una questione di fondamentale importanza sia per la concretizzazione delle attività, sia per l’adozione di misure a tutela dei diritti dei detenuti, soprattutto per quanto riguarda la loro risocializzazione”. Livorno: sopralluogo alle Sughere dell’assessore Morini e dei consiglieri regionali M5S livornopress.it, 17 novembre 2018 “Serve più personale e un’area di socializzazione”. Sopralluogo alla Casa circondariale di Livorno ieri mattina per Andrea Morini, assessore ai rapporti col carcere del Comune di Livorno, il Garante comunale dei diritti dei detenuti, Giovanni De Peppo, e i consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle, Andrea Quartini e Gabriele Bianchi. L’iniziativa odierna è una tappa del percorso di approfondimento sulle case circondariali avviato dai due consiglieri regionali. “Siamo al quinto sopralluogo del nostro tour carceri - ha dichiarato Gabriele Bianchi, vicepresidente della Commissione Affari Istituzionali del Consiglio regionale - e anche in questo caso abbiamo affrontato i problemi principali con la direttrice e col personale, che ringrazio per la disponibilità. Questo carcere soffre il sovraffollamento nella sola area transito, che è lo spazio peggiore della struttura, segnato da una indisponibilità delle docce che obbliga gli agenti a scortare i detenuti a turno nel piano inferiore, con ovvi problemi di sicurezza e disagio. Le docce saranno ripristinate a breve, con un anno e mezzo di ritardo, ma il problema sovraffollamento dell’area sembra al momento non superabile”. “La polizia penitenziaria - ha precisato Bianchi - gestisce la popolazione carceraria con un approccio empatico lodevole nonostante una carenza di organico di almeno 30 unità. Un problema, questo del personale, condiviso con le educatrici, rimaste in due a fronte di un’esigenza di almeno cinque figure professionali. Una condizione questa che rende complesso garantire per i detenuti quel percorso di rieducazione sancito dalla Costituzione, capace di ridurre la loro recidiva”. Il garante dei detenuti del Comune di Livorno, Giovanni De Peppo, ha precisato a riguardo che “gli ultimi decreti del ministro Bonafede, il 123 e il 124, parlano di valorizzare gli spazi comuni proprio in ottica rieducativa, un mandato che a Livorno diventa contraddittorio dato che qui questo tipo di spazi ci sono ma sono inutilizzabili perché, come nel caso della grande sala teatro, risultano inagibili da 10 anni e mancano le risorse per sistemarli. Di qui il nostro invito ai consiglieri di sollecitare il ministro affinché consenta l’attuazione delle sue corrette disposizioni, assegnando le risorse a Livorno per ripristinare almeno quello spazio”. “Ringrazio i consiglieri regionali Quartini e Bianchi di questo sopralluogo - ha evidenziato Andrea Morini - e concordo su una focalizzazione relativa alle aree di socializzazione, in ottica rieducativa. A questo proposito come amministrazione stiamo riflettendo sulla possibilità di indicare nel canile comunale lo spazio in cui sperimentare attività di lavoro esterno per chi usufruisce dell’art.21 dell’ordinamento penitenziario. Daremmo così l’opportunità a queste persone di terminare la loro esperienza detentiva prestando servizio nella cura degli animali, coi benefici di questa pet therapy”. “Mi chiedo com’è stato possibile lasciare le carceri in queste condizioni per quarant’anni - ha puntualizzato il consigliere regionale Andrea Quartini -. In questo carcere la sala polivalente e la caserma realizzate negli anni ottanta sono inagibili, e la palestra è stata trasformata in spogliatoio per la polizia penitenziaria. Quando sento poi dire che la metà dei detenuti è dentro per droga mi chiedo se non sia l’ora davvero di depenalizzare lo spaccio e la detenzione della cannabis”. “La direzione si occupa insieme di Livorno e di Gorgona - ha concluso Quartini - e per quest’ultima abbiamo preso l’impegno di approfondire il tema del trasporto merci da e verso l’isola, di competenza regionale e attualmente in uno stallo da superare”. Napoli: a Secondigliano i detenuti cominciano lo sciopero della spesa cronachedellacampania.it, 17 novembre 2018 Due pagine scritte a stampatello con sette punti, sette richieste inoltrate alla direttrice del carcere di Secondigliano con i quali annunciano che da lunedì cominceranno lo sciopero della spesa. Sono i detenuti del reparto Ligure sezioni 1, 2, 3, 4, 5 e 6. La protesta nasce dalla decisone della direzione del carcere di ‘controllarè le visite dei familiari dopo la scoperta di ben sette micro cellulari nelle celle dei detenuti di massima sicurezza fatta la scorsa settimana. Chiedono che venga data ai proprio familiari la possibilità di poter prenotare on line le viste come avviene in altri penitenziari per evitargli quelle estenuanti file anche di 10 ore per poter accedere ai colloqui. La seconda richiesta riguarda la consegna dei pacchi che vengono portati dai familiari e che ora vengono consegnati dalle19 alle 20 di sera e siccome in molti casi essi contengono cibo preparato il giorno prima questo poi viene buttato perché non più commestibile. I detenuti chiedono che venga ripristinata la precedente lista degli alimenti che potevano essere portati dai familiari. E inoltre che vengano sostituiti i televisori obsoleti e non funzionanti in molte delle celle e che le stesse siano dotate di mini frigo come già ci sono nel carcere di Poggioreale e in quello di Palermo. E infine che siano aperte nel periodo invernale al mattino le salette della socialità visto che è impossibile accedere ai passeggi per il freddo. E ancora di poter accedere due volte al mese al campo di calcio o avere i palloni durante i passeggi in modo da poter giocare. I detenuti invitano la direttrice a far visita alle loro celle per poter prendere visione di persone delle condizioni dei detenuti. Milano: detenuto pestato a San Vittore, il pm “processate gli 11 poliziotti indagati” Corriere della Sera, 17 novembre 2018 Le indagini sono partite dalle accuse di un 50enne tunisino: “Mi hanno picchiato per non farmi deporre al processo contro gli agenti della polizia penitenziaria che io accusai di furto nel carcere di Velletri”. Sul suo corpo trovati i segni lasciati con un tirapugni. Sul suo corpo sono stati trovati i segni lasciati con i tirapugni. Ismail Ltaief, tunisino 50enne recluso nel carcere milanese di San Vittore, sarebbe stato picchiato e minacciato da undici ispettori e agenti di polizia penitenziaria. Con questa accusa il pubblico ministero Leonardo Lesti ha chiesto il loro rinvio a giudizio. Al centro le presunte intimidazioni e i pestaggi che il detenuto avrebbe subìto, tra il 2016 e il 2017, per convincerlo a non testimoniare in un processo nei confronti dei colleghi del carcere di Velletri, denunciati dal tunisino, nel 2011, per furti in mensa e percosse. L’uomo, un ex tossicodipendente, era in carcere per aver tentato di uccidere un egiziano nel “boschetto della droga” di Rogoredo, del quale descrisse gli orrori. Le accuse mosse agli undici ispettori e agenti di polizia penitenziaria, che nel frattempo non prestano più servizio a San Vittore, sono: intralcio alla giustizia, lesioni, falso e sequestro di persona. Reato quest’ultimo contestato solo ad alcuni perché in uno dei due pestaggi, datati 27 marzo e 12 aprile 2017, ricostruisce il capo di imputazione, il 50enne, privato “della libertà” sarebbe stato ammanettato e trasferito nella stanza assegnata ad uno degli agenti sotto inchiesta per poi essere picchiato. Oltre a Ltaief, nel processo si è costituito parte civile anche un suo compagno di cella, un sudamericano di 30 anni, che, chiamato a testimoniare dai magistrati milanesi, sarebbe stato intimidito da uno degli imputati che per questo venne anche arrestato. Ascoli Piceno: inaugurato l’orto sociale per i detenuti di Marino del Tronto picenooggi.it, 17 novembre 2018 La struttura si sviluppa su una superficie di circa 100 metri quadrati destinata a orto e di diversi altri appezzamenti dove si stanno mettendo a dimora piante da frutto, ornamentali e aromatiche. È stato inaugurato, il 16 novembre, presso la casa circondariale di Marino del Tronto, l’orto sociale finanziato dalla Regione Marche. Alla cerimonia sono intervenuti la vicepresidente Anna Casini (assessore all’Agricoltura), Lucia Di Feliciantonio (dirigente dell’istituto di pena), Cesare Orsini (coordinatore amministrativo Consorzio Ciip) e Uriano Meconi (dirigente Assam). “Il progetto nasce da un giovane detenuto che si chiama Andrea che un giorno mi ha fatto capire che forse non facevamo abbastanza per il carcere - ha ricordato Casini - È un progetto che sgorga dal cuore per aiutare i detenuti ad aver spazi e opportunità per utilizzare il tempo in maniera efficace”. La dirigente Di Feliciantonio ha sottolineato l’ottima collaborazione in corso con la Regione: “Tra tutte le iniziative avviate, questa è particolarmente preziosa per noi. Il detenuto ha la possibilità di prendersi cura dell’orto e si impegna a raggiungere risultati importanti, come accade sempre nella vita”. Mariano, tra gli animatori dell’orto, ha detto di ritenerla “una buona iniziativa, almeno faccio qualcosa di utile”. Il progetto “Orto sociale in carcere” nella Casa circondariale di Ascoli Piceno rappresenta una innovativa esperienza, nella quale il valore ricreativo ed educativo dell’orto, viene affiancato da una esperienza teorico-pratica nella gestione del verde e giardinaggio, per creare specifiche professionalità di settore. La struttura si sviluppa su una superficie di circa 100 metri quadrati destinata a orto e di diversi altri appezzamenti dove si stanno mettendo a dimora piante da frutto, ornamentali e aromatiche. Il progetto ha richiesto la realizzazione di una linea idrica per garantire la disponibilità di acqua per l’irrigazione. È stata approntata dal CiiP Spa - Servizio Idrico Integrato e valorizza le acque che escono dall’impianto di depurazione della struttura penitenziaria. L’Amministrazione del carcere ha installato due cisterne di stoccaggio dell’acqua, una da 2 mila litri presso l’impianti di depurazione e una da 10 mila nei pressi dell’orto. L’acqua utilizzata per l’orto verrà sanificata attraverso un sistema a ultravioletti per eliminare eventuali contaminanti. Questo innovativo progetto di riutilizzo delle acque che escono dall’impianto di depurazione va nella direzione di una maggiore attenzione alla gestione delle risorse ambientali, anche attraverso processi virtuosi di riciclo. Il servizio Politiche Agroalimentari della Regione Marche ha fornito le risorse finanziarie all’Assam per dotare il progetto di piccoli macchinari, attrezzature, piantine invernali da orto, varietà autoctone di olivo del Piceno (come Ascolana Tenera, Lea, Carboncella, Sargano di Fermo), piante di mela rosa (Gentile e Pietra) e alcune piante aromatiche provenienti dal proprio vivaio di Pollenza, oltre a concimi organici per favorire la messa a dimora. Le piante di olivo e mela rosa fanno parte del repertorio regionale della biodiversità agraria delle Marche che tutela le varietà a rischio di erosione genetica. “Ortoincontro” è un progetto promosso dalla Regione nell’ambito delle attività di agricoltura sociale sperimentate da diversi anni. Dopo Agrinido di qualità (asilo nido all’interno di un’azienda agricola per far crescere i bambini a contatto con la natura) e Longevità attiva (esperienze rurali per migliorare la qualità di vita degli anziani), sono state sperimentate attività educative e ricreative per i detenuti legate al mondo agricolo. Dal 2008 è iniziata una collaborazione tra la Regione Marche, l’Assam (Agenzia per i servizi agricoli) e Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria Marche - Emilia Romagna per una formazione teorico pratica dei reclusi. Dopo la positiva esperienza svolta presso la struttura penitenziaria di Barcaglione (Ancona), il relativo protocollo del 2011 è stato rinnovato nel 2013, coinvolgendo anche le carceri di Monte Acuto (Ancona) e Ascoli Piceno. Le attività di agricoltura sociale vengono finanziate anche dal Piano di sviluppo rurale della Regione Marche, con la misura 6.4 (il cui bando è attualmente aperto) destinata alle imprese agricole e con la misura 16.1 che sostiene, per la prima volta in Italia, l’introduzione dell’innovazione nelle imprese agricole attraverso, un progetto di agricoltura sociale. La leadership delle Marche sul tema della ruralità sociale è riconosciuta anche dalla rete europea ERIAFF - The European Region for Innovation in Agriculture, Food and Forestry, network che raccoglie 43 Regioni di 13 diversi Stati membri della UE. Lo scorso giugno, nel corso del meeting tenuto presso la città finlandese di Seinajoky, alla Regione Marche è stato affidato il ruolo di capofila nel nascente partenariato interregionale sull’agricoltura sociale. Milano: la bellezza vista dai detenuti, alla Mostra Galeotta le opere di Mail-art di Francesca Robertiello La Repubblica, 17 novembre 2018 Comunicare la bellezza della vita attraverso l’arte è impresa ardua per chi vive dietro le sbarre di un carcere. Decidere però di mettersi alla prova, realizzare un’opera, spedirla e poi venire a sapere che fuori sarà esposta - magari in una grande città come Milano - è un gran riscatto. Torna per il terzo anno consecutivo allo spazio Big Santa Marta (in via Santa Marta, 10) la Mostra Galeotta, una raccolta di 440 opere di Mail-art - piccole creazioni artistiche su cartolina spedite via posta - realizzate da 172 artisti detenuti nelle carceri italiane. Accanto a queste, sono esposte anche le produzioni di 36 artisti liberi particolarmente sensibili che si sono immedesimati nei reclusi, provando a interpretare sotto forma d’arte le loro sofferenze e frustrazioni, ma anche l’ammissione delle colpe e la voglia di concedersi una seconda opportunità. Queste ultime creazioni saranno vendute al pubblico e il ricavato sarà devoluto ai progetti di rieducazione nelle carceri portati avanti dall’associazione Artisti Dentro Onlus. La mostra, aperta alle 18 di venerdì, prosegue sabato 17 novembre dalle 10 alle 18. Milano: Mostra Galeotta, artisti dentro e artisti fuori di Susanne Capolongo mitomorrow.it, 17 novembre 2018 L’arte nei penitenziari prende vita alla Mostra Galeotta. Il mondo degli istituti di detenzione italiani è una ferita aperta che non si riesce a rimarginare: luoghi fatiscenti, sovraffollamento, condizioni ambientali e insalubri e locali abitativi di dimensioni ridottissime. Ma è anche grazie alle associazioni di volontariato che si può rendere migliore la vita nei penitenziari. Tra queste c’è Artisti Dentro Onlus nata per contribuire alla “rieducazione del detenuto”, che domani domenica presenterà la Mostra Galeotta, allo Spazio Big Santa Marta. Sarà la terza edizione dedicata alla Mail-art, piccole opere prodotte su cartoline, fornite e affrancate dall’associazione ai detenuti, poi spedite per via postale per formare l’esposizione. “Lo sappiamo, non possiamo recuperarli tutti, ma ognuno di loro ha diritto ad avere un’occasione”, racconta a Mi-Tomorrow Sibyl von der Schulenburg, presidente dell’associazione. Quali sono le novità di quest’anno? “L’edizione 2018 offre al visitatore una mostra suddivisa per argomenti, riunendo le opere di uno stesso tema o tecnica, aiutando così a recepire al meglio le varie sensazioni e motivazioni che stanno dietro ogni opera. Abbiamo ad esempio notato negli anni che sono sempre tante le cartoline che riproducono in qualche maniera un cuore. Ci siamo chiesti il perché e abbiamo considerato che l’amore è l’unica emozione raffigurabile in un simbolo grafico, universale, antecedente le emoticon”. Come vivono questo appuntamento i detenuti? “Siamo partiti con l’idea che il concorso potesse innescare un meccanismo di reazione all’indolenza che pervade le carceri, che la competizione potesse fungere da leva per stimolare motivazione e ambizione, e che i detenuti raccogliessero la sfida a dimostrare di essere capaci di fare anche qualcosa di buono. La creatività è un fare e di questo ha bisogno chi intraprende un percorso per il cambiamento perché un divenire senza il fare è solo l’eterno girare delle lancette, non è vita”. Siete soddisfatti? “Le lettere di ringraziamento che ci giungono confermano che abbiamo imboccato la via giusta; lo sappiamo, non possiamo recuperarli tutti, ma ognuno di loro ha diritto ad avere un’occasione”. Come nell’edizione precedente, anche quest’anno avete avuto la partecipazione degli artisti fuori. Chi sono? “Si tratta di persone che hanno la sensibilità per immaginare la sofferenza di chi è dietro le sbarre, immedesimarsi e comprendere che, talvolta, l’errore di un momento può costarti molto caro. Trentasette artisti affermati hanno offerto le loro opere di mail-art, inviate con le stesse modalità di quelle dei detenuti, a sostegno di chi, in carcere, voglia ritrovare la strada del buon senso e della convivenza civile attraverso la creatività. Non tutte le cartoline inviate da questi artisti sono arrivate a destinazione, alcune sono forse per strada; ci farebbe particolarmente male sapere che queste prove di solidarietà si siano perse nei meandri del sistema postale anche se il rischio della spedizione fa parte del gioco”. Sondrio: Opera Don Bosco Onlus, cena a scopo benefico alla Casa circondariale valtellinanews.it, 17 novembre 2018 La Fondazione Opera Don Bosco Onlus di Milano insieme alla Casa Circondariale di Sondrio organizza una cena a scopo benefico. Sondrio Jazz Solidale sarà, come suggerito dal nome, una serata di musica, sapori della tradizione e solidarietà. Organizzata per venerdì 30 novembre alle ore 19:00 presso la Sala Polifunzionale “Don Vittorio Chiari” di Sondrio (Piazza San Rocco, 1), rappresenterà un’occasione durante la quale riflettere su temi importanti quali il riscatto sociale, le dure condizioni in cui vivono tanti bambini del mondo, in particolare in India, lasciandosi al contempo accompagnare da ottima musica. La serata inizierà con un concerto, di musica Jazz durante il quale Claudio Chiara e un quintetto di musicisti professionisti renderanno omaggio alla poesia jazz di Art Pepper e Buddy De Franco ricreando le atmosfere del tempo. La loro musica verrà intervallata dalla presenza di un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Sondrio, impegnati nella lettura di alcuni brani frutto di un percorso di emancipazione e riflessione svolto nel corso della loro permanenza in carcere. Il concerto e le letture condurranno i partecipanti al momento vero e proprio della cena, vera e propria delizia per tutti i palati, grazie ai meravigliosi piatti cucinati da Gianluca Bassola del noto ristorante Trippi. La cena concerto avrà un costo a partire da 25 euro, l’intero ricavato verrà devoluto per un progetto della Fondazione Opera Don Bosco Onlus a sostegno dei bambini di Namakkal, India. Un’area nella quale sorge il Don Bosco Anbu Illam, un centro dove sono ospitati circa 60 bambini e ragazzi orfani. I loro genitori erano ammalati di Aids e anche alcuni di loro lo sono, una malattia che colpisce tantissime persone in India. Qui i Salesiani li accolgono e li accompagnano nella loro crescita garantendo alloggio, cibo, accompagnamento nello studio, cure mediche e medicine, un servizio di counseling e supporto psicologico. I passi avanti fatti sono stati tanti, ma ogni giorno c’è bisogno di aiuto per coloro che affollano il dormitorio. Partecipare a SoJazzSo significherà fare la differenza per il bene di chi purtroppo è nato in una parte del mondo e in una condizione ben diversa a ciò che siamo abituati a vedere nel mondo occidentale. Pescara: Flavio Insinna in carcere come attore-regista con i detenuti globalist.it, 17 novembre 2018 Alla Casa circondariale di Pescara uno spettacolo tratto dalle lettere di Attilio Frasca, carcerato, con il regista Rai Fabio Masi. Flavio Insinna va in carcere. Per recitare, non allarmatevi, insieme a dieci detenuti del carcere di Pescara. Il 1° dicembre va in scena nella Casa Casa circondariale di Pescara, in un progetto sostenuto dal Teatro Stabile d’Abruzzo diretto da Simone Cristicchi, “Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle”, recital dove il presentatore ha il ruolo di voce narrante e dove il testo è dato dal libro omonimo pubblicato da Itaca Edizioni, scritto da Attilio Frasca, detenuto per omicidio, e Fabio Masi, regista della Rai e composto dalle lettere che il detenuto e il regista si sono scritti per dieci anni. Il testo è stato adattato da Ariel Vincenti, in scena dieci detenuti guidati da Insinna dopo mesi di prove nella sala teatrale della prigione pescarese. E dove si raccontano storie di vita vissuta, i drammi, le speranze, l’amicizia. Senza dare giudizi sommari né giudicare dall’alto. Lo spettacolo è a inviti. Consulta: il divieto di aiuto al suicidio è un limite eccessivo all’auto determinazione di Madi Ferrucci Il Manifesto, 17 novembre 2018 Non esiste un diritto a morire, “l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione” perché tutela i soggetti più deboli. Ma la legislazione italiana non contempla i casi in cui - com’è stato per Dj Fabo, aiutato a morire dal radicale Marco Cappato che per questo si trova sotto processo a Milano (l’articolo 580 del codice penale punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio) - una persona sia affetta da una patologia irreversibile e per le sofferenze che questa le comporta decida liberamente e consapevolmente di interrompere i trattamenti di sostegno vitale. I progressi della scienza medica impongono di aggiornare la legge penale. La Corte Costituzionale ha pubblicato ieri le motivazioni con le quali lo scorso 24 ottobre ha sospeso il giudizio di costituzionalità sull’articolo 580 del codice penale - richiesto dalla Corte di assise di Milano - dando un anno al parlamento per legiferare. Una sentenza inedita, che nelle motivazioni è spiegata con l’esigenza di non lasciare un vuoto normativo. E contemporaneamente evitare “di lasciare in vita, e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile, la normativa non conforme a Costituzione”. I giudici hanno anche indicato al legislatore dove intervenire, insistendo sul fatto che la recente legge del 2017 sulla dichiarazione anticipata di trattamento deve anche prevedere il caso di un paziente che, come Dj Fabo, rifiuta la sedazione profonda perché non in grado di provocargli una morte rapida. Secondo Cappato “la Consulta ha chiarito ciò che abbiamo sempre sostenuto, cioè che, in determinati casi, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato. Smentendo la linea sia del governo Gentiloni che del governo Conte”. Centri di accoglienza solo per richiedenti asilo vulnerabili di Carlo Lania Il Manifesto, 17 novembre 2018 Decreto sicurezza. È la soluzione a cui il Viminale starebbe pensando per rispondere alle richieste dei sindaci preoccupati dagli effetti del dl sicurezza. Nuove strutture nelle quali accogliere i richiedenti asilo vulnerabili e le famiglie con bambini che hanno presentato domanda di protezione internazionale. Centri che, pur senza appartenervi, sarebbero comunque simili a quelli che oggi fanno parte del Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) gestito dai Comuni e che invece il decreto sicurezza del ministro degli Interni Matteo Salvini riserva in futuro solo a coloro che avranno ottenuto lo status di rifugiato e ai minori non accompagnati. Le nuove strutture sono la soluzione alla quale al Viminale si starebbe pensando per venire almeno in parte incontro alle richieste avanzate dai sindaci italiani, sempre più preoccupati dalle conseguenze che il decreto, che potrebbe diventare legge il prossimo 23 novembre, potrà avere sui territori che governano. Se ne è parlato anche in una delle ultime riunioni del tavolo tecnico che periodicamente - alla presenza del sottosegretario agli Interni Nicola Molteni - riunisce a Roma i tecnici del ministero e i rappresentanti dell’Anci, l’Associazione dei comuni italiani. E pur senza entrare in particolari, che qualcosa si starebbe muovendo lo ha confermato anche il presidente dell’Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro: “Stiamo registrando negli ultimi giorni, a partire dall’incontro con il sottosegretario Molteni, un’apertura, una disponibilità al dialogo da parte del governo con i Comuni”, ha spiegato Decaro intervenendo giovedì alla presentazione del Rapporto annuale Sprar. Questo naturalmente non significa che il decreto - che ha ottenuto il via libera del Senato e ora si trova in Commissione Affari costituzionali della Camera - verrà modificato. Il testo è blindato e sarà molto probabilmente licenziato la prossima settimana. L’eventuale creazione delle nuove strutture riguarda quindi il futuro. Il destino dei cosiddetti migranti vulnerabili è una delle questioni poste dai sindaci a Salvini. Si tratta di persone che nel Paese di origine o nel loro viaggio verso l’Europa hanno subito torture, violenze sessuali, vittime della tratta di esseri umani, persone con problemi di carattere sanitario o donne sole in stato di gravidanza. Ma anche famiglie con bambini al seguito. Fino a poco tempo fa una volta presentata la richiesta di protezione internazionale venivano inseriti nel circuito Sprar dove, oltre a cibo e alloggio, ricevevano assistenza medica, psicologica e un supporto legale. Il decreto li destina invece nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas), dove le stesse tutele non sempre sono garantite. E non parliamo di piccoli numeri. Stando infatti a quanto riporta il Rapporto dell’Anci sul sistema Sprar, dei 36.995 migranti accolti nel 2017, i nuclei familiari sono stati 2.117 (per un totale di 6.346 persone) e 7.800 i migranti con esigenze particolari. Per loro la situazione non cambierà, visto che il decreto prevede che quanti sono già inseriti nel circuito Sprar possano continuare a restarci. Il problema di pone quindi per quanti arriveranno in futuro. Anche se il numero degli sbarchi è in continua diminuzione è facile prevedere che saranno comunque migliaia le persone che non potranno più accedere al sistema di protezione, tanto che i Comuni hanno calcolato in 280 milioni di euro in più i costi sociali ai quali dovranno far fronte. Il malumore che da tempo serpeggia tra i sindaci per quello che vedono come uno smantellamento dello Sprar è alto, e non esclude gli amministratori di centrodestra. Leghisti compresi che pur non partecipando alle riunione della commissione Immigrazione dell’Anci in privato non nasconderebbero di essere preoccupati. E lo stesso vale per le amministrazioni guidate dal Movimento 5 Stelle. Pochi giorni fa Laura Baldassarre, assessore alle Politiche sociali della giunta guidata da Virginia Raggi, ha spiegato quanto potrebbe accadere nell’immediato futuro: “Se il decreto Salvini non cambierà, 1.059 persone solo a Roma uscirebbero dal sistema Sprar, con due effetti negativi: che i servizi sociali si dovrebbero fare carico di queste persone, e non ce la fanno, e che aumenterebbero le situazioni di illegalità”. Migranti. Con il decreto sicurezza l’accoglienza diventa straordinaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 novembre 2018 Il Rapporto di Openpolis evidenzia le anomalie del sistema che gestisce i flussi migratori. Negli ultimi anni c’è stata una riduzione delle procedure di affidamento diretto (tranne città come Trapani) a favore di modalità più trasparenti e competitive, mentre però nel contempo sono aumentati i posti nei Centri di accoglienza straordinaria (nel 2017 oltre l’80% delle presenze è nei Cas) e molto meno quelli nello Sprar, un modello prevede un sistema informativo e di rendicontazione che ne permette il monitoraggio, al contrario di quanto avviene appunto per i Cas e i centri di prima accoglienza. Ma non solo. Sono cresciuti costantemente gli importi messi a bando per la gestione dell’accoglienza in Italia: anche il numero di bandi è cresciuto ma non in maniera proporzionale agli importi. Parliamo del primo rapporto redatto da Openpolis - in collaborazione con ActionAid - basato su dati e informazioni provenienti da fonti ufficiali e che permetta il censimento e il monitoraggio della gestione dei centri. “In questi anni la mancanza di strumenti di analisi del sistema ha permesso che temi come quello del “business dell’accoglienza” potessero svilupparsi nella loro ambiguità gettando un’ombra di sospetto sull’intero settore e screditando il concetto stesso di accoglienza senza distinzioni”, si legge nel Report che è uscito dopo l’approvazione al Senato del decreto Sicurezza con cui il sistema viene completamente ribaltato. “Uno dei principali effetti del decreto è la destrutturazione del modello Sprar - scrive Openpolis - Eppure, a sentire coloro che il sistema di accoglienza lo conoscono, si tratta dell’unico modello funzionante nel nostro Paese, un modello che fino a poco fa si cercava di far crescere e che adesso viene smantellato, lasciando come unica alternativa i Centri di accoglienza straordinaria che, per definizione, rispondono a una logica emergenziale. Eppure è proprio nell’emergenza e nell’amministrazione non ordinata che possono più facilmente annidarsi la cattiva gestione e il malaffare”. E continua: “Nonostante questi elementi, si decide di ribaltare con una decretazione d’urgenza il sistema di accoglienza senza che si sia proceduto, con una qualche evidenza pubblica, a un’analisi attenta della realtà su cui basare le nuove politiche, senza mettere sul tavolo dati di fatto”. Sbarchi, richieste di asilo e presenze nei Centri - Openpolis spiega che Il termine “emergenza” è stato spesso associato in questi anni al fenomeno migratorio. Il flusso di arrivi via mare ha registrato un aumento a partire dal 2014 ed è rimasto su livelli elevati negli anni successivi fino a raggiungere un massimo di 181mila sbarchi nel 2016. Viene sottolineato che l’inversione di tendenza è iniziata nel luglio del 2017 con un brusco calo degli arrivi che si sta protraendo a tutto il 2018 tanto che a settembre i migranti sbarcati durante l’anno risultano essere poco più di 20mila. La causa di un calo così repentino è da attribuirsi soprattutto agli accordi tra Italia e Libia del 2 febbraio 2017. Il report ci tiene a rilevare che la drastica diminuzione delle partenze e le attività di ricerca e soccorso (search & rescue) affidate alla cosiddetta guardia costiera libica, che si traducono di fatto nell’aggiramento del principio di non refoulement, “condannano migliaia di persone alla morte in mare e potenziali richiedenti asilo alla permanenza in Libia e a trattamenti inumani e degradanti”. La capacità ricettiva del nostro sistema di accoglienza ha quindi avuto bisogno di un paio d’anni per adattarsi al fenomeno. Il report evidenza che il numero di persone accolte è infatti passato da circa 66mila nel 2014 a 176mila nel 2016. Nel 2017 i numeri non si sono discostati di molto dall’anno precedente; i dati provvisori per il 2018 mostrano per ora un calo moderato, nonostante il numero di arrivi si sia considerevolmente ridotto. Il report spiega che la ragione per cui la riduzione degli arrivi non è coincisa con una diminuzione equivalente del numero di persone in accoglienza è da ricercarsi nei lunghi tempi di permanenza nei centri: nel 2017 erano necessari ben 18 mesi alle commissioni territoriali per valutare le richieste di asilo. Il ricorso ai Cas - Dall’elaborazione di Openpolis si evince che all’aumento degli arrivi a partire dal 2014 è stata data risposta attraverso la crescita di posti nei Centri di accoglienza straordinari (Cas) piuttosto che nel sistema ordinario, ovvero il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) che tra il 2014 e il 2018 è cresciuto di meno di 5mila unità. Basti pensare che nell’anno 2017 risulta che sono dell’ 80,8% le presenze nei Cas rispetto al totale dell’accoglienza. È dunque nei Cas che si concentrano la maggior parte delle persone accolte. Uno dei principali effetti del decreto è la destrutturazione del modello Sprar nonostante si tratti dell’unico modello funzionante nel nostro paese: un’organizzazione centralizzata, procedure standardizzate e una gestione trasparente delle informazioni. La spesa per l’accoglienza e le procedure sugli appalti - La prima parte del lavoro di Openpolis è stata la creazione di un database contenente i dati sui contratti pubblici in materia di accoglienza presenti nella banca dati dell’Anac. I dati sono stati rifiniti e classificati, distinguendo dagli altri quei contratti che riguardano specificatamente la gestione dei centri di accoglienza. Dall’analisi di questi dati risulta una crescita costante degli importi messi a bando per la gestione dei centri di accoglienza tra il 2012 e il 2017, ma in maniera non proporzionale all’importo: dai dati elaborati emerge infatti a crescere è anche il valore medio dei contratti, in particolare nel 2017. La tendenza è dunque quella di fare meno bandi ma con importi più elevati. Come vengono assegnati i contratti? Le stazioni appaltanti possono decidere a seconda dei casi quale procedura di scelta del contraente utilizzare per stabilire chi si aggiudicherà l’appalto. Alcune procedure sono più trasparenti e permettono una maggiore competizione tra gli operatori per l’aggiudicazione del bando, altre invece prevedono meccanismi semplificati che riducono gli spazi di competitività e trasparenza fino ad annullarli completamente. Dai dati si evidenzia negli anni una progressiva riduzione negli anni nell’utilizzo dell’affidamento diretto (una procedura poco trasparente e che non permette alcun tipo di competizione) e un contestuale aumento della quota di procedure aperte e di accordi quadro (due procedure molto trasparenti e concorrenziali). Una tendenza giudicata da Openpolis senza dubbio positiva, visto che porta a “una riduzione delle zone d’ombra e a un aumento degli importi assegnati con procedure trasparenti e verificabili”. La città di Trapani, però, risulta che abbia messo a bando tra il 2012 e il 2018 più di 73 milioni di euro attraverso 337 contratti in affidamento diretto, ovvero il 20% circa di tutti i contratti in affidamento diretto fatti dalle prefetture italiane in materia di accoglienza negli anni considerati. “Questo dato ci porta a interrogarci sul perché alcune prefetture abbiano fatto un uso così intenso di questa procedura”, si chiede Openpolis. Gran Bretagna. Detenute partoriscono in cella senza assistenza medica di Laura Castellani foxlife.it, 17 novembre 2018 Le testimonianze: “Avevo le doglie, ma nessuno mi credeva. Mi hanno dato del paracetamolo per non sentire il dolore”. In Inghilterra, alcune donne detenute hanno partorito in cella senza avere accesso ad adeguate cure mediche. A rivelarlo, è uno studio condotto dalla dottoressa Laura Abbott - ostetrica e docente presso l’Università dell’Hertfordshire - condivisa in anteprima con The Guardian. La dottoressa ha analizzato la condizione in cui alcune detenute hanno partorito in tre carceri inglesi, di cui non vengono menzionati i nomi per non compromettere l’anonimato delle persone ascoltate dai ricercatori. La relazione ha documentato casi in cui alcune recluse hanno dovuto far nascere i propri bambini in cella, senza nemmeno il supporto di un’ostetrica. Le esperienze raccolte dal team di ricercatori disegnano un quadro molto preoccupante per il benessere delle detenute in gravidanza e dei loro bambini, in un contesto in cui il personale infermieristico non sempre è in grado di capire se la donna è entrata in travaglio né è preparato a far fronte al caso di emergenza, qualora non venisse portata in ospedale per tempo. Inghilterra: i parti in cella. Le nascite in cella non sono molto diffuse, anche se nessuno sa esattamente quante se ne verifichino, dato che né il Ministero della Giustizia né il servizio sanitario nazionale provvede alla raccolta dei dati. Tuttavia, la mancanza di accesso diretto a un’ostetrica, anche solo per un consulto telefonico, costituisce un grosso rischio per una donna in gravidanza. “Questo è un settore che desta sempre più preoccupazione”, ha dichiarato Naomi Delap, direttrice dell’ente benefico Birth Companions, che sostiene le donne in carcere da oltre 21 anni. Da mesi, Delap chiede l’adozione di misure urgenti: “Abbiamo iniziato a sentire diverse storie sulle donne che partoriscono in prigione”, ha spiegato. Tra le testimonianze raccolte, c’è quella di Layla (nome di fantasia), confermata anche dal personale carcerario. Entrata in travaglio precoce, Layla aveva cercato di avvisare il personale senza però essere creduta. Le contrazioni si facevano sempre più forti, ma il problema principale restava quello di convincere gli infermieri: stava partorendo, ma nessuno, oltre a lei, se n’era reso conto. L’unico supporto che le era stato offerto si limitava a qualche farmaco a base di paracetamolo per non sentire il dolore. Alla rottura delle acque, il panico: le infermiere presenti non sapevano come gestire la situazione, l’ambulanza non arrivava. Layla, dopo due ore di travaglio, dava alla luce sua figlia in una cella di prigione senza la presenza di personale specializzato. La sua non è stata un’esperienza isolata: “Ho intervistato 10 membri del personale, 8 hanno avuto esperienze di nascite nelle celle o ne sono venuti a conoscenza”, ha rivelato Abbott. Inoltre, in due delle prigioni esaminate non è presente un solo infermiere con una formazione specialistica in grado di gestire un parto in emergenza. Nella terza, erano presenti solo nell’unità madre-bambino. Secondo la Birth Companions, le donne incinte dovrebbero avere accesso telefonico a un’ostetrica 24 ore su 24. Inoltre, non dovrebbe spettare al personale carcerario, né agli infermieri, determinare se una donna abbia le doglie oppure no. Per l’organizzazione resta necessario incrementare il personale specializzato. Altra questione che rende complicato affrontare il fenomeno: la scarsa documentazione. Non si conoscono i numeri delle detenute in gravidanza (stimate intorno alle 600), né dei parti in carcere o in ospedale, anche se si pensa siano circa 100 all’anno. Nonostante i propositi del governo, la situazione nelle carceri inglesi resta un problema: “Sulla carta la strategia del governo dà le risposte più giuste. Tuttavia, a nostro avviso c’è un grande divario tra ciò che dovrebbe essere fornito e l’assistenza che effettivamente viene garantita. Le donne ricevono cure inadeguate che a volte possono essere pericolose per loro e per i loro bambini”. Libia. Uno sguardo ravvicinato ai Detention Centers di Alessandro Paglialunga ilcaffegeopolitico.org, 17 novembre 2018 Numerose organizzazioni umanitarie denunciano le drammatiche condizioni delle carceri libiche. Un grido di dolore al quale però molti Governi europei continuano a restare indifferenti. I Detention Centers possono essere suddivisi in due categorie: da un lato quelli legali, che sono controllati dall’esercito e dal Dcim (Directorate for Combatting illigal Migration) del Governo libico, dall’altro quelli clandestini, che sono controllati dalle milizie e dai trafficanti. Ma quanti sono i Detention Centers in Libia? Le Autorità governative hanno sempre rifiutato di fornire i numeri ufficiali. Tuttavia, sulla base dei dati raccolti dall’Onu, si pensa che in Libia vi siano all’incirca venti “carceri statali”. Sconosciuto resta invece il numero dei centri di detenzione clandestina, dov’è rinchiusa la maggior parte degli stranieri arrestati illegalmente dai trafficanti di esseri umani. Quel che è certo è che all’interno delle prigioni le condizioni detentive alle quale sono sottoposti i reclusi restano terribili. La debolezza del Governo, unita alla frammentazione delle Istituzioni nazionali, garantisce inoltre una totale impunità ai responsabili di tali crimini. A ciò si deve anche aggiungere la parcellizzazione del potere politico in Libia, che rende il controllo del territorio ancora più complesso. In effetti in alcune regioni del Paese, come ad esempio nel Fezzan, si concentrano non solo i conflitti politici tra Serraj, Haftar e le tribù locali (su tutti i tuareg e i tebou), ma anche gli interessi relativi al traffico illegale di esseri umani. In questa remota regione di frontiera la gestione delle carceri rientra dunque nella più ampia partita che ha come vero obbiettivo il controllo politico e militare del Sud. Esiste davvero una distinzione netta tra prigioni statali e clandestine? Sembra difficile dare una risposta precisa a questa domanda, dato che la debolezza delle Istituzioni libiche rende del tutto aleatori i concetti di “legalità” e “illegalità”. A Zuara, per esempio, quello che è stato identificato come il principale carcere clandestino della città si trova praticamente a pochi metri da quello gestito dal Governo di Sarraj. Qui alcuni prigionieri hanno riferito di essere stati trasferiti più volte dal primo al secondo e viceversa. A Zawiya, invece, il Dentetion Center statale che dovrebbe essere gestito dal Dcim è di fatto sotto il controllo della Brigata Al-Nasr. Ma questi non sono casi isolati. Di certo, in alcune carceri statali è consentito l’accesso agli operatori delle Nazione Unite e alle Ong, che offrono assistenza ai detenuti che presentano particolari necessità mediche e psicologiche. In quelle illegali, invece, ogni accesso esterno è tassativamente vietato. Tuttavia è sbagliato pensare che nelle carceri legali le condizioni di prigionia siano migliori rispetto a quelle dei centri clandestini. Ne è un esempio il carcere di Ben Walid, a sud di Tripoli. L’Onu, infatti, lo descrive come uno dei peggiori del Paese, come dimostrato dal fatto che nell’ospedale locale si registrano almeno 30 morti al giorno riconducibili anche alle violenze perpetrate nel Detention Center. Tra i detenuti vi sono donne incinte e minori non accompagnati. Ma anche rifugiati e richiedenti asilo registrati dall’Unhcr. I rapporti stilati dall’Unsmil (United Nations Support Mission in Libya), hanno confermato che le più esposte alle violazioni e ai soprusi restano ovviamente le donne. Nel carcere di Matiga, ad esempio, vi è una popolazione mista, fatta di prigioniere libiche e straniere. Tuttavia è molto complesso riuscire a stabilire l’esatto numero delle recluse, proprio a causa della scarsa collaborazione delle Autorità governative. Tra le straniere, Unsmil ha dato per certa la presenza di donne subsahariane e tunisine, ma persino di una detenuta russa. In molti casi le prigioniere non hanno un interprete e non beneficiano nemmeno di un sostegno psicologico. Recentemente sono stati attestati anche diversi casi di Hiv e numerosi tentativi di suicidio. Nel 2017 l’Onu ha inoltre riferito l’assalto al carcere da parte di un gruppo armato che ha abusato di alcune prigioniere dopo averle deportate in un’altra struttura clandestina. Altrettanto drammatica è la situazione nel carcere di Judaidah. Qui vi sono circa 15 donne provenienti da Nigeria, Ciad, Niger ed Etiopia. In questa prigione non sono ammesse visite esterne e solo in alcuni casi sono forniti i prodotti igienici. Questo destino è purtroppo condiviso da tanti stranieri che hanno cercato - senza successo - di raggiungere l’Europa. Infatti, dei circa 13.200 migranti intercettati in mare nel 2018 e riportati a riva dalla Guardia Costiera libica, tra i 4mila e i 6mila sono finiti nei Detention Centers gestiti dal Governo. Molti altri (la maggioranza), sono invece finiti nelle prigioni clandestine gestite da trafficanti e milizie locali. I Governi europei che hanno respinto troppo frettolosamente centinaia di disperati verso la Libia sono, per forze di cose, complici di queste efferatezze. E, forse, il drammatico vissuto di queste persone resterà per sempre come monito alla coscienza di chi ha preso tali scelte. Medio Oriente. Lo scontro tra Riyadh e Doha si allarga a Gaza di Michele Giorgio Il Manifesto, 17 novembre 2018 Qatar e Arabia saudita si ostacolano con politiche a favore dei rispettivi alleati, Hamas e il presidente Abu Mazen. Ma su Gaza pesano sempre i disegni del premier israeliano Netanyahu. La fragile tregua tra Israele e Hamas, causa della fine del governo Netanyahu, non ha tenuto i palestinesi di Gaza lontano dalle barriere di demarcazione con lo Stato ebraico. Anche ieri, 34esimo venerdì della Marcia del Ritorno, migliaia di manifestanti hanno affollato i campi di tende nella fascia orientale di Gaza e almeno 40 di loro sono stati feriti o intossicati dai proiettili e dai gas lacrimogeni sparati dai soldati israeliani. La partita tra Israele e Hamas non è certo finita e la campagna per il voto anticipato, con i leader politici israeliani che agiteranno il pugno di ferro pur di guadagnare consensi, potrebbe indurre il premier Netanyahu a dare luce verde all’offensiva militare contro Gaza che ha bloccato nei giorni scorsi spingendo alle dimissioni il ministro della difesa Lieberman desideroso di andare in guerra. Netanyahu continua a difendere la sua decisione. L’ha fatto anche ieri rifiutando di nominare nuovo ministro della difesa l’ultranazionalista Naftali Bennett che ha reagito annunciando il favore del suo partito, Casa ebraica, ago della bilancia della maggioranza, per le elezioni anticipate. Netanyahu non è diventato pacifista. Intorno al futuro di Gaza e dei suoi sfortunati, a dir poco, due milioni di abitanti si giocano interessi di eccezionale importanza. Netanyahu a differenza di Lieberman ha uno sguardo strategico, sa che una tregua a lungo termine con Hamas, ottenuta escludendo dalla trattativa l’Anp a Ramallah, finirebbe per allargare la frattura interna palestinese e per allontanare ulteriormente Gaza e Cisgiordania. La Striscia rischierebbe di diventare lo staterello palestinese senza sovranità che il premier ha in mente, lasciando tutta la Cisgiordania a Israele. Intorno al tavolo da gioco però non c’è solo Netanyahu. Lo status di Gaza e la riconciliazione tante volte annunciata e mai finalizzata tra Hamas e Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen, sono terreni di scontro tra Qatar e Arabia saudita, ai ferri corti da giugno 2017 dopo una ventina d’anni di scricchiolii, che si combattono su molti fronti, attraverso le cosiddette “proxy wars” (guerre per procura) ma mai frontalmente. Qualche giorno fa alla conferenza sulla Libia a Palermo è emersa evidente la connessione anti-Qatar esistente fra Arabia Saudita, Egitto, Emirati e l’uomo forte libico, il generale Khalifa Haftar. Quest’ultimo, appoggiato dal Cairo e Abu Dhabi, alleate di Riyadh, ha minacciato di dare forfait perché era stato invitato anche il Qatar che appoggia i Fratelli musulmani e il quasi scomparso Libyan Fighting Group, vicino ad al Qaida, che il generale ritiene ancora attivo a Tripoli. Doha appoggia anche Hamas, ramo della Fratellanza e pertanto nemico dell’Arabia saudita e del presidente egiziano al Sisi oltre che del leader palestinese Abu Mazen. Negli ultimi anni il Qatar ha garantito aiuti finanziari di emergenza al movimento islamico palestinese e di recente ha messo a disposizione decine di milioni di dollari per comprare il carburante per la centrale elettrica di Gaza e per pagare una parte dei salari dei dipendenti dei ministeri che fanno capo al governo di Hamas. “Tutte le volte che gli egiziani sembrano vicini a portare Israele e Hamas alla tregua a lungo termine interviene il Qatar, con l’appoggio della Turchia, che offre aiuti e risorse finanziarie per spingere Hamas a prendere tempo e a resistere alle pressioni egiziane”, ci spiega Sami Abu Omar, un operatore sociale e analista politico di Gaza. “Allo stesso tempo - aggiunge - Riyadh è impegnata a puntellare l’Anp, con donazioni e appoggi politici, ogni volta che viene messo in atto un tentativo di isolare Abu Mazen a vantaggio di Hamas”. Se il Qatar usa le sue immense risorse finanziarie per la sua politica a Gaza, l’Arabia saudita e i suoi alleati si concentrano sull’influenza politica e diplomatica. L’obiettivo è anche prendere la gestione della Spianata della moschea di al Aqsa di Gerusalemme (oggi affidata ala Giordania) con il favore di Israele che in cambio otterrebbe il riconoscimento della sua autorità su tutta Gerusalemme. Arabia saudita ed Emirati, secondo le indiscrezioni, hanno già acquistato appartamenti adiacenti alla Spianata delle moschee. Ad ostacolare queste manovre a Gerusalemme c’è la Turchia di Erdogan, alleata del Qatar e avversaria di Riyadh. Turchia. Retata di accademici legati al filantropo Kavala di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 17 novembre 2018 Tredici professori universitari sono finiti in carcere con l’accusa di essere legati all’associazione Cultura Anatolica guidata dal filantropo Osman Kavala, in carcere da oltre un anno senza essere ancora stato incriminato. Tra gli arrestati ci sono i docenti Betul Tanbay, della prestigiosa università di Bogazici, e Turgut Tarhanli, vice rettore della Bilgi UNiversity. Non è chiaro quali accuse siano loro rivolte. Kavala è sospettato, secondo i suoi avvocati, di aver utilizzato e fomentato le proteste per il parco Gezi scoppiate nel 2013 nel tentativo “di sovvertire l’ordine democratico attraverso il caos e la violenza” e di aver intessuto un legame con l’organizzazione del religioso in autoesilio negli Usa, Fethullah Gulen, accusato da Ankara di aver orchestrato il fallito golpe del luglio 2016. Criticano la nuova retata Amnesty International e l’Unione Europea - “Quest’ultima ondata di detenzioni di accademici e attivisti sulla base di accuse assurde mostra che le autorità hanno intenzione di continuare con il giro di vite sulla società civili e allontana ogni illusione che la Turchia stia tornando alla normalità dopo la fine dello stato di emergenza” ha detto Andrew Gardner, direttore della ricerca e della strategia per la ong in Turchia. In una nota il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna ha definito “allarmante la detenzione in Turchia di numerosi eminenti rappresentanti accademici e della società civile”. “Le autorità - ha aggiunto - devono garantire una soluzione rapida sulla base del principio della presunzione di innocenza,e dell’applicazione della custodia cautelare, in linea con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. L’Unione Europea, si afferma nel comunicato, “continuerà a sollevare queste gravi questioni, anche all’incontro del 22 novembre, quando l’Alta rappresentante dell’Ue Federica Mogherini e il commissario per la politica di vicinato, Johannes Hahn, saranno ad Ankara, per vedere il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu. “Le ripetute detenzioni di voci critiche e la pressione sui rappresentanti della società civile sono in contrasto con l’impegno del governo turco sui diritti umani, le libertà fondamentali e le annunciate riforme sullo stato di diritto. Oltre a questi casi, la Turchia deve rilasciare subito quanti sono detenuti senza giusto processo”. Turchia. Caso Khashoggi, Cia: omicidio ordinato da principe coronato saudita di Alberto Custodero La Repubblica, 17 novembre 2018 Lo scrive il Washington Post, citando le conclusioni della Cia che ha passato al vaglio tutte le informazioni di intelligence, compresa una telefonata tra lo stesso giornalista poi ucciso e il fratello del principe coronato, Khalid bin Salman, ambasciatore saudita negli Usa che, però, nega la circostanza. Secondo la Cia, l’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi nel consolato di Riad a Istanbul, in Turchia, è stato ordinato dal principe coronato saudita Mohammed bin Salman. Lo scrive il Washington Post (la testata con cui collaborava Khashoggi), a riportare la notizia citando le conclusioni della Cia che ha passato al vaglio tutte le informazioni di intelligence, compresa una telefonata tra il fratello del principe coronato, Khalid bin Salman, che è l’ambasciatore saudita negli Usa, e lo stesso Khashoggi. Khalid avrebbe detto al giornalista di andare nel consolato saudita in Turchia, dove sarebbe stato al sicuro, per ottenere i documenti necessari a sposare la sua fidanzata turca. Ma era una trappola: là ha incontrato la morte. Pur non essendoci prove certe che Khalid fosse a conoscenza del piano per uccidere Khashoggi, la telefonata fu sollecitata dal principe. Entrambe le circostanze sono state categoricamente negate sia dal governo saudita e sia da Khalid. Non è chiaro, scrive il Wp, se Khalid sapeva che Khashoggi sarebbe stato ucciso, ma egli fece la telefonata - intercettata dagli 007 Usa - su ordine del fratello. La conclusione della Cia è basata anche sulla valutazione che il principe è il governante di fatto del Paese e sovrintende anche agli affari minori del regno. Khalid bin Salman ha twittato in risposta alle rivelazioni del Washington Post che “l’ultimo contatto avuto con Khashoggi fu via testo il 26 ottobre 2017”. “Non ho mai parlato con lui al telefono e certamente non ho mai suggerito di andare in Turchia per nessuna ragione”, aggiunge, chiedendo al governo Usa di diffondere ogni informazioni riguardante questa affermazione. La valutazione dell’agenzia di intelligence, nella quale i dirigenti affermano di avere un alto grado di fiducia, è la più definitiva per ora tra quelle che legano il principe Bin Salman al delitto e complica gli sforzi dell’amministrazione Trump di salvare le relazioni con il suo stretto alleato in Medio Oriente. “La posizione accettata è che non c’è modo che questo sia accaduto senza che lui lo sapesse o fosse coinvolto”, afferma un dirigente Usa a conoscenza delle conclusioni della Cia. Gina Haspel, direttrice della Cia, è stata in missione in Turchia dopo il brutale assassinio e ha poi informato il presidente americano Donald Trump sulle conclusioni. Il governo saudita ha sempre negato ogni coinvolgimento della casa reale. In un primo momento aveva negato anche la morte di Khashoggi. Per ora la Casa Bianca non ha commentato. Prima della notizia sulla conclusioni della Cia diffuse del Wp, ha annunciato sanzioni contro 17 funzionari sauditi, compreso Saud al-Qahtani, potentissimo stretto collaboratore del principe Salman rimosso dall’incarico dopo l’omicidio di Khashoggi. Genocidio cambogiano di Emanuele Giordana Il Manifesto, 17 novembre 2018 La Corte straordinaria della Cambogia, un organismo giuridico misto creato dall’Onu, ha condannato ieri a Phnom Penh per genocidio Nuon Chea e Khieu Samphan, gli ultimi due capi khmer rossi al vertice della Kampuchea Democratica di Pol Pot, artefice di uno dei maggiori stermini di massa della seconda metà del secolo scorso. I DUE VECCHI sono già stati condannati all’ergastolo per crimini contro l’umanità ma la rilevanza della notizia sta nell’uso di quella parola: “genocidio”. Che, finora, non era mai stata usata ufficialmente e legalmente nelle sentenze di una corte che non prevede la pena capitale e che dunque non ha potuto che reiterare la condanna già in essere alla catena perpetua. Vittoria del diritto? La parola fine a uno degli episodi più bui del secolo breve? O, come qualcuno dice, una beffa che arriva a quarant’anni - e con milioni di dollari spesi - dalla fine del breve regime del terrore istituito da Pol Pot e dai suoi sodali in Cambogia tra il 1975 e il 1979? Per dirla tutta la condanna di genocidio non riguarda effettivamente quell’oltre milione e mezzo di cambogiani (le stime variano tra 1,5 e 2 milioni) che perirono per fame e stenti o che finirono nella macchina delle epurazioni che aveva nella prigione di Tuol Sleng, ora museo dell’orrore, la sua icona nella quale si entrava vivi e si usciva solo da morti. La condanna riguarda quanto i khmer rossi fecero alla minoranza musulmana dei Cham (un’antica popolazione migrata a Nord dall’Indonesia in epoca remota) e a quella vietnamita in onore a una frase di Pol Pot che voleva anche l’”ultimo seme” di quella comunità spazzato via dalla sua nuova Cambogia che aveva ricominciato dall’anno zero. Per quel milione e mezzo di cambogiani uccisi, la parola genocidio non è stata formulata dalle legge internazionale che dal 1997 è rappresentata dalla corte straordinaria (Eccc) concordata dall’Onu con l’allora reame cambogiano. Per quei crimini, sia Nuon Chea sia Khieu Samphan sono già stati condannati alla prigione a vita quattro anni fa; eppure le loro vittime, dicono i critici del concetto di genocidio che regola l’azione delle nazioni Unite, furono l’oggetto di un’azione genocidaria seppur i carnefici appartenessero alla loro stessa comunità. Infine non si può nemmeno dire che la partita khmer rossi sia definitivamente chiusa. Ci sono almeno altri quattro responsabili già individuati e che meriterebbero di essere giudicati dalla corte speciale. Ma chi si oppone è Hun Sen, premier d’acciaio e dittatore tollerato: ex khmer rosso poi passato al Vietnam, fu tra coloro che guidarono l’invasione vietnamita e che da Hanoi fu posto a comandare la nuova Cambogia filovietnamita. Hun Sen vuole chiudere la partita che dunque lascia solo alla Storia un giudizio non solo sui criminali di guerra ma sugli attori esterni - da Pechino a Washington, da Londra ad Hanoi - che, più o meno direttamente, appoggiarono i khmer rossi oppure li combatterono in un “Grande Gioco” asiatico dove la Cambogia fece la fine dell’Afghanistan e dove i khmer rossi furono assassini ma anche eroi, burattini i cui fili venivano tirati fuori dal Paese. Una brutta vicenda che in tribunale non è mai entrata. Nuon Chea, 92 anni, la pelle incartapecorita e slavata, era il “fratello numero due”, l’ideologo che con Pol Pot, al secolo Saloth Sar, ideò la Cambogia pura dell’anno zero. Khieu Samphan, 87 anni, era invece l’ex capo di Stato. Entrambi ebbero la condanna del carcere a vita nel 2014. Non da soli. Kaing Guek Eav, meglio noto come “Duch”, l’uomo che reggeva le sorti di Tuol Sleng - l’ex liceo della capitale conosciuto anche come S-21 - ha lui pure avuto l’ergastolo: condannato a trent’anni del 2010 si è visto commutare la pena nel carcere a vita due anni dopo. Ma ha scampato l’accusa di genocidio proprio perché S-21 era la galera dedicata ai cambogiani ribelli. Lui però in prigione non c’è: la malattia lo ha fatto ricoverare in un ospedale a Phnom Penh dove deve aver visto il processo in tv. È andata bene anche al “fratello numero tre”, al secolo Ieng Sary, che l’ergastolo lo aveva già avuto nel 2007: membro del Comitato centrale e ministro degli Esteri, è morto nel 2013 scampando così al processo per genocidio. A sua moglie Ieng Thirith, ministro e sorella della prima moglie di Pol Pot, è andata ancora meglio. È deceduta nel 2015 senza mai esser giudicata: ormai arteriosclerotica non era in grado, si disse, di affrontare il processo. Scamparono il processo anche Ta Mok, il “macellaio”, morto in carcere nel 2006 e Son Sen, il capo dell’esercito cambogiano, morto nel 1997. Ma l’imputato per eccellenza, che non ha mai visto né un giudice né un carceriere e che è morto nel suo letto di guerrigliero nelle montagne del Nord, è il “fratello numero uno”, Pol Pot, passato a miglior vita nel 1998. La morte di Pol Pot, primo ministro della Cambogia dal 25 ottobre 1976 al 7 gennaio 1979 (i suoi vice erano Ieng Sary, Son Sen e Vorn Vet, ucciso a S-21 nel 1978) è un piccolo giallo. Le cronache dicono che sia morto di un attacco di cuore mentre aspettava la macchina che avrebbe dovuto consegnarlo alle autorità cambogiane secondo un piano concordato da alcuni del vertici khmer rosso, tra cui Ta Mok. Ma secondo il giornalista Nate Thaye, che lavorava per la Far Eastern Economic Review, si sarebbe ucciso con una dose eccessiva di Valium e clorochina. Proprio per sfuggire l’onta di un processo. Per genocidio o altro, probabilmente per lui non avrebbe fatto differenza.